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Conversazioni d'autore, 'La relazione terapeutica' di Antonio Semerari

'La relazione terapeutica' di Antonio Semerari

Dunque, innanzitutto vorrei dire che mi ha fatto molto piacere questo invito a discutere

con Antonio Semerari riguardo al suo ultimo libro, che è La relazione terapeutica, storia,

teoria e problemi, che è questo che ho qua di fronte, pubblicato dalla Terza, perché

considero Antonio Semerari veramente un autore, un terapeuta, non so come chiamarlo, poi dirò

una definizione di Antonio, veramente rara e importante nel panorama della psicoterapia

italiana. Il libro, innanzitutto, potrei dire molto semplicemente qualcosa sul libro, parlando

anche dell'indice, è una storia del concetto di relazione terapeutica analizzato da tanti

punti di vista, poi vedremo meglio quali, magari anche Antonio potrà aggiungere e spiegare meglio,

in diverse tradizioni psicoterapeutiche e anche dal punto di vista storico, per esempio inizia

del magnetismo, della suggestione, di Jeannet, di Freud, parla del transfert, parla della

psicoanalisi, parla della psicoanalisi relazionale, cioè la svolta relazionale,

parla anche di Sullivan, della scuola Sullivaniana interpersonalista americana,

di Hatchen e Rogers e queste sono le prime due parti. La terza parte, che ho proprio appena

letto oggi pomeriggio perché mi interessava molto, non l'ho finita ma quasi, ha due capitoli e parla

della psicoterapia come scienza, cioè di tutti i complessi problemi riguardo alla questione della

scienza, della ricerca empirica, della validazione, delle varie teorie, delle varie correnti che ci

sono di pensiero in questo campo. Poi c'è la quarta parte che è incredibile perché prende in

assegna diverse teorie e autori che sono il rilenco Beck, quindi la terapia cognitiva

classica, Safran e Muran, le terapie cognitive, Kohut e Kernberg, quindi due autori psicoanalitici

importanti, poi Beethoven e Vonneghi, altri psicoanalisti che parlano della questione

della mentalizzazione. Poi l'approccio del terzo centro dove Antonio Semerari lavora ed è impegnato

da tanti anni in varie ricerche, poi parla della Linehan che è una collega cognitivo

comportamentale che ha sviluppato un approccio chiamato DBT per il Broderline, poi infine il

capitolo sugli otti che era nostro comune amico e che per me è interessantissimo quest'ultimo

capitolo. Poi ci sono le conclusioni che Antonio suggerisce di leggere all'inizio del libro,

anche io l'ho letto all'inizio, dove parla della struttura del suo pensiero, di come affronta i temi

che sono precisamente la teoria dei fatti, la teoria della cura e la teoria della tecnica.

Questi tre, poi c'è la teoria del soggetto, questo è un tipo di modo di classificare le cose che

descrive. Mi ero proposto anche di accennare, prima di entrare nel merito del libro e di dire

alcune cose. È il libro precedente che ha scritto Antonio, che risalgono già dagli anni 80, alcuni

dei quali avevo letto, mi ricordo, e le avevo anche segnalati, recensiti sulla rivista che adesso

dirigo che è Psicoterapia e Scienze Umane. Un libro scritto con Francesco Mancini, nell'85,

La Psicologia dei Costrutti Personali, scritto di Kelly, poi un altro sempre con Mancini,

Le teorie cognitive dei disturbi emotivi, del 90, della NIS. Poi il libro che io lessi e recensì,

mi ricordo, che sono i processi cognitivi della relazione terapeutica, del 91. Poi un libro curato

da lui sulla psicoterapia cognitiva del paziente grave, quindi sulla metacognizione e relazione

terapeutica del 99. Poi un altro libro di la terza, Storia, teoria e tecnica della psicoterapia

cognitiva, che io mi ricordo lessi e recensì allora, libro del 2000, di vent'anni fa. Poi c'è

un libro curato insieme a Di Maggio, I disumini di personalità, modelli e trattamento, tradotto

anche in spagnolo. Poi c'è il libro molto noto, molto bello, su Dostoievski, Delirio di Ivan,

Psicopatologia del caramazzo, sempre pubblicato dalla terza del 2014. Poi un altro libro scritto

con Carcione e Nicolò, Cuorà dei casi complessi. Poi un libro pubblicato da Erickson sul narcisismo

del 2018, un libro del 2019 sul ritiro sociale con Procacci. E questo qua, ultimo, chiamato

La relazione terapeutica, storia, teoria e problemi. Questo per dare un'idea delle tante

cose che ha fatto e tanti libri che ci ustono e invidiano. Infatti, come dicevo poco fa ad Antonio,

l'ho incolpo di avermi provocato sentimenti di grande invidia leggendo questo libro, perché non

è comune vedere un autore che spazia così tanto tra tanti approcci diversi, non solo quelli

cognitivisti che sarebbe il suo campo, ma anche psicoanalitici, e conosce abbastanza bene tanti

aspetti della psicoanalisi al punto che io quando leggevo queste parti imparavo delle cose anche su

argomenti di cui mi ero interessato approfonditamente io stesso. Infatti, non verrebbe da dire che

Antonio Semerari non è un cognitivista, lo definirei soprattutto uno studioso. Sarebbe

riduttivo dire che è un cognitivista, se lui si occupa del cognitivismo o della metacognizione,

del tipo di ricerca che ha fatto. Proprio uno studioso della psicoterapia in generale. Gli

interessa molto gli aspetti teorici, storici, gli interessa guardare e paragonare approcci

diversi, capire cosa c'è dietro ai problemi. Leggendo questo libro, io ho provato un affetto

di disorientamento, in questo senso che faceva capire la complessità dei problemi che ci sono

nel nostro campo. Spesso ho questa impressione, quando sento parlare dei colleghi o delle

affermazioni sulla psicoterapia, anche su un caso clinico, non sono mai soddisfatto. Mi

sembra che certe affermazioni non hanno senso, devono essere spacchettate in tante altre

affermazioni, in tanti altri problemi che a loro volta ne aprono altri. Per cui è estremamente

complesso riuscire a capire, ad afferrare, a capire come vedere un problema, o diciamo così,

parlando di un paziente, come vedere un dato clinico. Ogni situazione clinica la possiamo

vedere da tanti punti di vista, secondo delle teorie che conosciamo, tra l'altro, che conosciamo

noi, perché se uno ne conosce una o due, vede solo quello che vuole vedere lui. Le più cose

conosciamo, vediamo la complessità che c'è dietro a ogni affermazione che possiamo fare nel nostro

campo. E questo è l'aspetto che a me affascina, perlomeno, che questo libro mi ha molto rievocato,

rende bene l'idea della difficoltà a concettualizzare in modo semplice qualcosa.

Perché, per esempio, c'è il vecchio problema in psicoterapia secondo il quale abbiamo parole

diverse per descrivere gli stessi fenomeni, gli stessi fatti, direbbe Semerari, e quindi queste

parole diverse sono uguali o sono un po' anche diverse come concetti, illuminano qualcosa di un

po' diverso, perché di fatto usiamo parole diverse. Uno stesso paziente, il miglioramento di un

paziente, per esempio, si può spiegare in modi talmente diversi tra di loro, da tanti punti di

vista. Nel libro viene detto bene, per esempio, quando parla di Rogers, come lui spiega perché

un paziente cambia, quando parla della psicoanalisi, le cose che... ogni teoria vede le sue cose,

vede solo quelle volte, quindi restringe il campo, fa una produzione di riduttivismo che è dannoso

di fatto. Questo è un discorso filosofico, tra l'altro è una delle tante domande che vorrei

fare a Antonio, cioè come facciamo a vedere un dato, la realtà, perché a seconda della lente,

degli occhiali che usiamo, vediamo solo una cosa e non vediamo un altro. Questa è una cosa che mi

ha sempre affascinato. A parte questo, vorrei dibuttire alcune cose sul libro, prima di tutto

che vorrevo dire. Innanzitutto è un pregio del libro che è comune a tutti gli altri libri di

Antonio che ha scritto molto bene, cioè è scorrevole e si capisce quello che lui dice sempre.

Questa è una cosa che ho sempre apprezzato. Mi ricordo che quando lessi l'ultimo libro che

recensi, quello sulle teorie, forse l'avevo anche scritto nel riciclo, non mi ricordo,

l'ho detto a qualcuno. È quel tipo di libri che quando li inizio devo finirli,

cioè vado avanti, non li smetto. Invece quando leggo un libro quasi sempre lo smetto dopo un

po'. Non perché sia brutto, ma perché è così. Mi piace leggere alcune cose, passare ad altre,

invece di quello che mi cattura devo andare avanti. Questa è una cosa molto bella.

Il fatto che lui, non è affatto comune nel mondo cognitivista, secondo me, ma neanche ancora meno

in quello psicoanalitico, si interessa non di un filone, ma di tanti filoni della psicoterapia.

Questo è una delle cose principali. Questo libro qua, poi ho un'altra soluzione che volevo fare,

sembra un trattato sulla relazione terapeutica. In effetti parla della relazione, però in realtà

potrebbe essere anche un trattato di psicoterapia, non è solo sulla relazione,

perché dietro alla relazione c'è tutto. Cioè, la relazione che cos'è nella psicoterapia? Funziona

in che modo? Come la si concettualizza? Funziona perché serve, questo lo dice moltissimo nel

libro, serve la relazione a permettere degli interventi specifici, cioè a permettere la

psicoterapia? Oppure la relazione è essa stessa la psicoterapia in quanto funziona,

in quanto relazione, in quanto esperienza umana? Quindi paradossalmente da fattore,

a specifico diventa specifico. La relazione è un fattore specifico, secondo certe scuole,

perché è essa stessa la terapia. Permettere un'esperienza con lo terapeuta fa fare dei passi

avanti al paziente. C'è tutto l'approccio umanistico che sostiene questo, penso però anche

tutti, anche la psicoanalisi e anche altri approcci sono arrivati a sostenere questo. Questo non è

una dicotomia, è così o è cos'è? E' sempre così, la relazione è sempre mutativa,

sempre terapeutica, c'è sempre un aspetto anche suggestivo, cioè il placebo, questa è una cosa

che piace molto a me a dire, che la psicoterapia è placebo, nel senso che è la scomposizione

scientifica dell'effetto placebo per massimizzarne l'effetto. Il placebo c'è sempre nella

psicoterapia, è inevitabile come c'è nei farmaci, è parte della psicoterapia, solo che noi lo

sappiamo, cioè avvengono altre cose oltre a quelle che noi facciamo, che noi non conosciamo,

incomprensibili del tutto, però ci sono nella relazione che migliorano l'efficacia della

terapia. Quindi c'è sempre la terapia più il placebo, detto così genericamente. Per esempio

Freud diceva che il suo grande obiettivo era quello di eliminare l'aspetto placebo, l'aspetto

suggestivo, ma rendere tutto comprensibile all'interno della psicoanalisi e quello di

analizzare la suggestione. Lui era nemico della suggestione, voleva proprio afferrarla fino in

fondo. Secondo me non è possibile del tutto. Non vorrei parlare troppo, ma mi piacerebbe che

parlasse Antonio e che anche per l'utilità di che ci ascolta. Vorrei fare una domanda,

non so, puoi dire anche le tue riflessioni su quello che ho detto, ma aggiungo una domanda

che è molto provocatoria o ingenua, ma forse una domanda nella quale molti ascoltatori si

identificheranno, che è questa. Dopo tutte queste tue riflessioni molto interessanti,

su tutte queste tecniche, sulla terapeutica, sulla storica, secondo te, secondo la tua

esperienza, quali sono gli ingredienti che nella tua esperienza sono risultati più utili

della relazione nella psicoterapia? Quali sono le cose più importanti, le variabili più importanti

che servono di più in una psicoterapia, che fanno parte della relazione terapeutica?

Inoltre molti giovani vorrebbero saperla, anche se è una domanda indecente, non mi rendo conto.

Anzitutto lascia che ti ringrazio per questa presentazione, fammi dire due cose sulle cose

che hai detto, poi non mi dimentico la domanda indecente che hai fatto. Ti ringrazio per la

definizione di studioso, anche se io mi sono sempre considerato un clinico, che da clinico

ritiene che sia necessario per fare clinica avere una cultura clinica. Quindi io penso che chi fa il

nostro mestiere non debba conoscere, sarebbe come appunto chi fa il cardiologo e non conosca la

medicina, non debba conoscere il suo settore, la psicoterapia cognitiva, quella è la scuola a cui

aderito, ma debba avere una cultura psicoterapeutica. Questa è la cosa a cui credo il più e credo sia

un messaggio da trasmettere anche ai giovani rispetto a un periodo in cui c'è molto la moda

di tecniche molto specifiche e così via. Secondo me la psicoterapia si fa pensando e avendo una

generale cultura psicoterapeutica con cui uno cerca di orientarsi nel suo lavoro e così via. Di

questa cultura psicoterapeutica è chiaro che vi è un fattore comune in tutti che è il fatto che

tutto quanto si svolge in una psicoterapia avviena all'interno della relazione tra terapeuta e

paziente. Questa relazione, Paolo diceva, possiamo descriverla in tanti modi, possiamo spiegarci in

tanti modi i suoi effetti terapeutici, anche i suoi effetti atrogeni, perché non sempre è una

relazione terapeutica. Risulta terapeutica ma deve essere possibile comprendere i diversi

linguaggi. Non è necessario che siamo d'accordo, non è necessario che usiamo la stessa terminologia,

ma dobbiamo comprendere i diversi linguaggi. Comprendere i diversi linguaggi significa

fondamentalmente due cose, comprendere i fenomeni a cui si riferiscono, che ha visto quel collega,

qual è il fenomeno che il collega ha percepito che mi descrive con questo linguaggio, e comprendere

il contesto semantico in cui una certa definizione si colloca. Per esempio, il termine integrazione,

o lo stesso termine transfert. Comprendere lo significa muoversi tra questi due opposti,

il fenomeno empirico che è accaduto e che ritiene di aver percepito e che il collega

mi trasmette con un certo linguaggio, e che quel linguaggio poi si colloca entro una problematica,

entro alcune priorità scientifiche che il collega o lo studioso aveva in mente, entro alcune coordinate

concettuali che guidavano il suo lavoro, eccetera. Devo capire entrambe queste cose per poter

intendere di che cosa si sta parlando. E' quello che mi sono sforzato di fare,

ho cercato di capire quando ho studiato gli psicanalisti, qui devo contraccambiare il

ringraziamento invece perché molti dei psicanalisti io credo di averli capiti grazie alle spiegazioni

chiarissime che ne dà Paolo Migone, un autore che veramente scrive chiaro e rende chiari anche

testi molto complessi. Penso per esempio al concetto di identificazione proiettiva,

dove cito ampiamente Paolo nel libro che altrimenti non credo avrei capito.

Ecco, uno si deve porre il problema, qual è l'esempio che stavo dicendo? Per esempio prendiamo

il concetto di integrazione che troviamo in Kerberg e troviamo in quelli del terzo centro.

Per capirlo in Kerberg devo capire cosa ha visto Kerberg. Per esempio ha visto un paziente che in

certi momenti lo attaccava ferocemente, in altri momenti si scusava, dichiarava un grande

attaccamento a lui e sembrava dimentico o indifferente all'altro momento. Questo è il

fenomeno clinico. E poi devo capire perché dà tanta importanza a quel fenomeno, qual è il

sistema concettuale dove quel concetto clinico così importante si inserisce. E allora devo

cercare di capire il fatto che per Kerberg la prima organizzazione della psiche è scissa,

nel senso che si organizzano tutte le memorie di segno positivo e tutte le memorie di segno

negativo delle relazioni che poi si fondano, si integrano vicendevolmente e poi ci sono

situazioni avverse in cui questo processo non si compie. Devo fare questo lavoro,

questo è quello che ho cercato di fare. Ho cercato di capire in questo senso come si spiegano,

nelle diverse teorie, gli effetti terapeutici della cura. Per venire alla domanda di Paolo,

cioè perché la relazione terapeutica fa bene, in che senso è terapeutica, cosa aiuta. Le

spiegazioni sono diverse ma non sono mutualmente esclusive, questo mi sembra il punto. Quindi

sostanzialmente la mia risposta è un po' mente ecumenica. Questi fattori contribuiscono tutti

all'effetto terapeutico. La prima spiegazione è semplicemente che la relazione terapeutica è

quel tipo di influenza sociale per cui si riesce a collaborare insieme. La condizione vale per la

psicoterapia, per la medicina, per uno studio legale, per un'impresa ingegneristica. Se un

professionista e un cliente devono ottenere un risultato, ci deve essere un clima di fiducia,

di collaborazione reciproca e così via. Questo permette di dare il meglio di sé nel lavoro

comune. È chiaro che in questa spiegazione non è la relazione in sé che cura, ma è ciò che viene

fatto, il lavoro che viene fatto, l'uso delle eventuali tecniche e così via. Un'altra spiegazione

è anche questa, molto tradizionale, sostanzialmente quella di Floyd, che dice che la relazione

terapeutica è una cosa particolare e che la rende un laboratorio privilegiato per la presa di

coscienza. Se accadono certe dinamiche relazionali nella vita di tutti i giorni,

tra me e Paolo, magari io e Paolo litighiamo, non ci sbocciamo più una parola e la cosa finisce lì.

La relazione terapeutica ha delle regole per cui, proprio per regola, per principio, io e Paolo ci

siamo impegnati a riflettere su quello che accade nella nostra relazione e quindi questo crea un

contesto privilegiato, unico, che non avviene nella vita di tutti i giorni, che permette di

far esprimere alcune dinamiche relazionali che tutti noi abbiamo e ce ne rende coscienti.

La terza è quella che è un'esperienza diversa dalle altre e quindi c'è un'esperienza correttiva

che è un valore terapeutico in sé. Ci sono poi delle altre spiegazioni, fondamentalmente altre due,

che hanno varie espressioni, anche molto distanti tra di loro, ma che sono riconducibili a un'idea

fondamentale e cioè nella relazione terapeutica il paziente che non riesce a svolgere alcune

funzioni mentali importanti, per esempio non riesce a essere autoriflessivo, non riesce a

coordinare l'azione, utilizza la mente del terapeuta, utilizza la relazione proprio per

compensare, vicariare alcune funzioni deficitari. Questo per esempio è lo schema che aveva in mente

Coutt, a cui accenna Jeannet, il primo a formulare una teoria del genere. E poi c'è un altro modello

tipicamente di derivazione comportamentista dal social learning che è l'idea che nella relazione

terapeutica il paziente apprende socialmente dei modi di ragionare, per esempio un atteggiamento

riflessivo e accettante verso le emozioni che sono più sane. Queste sono le cinque

grandi spiegazioni, cosa che penso io che funzionino più o meno tutte e cinque in misura

diversa. Quello che poi c'è la suggezione, che è un fattore di cui poi ci siamo dimenticati,

abbiamo fatto finta che non c'è, che è un elemento sicuramente ineliminabile di ogni cura,

è presente in medicina e sicuramente è presente anche nella relazione terapeutica.

Non so se ti ho risposto Paolo.

Sì, ma mentre parlavi avevo mille domande, mille pensieri. Un era questo, un altro te lo faccio

dopo. Hai detto tutte funzionano. Ma è giusto dire così? Cioè tutte funzionano o tutte sono

la stessa cosa, ci sono aspetti dello stesso fenomeno che funzionano simultaneamente?

Sembra che tu le separi le teorie, no? A me sembra invece che quelle cose che accadono

in una teoria accadono anche nell'altra, solo che l'altra non le sottolinea.

Indubbiamente, queste accadono in tutte le relazioni terapeutiche. Non parlo delle teorie,

però hanno un peso diverso in contesti clinici diversi. Funzionano contemporaneamente,

immagino, però la distribuzione dell'importanza è diversa in contesti clinici diversi.

Prendiamo un esempio, un paziente non mentalizzante, un paziente che ha una

difficoltà metacognitiva, non riesce a mentalizzare, non riesce a pensare il pensiero

e così via. È chiaro che la relazione terapeutica svolge un ruolo vicariante molto importante,

che ha proprio bisogno di una stampella per appoggiarsi alla mente del terapeuta e pensare

alla sua mente. Un paziente con un alto livello di funzionamento, questo è meno importante,

sarà più importante l'alleanza terapeutica che si crei un contesto di collaborazione.

Da questo punto di vista, credo che il peso dell'importanza dei vari fattori cambia a

seconda della tipologia del paziente e della sua psicomatologia.

Infatti, era questa l'altra domanda che volevo farti, che tu l'hai già detto comunque. Io trovo

certi discorsi sulla psicoterapia in generale frustranti perché non si possono risolvere i

problemi, non c'è una risposta chiara. L'unico modo di imporre il problema mi sembra sia questo,

che è il paziente, a seconda dei problemi che ha, che decide quale teoria noi possiamo usare.

Per esempio, con molti pazienti, secondo me la maggioranza oggi, non so ai tempi di Freud,

quando invece lui la pensava molto diversamente, o si sbagliava o i pazienti erano diversi.

Secondo me si sbagliava. La maggior parte dei pazienti hanno bisogno soprattutto di un rapporto

di un certo tipo, cioè di una relazione terapeutica alla Rogers, o alla Fonagy,

o alla Cout, per fare grandi passi avanti. Basta quello. Quindi non ha senso parlare di

psicoterapia o della teoria della psicoterapia, quanto di mille tecniche che tu utilizzi alla

luce di una teoria generale a seconda dei bisogni del singolo paziente. Con certi pazienti, per

esempio, che non hanno affatto bisogno di tutti questi discorsi sulla relazione terapeutica. Non

gliene frega niente. Loro vogliono, tra virgolette, le tecniche, cioè vogliono che tu gli parli di

una certa cosa e loro migliorano moltissimo se toccano certi argomenti e si risolvono dei

problemi a livello proprio di dialogo, o cognitivo o cognitivista o psicanalista,

ma di lavoro proprio introspettivo. Per esempio, uno dice di un ordinemento psicoanalitico e dice

che con questo paziente sto facendo la psicanalisi, perché vedo che lavoro su delle narrative,

su dei contenuti e il paziente migliora moltissimo grazie a questo. La relazione

terapeutica è totalmente scontata. Non so se sei d'accordo su questo.

Sono d'accordo, è un po' come la salute, affinché va bene non te ne accorgi quasi,

sta sullo sfondo. Il problema è che ci sono una serie di pazienti,

che sono pazienti fondamentalmente con disturbi di personalità, semplificando,

dove proprio la psicopatologia si manifesta nella relazione. E' chiaro che la relazione

viene in primo piano. Tant'è, prendiamo un esempio proprio per venire incontro a quello che dici tu,

la tecnica del contratto terapeutico iniziale, tecnica condivisa da approcci sia di matrice

psicodinamica che di matrice cognitivista. Chi la fa? Chi cura i pazienti gravi? La tecnica viene

applicata, cioè la tecnica consiste semplicemente poi nell'establire all'inizio, chiarire quali sono

i compiti del terapeuta, del paziente, le cose che vanno fatte e così via. Chi la fa? I terapeuti

che curano quei pazienti che non rispettano il contratto, che si sa che non rispettano il

contratto. Un paziente che mantiene i limiti spontaneamente, che lo comprende spontaneamente,

non c'è alcun bisogno di farlo. E' la tipologia del paziente che determina, direi, la psicopatologia

del paziente. A questo proposito vorrei fare una riflessione che forse c'entra con la questione

della relazione terapeutica. Tu dici che la tecnica della Linan sottolinea il contratto,

la tecnica di Kerman sottolinea il contratto. Con i pazienti gravi siamo costretti a fare certe

cose e col paziente nevrotico, sano, ad alto funzionamento non parliamo mai del contratto,

diciamo solo le cose minimali, tipo l'orario, il pagamento, perché lui lo sa rispettare. Però,

e l'altro non lo sa rispettare, quindi non può fare la terapia se non ha un contratto che lo

costringe, cioè che lo fa venire in terapia e rispetta le regole basilari per cui può fare un

certo lavoro. Però qua io ho sempre trovato una sorta di contraddizione. Per esempio,

prendiamo Kerberg o gli psicoanalisti, loro dicono che il contratto iniziale lo devi stabilire anche

con varie sedute, il paziente a volte si arrabbia perché non ci vuole stare, bla bla, quando l'hai

instaurato inizia la terapia. Io non lo penso così. L'instaurazione del contratto che dura alcune

sedute è una terapia, è un trucco di Kerberg, è un intervento strategico nel senso proprio della

scuola strategica tradizionale dei vecchi tempi, cioè una specie di manipolazione, un inganno per

cui tu incastri una persona in un contratto per cui lui se rispetta il contratto è già guarito.

In questo senso, siccome il borderline non è capace di relazione oggettuale, non sta al

contratto, non ci sta alla regola. Se lui rispetta il contratto vuol dire che è già capace di

relazione oggettuale, cioè ti rispetta, ti vede, rispetta delle regole eccetera. Quindi ha già

fatto un passo avanti enorme. Il punto è che Kerberg questo non lo teorizza, lui dice che il

contratto ci vuole per fare la terapia dopo che lavora sulle relazioni oggettuali. Invece secondo

me altri approcci, quelli per esempio strategici, l'hanno capito molto bene, cioè che facendo il

contratto tu hai già fatto una terapia. Il punto è come fai a instaurarlo in un paziente che si

ribelle e non vuole accettarlo. È questo che va teorizzato.

Sono d'accordo per metà. Sono d'accordo che chiaramente tutta la fase di costruzione del

contratto, che in alcune è molto strutturata come in Kerberg, è già un processo terapeutico. Sono

meno severo sull'interpretazione di Kerberg perché il contratto non serve in realtà per

determinare che poi il paziente lo rispetti, altrimenti non c'è bisogno del contratto. Il

contratto serve per permettere che in caso il paziente metta in atto qualcosa che minaccia

l'efficacia della terapia, di tenere questo come focus principale dell'intervento. Ti serve

perché avendolo definito prima hai lo spazio per dire ok, questo adesso è il problema,

questo rende la sua terapia inefficace. Come fai a far accettare a un paziente il fatto di

rispettarlo? Per esempio la tecnica di Gerber standard, che se il paziente ha l'impulso di

tentare il suicidio di tagliarsi, non può farlo ma deve prima telefonare a una tale persona,

pronto soccorso eccetera. Che è indispensabile far così per iniziare una terapia. Come fai

a ottenerlo? Non lo ottieni, semplicemente quando il paziente lo viola, questo comportamento

minaccia la terapia perché la trasforma in qualcosa che non può essere, cioè un pronto

soccorso. Quindi dobbiamo fare ogni sforzo per contenerlo. Il paziente viene invitato a accettare

le misure aggiuntive di protezione che permettano che la terapia continui ad essere efficace,

questa è la struttura del ragionamento. Quindi tu dici banalmente che se il paziente non ce la

fa Gerber non lo prende in terapia? No, guarda, noi usiamo il contratto,

è molto semplice, io non mi aspetto che non venga violato, semplicemente l'averlo fatto,

quando viene violato mi permette di dire ok, allora dobbiamo prendere delle misure

aggiuntive mica per nulla perché se no la sua terapia non funziona. Allora inizia una

discussione su quali possono essere, può essere da un ricovero temporaneo a misure di protezione

del contesto sociale, all'introduzione di una terapia farmacologica, cioè si apre una discussione

con il paziente sulla base della violazione del contratto, ma se non l'hai avvisato prima

che quel comportamento necessario ti trovi disarmato. Tra l'altro è molto educativo,

è terapeutico ed educativo perché è basato sulla coerenza, sul fatto che tu prometti una cosa e la

mantieni. Infatti questo lo sottolineava spesso Clarkin, diceva che questo aspetto è educativo,

che il paziente impara, forse per la prima volta in vita sua, che ha un rapporto con una persona

che rispetta le promesse fatte, che dice se fare così mi comporterò in questo modo. Il

terapeuta infatti non deve mai sbagliarsi, non rispettare le cose che ha detto, altrimenti va

tutto a rotoli. Un aspetto educativo è il suo stesso secondo me.

Certo, questo è un aspetto senza dubbio presente. Una componente tra l'altro presente in tutte le

psicoterapie di questo tipo di paziente è un elemento educativo, informativo.

Infatti chi è che lo diceva in modo provocatorio, che l'analisi funziona anche perché con la

stabilità degli orari educhiamo il paziente a rispettare delle regole. Lo diceva un collega

molto provocatorio, come tu forse lo conoscevi. Tutto lì è segreto. Se poi soprattutto è alta

frequenza settimanale, il paziente impara a comportarsi bene, impara l'educazione,

impara a seguire le regole. C'è questo aspetto qua. Infatti è molto complessa la cosa perché è

una relazione umana che si instaura con una persona e quindi dentro alla relazione fai un

sacco di cose. Insegni a comportarti, rifletti su quello che succede, le fornisci un'esperienza

correttiva e fai anche delle cose che sono anche le tecniche specifiche.

Sì, credo che possiamo considerare oggi tutto questo in parte anche controllabile

empiricamente. Se esiste un passaggio che la psicoterapia è riuscita a fare da momento

speculativo di alto livello all'analisi empirica. Te la faccio io una domanda,

visto che dici che sei apprezzato con quella parte più epistemologica a proposito del tema

psicoterapia e scienza. Io ho letto proprio oggi pomeriggio i due capitoli. Ho letto tutto il

primo e non ho finito il secondo e mancano alcune pagine per il secondo. Il secondo capitolo è molto

colpito perché contiene un sacco di informazioni sul modello contestuale,

se è un discorso di Wancold eccetera. Volevo anche farti delle domande su questo,

quando all'inizio del primo capitolo della parte terza fai il discorso che tu hai fatto,

anche mi sembra che in un altro libro, quando una volta dicevi che la terapia cognitiva era

nata anche come risposta alla crisi della metapsicologia in America, ti ricordi? C'era

la teoria generale della metapsicologia, crollata negli anni 60-70, una prima dei primi che la

criticò, anzi forse il primo, no non il primo, comunque fin dagli anni 60,

schiessi articoli duri contro il crollo della metapsicologia. Poi fai un discorso al punto

due e dici che non ho capito bene per la verità, devo dirti, volevo rifletterci meglio sul fatto

che mi sembra che tu dica che c'è una teoria generale, ok dovremmo averla, poi c'è la teoria

clinica che è comunque molto lontana e non è possibile, mi sembra che tu dica a un certo punto,

fino in fondo in modo tra virgolette scientifico un aggancio, una correlazione chiara.

Esattamente, è possibile solo in scienze formalizzate, logico-matematiche,

cioè che dato un assunto di teoria generale tu derivi un particolare, supponiamo un assunto di

teoria generale che è condiviso oggi da tutte le psicoterapie, l'importanza delle prime relazioni

di attaccamento. Siamo tutti d'accordo che le prime relazioni di attaccamento, tra le altre cose,

offrono i primi schemi fondamentali di sé e dell'altro. Questo è compatibile con un numero

largissimo di teorie diverse, per esempio su come è fatto il dissolvo a bordo o su come debba essere

l'azione terapeutica. Non derivi nessuna teoria specifica, influenza le teorie specifiche.

Il discorso è complicato, rischiamo di dire delle cose un po' generiche, approssimative,

ti dico solo una mia sensazione. Mi piace pensare che non è così, cioè che c'è la possibilità di

collegare a una teoria generale una teoria clinica specifica. Il discorso non è uno stacco,

una cosa qualitativa, ma quantitativa. Cioè che tu puoi fare interventi specifici che sono comunque

collegati a principi generali. Sono coerenti con il principio generale, ma tu puoi avere

teorie diverse, non è detto che ne derivi una sola. Tu puoi fare una serie di interventi che

sono coerenti con questo principio generale. Un amico mio ti diceva che con i pazienti

dissociati è pericolosissimo attivare l'attaccamento di cure protettive perché dissociano.

Molti che sono convinti, come lo erano gli otti, della teoria di Bowlby, come lo sono anche io

peraltro, sostengono esattamente il contrario, che è assolutamente importante che si attivi

l'attaccamento. Sono tutte e due coerenti con la teoria generale. Devi avere una coerenza,

ma non una specifica teoria, perché una parte deriva dal dato clinico. Questa è la ragione per

cui per esempio la teoria del transfert si è salvata dalla crisi della psicopatologia,

malgrado che è una teoria clinica, che aveva il versante clinico.

Non so se capite bene, secondo me sono entrambe le cose vere. Cioè su un paziente attivo e

la sistema dell'attaccamento a un certo tipo di paziente, ha ragione Gianni Liotti,

aveva ragione nel dire che il paziente prima scappa dalla terapia, lo perdi. Mi è successo

in vari casi, pazienti che dopo un po' quando incominciano a star bene devono dire che interrompono

la terapia e non riesce a convincerli. E' chiarissimo, però è anche vero che è importante

attivarlo, solo cosa fai. Quindi c'è coerenza, lo devi attivare chiaramente in un certo modo,

per aiutarli a restare in terapia. Non c'è una contraddizione, secondo me.

No, non c'è. Sto dicendo che tra un assunto di teoria generale e un assunto di teoria clinica

ci devono essere rapporti di coerenza, questo è chiaro. La teoria è un macello, ma questi rapporti

di coerenza non sono di necessità logica, sono di compatibilità razionale, quindi sono rapporti

classe. Questo è uno dei motivi per cui possiamo anche trovarci d'accordo tra scuole diverse,

perché non sono sistemi logicamente. Il discorso rischia di andare da ragione

a popere quando diceva che può dimostrare una cosa anche l'altra.

No, perché qui stiamo parlando... poi c'è l'altro elemento che è il dato empirico,

su cui poi testimoni la bontà o meno della teoria. La struttura di una teoria psicoterapeutica non è

mai rigida. Sono arrivate delle domande e ci chiedono di rispondere. Buonasera,

volevo chiedere se nella relazione terapeutica possono esistere dei punti di stallo e come si

possono gestire da parte del terapeuta e da parte del paziente. Potrei proporre una riflessione

sugli effetti iatrogeni della terapia quando causati dalla posizione manipolatoria e o

invidiosa della terapeuta. Non è facile rispondere in poche parole, comunque provaci.

Possono esistere dei punti di stallo? Certo che sì. E questi punti di stallo possono

essere anche svolgersi in modo dannoso. Come possono gestirsi dipende dal tipo di stallo.

Ovviamente ci sono difficoltà dell'alleanza che possono riguardare difficoltà al paziente di

lavorare sui compiti e sui obiettivi della terapia, per cui per esempio la necessità del contratto.

Ma non coinvolgono il legame interpersonale. Io aggiungerei che vanno accettati, vanno

riconosciuti senza problemi discusi col paziente. Esatto. Poi ci sono situazioni di stallo che

possono coinvolgere il legame interpersonale. Sono descritti in tanti modi. Per alcuni sono

anche un'occasione di comprensione di certe dinamiche. In altri casi, però,

un concetto che descrive molto bene gli effetti iatrogeni è quello di ciclo interpersonale.

Ciclo interpersonale è un processo in cui aspettative negative sulla relazione fanno

sì che noi mettiamo in atto dei comportamenti preventivi che suscitano nell'altro delle

reazioni tali da confermare le aspettative negative di partenza. Questo può accadere

anche nella relazione terapeutica. Tra cui c'è ovviamente dinamiche di potere,

di invidia, di competizione e così via. Questo con moltissimi pazienti accade.

Certo. Ci hanno detto che durava 50 minuti e dovremmo penso finire.

Ecco, abbiamo rispettato i tempi, certamente. Ti ringrazio moltissimo, Paolo.

No, io ringrazio molto te per quest'occasione, davvero.

Allora, speriamo di vedere. Questo è un ringraziamento a chi ci ha invitato.

Sì, dovremmo un'altra occasione come per l'ultima volta che ci vediamo,

ti ricordi in Sicilia?

Sì, veramente. Ci vediamo. Arrivederci prima.

Arrivederci.


'La relazione terapeutica' di Antonio Semerari 'The Therapeutic Relationship' by Antonio Semerari La relación terapéutica" de Antonio Semerari 治療的関係」アントニオ・セメラリ著 安东尼奥·塞梅拉里的《治疗关系》

Dunque, innanzitutto vorrei dire che mi ha fatto molto piacere questo invito a discutere

con Antonio Semerari riguardo al suo ultimo libro, che è La relazione terapeutica, storia,

teoria e problemi, che è questo che ho qua di fronte, pubblicato dalla Terza, perché

considero Antonio Semerari veramente un autore, un terapeuta, non so come chiamarlo, poi dirò

una definizione di Antonio, veramente rara e importante nel panorama della psicoterapia

italiana. Il libro, innanzitutto, potrei dire molto semplicemente qualcosa sul libro, parlando

anche dell'indice, è una storia del concetto di relazione terapeutica analizzato da tanti

punti di vista, poi vedremo meglio quali, magari anche Antonio potrà aggiungere e spiegare meglio,

in diverse tradizioni psicoterapeutiche e anche dal punto di vista storico, per esempio inizia

del magnetismo, della suggestione, di Jeannet, di Freud, parla del transfert, parla della

psicoanalisi, parla della psicoanalisi relazionale, cioè la svolta relazionale,

parla anche di Sullivan, della scuola Sullivaniana interpersonalista americana,

di Hatchen e Rogers e queste sono le prime due parti. La terza parte, che ho proprio appena

letto oggi pomeriggio perché mi interessava molto, non l'ho finita ma quasi, ha due capitoli e parla

della psicoterapia come scienza, cioè di tutti i complessi problemi riguardo alla questione della

scienza, della ricerca empirica, della validazione, delle varie teorie, delle varie correnti che ci

sono di pensiero in questo campo. Poi c'è la quarta parte che è incredibile perché prende in

assegna diverse teorie e autori che sono il rilenco Beck, quindi la terapia cognitiva

classica, Safran e Muran, le terapie cognitive, Kohut e Kernberg, quindi due autori psicoanalitici

importanti, poi Beethoven e Vonneghi, altri psicoanalisti che parlano della questione

della mentalizzazione. Poi l'approccio del terzo centro dove Antonio Semerari lavora ed è impegnato

da tanti anni in varie ricerche, poi parla della Linehan che è una collega cognitivo

comportamentale che ha sviluppato un approccio chiamato DBT per il Broderline, poi infine il

capitolo sugli otti che era nostro comune amico e che per me è interessantissimo quest'ultimo

capitolo. Poi ci sono le conclusioni che Antonio suggerisce di leggere all'inizio del libro,

anche io l'ho letto all'inizio, dove parla della struttura del suo pensiero, di come affronta i temi

che sono precisamente la teoria dei fatti, la teoria della cura e la teoria della tecnica.

Questi tre, poi c'è la teoria del soggetto, questo è un tipo di modo di classificare le cose che

descrive. Mi ero proposto anche di accennare, prima di entrare nel merito del libro e di dire

alcune cose. È il libro precedente che ha scritto Antonio, che risalgono già dagli anni 80, alcuni

dei quali avevo letto, mi ricordo, e le avevo anche segnalati, recensiti sulla rivista che adesso

dirigo che è Psicoterapia e Scienze Umane. Un libro scritto con Francesco Mancini, nell'85,

La Psicologia dei Costrutti Personali, scritto di Kelly, poi un altro sempre con Mancini,

Le teorie cognitive dei disturbi emotivi, del 90, della NIS. Poi il libro che io lessi e recensì,

mi ricordo, che sono i processi cognitivi della relazione terapeutica, del 91. Poi un libro curato

da lui sulla psicoterapia cognitiva del paziente grave, quindi sulla metacognizione e relazione

terapeutica del 99. Poi un altro libro di la terza, Storia, teoria e tecnica della psicoterapia

cognitiva, che io mi ricordo lessi e recensì allora, libro del 2000, di vent'anni fa. Poi c'è

un libro curato insieme a Di Maggio, I disumini di personalità, modelli e trattamento, tradotto

anche in spagnolo. Poi c'è il libro molto noto, molto bello, su Dostoievski, Delirio di Ivan,

Psicopatologia del caramazzo, sempre pubblicato dalla terza del 2014. Poi un altro libro scritto

con Carcione e Nicolò, Cuorà dei casi complessi. Poi un libro pubblicato da Erickson sul narcisismo

del 2018, un libro del 2019 sul ritiro sociale con Procacci. E questo qua, ultimo, chiamato

La relazione terapeutica, storia, teoria e problemi. Questo per dare un'idea delle tante

cose che ha fatto e tanti libri che ci ustono e invidiano. Infatti, come dicevo poco fa ad Antonio,

l'ho incolpo di avermi provocato sentimenti di grande invidia leggendo questo libro, perché non

è comune vedere un autore che spazia così tanto tra tanti approcci diversi, non solo quelli

cognitivisti che sarebbe il suo campo, ma anche psicoanalitici, e conosce abbastanza bene tanti

aspetti della psicoanalisi al punto che io quando leggevo queste parti imparavo delle cose anche su

argomenti di cui mi ero interessato approfonditamente io stesso. Infatti, non verrebbe da dire che

Antonio Semerari non è un cognitivista, lo definirei soprattutto uno studioso. Sarebbe

riduttivo dire che è un cognitivista, se lui si occupa del cognitivismo o della metacognizione,

del tipo di ricerca che ha fatto. Proprio uno studioso della psicoterapia in generale. Gli

interessa molto gli aspetti teorici, storici, gli interessa guardare e paragonare approcci

diversi, capire cosa c'è dietro ai problemi. Leggendo questo libro, io ho provato un affetto

di disorientamento, in questo senso che faceva capire la complessità dei problemi che ci sono

nel nostro campo. Spesso ho questa impressione, quando sento parlare dei colleghi o delle

affermazioni sulla psicoterapia, anche su un caso clinico, non sono mai soddisfatto. Mi

sembra che certe affermazioni non hanno senso, devono essere spacchettate in tante altre

affermazioni, in tanti altri problemi che a loro volta ne aprono altri. Per cui è estremamente

complesso riuscire a capire, ad afferrare, a capire come vedere un problema, o diciamo così,

parlando di un paziente, come vedere un dato clinico. Ogni situazione clinica la possiamo

vedere da tanti punti di vista, secondo delle teorie che conosciamo, tra l'altro, che conosciamo

noi, perché se uno ne conosce una o due, vede solo quello che vuole vedere lui. Le più cose

conosciamo, vediamo la complessità che c'è dietro a ogni affermazione che possiamo fare nel nostro

campo. E questo è l'aspetto che a me affascina, perlomeno, che questo libro mi ha molto rievocato,

rende bene l'idea della difficoltà a concettualizzare in modo semplice qualcosa.

Perché, per esempio, c'è il vecchio problema in psicoterapia secondo il quale abbiamo parole

diverse per descrivere gli stessi fenomeni, gli stessi fatti, direbbe Semerari, e quindi queste

parole diverse sono uguali o sono un po' anche diverse come concetti, illuminano qualcosa di un

po' diverso, perché di fatto usiamo parole diverse. Uno stesso paziente, il miglioramento di un

paziente, per esempio, si può spiegare in modi talmente diversi tra di loro, da tanti punti di

vista. Nel libro viene detto bene, per esempio, quando parla di Rogers, come lui spiega perché

un paziente cambia, quando parla della psicoanalisi, le cose che... ogni teoria vede le sue cose,

vede solo quelle volte, quindi restringe il campo, fa una produzione di riduttivismo che è dannoso

di fatto. Questo è un discorso filosofico, tra l'altro è una delle tante domande che vorrei

fare a Antonio, cioè come facciamo a vedere un dato, la realtà, perché a seconda della lente,

degli occhiali che usiamo, vediamo solo una cosa e non vediamo un altro. Questa è una cosa che mi

ha sempre affascinato. A parte questo, vorrei dibuttire alcune cose sul libro, prima di tutto

che vorrevo dire. Innanzitutto è un pregio del libro che è comune a tutti gli altri libri di

Antonio che ha scritto molto bene, cioè è scorrevole e si capisce quello che lui dice sempre.

Questa è una cosa che ho sempre apprezzato. Mi ricordo che quando lessi l'ultimo libro che

recensi, quello sulle teorie, forse l'avevo anche scritto nel riciclo, non mi ricordo,

l'ho detto a qualcuno. È quel tipo di libri che quando li inizio devo finirli,

cioè vado avanti, non li smetto. Invece quando leggo un libro quasi sempre lo smetto dopo un

po'. Non perché sia brutto, ma perché è così. Mi piace leggere alcune cose, passare ad altre,

invece di quello che mi cattura devo andare avanti. Questa è una cosa molto bella.

Il fatto che lui, non è affatto comune nel mondo cognitivista, secondo me, ma neanche ancora meno

in quello psicoanalitico, si interessa non di un filone, ma di tanti filoni della psicoterapia.

Questo è una delle cose principali. Questo libro qua, poi ho un'altra soluzione che volevo fare,

sembra un trattato sulla relazione terapeutica. In effetti parla della relazione, però in realtà

potrebbe essere anche un trattato di psicoterapia, non è solo sulla relazione,

perché dietro alla relazione c'è tutto. Cioè, la relazione che cos'è nella psicoterapia? Funziona

in che modo? Come la si concettualizza? Funziona perché serve, questo lo dice moltissimo nel

libro, serve la relazione a permettere degli interventi specifici, cioè a permettere la

psicoterapia? Oppure la relazione è essa stessa la psicoterapia in quanto funziona,

in quanto relazione, in quanto esperienza umana? Quindi paradossalmente da fattore,

a specifico diventa specifico. La relazione è un fattore specifico, secondo certe scuole,

perché è essa stessa la terapia. Permettere un'esperienza con lo terapeuta fa fare dei passi

avanti al paziente. C'è tutto l'approccio umanistico che sostiene questo, penso però anche

tutti, anche la psicoanalisi e anche altri approcci sono arrivati a sostenere questo. Questo non è

una dicotomia, è così o è cos'è? E' sempre così, la relazione è sempre mutativa,

sempre terapeutica, c'è sempre un aspetto anche suggestivo, cioè il placebo, questa è una cosa

che piace molto a me a dire, che la psicoterapia è placebo, nel senso che è la scomposizione

scientifica dell'effetto placebo per massimizzarne l'effetto. Il placebo c'è sempre nella

psicoterapia, è inevitabile come c'è nei farmaci, è parte della psicoterapia, solo che noi lo

sappiamo, cioè avvengono altre cose oltre a quelle che noi facciamo, che noi non conosciamo,

incomprensibili del tutto, però ci sono nella relazione che migliorano l'efficacia della

terapia. Quindi c'è sempre la terapia più il placebo, detto così genericamente. Per esempio

Freud diceva che il suo grande obiettivo era quello di eliminare l'aspetto placebo, l'aspetto

suggestivo, ma rendere tutto comprensibile all'interno della psicoanalisi e quello di

analizzare la suggestione. Lui era nemico della suggestione, voleva proprio afferrarla fino in

fondo. Secondo me non è possibile del tutto. Non vorrei parlare troppo, ma mi piacerebbe che

parlasse Antonio e che anche per l'utilità di che ci ascolta. Vorrei fare una domanda,

non so, puoi dire anche le tue riflessioni su quello che ho detto, ma aggiungo una domanda

che è molto provocatoria o ingenua, ma forse una domanda nella quale molti ascoltatori si

identificheranno, che è questa. Dopo tutte queste tue riflessioni molto interessanti,

su tutte queste tecniche, sulla terapeutica, sulla storica, secondo te, secondo la tua

esperienza, quali sono gli ingredienti che nella tua esperienza sono risultati più utili

della relazione nella psicoterapia? Quali sono le cose più importanti, le variabili più importanti

che servono di più in una psicoterapia, che fanno parte della relazione terapeutica?

Inoltre molti giovani vorrebbero saperla, anche se è una domanda indecente, non mi rendo conto.

Anzitutto lascia che ti ringrazio per questa presentazione, fammi dire due cose sulle cose

che hai detto, poi non mi dimentico la domanda indecente che hai fatto. Ti ringrazio per la

definizione di studioso, anche se io mi sono sempre considerato un clinico, che da clinico

ritiene che sia necessario per fare clinica avere una cultura clinica. Quindi io penso che chi fa il

nostro mestiere non debba conoscere, sarebbe come appunto chi fa il cardiologo e non conosca la

medicina, non debba conoscere il suo settore, la psicoterapia cognitiva, quella è la scuola a cui

aderito, ma debba avere una cultura psicoterapeutica. Questa è la cosa a cui credo il più e credo sia

un messaggio da trasmettere anche ai giovani rispetto a un periodo in cui c'è molto la moda

di tecniche molto specifiche e così via. Secondo me la psicoterapia si fa pensando e avendo una

generale cultura psicoterapeutica con cui uno cerca di orientarsi nel suo lavoro e così via. Di

questa cultura psicoterapeutica è chiaro che vi è un fattore comune in tutti che è il fatto che

tutto quanto si svolge in una psicoterapia avviena all'interno della relazione tra terapeuta e

paziente. Questa relazione, Paolo diceva, possiamo descriverla in tanti modi, possiamo spiegarci in

tanti modi i suoi effetti terapeutici, anche i suoi effetti atrogeni, perché non sempre è una

relazione terapeutica. Risulta terapeutica ma deve essere possibile comprendere i diversi

linguaggi. Non è necessario che siamo d'accordo, non è necessario che usiamo la stessa terminologia,

ma dobbiamo comprendere i diversi linguaggi. Comprendere i diversi linguaggi significa

fondamentalmente due cose, comprendere i fenomeni a cui si riferiscono, che ha visto quel collega,

qual è il fenomeno che il collega ha percepito che mi descrive con questo linguaggio, e comprendere

il contesto semantico in cui una certa definizione si colloca. Per esempio, il termine integrazione,

o lo stesso termine transfert. Comprendere lo significa muoversi tra questi due opposti,

il fenomeno empirico che è accaduto e che ritiene di aver percepito e che il collega

mi trasmette con un certo linguaggio, e che quel linguaggio poi si colloca entro una problematica,

entro alcune priorità scientifiche che il collega o lo studioso aveva in mente, entro alcune coordinate

concettuali che guidavano il suo lavoro, eccetera. Devo capire entrambe queste cose per poter

intendere di che cosa si sta parlando. E' quello che mi sono sforzato di fare,

ho cercato di capire quando ho studiato gli psicanalisti, qui devo contraccambiare il

ringraziamento invece perché molti dei psicanalisti io credo di averli capiti grazie alle spiegazioni

chiarissime che ne dà Paolo Migone, un autore che veramente scrive chiaro e rende chiari anche

testi molto complessi. Penso per esempio al concetto di identificazione proiettiva,

dove cito ampiamente Paolo nel libro che altrimenti non credo avrei capito.

Ecco, uno si deve porre il problema, qual è l'esempio che stavo dicendo? Per esempio prendiamo

il concetto di integrazione che troviamo in Kerberg e troviamo in quelli del terzo centro.

Per capirlo in Kerberg devo capire cosa ha visto Kerberg. Per esempio ha visto un paziente che in

certi momenti lo attaccava ferocemente, in altri momenti si scusava, dichiarava un grande

attaccamento a lui e sembrava dimentico o indifferente all'altro momento. Questo è il

fenomeno clinico. E poi devo capire perché dà tanta importanza a quel fenomeno, qual è il

sistema concettuale dove quel concetto clinico così importante si inserisce. E allora devo

cercare di capire il fatto che per Kerberg la prima organizzazione della psiche è scissa,

nel senso che si organizzano tutte le memorie di segno positivo e tutte le memorie di segno

negativo delle relazioni che poi si fondano, si integrano vicendevolmente e poi ci sono

situazioni avverse in cui questo processo non si compie. Devo fare questo lavoro,

questo è quello che ho cercato di fare. Ho cercato di capire in questo senso come si spiegano,

nelle diverse teorie, gli effetti terapeutici della cura. Per venire alla domanda di Paolo,

cioè perché la relazione terapeutica fa bene, in che senso è terapeutica, cosa aiuta. Le

spiegazioni sono diverse ma non sono mutualmente esclusive, questo mi sembra il punto. Quindi

sostanzialmente la mia risposta è un po' mente ecumenica. Questi fattori contribuiscono tutti

all'effetto terapeutico. La prima spiegazione è semplicemente che la relazione terapeutica è

quel tipo di influenza sociale per cui si riesce a collaborare insieme. La condizione vale per la

psicoterapia, per la medicina, per uno studio legale, per un'impresa ingegneristica. Se un

professionista e un cliente devono ottenere un risultato, ci deve essere un clima di fiducia,

di collaborazione reciproca e così via. Questo permette di dare il meglio di sé nel lavoro

comune. È chiaro che in questa spiegazione non è la relazione in sé che cura, ma è ciò che viene

fatto, il lavoro che viene fatto, l'uso delle eventuali tecniche e così via. Un'altra spiegazione

è anche questa, molto tradizionale, sostanzialmente quella di Floyd, che dice che la relazione

terapeutica è una cosa particolare e che la rende un laboratorio privilegiato per la presa di

coscienza. Se accadono certe dinamiche relazionali nella vita di tutti i giorni,

tra me e Paolo, magari io e Paolo litighiamo, non ci sbocciamo più una parola e la cosa finisce lì.

La relazione terapeutica ha delle regole per cui, proprio per regola, per principio, io e Paolo ci

siamo impegnati a riflettere su quello che accade nella nostra relazione e quindi questo crea un

contesto privilegiato, unico, che non avviene nella vita di tutti i giorni, che permette di

far esprimere alcune dinamiche relazionali che tutti noi abbiamo e ce ne rende coscienti.

La terza è quella che è un'esperienza diversa dalle altre e quindi c'è un'esperienza correttiva

che è un valore terapeutico in sé. Ci sono poi delle altre spiegazioni, fondamentalmente altre due,

che hanno varie espressioni, anche molto distanti tra di loro, ma che sono riconducibili a un'idea

fondamentale e cioè nella relazione terapeutica il paziente che non riesce a svolgere alcune

funzioni mentali importanti, per esempio non riesce a essere autoriflessivo, non riesce a

coordinare l'azione, utilizza la mente del terapeuta, utilizza la relazione proprio per

compensare, vicariare alcune funzioni deficitari. Questo per esempio è lo schema che aveva in mente

Coutt, a cui accenna Jeannet, il primo a formulare una teoria del genere. E poi c'è un altro modello

tipicamente di derivazione comportamentista dal social learning che è l'idea che nella relazione

terapeutica il paziente apprende socialmente dei modi di ragionare, per esempio un atteggiamento

riflessivo e accettante verso le emozioni che sono più sane. Queste sono le cinque

grandi spiegazioni, cosa che penso io che funzionino più o meno tutte e cinque in misura

diversa. Quello che poi c'è la suggezione, che è un fattore di cui poi ci siamo dimenticati,

abbiamo fatto finta che non c'è, che è un elemento sicuramente ineliminabile di ogni cura,

è presente in medicina e sicuramente è presente anche nella relazione terapeutica.

Non so se ti ho risposto Paolo.

Sì, ma mentre parlavi avevo mille domande, mille pensieri. Un era questo, un altro te lo faccio

dopo. Hai detto tutte funzionano. Ma è giusto dire così? Cioè tutte funzionano o tutte sono

la stessa cosa, ci sono aspetti dello stesso fenomeno che funzionano simultaneamente?

Sembra che tu le separi le teorie, no? A me sembra invece che quelle cose che accadono

in una teoria accadono anche nell'altra, solo che l'altra non le sottolinea.

Indubbiamente, queste accadono in tutte le relazioni terapeutiche. Non parlo delle teorie,

però hanno un peso diverso in contesti clinici diversi. Funzionano contemporaneamente,

immagino, però la distribuzione dell'importanza è diversa in contesti clinici diversi.

Prendiamo un esempio, un paziente non mentalizzante, un paziente che ha una

difficoltà metacognitiva, non riesce a mentalizzare, non riesce a pensare il pensiero

e così via. È chiaro che la relazione terapeutica svolge un ruolo vicariante molto importante,

che ha proprio bisogno di una stampella per appoggiarsi alla mente del terapeuta e pensare

alla sua mente. Un paziente con un alto livello di funzionamento, questo è meno importante,

sarà più importante l'alleanza terapeutica che si crei un contesto di collaborazione.

Da questo punto di vista, credo che il peso dell'importanza dei vari fattori cambia a

seconda della tipologia del paziente e della sua psicomatologia.

Infatti, era questa l'altra domanda che volevo farti, che tu l'hai già detto comunque. Io trovo

certi discorsi sulla psicoterapia in generale frustranti perché non si possono risolvere i

problemi, non c'è una risposta chiara. L'unico modo di imporre il problema mi sembra sia questo,

che è il paziente, a seconda dei problemi che ha, che decide quale teoria noi possiamo usare.

Per esempio, con molti pazienti, secondo me la maggioranza oggi, non so ai tempi di Freud,

quando invece lui la pensava molto diversamente, o si sbagliava o i pazienti erano diversi.

Secondo me si sbagliava. La maggior parte dei pazienti hanno bisogno soprattutto di un rapporto

di un certo tipo, cioè di una relazione terapeutica alla Rogers, o alla Fonagy,

o alla Cout, per fare grandi passi avanti. Basta quello. Quindi non ha senso parlare di

psicoterapia o della teoria della psicoterapia, quanto di mille tecniche che tu utilizzi alla

luce di una teoria generale a seconda dei bisogni del singolo paziente. Con certi pazienti, per

esempio, che non hanno affatto bisogno di tutti questi discorsi sulla relazione terapeutica. Non

gliene frega niente. Loro vogliono, tra virgolette, le tecniche, cioè vogliono che tu gli parli di

una certa cosa e loro migliorano moltissimo se toccano certi argomenti e si risolvono dei

problemi a livello proprio di dialogo, o cognitivo o cognitivista o psicanalista,

ma di lavoro proprio introspettivo. Per esempio, uno dice di un ordinemento psicoanalitico e dice

che con questo paziente sto facendo la psicanalisi, perché vedo che lavoro su delle narrative,

su dei contenuti e il paziente migliora moltissimo grazie a questo. La relazione

terapeutica è totalmente scontata. Non so se sei d'accordo su questo.

Sono d'accordo, è un po' come la salute, affinché va bene non te ne accorgi quasi,

sta sullo sfondo. Il problema è che ci sono una serie di pazienti,

che sono pazienti fondamentalmente con disturbi di personalità, semplificando,

dove proprio la psicopatologia si manifesta nella relazione. E' chiaro che la relazione

viene in primo piano. Tant'è, prendiamo un esempio proprio per venire incontro a quello che dici tu,

la tecnica del contratto terapeutico iniziale, tecnica condivisa da approcci sia di matrice

psicodinamica che di matrice cognitivista. Chi la fa? Chi cura i pazienti gravi? La tecnica viene

applicata, cioè la tecnica consiste semplicemente poi nell'establire all'inizio, chiarire quali sono

i compiti del terapeuta, del paziente, le cose che vanno fatte e così via. Chi la fa? I terapeuti

che curano quei pazienti che non rispettano il contratto, che si sa che non rispettano il

contratto. Un paziente che mantiene i limiti spontaneamente, che lo comprende spontaneamente,

non c'è alcun bisogno di farlo. E' la tipologia del paziente che determina, direi, la psicopatologia

del paziente. A questo proposito vorrei fare una riflessione che forse c'entra con la questione

della relazione terapeutica. Tu dici che la tecnica della Linan sottolinea il contratto,

la tecnica di Kerman sottolinea il contratto. Con i pazienti gravi siamo costretti a fare certe

cose e col paziente nevrotico, sano, ad alto funzionamento non parliamo mai del contratto,

diciamo solo le cose minimali, tipo l'orario, il pagamento, perché lui lo sa rispettare. Però,

e l'altro non lo sa rispettare, quindi non può fare la terapia se non ha un contratto che lo

costringe, cioè che lo fa venire in terapia e rispetta le regole basilari per cui può fare un

certo lavoro. Però qua io ho sempre trovato una sorta di contraddizione. Per esempio,

prendiamo Kerberg o gli psicoanalisti, loro dicono che il contratto iniziale lo devi stabilire anche

con varie sedute, il paziente a volte si arrabbia perché non ci vuole stare, bla bla, quando l'hai

instaurato inizia la terapia. Io non lo penso così. L'instaurazione del contratto che dura alcune

sedute è una terapia, è un trucco di Kerberg, è un intervento strategico nel senso proprio della

scuola strategica tradizionale dei vecchi tempi, cioè una specie di manipolazione, un inganno per

cui tu incastri una persona in un contratto per cui lui se rispetta il contratto è già guarito.

In questo senso, siccome il borderline non è capace di relazione oggettuale, non sta al

contratto, non ci sta alla regola. Se lui rispetta il contratto vuol dire che è già capace di

relazione oggettuale, cioè ti rispetta, ti vede, rispetta delle regole eccetera. Quindi ha già

fatto un passo avanti enorme. Il punto è che Kerberg questo non lo teorizza, lui dice che il

contratto ci vuole per fare la terapia dopo che lavora sulle relazioni oggettuali. Invece secondo

me altri approcci, quelli per esempio strategici, l'hanno capito molto bene, cioè che facendo il

contratto tu hai già fatto una terapia. Il punto è come fai a instaurarlo in un paziente che si

ribelle e non vuole accettarlo. È questo che va teorizzato.

Sono d'accordo per metà. Sono d'accordo che chiaramente tutta la fase di costruzione del

contratto, che in alcune è molto strutturata come in Kerberg, è già un processo terapeutico. Sono

meno severo sull'interpretazione di Kerberg perché il contratto non serve in realtà per

determinare che poi il paziente lo rispetti, altrimenti non c'è bisogno del contratto. Il

contratto serve per permettere che in caso il paziente metta in atto qualcosa che minaccia

l'efficacia della terapia, di tenere questo come focus principale dell'intervento. Ti serve

perché avendolo definito prima hai lo spazio per dire ok, questo adesso è il problema,

questo rende la sua terapia inefficace. Come fai a far accettare a un paziente il fatto di

rispettarlo? Per esempio la tecnica di Gerber standard, che se il paziente ha l'impulso di

tentare il suicidio di tagliarsi, non può farlo ma deve prima telefonare a una tale persona,

pronto soccorso eccetera. Che è indispensabile far così per iniziare una terapia. Come fai

a ottenerlo? Non lo ottieni, semplicemente quando il paziente lo viola, questo comportamento

minaccia la terapia perché la trasforma in qualcosa che non può essere, cioè un pronto

soccorso. Quindi dobbiamo fare ogni sforzo per contenerlo. Il paziente viene invitato a accettare

le misure aggiuntive di protezione che permettano che la terapia continui ad essere efficace,

questa è la struttura del ragionamento. Quindi tu dici banalmente che se il paziente non ce la

fa Gerber non lo prende in terapia? No, guarda, noi usiamo il contratto,

è molto semplice, io non mi aspetto che non venga violato, semplicemente l'averlo fatto,

quando viene violato mi permette di dire ok, allora dobbiamo prendere delle misure

aggiuntive mica per nulla perché se no la sua terapia non funziona. Allora inizia una

discussione su quali possono essere, può essere da un ricovero temporaneo a misure di protezione

del contesto sociale, all'introduzione di una terapia farmacologica, cioè si apre una discussione

con il paziente sulla base della violazione del contratto, ma se non l'hai avvisato prima

che quel comportamento necessario ti trovi disarmato. Tra l'altro è molto educativo,

è terapeutico ed educativo perché è basato sulla coerenza, sul fatto che tu prometti una cosa e la

mantieni. Infatti questo lo sottolineava spesso Clarkin, diceva che questo aspetto è educativo,

che il paziente impara, forse per la prima volta in vita sua, che ha un rapporto con una persona

che rispetta le promesse fatte, che dice se fare così mi comporterò in questo modo. Il

terapeuta infatti non deve mai sbagliarsi, non rispettare le cose che ha detto, altrimenti va

tutto a rotoli. Un aspetto educativo è il suo stesso secondo me.

Certo, questo è un aspetto senza dubbio presente. Una componente tra l'altro presente in tutte le

psicoterapie di questo tipo di paziente è un elemento educativo, informativo.

Infatti chi è che lo diceva in modo provocatorio, che l'analisi funziona anche perché con la

stabilità degli orari educhiamo il paziente a rispettare delle regole. Lo diceva un collega

molto provocatorio, come tu forse lo conoscevi. Tutto lì è segreto. Se poi soprattutto è alta

frequenza settimanale, il paziente impara a comportarsi bene, impara l'educazione,

impara a seguire le regole. C'è questo aspetto qua. Infatti è molto complessa la cosa perché è

una relazione umana che si instaura con una persona e quindi dentro alla relazione fai un

sacco di cose. Insegni a comportarti, rifletti su quello che succede, le fornisci un'esperienza

correttiva e fai anche delle cose che sono anche le tecniche specifiche.

Sì, credo che possiamo considerare oggi tutto questo in parte anche controllabile

empiricamente. Se esiste un passaggio che la psicoterapia è riuscita a fare da momento

speculativo di alto livello all'analisi empirica. Te la faccio io una domanda,

visto che dici che sei apprezzato con quella parte più epistemologica a proposito del tema

psicoterapia e scienza. Io ho letto proprio oggi pomeriggio i due capitoli. Ho letto tutto il

primo e non ho finito il secondo e mancano alcune pagine per il secondo. Il secondo capitolo è molto

colpito perché contiene un sacco di informazioni sul modello contestuale,

se è un discorso di Wancold eccetera. Volevo anche farti delle domande su questo,

quando all'inizio del primo capitolo della parte terza fai il discorso che tu hai fatto,

anche mi sembra che in un altro libro, quando una volta dicevi che la terapia cognitiva era

nata anche come risposta alla crisi della metapsicologia in America, ti ricordi? C'era

la teoria generale della metapsicologia, crollata negli anni 60-70, una prima dei primi che la

criticò, anzi forse il primo, no non il primo, comunque fin dagli anni 60,

schiessi articoli duri contro il crollo della metapsicologia. Poi fai un discorso al punto

due e dici che non ho capito bene per la verità, devo dirti, volevo rifletterci meglio sul fatto

che mi sembra che tu dica che c'è una teoria generale, ok dovremmo averla, poi c'è la teoria

clinica che è comunque molto lontana e non è possibile, mi sembra che tu dica a un certo punto,

fino in fondo in modo tra virgolette scientifico un aggancio, una correlazione chiara.

Esattamente, è possibile solo in scienze formalizzate, logico-matematiche,

cioè che dato un assunto di teoria generale tu derivi un particolare, supponiamo un assunto di

teoria generale che è condiviso oggi da tutte le psicoterapie, l'importanza delle prime relazioni

di attaccamento. Siamo tutti d'accordo che le prime relazioni di attaccamento, tra le altre cose,

offrono i primi schemi fondamentali di sé e dell'altro. Questo è compatibile con un numero

largissimo di teorie diverse, per esempio su come è fatto il dissolvo a bordo o su come debba essere

l'azione terapeutica. Non derivi nessuna teoria specifica, influenza le teorie specifiche.

Il discorso è complicato, rischiamo di dire delle cose un po' generiche, approssimative,

ti dico solo una mia sensazione. Mi piace pensare che non è così, cioè che c'è la possibilità di

collegare a una teoria generale una teoria clinica specifica. Il discorso non è uno stacco,

una cosa qualitativa, ma quantitativa. Cioè che tu puoi fare interventi specifici che sono comunque

collegati a principi generali. Sono coerenti con il principio generale, ma tu puoi avere

teorie diverse, non è detto che ne derivi una sola. Tu puoi fare una serie di interventi che

sono coerenti con questo principio generale. Un amico mio ti diceva che con i pazienti

dissociati è pericolosissimo attivare l'attaccamento di cure protettive perché dissociano.

Molti che sono convinti, come lo erano gli otti, della teoria di Bowlby, come lo sono anche io

peraltro, sostengono esattamente il contrario, che è assolutamente importante che si attivi

l'attaccamento. Sono tutte e due coerenti con la teoria generale. Devi avere una coerenza,

ma non una specifica teoria, perché una parte deriva dal dato clinico. Questa è la ragione per

cui per esempio la teoria del transfert si è salvata dalla crisi della psicopatologia,

malgrado che è una teoria clinica, che aveva il versante clinico.

Non so se capite bene, secondo me sono entrambe le cose vere. Cioè su un paziente attivo e

la sistema dell'attaccamento a un certo tipo di paziente, ha ragione Gianni Liotti,

aveva ragione nel dire che il paziente prima scappa dalla terapia, lo perdi. Mi è successo

in vari casi, pazienti che dopo un po' quando incominciano a star bene devono dire che interrompono

la terapia e non riesce a convincerli. E' chiarissimo, però è anche vero che è importante

attivarlo, solo cosa fai. Quindi c'è coerenza, lo devi attivare chiaramente in un certo modo,

per aiutarli a restare in terapia. Non c'è una contraddizione, secondo me.

No, non c'è. Sto dicendo che tra un assunto di teoria generale e un assunto di teoria clinica

ci devono essere rapporti di coerenza, questo è chiaro. La teoria è un macello, ma questi rapporti

di coerenza non sono di necessità logica, sono di compatibilità razionale, quindi sono rapporti

classe. Questo è uno dei motivi per cui possiamo anche trovarci d'accordo tra scuole diverse,

perché non sono sistemi logicamente. Il discorso rischia di andare da ragione

a popere quando diceva che può dimostrare una cosa anche l'altra.

No, perché qui stiamo parlando... poi c'è l'altro elemento che è il dato empirico,

su cui poi testimoni la bontà o meno della teoria. La struttura di una teoria psicoterapeutica non è

mai rigida. Sono arrivate delle domande e ci chiedono di rispondere. Buonasera,

volevo chiedere se nella relazione terapeutica possono esistere dei punti di stallo e come si

possono gestire da parte del terapeuta e da parte del paziente. Potrei proporre una riflessione

sugli effetti iatrogeni della terapia quando causati dalla posizione manipolatoria e o

invidiosa della terapeuta. Non è facile rispondere in poche parole, comunque provaci.

Possono esistere dei punti di stallo? Certo che sì. E questi punti di stallo possono

essere anche svolgersi in modo dannoso. Come possono gestirsi dipende dal tipo di stallo.

Ovviamente ci sono difficoltà dell'alleanza che possono riguardare difficoltà al paziente di

lavorare sui compiti e sui obiettivi della terapia, per cui per esempio la necessità del contratto.

Ma non coinvolgono il legame interpersonale. Io aggiungerei che vanno accettati, vanno

riconosciuti senza problemi discusi col paziente. Esatto. Poi ci sono situazioni di stallo che

possono coinvolgere il legame interpersonale. Sono descritti in tanti modi. Per alcuni sono

anche un'occasione di comprensione di certe dinamiche. In altri casi, però,

un concetto che descrive molto bene gli effetti iatrogeni è quello di ciclo interpersonale.

Ciclo interpersonale è un processo in cui aspettative negative sulla relazione fanno

sì che noi mettiamo in atto dei comportamenti preventivi che suscitano nell'altro delle

reazioni tali da confermare le aspettative negative di partenza. Questo può accadere

anche nella relazione terapeutica. Tra cui c'è ovviamente dinamiche di potere,

di invidia, di competizione e così via. Questo con moltissimi pazienti accade.

Certo. Ci hanno detto che durava 50 minuti e dovremmo penso finire.

Ecco, abbiamo rispettato i tempi, certamente. Ti ringrazio moltissimo, Paolo.

No, io ringrazio molto te per quest'occasione, davvero.

Allora, speriamo di vedere. Questo è un ringraziamento a chi ci ha invitato.

Sì, dovremmo un'altra occasione come per l'ultima volta che ci vediamo,

ti ricordi in Sicilia?

Sì, veramente. Ci vediamo. Arrivederci prima.

Arrivederci.