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Conversazioni d'autore, 'La storia del mondo: Dall'anno mille ai giorni nostri'

'La storia del mondo: Dall'anno mille ai giorni nostri'

Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org

Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org

Ben tornati su Casa la Terza, appuntamento che ormai è diventato abbastanza costante

sui nostri schermi delle piattaforme social. Oggi siamo insieme a Luigi Mascilli Migliorini

e a Medeo Feniello per parlare di un libro molto importante che abbiamo pubblicato a novembre

La storia del mondo dall'anno 1000 ai giorni nostri, che ha anche come autrice Francesca Canalecama

che oggi per cercare di contenere il numero di persone che appaiono sullo schermo non sarà con noi

ma di presenza, di spirito assolutamente sì. Vi presento prima di tutto i nostri due interlocutori

che sono Luigi Mascilli Migliorini, che è professore dell'Università Orientale di Napoli

e autore per La Terza di un volume intitolato i 500 giorni, Napoleone dall'Elba Sant'Elena

un libro fortunato, ma autore anche di una importante biografia di Napoleone

uscita in Francia anche tradotta, quindi un libro che ha superato uno scoglio e un esame molto severo

da questo punto di vista, è un libro che so che Luigi a cui tiene molto

La Verità dei Vinti, quattro storie di Mediterranea e uscito per Salerno.

L'altro nostro interlocutore è Amedeo Feniello che insegna storia medievale all'Università dell'Aquila

che sicuramente avrete già visto qui con noi, qui da noi a Casa La Terza

perché è stato ospite alcune volte e autore di diversi libri per la Casa Elettrice La Terza

tra cui mi piace ricordare il primo, da cui è cominciato il nostro sodalizio

sotto il segno del leone che raccontava la storia degli Arabi nel Medioevo Italiano.

Benvenuti a tutti e due qui a Casa La Terza e siamo felici di ospitarvi qui con noi.

Grazie dell'invito.

Allora, io vorrei partire proprio dal libro che abbiamo pubblicato a novembre

perché paradossalmente per certi aspetti il libro ha assunto ancora una maggiore urgenza

in qualche modo e senso con lo scoppio della pandemia

perché questo periodo che abbiamo vissuto negli ultimi mesi

ci ha messo di fronte agli occhi in maniera plastica direi la connessione che unisce un po' tutto il pianeta

e ci costringe credo un po' a ripensare il rapporto tra storia nazionale e storie globali.

Non so che cosa ne pensate da questo punto di vista.

Luigi vuoi cominciare tu?

Sì, sì, ma hai ragione Giovanni, è così.

Il nostro libro era pensato prima della pandemia per far capire quanto siamo sempre stati

e oggi naturalmente lo siamo forse di più, forse solo diversamente, globali

e cioè che tutto quello che accade nel mondo ci tocca anche se è lontanissimo apparentemente

nello spazio, nel tempo e tutto il resto.

La pandemia ci ha dato diciamo tristemente ragione, nel senso che una pandemia è appunto

un'epidemia che ha coinvolto tutti quanti e devo dire che via via nei giorni

appariva evidente proprio questa globalità, cioè all'inizio ognuno ha pensato

abbiamo pensato tutti che la Cina se la cavasse da sola e che noi in qualche modo ci saremmo difesi

e poi invece proprio come il domino le tessere sono cadute e il mondo si è ammalato insieme

e adesso vorrebbe trovare delle soluzioni che siano di tutti insieme.

Non è facile, l'attito politico lo fa vedere, però siamo in piena storia globale,

cioè siamo in pieno di una storia che anche domani che ve la scriveremo,

che la scriveranno, la scriveremo presto, non potremo che raccontarla sull'intero pianeta.

Da quando, Ameteo mi dice che da molto tempo prima di quando noi immaginiamo,

ma insomma da quando il mondo ha capito di essere una sfera, ha anche capito che siamo tutti quanti connessi

e sarebbe meglio che non credessimo diversamente.

No, io insomma non posso che ribadire quello che ha detto Luigi e devo dire che nelle nostre scelte

quando abbiamo pensato a questo libro estremamente complesso, è stata una grande sfida intellettuale

che doveva rispondere a numerose questioni, ci siamo posti il problema di che cos'è una storia globale

e chiaramente ci sono dei fenomeni, degli aspetti del nostro mondo che interessano necessariamente tutti

e un'epidemia per esempio come quella del 1348 che nei nostri manuali viene sempre studiata

soltanto la coda di questo fenomeno, perché noi pensiamo appunto alla peste quando arriva in Europa

e isoliamo sempre l'Europa all'interno di un contesto che è molto più grande.

Il tentativo che abbiamo fatto noi è quello di raccontare invece non solo la pandemia ma anche altri fenomeni

che riguardano anche e soprattutto gli aspetti della vita sociale e politica degli uomini

in una misura che non fosse limitata ad uno spazio ma che fosse raccontata in diversi spazi

e la peste 1348 come la raccontiamo noi per esempio ha dei caratteri che sono molto simili a quello che sta succedendo

nei nostri giorni perché ha un carattere globale, ha un carattere che comincia in Oriente, in Cina e si diffonde in Occidente

ma quello che abbiamo cercato di descrivere che è un tema che ti puoi dire assolutamente nuovo

e che credo non sia stato affrontato in questa chiave e in questo noi siamo stati anticipatori

è quello di come l'umanità abbia risposto alla crisi, come abbia risposto alla crisi di sistema e anche alla pandemia

e ne sono venuti pure uno scenario un po' imprevedibile dove è stato bello mettere in relazione quello che succede in Cina

per esempio quali sono le modalità scelte in Cina piuttosto che quelle scelte in Europa

e a rileggere questa storia che è stata pubblicata a novembre con gli occhi di oggi

si riscontrano delle connessioni che sorprendono se non addirittura scioccano.

Luigi ti volevo chiedere, infatti tu in particolare oltre alla direzione complessiva del volume

hai seguito la parte che riguarda la storia moderna di questo libro e rileggendo le parti che riguardano

le grandi scoperte geografiche della fine del 400 e dell'inizio del 500 e dell'espansione dell'Europa

e della conoscenza dell'Europa sul mondo, lo sguardo che tu dai appare veramente diverso rispetto a quello che io

ma anche penso molti dei lettori di questo libro o anche soltanto degli appassionati di storia

non sono abituati a avere di questo periodo, mi sbaglio?

Io so che il nostro desiderio di tutti e tre era di tenerci lontani da due pericoli abbastanza evidenti

quando si maneggia roba di questo genere, cioè da una parte quello forse di pericolo minore

che ormai è alle nostre spalle, una ripetizione di eurocentrismo, una gloria dell'Europa che a un certo punto

è diventata il modelo, perché è vero che noi facciamo una storia del mondo, però è anche vero che la tentazione

potrebbe essere quella di fare una storia dell'Europa mondo, in alcuni momenti naturalmente è una tentazione

più forte, in altri meno forte.

Dall'altra, e questo invece è un rischio più incontente per noi, di fare della storia del mondo il contrario,

cioè un processo all'Europa, tutto sarebbe stato molto meglio se l'Europa non si fosse mischiata di tante altre cose

che non la riguardavano strettamente, compreso la scoperta di un intero continente che poteva essere lasciato

da solo lì senza che nessuno ne sapesse nulla per ancora due, tre, quattro secoli, visto che poi

continuerebbe questo discorso, lo abbiamo trattato in quella maniera.

Noi non potevamo fare naturalmente un libro che era la gloria dell'Europa mondo, ma non volevamo nemmeno

tagliare la testa a Colombo da qualche ipotetica pagina dei nostri.

Quindi si trattava di capire in che modo questo rapporto tra l'Europa e il mondo, o il mondo e l'Europa,

via via si è costruito. Devo dire che ci ha aiutato molto il fatto che non avevamo dei pregiudizi,

nessuno di noi tre, ma volevamo solamente raccontare quello che era accaduto.

Quando racconti quello che è accaduto, tutto diventa molto più semplice, perché per così dire,

è la storia che si scrive da sola. Faccio un esempio tanto per capirci.

Quando io mi sono messo a studiare a quella parte che è tra le meno note, quella dell'Africa,

a un certo punto mi sono trovato, abbastanza presto perché sono racconti della metà del Cinquecento,

di viaggiatori, di diplomatici, chiamiamoli addirittura così, francesi che andavano in Congo,

francesi e anche i portughesi. Loro raccontavano il Congo della metà del Cinquecento come un grande stato,

uno stato straordinariamente ben attrezzato, con un soprano riconosciuto, con delle tecnologie

diciamo sia di azione politica che tecnologie materiali non molto diverse da quelle che avevano lasciato in Francia.

Questo non è perché il Congo fosse chissà come sviluppato all'epoca e poi decaduto a causa della bieca invasione degli europei,

ma semplicemente perché l'Europa, la Francia in questo caso e il Congo si rassomigliavano molto di più alla metà del Cinquecento

di quanto se andiamo a prendere invece un viaggiatore della metà del Settecento alla metà dell'Ottocento,

si rassomigliassero tre secoli dopo. Quindi ti racconta una differenza che non sta da nessuna parte,

sta in alcuni momenti della storia, appare, in altri scompare, in altri non esiste.

In quel momento noi non avevamo ancora quella che poi il storico giustamente ha chiamato la grande divergenza,

non erano accadute alcune cose, la rivoluzione scientifica e tutto il resto che allarga il divario tra questi pezzi.

In quel momento non è che il Congo rassomigliasse alla Francia, era la Francia che rassomigliava al Congo,

cioè la Francia aveva ancora dei sistemi politici tutti da formarsi, una vita materiale quotidiana

e non stata in tecnologie così povere, semplici, non meno povere e semplici o più povere di quella che avesse il Congo.

Ecco, questo è un modo in cui tu basta che guardi come è fatta la cosa e la cosa poi si racconta da sola

e non è bisogno di metterci dentro ideologie o pregiudizi più semplicemente.

No, questo è molto vero e penso che io personalmente sono rimasto molto impressionato

quando una volta ero andato a Parigi a visitare il museo progettato da Jean-Noël,

il museo delle Renaissance dell'Homme, dove ci sono delle statue del 4500, proveniente dalla Nigeria,

statue in bronzo, che sono veramente sorprendenti perché assomigliano in maniera straordinaria,

per fare un esempio, ai cavalli di San Marco, con una capacità di dettaglio e di originità anche artistica

di primissimo livello che noi non siamo proprio abituati ad immaginare come legati a dei popoli

che per noi sono primitivi in qualche modo, senza storia, che hanno vissuto sempre in un continuum temporale

senza una evoluzione. Questo secondo me è anche molto interessante, ripensare questa idea di evoluzione

che noi colleghiamo con la storia occidentale, con la storia europea, ma che forse andrebbe un po' ripensato.

Se mi posso permettere rubo due minuti ad Amedeo.

No, no, vai Luigi, vai!

Scoprire, è chiaro che dico delle banalità, perché uno potrebbe dire ma come non si scoprire per esempio

la totale differenza tra l'America del Nord e l'America del Sud in termini di rapporto con l'Europa,

dovuta al primissimo fatto che l'America del Sud era largamente popolata e aveva delle sistemazioni per così dire

degli imperi, dall'altra parte invece c'era il vuoto completo, perché il popolamento dell'America settentrionale

è minuscolo e allora tu ti metti alla parte del colono spagnolo o del colono inglese e capisci che le loro reazioni

erano totalmente diverse. Il colono inglese aveva praticamente uno spazio infinito davanti totalmente vuoto,

doveva semplicemente camminare, andare avanti.

Andare ovest.

Andare ovest, doveva sboscare, se posso dire in una maniera un po' brutale, doveva cercare di farsi spazio in un mondo

che era ben sistemato e già ben popolato.

Certo, il go west come dicono gli americani.

Certo, perché per quello inglese è evidente, per lo spagnolo è tutt'altro.

L'altro aspetto che volevo, una domanda da Piero Amedeo, era quella che riguarda la periodizzazione,

noi siamo abituati a periodizzare la nostra storia secondo delle grandi categorie come quella di medioevo,

di età moderna e di storia contemporanea.

Ora, quando invece noi dobbiamo applicare questa categoria di medioevo ad altre parti del mondo,

sorgono tutta una serie di problemi che sono complicate.

Allora mi chiedevo come uno storico italiano del medioevo, che effetto gli fa a confrontarsi con il medioevo cinese?

Non si confronta, questo è stato un argomento di grande dibattito,

devo dire che Luigi è stato un pungolo importante per quanto riguarda la riflessione critica,

non solo su questo tema, ma anche su questo tema.

È chiaro che la cronologia medioevo-età moderna funziona per il nostro ambito,

perché il medioevo è una struttura ideologica, una categoria ideologica che si è creata a partire dal Trecento,

nel momento in cui i figli hanno cominciato a rifiutare la cultura dei padri,

quando Petra Arca e poi tutti quelli che sono venuti dopo, a partire proprio da Napoli,

poi questo è un paradosso, dalla corte del Roberto hanno cominciato a dire

ma noi non ci riconosciamo più in questa cultura oscura, buia, rozza,

erano proprio questi i termini che loro impiegavano, quindi utilizzo il termine tempestas o mediaetas

per indicare questa età confusa di mezzo che andava messa da parte

perché bisognava creare un grande ponte con il mondo classico.

Ma questa è una categoria che funziona con le ripartizioni che poi sono state create nel tempo,

fino ad arrivare a Gibbon, Voltaire, oppure gli storici dell'Ottocento,

ma è una suddivisione temporale che funziona per il nostro mondo.

Ma se noi cominciamo ad operare con queste stesse categorie ideologiche,

con questo stesso concetto di determinazione del tempo in altre zone del mondo,

ci scontriamo di fronte a un muro di incomprensione,

perché un cinese di fronte al termine medioevo ride per 15 minuti

perché lui si trova di fronte a una continuità che è quella del grande impero cinese

che comincia con Yan nel secondo secolo a.C. e va avanti senza soluzioni di continuità,

se non nelle dinastie, ma per quanto riguarda la struttura amministrativa,

la suddivisione dei poteri, la ripartizione istituzionale,

tutto questo è un unicum cronologico che comincia nel 200 a.C. e finisce nel 1911.

Quindi usare una categoria come quella di medioevo,

che implica l'idea di decadenza, tramonto, declino di una civiltà,

non funziona e non funziona per tutti quanti gli altri ambiti,

così come altri concetti che sono cari alla storiografia, come quello di feudalesimo.

Il termine feudalesimo per esempio è stato applicato erroneamente al mondo indiano o al mondo giapponese

dopodiché gli storici che hanno usato questi termini per comodità interpretativa

si sono resi conto che il mondo giapponese o il mondo indiano avevano delle analogie

ma non rispecchiavano quelli che sono i termini specifici del feudalesimo.

Allora questo ha creato a me personalmente un grande problema, un grande dilemma interpretativo

e anche relativo alla narrazione.

Come parlare di questi tempi?

Se io prendo come termine di partenza il 1000 o il 1492 per chiudere un tempo,

va bene chiaramente quando parlo dell'Europa, ma se parlo dell'India,

dove per esempio la civiltà mogul comincia molto più tardi e va avanti,

oppure l'impero Ming che comincia nel 300 e va avanti fino al 600,

il 1492 come cessura non funziona da un punto di vista narrativo.

E allora si finisce per scavallare e entrare nell'ambito cronologico di Luigi,

come Luigi doverosamente ha dovuto scavallare e entrare nella logica per esempio delle civiltà precolombiane

perché non poteva raccontare Colombo senza dire delle cose riguardo al tempo prima di Colombo.

E questo però ha fatto parte non soltanto dei cliché narrativi,

ma soprattutto del superamento dei cliché narrativi.

E questo è uno dei meriti del libro.

Abbiamo cominciato a vedere quali sono i problemi che chi vuole applicare

a questo sguardo globale, questa storia globale, questo metodo della storia globale,

incontra quando deve provare concretamente a raccontare la storia delle varie parti del mondo.

E sono problemi che non sono solo epistemologici o di metodo,

ma anche concreti, molto pratici, come dice l'idea Medeo,

dove quante pagine possiamo dedicare a una cosa o un'altra, ad esempio.

Ma c'è anche un altro aspetto su cui vorrei sollecitare.

Io mi ricordo che una delle ultime volte che ho sentito parlare il grande e compianto Giuseppe Galasso,

quando mi era stata posta una domanda proprio sulla storia globale,

lui aveva risposto che era abbastanza sospettoso rispetto a questo tipo di prospettiva,

perché lui pensava sempre che ci fosse un tentativo di relativizzare il ruolo dell'Europa,

che si utilizzasse il metodo della storia globale per relativizzare il ruolo dell'Europa nella storia del mondo.

E quindi diceva che non sembra un caso che questa cosa venga sostenuta molto nelle università statunitensi o cinesi.

Qui c'è anche un aspetto politico su questo. Voi che ne pensate?

Io queste perplessità, questi sospetti, li ricordo bene, Giovanni.

Però devo dire che così come avevo più o meno immaginato che il professore da diffidente mediterraneo,

perché la sua generazione aveva visto un Mediterraneo molto manipolato e devastante,

era poi diventato… insomma aveva uno sguardo ultimamente più indulgente nei confronti del Mediterraneo e dei mediterranisti,

io non disperavo che questa indulgenza si sarebbe poi trasmessa anche alla storia del mondo.

Perché le quattro chiacchiere che abbiamo fatto su questo e soprattutto in quello che continuo a pensare,

tra l'altro vorrei provare un singolare esperimento, cioè di raccontare in diretta quello che ho appena pensato sentendo Amedeo,

che mi sembra un po' spericolato, ma vediamo se lo facciamo o no.

Però si collega con questa cosa, io sostenevo, sostengo, insomma sono convinto che al contrario,

oggi l'Europa ha tutto da guadagnare da una storia globale, ne ha da guadagnare intanto da un punto di vista,

chiamiamolo così, storico-etico, perché è evidente che di tutte le parti del pianeta,

quella che può creare le condizioni di una storia del mondo, di una storia globale,

che non sia la rivincita di un primo tempo e quello che ha vinto il primo tempo.

E quindi solo l'Europa può creare le condizioni perché una storia mondiale non diventi la vittoria degli Arabi contro gli Europei,

degli Indiani contro i Cinesi, degli Americani contro tutto il resto del mondo.

Quindi abbiamo una responsabilità grande perché effettivamente oggi siamo diversamente collocati nel mondo,

Londra non è più quella del 1850, Parigi non è più quella del 1780 e via discorrendo.

Proprio per questo, quasi come se fossimo dei vinti per riprendere qualche cosa di quel libricino che come dicevi tu mi sta a cuore,

noi abbiamo la condizione di coloro i quali, avendo vinto il primo tempo e sapendo di non poter vincere il secondo,

potremmo dichiarare che non vale nemmeno la pena di ingaggiare la partita.

Leggermente truccato, ma è così.

E quindi noi potremmo fare un equilibrio che altrove non si farà per generazioni ancora, mai.

E questo non è poco, caricarsi di questa responsabilità nei confronti di un passato da costruire consensualmente come passato universale.

Aggiungo anche quel piccolo tentativo che faceva Rocamburisco nel settembre.

Vedi, Amedeo, quando tu parlavi prima delle difficoltà del Medioevo, io pensavo, qui a Rocamburisco perché ho fatto questo per la prima volta,

che in fondo la stessa cosa si può dire anche dell'età moderna.

Anche l'età moderna è un'invenzione per noi stessi, non solo per il fatto che altrove non ha senso,

ma anche l'Europa si definisce moderna perché ha un antico che crolla peraltro.

Non tutti gli antichi crollano così fragorosamente, e quindi altri posti non hanno un antico che crolla fragorosamente,

quindi non hanno nemmeno una evidente nozione di modernità, a parte le dinastie che si prolungano.

Però è anche vero, e quindi noi dovremmo liberarci del moderno, perché o dichiariamo che siamo tutti figli dell'antico,

e io non sono sicuro che un giovane del 2020 senta che i suoi piedi siano così affondati nell'antico,

come poteva ancora sentire un giovane, chiamiamolo così, del 1952, quale sono io, e tutte le generazioni che mi hanno preferito.

Quindi questo moderno ormai è diventato post, perché non ha più nemmeno il retroterra del suo antagonista.

Tuttavia, e qui poi concludo rapidamente questo tipo di salto triplo, però abbiamo la scoperta dell'America,

perché quella è una data importante per tutti, perché c'è uno spezzo del mondo, la quarta parte, che entra in giro.

E allora vuol dire che probabilmente la modernità per tutti può diventare la scoperta dell'America,

e allora la definizione di età moderna come età della presenza dell'Europa, perché questa cosa l'abbiamo poi comunicata a noi,

non so se mi spiego, poi la Cina si è messa a riconoscere l'America, il Giappone ha fatto, l'Africa in maniera tormentosissima per via della schiavitù,

ma chi ha cucito questa novità assoluta per il pianeta, che è quella di avere una quarta parte, siamo noi.

Quindi quando noi diciamo che l'età moderna è la storia dell'espansione o della presenza, come diceva meglio, Giovanni, nel mondo,

stiamo dicendo che a noi è toccato suonare la campanella del tutti mondiali a partire dal 1492,

cioè noi abbiamo girato il mondo con una sorta di campanella della scuola dicendo, signori, da qui comincia un altro tempo,

per te significa la schiavitù, per te significherà l'emarginazione, per me significa in questo momento, ma domani sarà diverso,

il predominio, però siamo tutti in un altro tempo che probabilmente non è nemmeno posto moderno, cioè dura ancora fino al 2020,

perché lì probabilmente un giovane del 2020 sente, se glielo spieghiamo bene, che i suoi piedi ci poggiano meglio,

che se gli diciamo una tradizione per cui moderno vuol dire che lui dovrebbe poggiare nell'antica Roma o in Grecia.

Scusate, era proprio inventata tutta perché non l'avevo pensato.

No, mi sembra che anche i videos raccontati da Todorov fossero d'accordo con te.

Assolutamente, certo, certo.

A me te volevi aggiungere qualcosa su questo.

No, sono convinto che il 1492, come dicono i francesi, marco un tornante, questa magnifica espressione francese che non abbiamo in italiano,

che però è un grande momento di svolta, non ci sono dubbi per tutto quello che può rappresentare.

Mi colpisce anche molto la cosa che diceva prima il professore Galasso rispetto al timore della storia globale che possa essere una storia relativistica.

Oppure, come mi è stato detto recentemente anche dai colleghi medievisti,

si dice che fare una storia globale c'è il rischio di fare un discorso alla moda, siete molto alla page e vi trovate in un contesto tale che vi mettete a raccontare la storia del mondo.

In realtà il rischio di relativismo non c'è, come non c'è il rischio di fare una storia alla page, una storia che riguardi una dimensione perché è di moda.

In realtà con questa operazione, e ci tengo molto a ribadirlo, ma ci tengo a ribadirlo anche adesso, noi ci siamo posti dei problemi.

Cioè noi non abbiamo fatto né una storia mondiale, né una storia globale, né una storia universale, abbiamo fatto tutto questo insieme e niente di questo nello stesso tempo.

Perché siamo partiti da una serie di problemi.

E' chiaro che mi devo proporre, come ha suggerito Luigi, sin dal primo incontro che abbiamo fatto,

in una dimensione dove noi dobbiamo raccontare la storia a dei giovani che hanno una percezione della realtà che non è più quella neanche della mia generazione degli anni 60.

Cioè di gente che oggi pomeriggio si può mettere a giocare al videogioco con il ragazzino che sta a Hong Kong.

E quindi la percezione dello spazio salta completamente.

E noi, se dobbiamo parlare a questa generazione, dobbiamo anche proporre le domande che sono di questa nuova generazione,

di mia figlia o di altre persone, che si pongono i problemi che sono

ma questa pandemia ha un carattere globale o colpisce soltanto me qua a Roma?

Le città sono un fenomeno che riguarda soltanto l'Italia nel corso della storia?

Oppure ci sono state città in altre parti del mondo?

Se l'80% delle merci oggi passa per le Molucche e il computer mi arriva attraverso navi che passano per lo stretto delle Molucche,

è solo oggi? Oppure questo succedeva anche 700 anni fa, 800 anni fa?

E' vero o no?

Sono tutta una serie di questioni.

Il clima, per esempio, è un tema che noi tocchiamo nel libro e che è un tema centrale nella riflessione odierna.

Un ragazzino di oggi dialoga più con Greta Thunberg che con i libri di Gioacchino Wolff.

E allora noi dobbiamo dare risposte a un ragazzino che dice

ma perché c'è questo problema climatico? È sempre stato così?

E allora il rischio del relativismo non c'è, il rischio della moda non c'è,

c'è invece un'idea nuova di una proposta di nuovi problemi.

Tu hai ragione, posso giocare?

Certo, certo.

Devo dire che proprio qui ascoltandoti, Medeo, capisco dove sta la cosa che dobbiamo affinare meglio.

Dentro questo mondo che tu hai descritto perfettamente,

che è quello a cui noi abbiamo pensato, ripensato e che diciamo,

sappiamo che c'è una specie di virus che non è quello che gira adesso

ed è cioè la difficoltà, gretolandosi per così dire alcuni sistemi chiari di potere,

la difficoltà di intendere alcune cose del passato perché non intendono alcune del presente.

Arrivo rapidamente a un paio di punti.

Oggi la percezione, se un nero per otto minuti sta sotto il ginocchio di un poliziotto americano,

questa cosa un ragazzo di 18 anni la comprende perfettamente,

retrospettivamente può comprendere nel bene e nel male,

prendendo anche tutto quello che c'è detto.

Però se questa cosa accadesse ad un ebreo non la vivrebbe con la stessa intensità.

Le nozioni per esempio, saranno logore, non saranno logore,

però la domanda poi richiede anche una risposta,

di antifascismo nella tradizione europea,

oggi sono troppo smussate al punto che un leader che ha anche molto consenso può dire

che non importa antifascista, anticomunista, venusiano, marziano, eccetera,

sapendo di parlare il linguaggio della globalizzazione,

dentro il quale questa cosa, non avendo più un elemento narrativo chiaro,

finisce con l'essere qualcosa che è vecchio come i fenici o come gli antichi romani.

Non possiamo però fare noi della nostra storia del mondo una storia priva di tessitura etica,

non so come dirlo meglio.

No, no, no, sono d'accordo assolutamente.

Però lo corriamo, dicono noi che lo corrano altri,

lo corriamo perché questa apertura degli spazi significa anche un opacizzarsi

di alcune filiere etiche abbastanza evidenti, a vantaggio di altre,

oggi siamo più sdegnati della differenza raziale,

più sdegnati della differenza probabilmente di genere, eccetera.

Però questi sdegni non riescono a incrociarsi con gli sdegni del passato,

è come se camminassero sulla tabula rasa del presente.

E noi che siamo storici e che vogliamo tenere tutte le connessioni,

forse dobbiamo pensare meglio questo pezzo.

Lo dico proprio perché…

Io sono felice Luigi che tu abbia citato questo aspetto perché è stato un po' il filo rosso

che ha unito questo libro a questo libro,

a due libri che abbiamo pubblicato recentemente,

sempre come editori La Terza,

cioè La Storia Mondiale nell'Italia e La Storia Mondiale della Sicilia.

Cioè questo sguardo che abbiamo cercato di dare sulla storia dell'Italia nel suo complesso

e poi sulla regione che forse è stata quella per molti tratti della sua storia,

come dire, più globale, più attraversata dalla storia del mondo.

Questi libri sono tutti e tre in forme diverse,

irrelati da un forte connotato anche etico-politico, se vogliamo dire così,

cioè dal tentativo di ricostruire un po' delle coefiliere di valori e di dargli forza.

Soprattutto riportare la discussione su un po' anche su un aspetto che ci sembra sia piuttosto

come dimenticato nel nostro paese, nella discussione pubblica,

cioè su qual è lo spazio, non vogliamo dire il ruolo, per non essere giobertiani,

però qual è lo spazio dell'Italia nel mondo.

Perché siamo in mezzo al Mediterraneo,

però la nostra testa in qualche modo ci pone sempre in collegamento

più a Francoforte o a Parigi che ai nostri vicini al sud.

Perché? Cosa ne facciamo del nostro essere collocati in questo spazio geografico?

Questo mi sembra, e allo stesso modo, il vostro libro, secondo me,

riporta alla luce la questione del ma che cosa significa essere europei,

italiani ed europei in uno spazio globale.

Qual è il ruolo che abbiamo svolto e che potremmo svolgere in futuro?

Questa domanda mi sembra che tendenzialmente sia un po' sbiadita.

Noi ci preoccupiamo costantemente della divisione del lavoro del mondo

e quale spazio della divisione del lavoro mondiale noi andremo ad occupare.

Ma non quello politico e anche culturale,

che mi sembrano che siano altri due piani che dovremmo tenere in considerazione,

almeno per quello che riguarda il dibattito pubblico.

Non senza voler essere volontaristici,

però credo che la questione del perché siamo in Libia oggi,

con le compagnie petrolifere, che cosa significa il nostro essere in Libia,

ce la dovremmo porre.

Secondo me senza avere uno sguardo ampio, geograficamente ampio,

questo risulta un po' complicato.

L'altra cosa su cui vi volevo domandare è che mi pare che,

non so se mai prima tanto come adesso,

però sicuramente oggi moltissimo,

il peso del passato ha nella vita politica un ruolo fortissimo.

Mi riferisco per esempio al fatto che un leader come Boris Johnson in Inghilterra

viene eletto proprio perché riporta alla luce questa idea

dell'inghilterra, del ruolo imperiale inglese.

C'è proprio una specie di retaggio che continua a ritornare,

che gli inglesi fanno molta fatica a superare.

La stessa cosa per certi aspetti a me pare accadere anche in Francia,

con Macron la prima cosa che fa dopo essere stato eletto,

va davanti al Louvre, fa la passeggiata davanti al Louvre,

non so se ve la ricordate,

riportando alla luce questa idea di grandeur francese

che ha molto, richiamandosi, o fa il viaggio in Africa

per ribadire il ruolo centrale della francofonia.

Noi in Italia mi pare che questo aspetto non l'abbiamo colto molto,

questa dimensione globale, questo retaggio globale

delle ex antiche potenze, della difficoltà che questi paesi hanno

nell'affrontare questo passaggio, questo diminuzio,

in qualche modo mi sembra che sia abbastanza importante.

Non so se sono stato chiaro o un po' confuso.

Prendo solo un pezzo Giovanni, perché tu hai messo in molte cose.

Prendo un pezzo.

Una storia del mondo fatta da noi non è una storia illuminista,

non è la storia della ragione che rende tutti quanti uguali.

E se potessi giocare con queste parole,

è una storia romantica, cioè la storia di chi è convinto

che l'universale, il mondiale si fa con pezzi,

è una bellissima, anzi diventa bella proprio per questo,

un bellissimo vestito di Arlecchini,

in cui ognuno ci mette il suo colore,

e alla fine la bellezza è vedere molti colori,

esseri umani tutti uguali tra di loro.

Tra le varie, tra i vari colori, la storia ha un ruolo fondamentale.

Gli inglesi hanno quella intraprendenza un po' così marinara

che gli deriva dalle loro tradizioni,

i francesi ci mettono quell'altra.

È evidente che i rischi ci sono,

e a volte è più la paura che il coraggio

a determinare questo ritorno di tradizioni nazionali.

Però potrebbe anche funzionare bene,

cioè potrebbe funzionare bene che alla fine

la tela diventi una tela molto colorata e non conflittuale.

In questo la storia e gli storici dovrebbero fare un grande lavoro

proprio al tempo stesso,

di lavorare sulle proprie storie nazionali.

Lo dicevamo anche ieri,

le storie mondiali non imperiscono,

anzi accelerano il processo di trasformazione positiva delle storie nazionali.

Aiuto, aiuto, sono proprie idee Uri.

Se vogliamo giocare a chi fa la storia di moda

e a chi invece fa la vera storia tradizionale,

facciamo il gioco così,

che si usa talvolta a fare ma che non serve a niente.

Aggiungo ancora solo un secondo,

ti ripeto, si potrebbero prendere molti altri pensieri.

Non è che l'Italia, l'Italia forse non lo ha capito,

l'Italia forse non lo ha capito,

ma forse l'ha capito nella maniera giusta per un verso ma inadeguata per l'altro.

L'ha capito dalla parte della bellezza,

che adesso è la parola di moda.

Cioè noi effettivamente nel mondo dei tanti colori,

dei tanti testi del mosaico,

quella che ci viene consegnata non è quella di grandi condottieri,

non è quella di…

Il rinascimento, il rinascimento.

Che può essere il rinascimento?

Può essere la musica dell'Ottocento,

può essere i grandi affetti dell'Ottocento,

il cibo, può essere tutto questo.

Impedire che questo accada sarebbe sciocco.

Ci provarono, ma era una stagione di abiti tutti scuri,

la borghesia italiana dell'Ottocento,

che ci voleva molto più uguali ai francesi e agli inglesi

in una borghesia universale che non esisteva.

Quindi ognuno di noi deve riprendere per così dire i propri colori.

Esiterei tuttavia a dire che il colore possa essere solamente questo.

Cioè, parte che non ce la fai,

perché non è che puoi fare il giullare del mondo,

come ho detto, nella maniera più brutale,

anche più adeguata.

Insomma, anche Leonardo, anche la corte di Francesco Fubri.

Quindi noi andremo a corte di qualche d'uno

e non è esattamente quello che la storia italiana si merita.

Perché una storia dove comunque c'è il Risorgimento,

ci stanno il Novecento tormentatissimo.

Quindi credo che questa bellezza dovrebbe poi essere un po' più sorvegliata

da altri pezzetti della storia italiana,

che forse sono meno appariscenti e un po' troppo simili ad altri,

ma che invece noi possiamo mettere insieme in una maniera originale.

Anche qui, come prima, gli storici hanno grandissime possibilità

e grandissime responsabilità,

solo che la loro tentazione sarà a dire chi ha il pezzo più bello della coperta.

E quindi temo che non ne caveremo molto un ragno d'agucco.

Però tra via Medea e Francesca ce la caveremo sempre.

E con Giovanni riusciremo a compiere questa nostra bellezza,

però non solamente da giullare di corte.

Sennò diventeremo un paese di pochi.

Nella migliore delle foto.

Io resto sempre colpito, sono rimasto colpito in passato per l'uso retorico

che si è fatto della storia, moltissimo a livello politico, negli ultimi anni.

Non parliamo poi delle stramberie di alcuni partiti politici,

il richiamo all'identità celtica è stato uno delle più grandi bagianate

che abbia vissuto il paese negli ultimi decenni.

Quello che mi colpisce accanto a questo, perché si fa un uso che è veramente,

per certi aspetti, anche paranoico della storia,

perché da una parte c'è un uso retorico.

Allora viene usata, pensate alle pubblicità,

il richiamo retorico alla bellezza italiana o al passato italiano.

Dall'altra, però, i problemi storici sono totalmente scomparsi.

Ma non parlo soltanto nel dibattito culturale,

ma parlo anche in quelli che possono essere gli esempi più stupidi,

per esempio anche in quella che è la divulgazione che fa la televisione.

Guardate i documentari di storia, io rimango scioccato, veramente colpito,

perché spesso è soltanto una narrazione pedisse,

la battaglia, le crociate o che so altro,

ma quello che è completamente scomparso sono i problemi.

Noi siamo stati abituati con dei maestri come Giuseppe Galasso,

che la prima cosa che poneva come elemento a lezione era

noi dobbiamo affrontare dei problemi, abbiamo delle questioni,

e anche la sua stessa maniera di dialettica,

la sua maniera di dialogare era costruita su problemi.

Basta vedere i documentari che ci sono su YouTube,

si resse impressionati sulla maniera che ci aveva di impostare sempre il discorso

in maniera problematica.

Tutto questo è scomparso a vantaggio di una descrizione

che può essere piaciuta.

Degli intrattenimenti.

Degli intrattenimenti.

La storia è diventata un bellissimo elemento di intrattenimento

e si è perso invece il contenuto centrale che è quello dei problemi.

Il vostro tipo voleva essere anche una piccola risposta a questa,

proprio perché è in chiave eticopolitica.

Mi dispiace moltissimo, veramente molto, che siamo costretti a fermarci

perché abbiamo già superato il tempo.

Io rimango molto affezionato alla definizione di Luigi del nostro libro

come un libro di storia romantica, perché noi con Luigi ci siamo conosciuti

ormai molti anni fa al centro di studi dell'età romantica

del gabinetto di Essai di Firenze.

Per me c'è anche questo legame con i miei studi,

ormai del plesto ce n'è, però a cui uno rimane sempre affezionato.

Vi ringrazio tantissimo di essere stati qui con noi

e di aver voluto fare questa conversazione.

Ricorda a tutti quelli che ci hanno ascoltato che martedì

avremo alle 18 ospiti nostri Pier Luigi De Palma,

il primo e secondo libro che si chiama Barry Calling con Catena Fiorello.

Vi aspettiamo martedì. A presto e arrivederci.


'La storia del mondo: Dall'anno mille ai giorni nostri' 'The History of the World: From the Year 1000 to the Present' Historia del mundo: desde el año 1000 hasta nuestros días".

Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org

Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org

Ben tornati su Casa la Terza, appuntamento che ormai è diventato abbastanza costante

sui nostri schermi delle piattaforme social. Oggi siamo insieme a Luigi Mascilli Migliorini

e a Medeo Feniello per parlare di un libro molto importante che abbiamo pubblicato a novembre

La storia del mondo dall'anno 1000 ai giorni nostri, che ha anche come autrice Francesca Canalecama

che oggi per cercare di contenere il numero di persone che appaiono sullo schermo non sarà con noi

ma di presenza, di spirito assolutamente sì. Vi presento prima di tutto i nostri due interlocutori

che sono Luigi Mascilli Migliorini, che è professore dell'Università Orientale di Napoli

e autore per La Terza di un volume intitolato i 500 giorni, Napoleone dall'Elba Sant'Elena

un libro fortunato, ma autore anche di una importante biografia di Napoleone

uscita in Francia anche tradotta, quindi un libro che ha superato uno scoglio e un esame molto severo

da questo punto di vista, è un libro che so che Luigi a cui tiene molto

La Verità dei Vinti, quattro storie di Mediterranea e uscito per Salerno.

L'altro nostro interlocutore è Amedeo Feniello che insegna storia medievale all'Università dell'Aquila

che sicuramente avrete già visto qui con noi, qui da noi a Casa La Terza

perché è stato ospite alcune volte e autore di diversi libri per la Casa Elettrice La Terza

tra cui mi piace ricordare il primo, da cui è cominciato il nostro sodalizio

sotto il segno del leone che raccontava la storia degli Arabi nel Medioevo Italiano.

Benvenuti a tutti e due qui a Casa La Terza e siamo felici di ospitarvi qui con noi.

Grazie dell'invito.

Allora, io vorrei partire proprio dal libro che abbiamo pubblicato a novembre

perché paradossalmente per certi aspetti il libro ha assunto ancora una maggiore urgenza

in qualche modo e senso con lo scoppio della pandemia

perché questo periodo che abbiamo vissuto negli ultimi mesi

ci ha messo di fronte agli occhi in maniera plastica direi la connessione che unisce un po' tutto il pianeta

e ci costringe credo un po' a ripensare il rapporto tra storia nazionale e storie globali.

Non so che cosa ne pensate da questo punto di vista.

Luigi vuoi cominciare tu?

Sì, sì, ma hai ragione Giovanni, è così.

Il nostro libro era pensato prima della pandemia per far capire quanto siamo sempre stati

e oggi naturalmente lo siamo forse di più, forse solo diversamente, globali

e cioè che tutto quello che accade nel mondo ci tocca anche se è lontanissimo apparentemente

nello spazio, nel tempo e tutto il resto.

La pandemia ci ha dato diciamo tristemente ragione, nel senso che una pandemia è appunto

un'epidemia che ha coinvolto tutti quanti e devo dire che via via nei giorni

appariva evidente proprio questa globalità, cioè all'inizio ognuno ha pensato

abbiamo pensato tutti che la Cina se la cavasse da sola e che noi in qualche modo ci saremmo difesi

e poi invece proprio come il domino le tessere sono cadute e il mondo si è ammalato insieme

e adesso vorrebbe trovare delle soluzioni che siano di tutti insieme.

Non è facile, l'attito politico lo fa vedere, però siamo in piena storia globale,

cioè siamo in pieno di una storia che anche domani che ve la scriveremo,

che la scriveranno, la scriveremo presto, non potremo che raccontarla sull'intero pianeta.

Da quando, Ameteo mi dice che da molto tempo prima di quando noi immaginiamo,

ma insomma da quando il mondo ha capito di essere una sfera, ha anche capito che siamo tutti quanti connessi

e sarebbe meglio che non credessimo diversamente.

No, io insomma non posso che ribadire quello che ha detto Luigi e devo dire che nelle nostre scelte

quando abbiamo pensato a questo libro estremamente complesso, è stata una grande sfida intellettuale

che doveva rispondere a numerose questioni, ci siamo posti il problema di che cos'è una storia globale

e chiaramente ci sono dei fenomeni, degli aspetti del nostro mondo che interessano necessariamente tutti

e un'epidemia per esempio come quella del 1348 che nei nostri manuali viene sempre studiata

soltanto la coda di questo fenomeno, perché noi pensiamo appunto alla peste quando arriva in Europa

e isoliamo sempre l'Europa all'interno di un contesto che è molto più grande.

Il tentativo che abbiamo fatto noi è quello di raccontare invece non solo la pandemia ma anche altri fenomeni

che riguardano anche e soprattutto gli aspetti della vita sociale e politica degli uomini

in una misura che non fosse limitata ad uno spazio ma che fosse raccontata in diversi spazi

e la peste 1348 come la raccontiamo noi per esempio ha dei caratteri che sono molto simili a quello che sta succedendo

nei nostri giorni perché ha un carattere globale, ha un carattere che comincia in Oriente, in Cina e si diffonde in Occidente

ma quello che abbiamo cercato di descrivere che è un tema che ti puoi dire assolutamente nuovo

e che credo non sia stato affrontato in questa chiave e in questo noi siamo stati anticipatori

è quello di come l'umanità abbia risposto alla crisi, come abbia risposto alla crisi di sistema e anche alla pandemia

e ne sono venuti pure uno scenario un po' imprevedibile dove è stato bello mettere in relazione quello che succede in Cina

per esempio quali sono le modalità scelte in Cina piuttosto che quelle scelte in Europa

e a rileggere questa storia che è stata pubblicata a novembre con gli occhi di oggi

si riscontrano delle connessioni che sorprendono se non addirittura scioccano.

Luigi ti volevo chiedere, infatti tu in particolare oltre alla direzione complessiva del volume

hai seguito la parte che riguarda la storia moderna di questo libro e rileggendo le parti che riguardano

le grandi scoperte geografiche della fine del 400 e dell'inizio del 500 e dell'espansione dell'Europa

e della conoscenza dell'Europa sul mondo, lo sguardo che tu dai appare veramente diverso rispetto a quello che io

ma anche penso molti dei lettori di questo libro o anche soltanto degli appassionati di storia

non sono abituati a avere di questo periodo, mi sbaglio?

Io so che il nostro desiderio di tutti e tre era di tenerci lontani da due pericoli abbastanza evidenti

quando si maneggia roba di questo genere, cioè da una parte quello forse di pericolo minore

che ormai è alle nostre spalle, una ripetizione di eurocentrismo, una gloria dell'Europa che a un certo punto

è diventata il modelo, perché è vero che noi facciamo una storia del mondo, però è anche vero che la tentazione

potrebbe essere quella di fare una storia dell'Europa mondo, in alcuni momenti naturalmente è una tentazione

più forte, in altri meno forte.

Dall'altra, e questo invece è un rischio più incontente per noi, di fare della storia del mondo il contrario,

cioè un processo all'Europa, tutto sarebbe stato molto meglio se l'Europa non si fosse mischiata di tante altre cose

che non la riguardavano strettamente, compreso la scoperta di un intero continente che poteva essere lasciato

da solo lì senza che nessuno ne sapesse nulla per ancora due, tre, quattro secoli, visto che poi

continuerebbe questo discorso, lo abbiamo trattato in quella maniera.

Noi non potevamo fare naturalmente un libro che era la gloria dell'Europa mondo, ma non volevamo nemmeno

tagliare la testa a Colombo da qualche ipotetica pagina dei nostri.

Quindi si trattava di capire in che modo questo rapporto tra l'Europa e il mondo, o il mondo e l'Europa,

via via si è costruito. Devo dire che ci ha aiutato molto il fatto che non avevamo dei pregiudizi,

nessuno di noi tre, ma volevamo solamente raccontare quello che era accaduto.

Quando racconti quello che è accaduto, tutto diventa molto più semplice, perché per così dire,

è la storia che si scrive da sola. Faccio un esempio tanto per capirci.

Quando io mi sono messo a studiare a quella parte che è tra le meno note, quella dell'Africa,

a un certo punto mi sono trovato, abbastanza presto perché sono racconti della metà del Cinquecento,

di viaggiatori, di diplomatici, chiamiamoli addirittura così, francesi che andavano in Congo,

francesi e anche i portughesi. Loro raccontavano il Congo della metà del Cinquecento come un grande stato,

uno stato straordinariamente ben attrezzato, con un soprano riconosciuto, con delle tecnologie

diciamo sia di azione politica che tecnologie materiali non molto diverse da quelle che avevano lasciato in Francia.

Questo non è perché il Congo fosse chissà come sviluppato all'epoca e poi decaduto a causa della bieca invasione degli europei,

ma semplicemente perché l'Europa, la Francia in questo caso e il Congo si rassomigliavano molto di più alla metà del Cinquecento

di quanto se andiamo a prendere invece un viaggiatore della metà del Settecento alla metà dell'Ottocento,

si rassomigliassero tre secoli dopo. Quindi ti racconta una differenza che non sta da nessuna parte,

sta in alcuni momenti della storia, appare, in altri scompare, in altri non esiste.

In quel momento noi non avevamo ancora quella che poi il storico giustamente ha chiamato la grande divergenza,

non erano accadute alcune cose, la rivoluzione scientifica e tutto il resto che allarga il divario tra questi pezzi.

In quel momento non è che il Congo rassomigliasse alla Francia, era la Francia che rassomigliava al Congo,

cioè la Francia aveva ancora dei sistemi politici tutti da formarsi, una vita materiale quotidiana

e non stata in tecnologie così povere, semplici, non meno povere e semplici o più povere di quella che avesse il Congo.

Ecco, questo è un modo in cui tu basta che guardi come è fatta la cosa e la cosa poi si racconta da sola

e non è bisogno di metterci dentro ideologie o pregiudizi più semplicemente.

No, questo è molto vero e penso che io personalmente sono rimasto molto impressionato

quando una volta ero andato a Parigi a visitare il museo progettato da Jean-Noël,

il museo delle Renaissance dell'Homme, dove ci sono delle statue del 4500, proveniente dalla Nigeria,

statue in bronzo, che sono veramente sorprendenti perché assomigliano in maniera straordinaria,

per fare un esempio, ai cavalli di San Marco, con una capacità di dettaglio e di originità anche artistica

di primissimo livello che noi non siamo proprio abituati ad immaginare come legati a dei popoli

che per noi sono primitivi in qualche modo, senza storia, che hanno vissuto sempre in un continuum temporale

senza una evoluzione. Questo secondo me è anche molto interessante, ripensare questa idea di evoluzione

che noi colleghiamo con la storia occidentale, con la storia europea, ma che forse andrebbe un po' ripensato.

Se mi posso permettere rubo due minuti ad Amedeo.

No, no, vai Luigi, vai!

Scoprire, è chiaro che dico delle banalità, perché uno potrebbe dire ma come non si scoprire per esempio

la totale differenza tra l'America del Nord e l'America del Sud in termini di rapporto con l'Europa,

dovuta al primissimo fatto che l'America del Sud era largamente popolata e aveva delle sistemazioni per così dire

degli imperi, dall'altra parte invece c'era il vuoto completo, perché il popolamento dell'America settentrionale

è minuscolo e allora tu ti metti alla parte del colono spagnolo o del colono inglese e capisci che le loro reazioni

erano totalmente diverse. Il colono inglese aveva praticamente uno spazio infinito davanti totalmente vuoto,

doveva semplicemente camminare, andare avanti.

Andare ovest.

Andare ovest, doveva sboscare, se posso dire in una maniera un po' brutale, doveva cercare di farsi spazio in un mondo

che era ben sistemato e già ben popolato.

Certo, il go west come dicono gli americani.

Certo, perché per quello inglese è evidente, per lo spagnolo è tutt'altro.

L'altro aspetto che volevo, una domanda da Piero Amedeo, era quella che riguarda la periodizzazione,

noi siamo abituati a periodizzare la nostra storia secondo delle grandi categorie come quella di medioevo,

di età moderna e di storia contemporanea.

Ora, quando invece noi dobbiamo applicare questa categoria di medioevo ad altre parti del mondo,

sorgono tutta una serie di problemi che sono complicate.

Allora mi chiedevo come uno storico italiano del medioevo, che effetto gli fa a confrontarsi con il medioevo cinese?

Non si confronta, questo è stato un argomento di grande dibattito,

devo dire che Luigi è stato un pungolo importante per quanto riguarda la riflessione critica,

non solo su questo tema, ma anche su questo tema.

È chiaro che la cronologia medioevo-età moderna funziona per il nostro ambito,

perché il medioevo è una struttura ideologica, una categoria ideologica che si è creata a partire dal Trecento,

nel momento in cui i figli hanno cominciato a rifiutare la cultura dei padri,

quando Petra Arca e poi tutti quelli che sono venuti dopo, a partire proprio da Napoli,

poi questo è un paradosso, dalla corte del Roberto hanno cominciato a dire

ma noi non ci riconosciamo più in questa cultura oscura, buia, rozza,

erano proprio questi i termini che loro impiegavano, quindi utilizzo il termine tempestas o mediaetas

per indicare questa età confusa di mezzo che andava messa da parte

perché bisognava creare un grande ponte con il mondo classico.

Ma questa è una categoria che funziona con le ripartizioni che poi sono state create nel tempo,

fino ad arrivare a Gibbon, Voltaire, oppure gli storici dell'Ottocento,

ma è una suddivisione temporale che funziona per il nostro mondo.

Ma se noi cominciamo ad operare con queste stesse categorie ideologiche,

con questo stesso concetto di determinazione del tempo in altre zone del mondo,

ci scontriamo di fronte a un muro di incomprensione,

perché un cinese di fronte al termine medioevo ride per 15 minuti

perché lui si trova di fronte a una continuità che è quella del grande impero cinese

che comincia con Yan nel secondo secolo a.C. e va avanti senza soluzioni di continuità,

se non nelle dinastie, ma per quanto riguarda la struttura amministrativa,

la suddivisione dei poteri, la ripartizione istituzionale,

tutto questo è un unicum cronologico che comincia nel 200 a.C. e finisce nel 1911.

Quindi usare una categoria come quella di medioevo,

che implica l'idea di decadenza, tramonto, declino di una civiltà,

non funziona e non funziona per tutti quanti gli altri ambiti,

così come altri concetti che sono cari alla storiografia, come quello di feudalesimo.

Il termine feudalesimo per esempio è stato applicato erroneamente al mondo indiano o al mondo giapponese

dopodiché gli storici che hanno usato questi termini per comodità interpretativa

si sono resi conto che il mondo giapponese o il mondo indiano avevano delle analogie

ma non rispecchiavano quelli che sono i termini specifici del feudalesimo.

Allora questo ha creato a me personalmente un grande problema, un grande dilemma interpretativo

e anche relativo alla narrazione.

Come parlare di questi tempi?

Se io prendo come termine di partenza il 1000 o il 1492 per chiudere un tempo,

va bene chiaramente quando parlo dell'Europa, ma se parlo dell'India,

dove per esempio la civiltà mogul comincia molto più tardi e va avanti,

oppure l'impero Ming che comincia nel 300 e va avanti fino al 600,

il 1492 come cessura non funziona da un punto di vista narrativo.

E allora si finisce per scavallare e entrare nell'ambito cronologico di Luigi,

come Luigi doverosamente ha dovuto scavallare e entrare nella logica per esempio delle civiltà precolombiane

perché non poteva raccontare Colombo senza dire delle cose riguardo al tempo prima di Colombo.

E questo però ha fatto parte non soltanto dei cliché narrativi,

ma soprattutto del superamento dei cliché narrativi.

E questo è uno dei meriti del libro.

Abbiamo cominciato a vedere quali sono i problemi che chi vuole applicare

a questo sguardo globale, questa storia globale, questo metodo della storia globale,

incontra quando deve provare concretamente a raccontare la storia delle varie parti del mondo.

E sono problemi che non sono solo epistemologici o di metodo,

ma anche concreti, molto pratici, come dice l'idea Medeo,

dove quante pagine possiamo dedicare a una cosa o un'altra, ad esempio.

Ma c'è anche un altro aspetto su cui vorrei sollecitare.

Io mi ricordo che una delle ultime volte che ho sentito parlare il grande e compianto Giuseppe Galasso,

quando mi era stata posta una domanda proprio sulla storia globale,

lui aveva risposto che era abbastanza sospettoso rispetto a questo tipo di prospettiva,

perché lui pensava sempre che ci fosse un tentativo di relativizzare il ruolo dell'Europa,

che si utilizzasse il metodo della storia globale per relativizzare il ruolo dell'Europa nella storia del mondo.

E quindi diceva che non sembra un caso che questa cosa venga sostenuta molto nelle università statunitensi o cinesi.

Qui c'è anche un aspetto politico su questo. Voi che ne pensate?

Io queste perplessità, questi sospetti, li ricordo bene, Giovanni.

Però devo dire che così come avevo più o meno immaginato che il professore da diffidente mediterraneo,

perché la sua generazione aveva visto un Mediterraneo molto manipolato e devastante,

era poi diventato… insomma aveva uno sguardo ultimamente più indulgente nei confronti del Mediterraneo e dei mediterranisti,

io non disperavo che questa indulgenza si sarebbe poi trasmessa anche alla storia del mondo.

Perché le quattro chiacchiere che abbiamo fatto su questo e soprattutto in quello che continuo a pensare,

tra l'altro vorrei provare un singolare esperimento, cioè di raccontare in diretta quello che ho appena pensato sentendo Amedeo,

che mi sembra un po' spericolato, ma vediamo se lo facciamo o no.

Però si collega con questa cosa, io sostenevo, sostengo, insomma sono convinto che al contrario,

oggi l'Europa ha tutto da guadagnare da una storia globale, ne ha da guadagnare intanto da un punto di vista,

chiamiamolo così, storico-etico, perché è evidente che di tutte le parti del pianeta,

quella che può creare le condizioni di una storia del mondo, di una storia globale,

che non sia la rivincita di un primo tempo e quello che ha vinto il primo tempo.

E quindi solo l'Europa può creare le condizioni perché una storia mondiale non diventi la vittoria degli Arabi contro gli Europei,

degli Indiani contro i Cinesi, degli Americani contro tutto il resto del mondo.

Quindi abbiamo una responsabilità grande perché effettivamente oggi siamo diversamente collocati nel mondo,

Londra non è più quella del 1850, Parigi non è più quella del 1780 e via discorrendo.

Proprio per questo, quasi come se fossimo dei vinti per riprendere qualche cosa di quel libricino che come dicevi tu mi sta a cuore,

noi abbiamo la condizione di coloro i quali, avendo vinto il primo tempo e sapendo di non poter vincere il secondo,

potremmo dichiarare che non vale nemmeno la pena di ingaggiare la partita.

Leggermente truccato, ma è così.

E quindi noi potremmo fare un equilibrio che altrove non si farà per generazioni ancora, mai.

E questo non è poco, caricarsi di questa responsabilità nei confronti di un passato da costruire consensualmente come passato universale.

Aggiungo anche quel piccolo tentativo che faceva Rocamburisco nel settembre.

Vedi, Amedeo, quando tu parlavi prima delle difficoltà del Medioevo, io pensavo, qui a Rocamburisco perché ho fatto questo per la prima volta,

che in fondo la stessa cosa si può dire anche dell'età moderna.

Anche l'età moderna è un'invenzione per noi stessi, non solo per il fatto che altrove non ha senso,

ma anche l'Europa si definisce moderna perché ha un antico che crolla peraltro.

Non tutti gli antichi crollano così fragorosamente, e quindi altri posti non hanno un antico che crolla fragorosamente,

quindi non hanno nemmeno una evidente nozione di modernità, a parte le dinastie che si prolungano.

Però è anche vero, e quindi noi dovremmo liberarci del moderno, perché o dichiariamo che siamo tutti figli dell'antico,

e io non sono sicuro che un giovane del 2020 senta che i suoi piedi siano così affondati nell'antico,

come poteva ancora sentire un giovane, chiamiamolo così, del 1952, quale sono io, e tutte le generazioni che mi hanno preferito.

Quindi questo moderno ormai è diventato post, perché non ha più nemmeno il retroterra del suo antagonista.

Tuttavia, e qui poi concludo rapidamente questo tipo di salto triplo, però abbiamo la scoperta dell'America,

perché quella è una data importante per tutti, perché c'è uno spezzo del mondo, la quarta parte, che entra in giro.

E allora vuol dire che probabilmente la modernità per tutti può diventare la scoperta dell'America,

e allora la definizione di età moderna come età della presenza dell'Europa, perché questa cosa l'abbiamo poi comunicata a noi,

non so se mi spiego, poi la Cina si è messa a riconoscere l'America, il Giappone ha fatto, l'Africa in maniera tormentosissima per via della schiavitù,

ma chi ha cucito questa novità assoluta per il pianeta, che è quella di avere una quarta parte, siamo noi.

Quindi quando noi diciamo che l'età moderna è la storia dell'espansione o della presenza, come diceva meglio, Giovanni, nel mondo,

stiamo dicendo che a noi è toccato suonare la campanella del tutti mondiali a partire dal 1492,

cioè noi abbiamo girato il mondo con una sorta di campanella della scuola dicendo, signori, da qui comincia un altro tempo,

per te significa la schiavitù, per te significherà l'emarginazione, per me significa in questo momento, ma domani sarà diverso,

il predominio, però siamo tutti in un altro tempo che probabilmente non è nemmeno posto moderno, cioè dura ancora fino al 2020,

perché lì probabilmente un giovane del 2020 sente, se glielo spieghiamo bene, che i suoi piedi ci poggiano meglio,

che se gli diciamo una tradizione per cui moderno vuol dire che lui dovrebbe poggiare nell'antica Roma o in Grecia.

Scusate, era proprio inventata tutta perché non l'avevo pensato.

No, mi sembra che anche i videos raccontati da Todorov fossero d'accordo con te.

Assolutamente, certo, certo.

A me te volevi aggiungere qualcosa su questo.

No, sono convinto che il 1492, come dicono i francesi, marco un tornante, questa magnifica espressione francese che non abbiamo in italiano,

che però è un grande momento di svolta, non ci sono dubbi per tutto quello che può rappresentare.

Mi colpisce anche molto la cosa che diceva prima il professore Galasso rispetto al timore della storia globale che possa essere una storia relativistica.

Oppure, come mi è stato detto recentemente anche dai colleghi medievisti,

si dice che fare una storia globale c'è il rischio di fare un discorso alla moda, siete molto alla page e vi trovate in un contesto tale che vi mettete a raccontare la storia del mondo.

In realtà il rischio di relativismo non c'è, come non c'è il rischio di fare una storia alla page, una storia che riguardi una dimensione perché è di moda.

In realtà con questa operazione, e ci tengo molto a ribadirlo, ma ci tengo a ribadirlo anche adesso, noi ci siamo posti dei problemi.

Cioè noi non abbiamo fatto né una storia mondiale, né una storia globale, né una storia universale, abbiamo fatto tutto questo insieme e niente di questo nello stesso tempo.

Perché siamo partiti da una serie di problemi.

E' chiaro che mi devo proporre, come ha suggerito Luigi, sin dal primo incontro che abbiamo fatto,

in una dimensione dove noi dobbiamo raccontare la storia a dei giovani che hanno una percezione della realtà che non è più quella neanche della mia generazione degli anni 60.

Cioè di gente che oggi pomeriggio si può mettere a giocare al videogioco con il ragazzino che sta a Hong Kong.

E quindi la percezione dello spazio salta completamente.

E noi, se dobbiamo parlare a questa generazione, dobbiamo anche proporre le domande che sono di questa nuova generazione,

di mia figlia o di altre persone, che si pongono i problemi che sono

ma questa pandemia ha un carattere globale o colpisce soltanto me qua a Roma?

Le città sono un fenomeno che riguarda soltanto l'Italia nel corso della storia?

Oppure ci sono state città in altre parti del mondo?

Se l'80% delle merci oggi passa per le Molucche e il computer mi arriva attraverso navi che passano per lo stretto delle Molucche,

è solo oggi? Oppure questo succedeva anche 700 anni fa, 800 anni fa?

E' vero o no?

Sono tutta una serie di questioni.

Il clima, per esempio, è un tema che noi tocchiamo nel libro e che è un tema centrale nella riflessione odierna.

Un ragazzino di oggi dialoga più con Greta Thunberg che con i libri di Gioacchino Wolff.

E allora noi dobbiamo dare risposte a un ragazzino che dice

ma perché c'è questo problema climatico? È sempre stato così?

E allora il rischio del relativismo non c'è, il rischio della moda non c'è,

c'è invece un'idea nuova di una proposta di nuovi problemi.

Tu hai ragione, posso giocare?

Certo, certo.

Devo dire che proprio qui ascoltandoti, Medeo, capisco dove sta la cosa che dobbiamo affinare meglio.

Dentro questo mondo che tu hai descritto perfettamente,

che è quello a cui noi abbiamo pensato, ripensato e che diciamo,

sappiamo che c'è una specie di virus che non è quello che gira adesso

ed è cioè la difficoltà, gretolandosi per così dire alcuni sistemi chiari di potere,

la difficoltà di intendere alcune cose del passato perché non intendono alcune del presente.

Arrivo rapidamente a un paio di punti.

Oggi la percezione, se un nero per otto minuti sta sotto il ginocchio di un poliziotto americano,

questa cosa un ragazzo di 18 anni la comprende perfettamente,

retrospettivamente può comprendere nel bene e nel male,

prendendo anche tutto quello che c'è detto.

Però se questa cosa accadesse ad un ebreo non la vivrebbe con la stessa intensità.

Le nozioni per esempio, saranno logore, non saranno logore,

però la domanda poi richiede anche una risposta,

di antifascismo nella tradizione europea,

oggi sono troppo smussate al punto che un leader che ha anche molto consenso può dire

che non importa antifascista, anticomunista, venusiano, marziano, eccetera,

sapendo di parlare il linguaggio della globalizzazione,

dentro il quale questa cosa, non avendo più un elemento narrativo chiaro,

finisce con l'essere qualcosa che è vecchio come i fenici o come gli antichi romani.

Non possiamo però fare noi della nostra storia del mondo una storia priva di tessitura etica,

non so come dirlo meglio.

No, no, no, sono d'accordo assolutamente.

Però lo corriamo, dicono noi che lo corrano altri,

lo corriamo perché questa apertura degli spazi significa anche un opacizzarsi

di alcune filiere etiche abbastanza evidenti, a vantaggio di altre,

oggi siamo più sdegnati della differenza raziale,

più sdegnati della differenza probabilmente di genere, eccetera.

Però questi sdegni non riescono a incrociarsi con gli sdegni del passato,

è come se camminassero sulla tabula rasa del presente.

E noi che siamo storici e che vogliamo tenere tutte le connessioni,

forse dobbiamo pensare meglio questo pezzo.

Lo dico proprio perché…

Io sono felice Luigi che tu abbia citato questo aspetto perché è stato un po' il filo rosso

che ha unito questo libro a questo libro,

a due libri che abbiamo pubblicato recentemente,

sempre come editori La Terza,

cioè La Storia Mondiale nell'Italia e La Storia Mondiale della Sicilia.

Cioè questo sguardo che abbiamo cercato di dare sulla storia dell'Italia nel suo complesso

e poi sulla regione che forse è stata quella per molti tratti della sua storia,

come dire, più globale, più attraversata dalla storia del mondo.

Questi libri sono tutti e tre in forme diverse,

irrelati da un forte connotato anche etico-politico, se vogliamo dire così,

cioè dal tentativo di ricostruire un po' delle coefiliere di valori e di dargli forza.

Soprattutto riportare la discussione su un po' anche su un aspetto che ci sembra sia piuttosto

come dimenticato nel nostro paese, nella discussione pubblica,

cioè su qual è lo spazio, non vogliamo dire il ruolo, per non essere giobertiani,

però qual è lo spazio dell'Italia nel mondo.

Perché siamo in mezzo al Mediterraneo,

però la nostra testa in qualche modo ci pone sempre in collegamento

più a Francoforte o a Parigi che ai nostri vicini al sud.

Perché? Cosa ne facciamo del nostro essere collocati in questo spazio geografico?

Questo mi sembra, e allo stesso modo, il vostro libro, secondo me,

riporta alla luce la questione del ma che cosa significa essere europei,

italiani ed europei in uno spazio globale.

Qual è il ruolo che abbiamo svolto e che potremmo svolgere in futuro?

Questa domanda mi sembra che tendenzialmente sia un po' sbiadita.

Noi ci preoccupiamo costantemente della divisione del lavoro del mondo

e quale spazio della divisione del lavoro mondiale noi andremo ad occupare.

Ma non quello politico e anche culturale,

che mi sembrano che siano altri due piani che dovremmo tenere in considerazione,

almeno per quello che riguarda il dibattito pubblico.

Non senza voler essere volontaristici,

però credo che la questione del perché siamo in Libia oggi,

con le compagnie petrolifere, che cosa significa il nostro essere in Libia,

ce la dovremmo porre.

Secondo me senza avere uno sguardo ampio, geograficamente ampio,

questo risulta un po' complicato.

L'altra cosa su cui vi volevo domandare è che mi pare che,

non so se mai prima tanto come adesso,

però sicuramente oggi moltissimo,

il peso del passato ha nella vita politica un ruolo fortissimo.

Mi riferisco per esempio al fatto che un leader come Boris Johnson in Inghilterra

viene eletto proprio perché riporta alla luce questa idea

dell'inghilterra, del ruolo imperiale inglese.

C'è proprio una specie di retaggio che continua a ritornare,

che gli inglesi fanno molta fatica a superare.

La stessa cosa per certi aspetti a me pare accadere anche in Francia,

con Macron la prima cosa che fa dopo essere stato eletto,

va davanti al Louvre, fa la passeggiata davanti al Louvre,

non so se ve la ricordate,

riportando alla luce questa idea di grandeur francese

che ha molto, richiamandosi, o fa il viaggio in Africa

per ribadire il ruolo centrale della francofonia.

Noi in Italia mi pare che questo aspetto non l'abbiamo colto molto,

questa dimensione globale, questo retaggio globale

delle ex antiche potenze, della difficoltà che questi paesi hanno

nell'affrontare questo passaggio, questo diminuzio,

in qualche modo mi sembra che sia abbastanza importante.

Non so se sono stato chiaro o un po' confuso.

Prendo solo un pezzo Giovanni, perché tu hai messo in molte cose.

Prendo un pezzo.

Una storia del mondo fatta da noi non è una storia illuminista,

non è la storia della ragione che rende tutti quanti uguali.

E se potessi giocare con queste parole,

è una storia romantica, cioè la storia di chi è convinto

che l'universale, il mondiale si fa con pezzi,

è una bellissima, anzi diventa bella proprio per questo,

un bellissimo vestito di Arlecchini,

in cui ognuno ci mette il suo colore,

e alla fine la bellezza è vedere molti colori,

esseri umani tutti uguali tra di loro.

Tra le varie, tra i vari colori, la storia ha un ruolo fondamentale.

Gli inglesi hanno quella intraprendenza un po' così marinara

che gli deriva dalle loro tradizioni,

i francesi ci mettono quell'altra.

È evidente che i rischi ci sono,

e a volte è più la paura che il coraggio

a determinare questo ritorno di tradizioni nazionali.

Però potrebbe anche funzionare bene,

cioè potrebbe funzionare bene che alla fine

la tela diventi una tela molto colorata e non conflittuale.

In questo la storia e gli storici dovrebbero fare un grande lavoro

proprio al tempo stesso,

di lavorare sulle proprie storie nazionali.

Lo dicevamo anche ieri,

le storie mondiali non imperiscono,

anzi accelerano il processo di trasformazione positiva delle storie nazionali.

Aiuto, aiuto, sono proprie idee Uri.

Se vogliamo giocare a chi fa la storia di moda

e a chi invece fa la vera storia tradizionale,

facciamo il gioco così,

che si usa talvolta a fare ma che non serve a niente.

Aggiungo ancora solo un secondo,

ti ripeto, si potrebbero prendere molti altri pensieri.

Non è che l'Italia, l'Italia forse non lo ha capito,

l'Italia forse non lo ha capito,

ma forse l'ha capito nella maniera giusta per un verso ma inadeguata per l'altro.

L'ha capito dalla parte della bellezza,

che adesso è la parola di moda.

Cioè noi effettivamente nel mondo dei tanti colori,

dei tanti testi del mosaico,

quella che ci viene consegnata non è quella di grandi condottieri,

non è quella di…

Il rinascimento, il rinascimento.

Che può essere il rinascimento?

Può essere la musica dell'Ottocento,

può essere i grandi affetti dell'Ottocento,

il cibo, può essere tutto questo.

Impedire che questo accada sarebbe sciocco.

Ci provarono, ma era una stagione di abiti tutti scuri,

la borghesia italiana dell'Ottocento,

che ci voleva molto più uguali ai francesi e agli inglesi

in una borghesia universale che non esisteva.

Quindi ognuno di noi deve riprendere per così dire i propri colori.

Esiterei tuttavia a dire che il colore possa essere solamente questo.

Cioè, parte che non ce la fai,

perché non è che puoi fare il giullare del mondo,

come ho detto, nella maniera più brutale,

anche più adeguata.

Insomma, anche Leonardo, anche la corte di Francesco Fubri.

Quindi noi andremo a corte di qualche d'uno

e non è esattamente quello che la storia italiana si merita.

Perché una storia dove comunque c'è il Risorgimento,

ci stanno il Novecento tormentatissimo.

Quindi credo che questa bellezza dovrebbe poi essere un po' più sorvegliata

da altri pezzetti della storia italiana,

che forse sono meno appariscenti e un po' troppo simili ad altri,

ma che invece noi possiamo mettere insieme in una maniera originale.

Anche qui, come prima, gli storici hanno grandissime possibilità

e grandissime responsabilità,

solo che la loro tentazione sarà a dire chi ha il pezzo più bello della coperta.

E quindi temo che non ne caveremo molto un ragno d'agucco.

Però tra via Medea e Francesca ce la caveremo sempre.

E con Giovanni riusciremo a compiere questa nostra bellezza,

però non solamente da giullare di corte.

Sennò diventeremo un paese di pochi.

Nella migliore delle foto.

Io resto sempre colpito, sono rimasto colpito in passato per l'uso retorico

che si è fatto della storia, moltissimo a livello politico, negli ultimi anni.

Non parliamo poi delle stramberie di alcuni partiti politici,

il richiamo all'identità celtica è stato uno delle più grandi bagianate

che abbia vissuto il paese negli ultimi decenni.

Quello che mi colpisce accanto a questo, perché si fa un uso che è veramente,

per certi aspetti, anche paranoico della storia,

perché da una parte c'è un uso retorico.

Allora viene usata, pensate alle pubblicità,

il richiamo retorico alla bellezza italiana o al passato italiano.

Dall'altra, però, i problemi storici sono totalmente scomparsi.

Ma non parlo soltanto nel dibattito culturale,

ma parlo anche in quelli che possono essere gli esempi più stupidi,

per esempio anche in quella che è la divulgazione che fa la televisione.

Guardate i documentari di storia, io rimango scioccato, veramente colpito,

perché spesso è soltanto una narrazione pedisse,

la battaglia, le crociate o che so altro,

ma quello che è completamente scomparso sono i problemi.

Noi siamo stati abituati con dei maestri come Giuseppe Galasso,

che la prima cosa che poneva come elemento a lezione era

noi dobbiamo affrontare dei problemi, abbiamo delle questioni,

e anche la sua stessa maniera di dialettica,

la sua maniera di dialogare era costruita su problemi.

Basta vedere i documentari che ci sono su YouTube,

si resse impressionati sulla maniera che ci aveva di impostare sempre il discorso

in maniera problematica.

Tutto questo è scomparso a vantaggio di una descrizione

che può essere piaciuta.

Degli intrattenimenti.

Degli intrattenimenti.

La storia è diventata un bellissimo elemento di intrattenimento

e si è perso invece il contenuto centrale che è quello dei problemi.

Il vostro tipo voleva essere anche una piccola risposta a questa,

proprio perché è in chiave eticopolitica.

Mi dispiace moltissimo, veramente molto, che siamo costretti a fermarci

perché abbiamo già superato il tempo.

Io rimango molto affezionato alla definizione di Luigi del nostro libro

come un libro di storia romantica, perché noi con Luigi ci siamo conosciuti

ormai molti anni fa al centro di studi dell'età romantica

del gabinetto di Essai di Firenze.

Per me c'è anche questo legame con i miei studi,

ormai del plesto ce n'è, però a cui uno rimane sempre affezionato.

Vi ringrazio tantissimo di essere stati qui con noi

e di aver voluto fare questa conversazione.

Ricorda a tutti quelli che ci hanno ascoltato che martedì

avremo alle 18 ospiti nostri Pier Luigi De Palma,

il primo e secondo libro che si chiama Barry Calling con Catena Fiorello.

Vi aspettiamo martedì. A presto e arrivederci.