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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 23

Parte 23

Le giornate cominciavano, lentamente, ad allungarsi: la corsa dell'anno si era invertita; la neve aveva lasciato il posto alle piogge e alle giornate serene. La primavera non era più molto lontana e io pensavo che si sarebbe dovuto provvedere in tempo, prima che il sole riportasse le zanzare, a fare tutto quello che era possibile per combattere la malaria. Anche con i mezzi limitati di cui si poteva disporre in paese, si sarebbe potuto ottenere parecchio; ci si sarebbe dovuti rivolgere alla Croce Rossa per avere il verde di Parigi per disinfettare quelle poche acque ferme nelle vicinanze dell'abitato; fare qualche lavoro per incanalare la fontana vecchia; far provvista di chinino, di atebrina e plasmochina, e di cioccolatini per i bambini, per non trovarci sprovveduti con la bella stagione, e così via. Erano tutte cose semplici, e che, secondo la legge, sarebbero state obbligatorie. Cominciai a parlarne e a riparlarne al podestà: ma mi accorsi ben presto che don Luigino approvava i miei consigli, ma si guardava bene dal far nulla. Pensai allora, per costringerlo a una responsabilità, di scrivergli tutto quello che si sarebbe dovuto fare; preparai una specie di memoriale di una ventina di pagine, con i particolari più precisi di tutti i lavori da eseguire, sia per quello che toccava al comune, sia per quello che si doveva chiedere a Roma; e lo consegnai a Magalone. Il podestà lesse il memoriale, se ne disse felice, mi lodò, e con un bel sorriso mi annunciò che, poiché doveva andare il giorno seguente a Matera, lo avrebbe mostrato al prefetto, che avrebbe potuto aiutarci. Don Luigino andò a Matera, e al ritorno corse a dirmi che Sua Eccellenza era stata entusiasta del mio lavoro, che tutto quello che chiedevo per la lotta antimalarica si sarebbe provveduto; e che, di riflesso, ne sarebbe venuto anche un bene per me e per gli altri confinati. Don Luigino era raggiante, e fiero di avermi con sé. Tutto pareva dunque per il meglio.

Tre o quattro giorni dopo il ritorno del podestà, arrivò un telegramma della questura di Matera, nel quale mi si vietava di occuparmi di medicina e di esercitare in Gagliano; pena la prigione. Non ho mai saputo se questo improvviso divieto fosse il solo risultato pratico del mio memoriale e del mio eccesso di zelo, come pensavano molti contadini: - Dobbiamo tenercela la malaria: se tu ce la vuoi togliere, ti manderanno via -; o se invece, come pensavano altri, derivasse dalle manovre dei medici del paese; o se forse non fosse generato soltanto dal timore della questura che io diventassi troppo popolare: poiché la mia fama di medico miracoloso andava crescendo; e spesso venivano dei malati anche da paesi lontani, per consultarmi. Il telegramma mi fu portato dai carabinieri, la sera.

L'indomani mattina, all'alba, quando nessuno in paese sapeva ancora del divieto, un uomo a cavallo batté alla mia porta. - Vieni subito, dottore, - mi disse. - Mio fratello sta male. Siamo giù, al Pantano, a tre ore di strada di qui. Ho portato il cavallo-. Il Pantano è una regione, verso 1'Agri, lontana e isolata: c'è una masseria, la sola di tutte queste terre, dove dei contadini vivono sul campo, lontano dal paese. Risposi all'uomo che mi era impossibile venire, perché non potevo uscire dall'abitato, e perché non potevo più neppure fare il medico. Lo consigliai di rivolgersi al dottor Milillo o al dottor Gibilisco. - A quei medicaciucci! Meglio nulla -. Scosse la testa e partì.

Scendeva un nevischio gelido, misto a pioggia. Rimasi in casa tutta la mattina, preparando una lettera per la questura, dove protestavo per il divieto, chiedevo che venisse annullato, e che, in attesa di nuove disposizioni, mi si considerasse almeno autorizzato a non abbandonare in tronco i malati attualmente in cura, e mi si permettesse di continuare a occuparmi, nell'interesse della popolazione, delle misure da prendersi per la lotta antimalarica. Questa lettera non ebbe mai risposta.

Stavo alzandomi da tavola, verso le due del pomeriggio, quando l'uomo del cavallo tornò. Era stato fino al Pantano; suo fratello andava peggio, stava veramente male, bisognava a tutti i costi che io cercassi di salvarlo. Gli dissi di venire con me, e uscimmo insieme per chiedere al podestà una autorizzazione speciale. Don Luigino non era in casa: era andato da sua sorella a prendere il caffè: lo trovammo là, sdraiato su una poltrona. Gli esposi il caso: - È impossibile. Gli ordini di Matera sono tassativi. Non posso prendermi questa responsabilità. Resti con noi, dottore, prenda una tazza di caffè -. Il contadino, un uomo intelligente e deciso, non si arrese, e insistette. Donna Caterina, la mia protettrice, si schierò dalla nostra parte. Il divieto di Matera mandava all'aria tutti i suoi progetti, dava mano libera al suo nemico Gibilisco; ed essa non cessava di deplorarlo e di esclamare: - Queste sono le lettere anonime: ne hanno scritte chissà quante! Gibilisco è stato a Matera la settimana scorsa. Laggiù non sanno che lei è una benedizione per il paese: ma lasci fare a me: abbiamo anche noi dell'influenza in prefettura: il divieto non durerà. Che peccato! - e cercava di consolarmi col caffè e coi dolci. Ma il problema era più urgente, e, per quanto donna Caterina fosse nostra alleata, don Luigino non ci sentiva. - Non posso, ho troppi nemici. Se la cosa si risapesse perderei il posto. Devo obbedire agli ordini della questura -. Don Andrea, il vecchio maestro, approvava, tra un pisolino e un furto di pasticcini: la discussione si prolungava, senza concludere. Al podestà, che amava gli atteggiamenti popolarizzanti, dispiaceva di rifiutare in presenza del contadino, ma la paura la vinceva su tutto. - E poi ci sono gli altri medici. Provi a chiamare quelli. - Non sono buoni a nulla, - diceva il contadino. - Ha ragione, - gridava donna Caterina, - lo zio è troppo vecchio; e quell'altro, non parliamone. E poi, con questo tempo, e senza strade, non ci vorranno andare -. Il contadino si alzò. - Vado a cercarli, - disse, e partì. Rimase fuori quasi due ore, e intanto il consiglio di famiglia continuò, senza risultato. Per quanto appoggiato da donna Caterina, non mi riusciva di vincere la paura del podestà: il caso era per lui troppo nuovo, e pesante di responsabilità. Poi, il contadino tornò, con due fogli di carta in mano, e sul viso la soddisfazione di un successo guadagnato con molta lotta. - I due medici non possono venire, sono malati. Mi sono fatto fare da tutti e due una dichiarazione scritta. Ora deve lasciar venire don Carlo. Guardi pure -. E mise i due fogli sotto gli occhi di don Luigino. Il contadino era riuscito, a costo di chissà quali fatiche oratorie, e forse di minacce, a far scrivere a entrambi che, dato il tempo cattivo, e la loro età e salute, non potevano materialmente recarsi fino al Pantano: cosa che, del resto, per il vecchio dottor Milillo, era vera. Ora gli pareva che nulla più potesse impedirmi. Ma il podestà non era convinto, e continuava a discutere. Mandò a chiamare il segretario comunale, cognato della vedova, che era un brav'uomo e pensava che si dovesse lasciarmi andare. Arrivò il dottor Milillo, di malumore per la prova di sfiducia, ma non contrario alla mia andata. - Soltanto, si faccia pagare prima. Correre fino al Pantano. Nemmeno per duecento lire -; ma il tempo passava, arrivavano altre tazzine di caffè e altre focaccine e si era allo stesso punto. Pensai allora di suggerire che si chiamasse il brigadiere; forse, se egli avesse voluto prendersi personalmente la responsabilità del mio viaggio, il podestà avrebbe, senza troppo compromettersi, potuto consentire. E così avvenne. Il brigadiere, sentito il caso, disse subito che io partissi, che si fidava di me, e non mi avrebbe fatto scortare; che la vita di un uomo doveva passare innanzi a ogni altra considerazione. Fu un momento di sollievo generale: anche don Luigino si disse felice della decisione, e per manifestarmi la sua buona volontà mi mandò a cercare un mantello e degli stivaloni che, secondo lui, mi sarebbero stati necessari in quelle forre. Intanto era calata la sera. Dovettero autorizzarmi a dormire fuori, alla masseria, e a non tornare che l'indomani. E finalmente, tra i saluti e le raccomandazioni di tutti, potei mettermi in cammino col contadino, e il cavallo, e Barone.

Il tempo si era rasserenato. Il nevischio e la pioggia erano cessati. Un vento gagliardo andava spazzando il cielo, e la luna appariva rotonda e chiara fra le nubi rotte e correnti. Appena fuori del selciato ripido del paese, verso il Timbone della Madonna degli Angeli, il mio compagno, che aveva portato sinora il cavallo per la briglia, si fermò perché io montassi in sella. Da molti anni non salivo a cavallo, e di notte, per quei burroni, preferivo le mie gambe. Dissi che usasse egli la bestia, che io sarei andato a piedi e di buon passo. Mi guardò stupito, come se il mondo fosse sottosopra. Lui, un cafone, a cavallo, e io, un signore, a piedi. Non sia mai! Faticai a persuaderlo: infine si indusse a malincuore a seguire il mio consiglio. Cominciò allora una vera corsa verso il Pantano. Io scendevo a grandi passi per il sentiero precipitoso, il cavallo mi seguiva dappresso, e sentivo dietro a me il suo caldo respiro, e lo schiocco degli zoccoli nel fango. Andavo come inseguito, per quei luoghi ignoti, animato dall'aria notturna, dal silenzio, dal moto, coll'animo pieno di leggerezza. La luna riempiva il cielo e pareva si versasse sulla terra. Su una terra remota come la luna, bianca in quella luce silenziosa, senza una pianta né un filo d'erba, tormentata dalle acque di sempre, scavata, rigata, bucata. Le argille precipitavano verso 1'Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall'ombra, e noi cercavamo, senza parlare, la nostra via in quel labirinto, lavorato dai secoli e dai terremoti. Su quel paesaggio spettrale mi pareva di volare, senza peso, come un uccello.

Dopo piú di due ore di quella corsa, salì verso di noi, nel silenzio, l'abbaiare lungo di un cane. Uscimmo dalle argille, e ci trovammo su un prato in pendio, e sul fondo ci apparve, tra terreni ondulati, il biancore della masseria. Nella casa, lontana da ogni paese, il mio compagno e il fratello malato abitavano soli con le loro due mogli e i bambini. Ma sull'uscio ci aspettavano tre cacciatori di Pisticci, che erano arrivati il giorno avanti per cacciare le volpi verso il fiume, e s'erano fermati per assistere il loro amico. Anche le due donne erano di Pisticci, e sorelle alte, con grandi occhi neri e visi nobili, bellissime nel costume del loro paese, con la gonna lunga a balze bianche e nere, e il capo avvolto da veli e da nastri bianchi e neri, che le facevano assomigliare a strane farfalle. Mi avevano preparato i cibi migliori, il latte e il formaggio fresco, e me li offrirono appena arrivato, con quella non servile ospitalità antica, che mette gli uomini alla pari. Mi avevano aspettato tutto il giorno, come un salvatore: ma mi accorsi subito che non c'era più nulla da fare. Era una peritonite con perforazione, il malato era ormai in agonia, e neppure un'operazione, se anche io avessi saputo e potuto farla, l'avrebbe più salvato. Non restava che calmare i suoi dolori con qualche iniezione di morfina e aspettare.

La casa era fatta di due camere, che comunicavano per una larga apertura. Nella seconda stava il malato, col fratello e le donne che lo vegliavano. Nella prima stanza il fuoco era acceso in un grande camino; attorno al fuoco sedevano i tre cacciatori. Appoggiato all'angolo opposto, mi era stato preparato un letto, altissimo e soffice. Io andavo ogni tanto dal malato, e poi rimanevo a conversare a bassa voce coi cacciatori accanto al fuoco. Quando fummo nel mezzo della notte, mi arrampicai sul mio letto per riposare, senza spogliarmi. Ma non presi sonno.

Restavo sdraiato lassù, come su un palco aereo. Appesi al muro, tutt'intorno al letto, erano i corpi delle volpi uccise di fresco. Sentivo il loro odore selvatico, vedevo i loro musi arguti all'ondeggiare rossastro delle fiamme, e muovendo appena la mano, toccavo il loro pelame che sapeva di grotta e di bosco. Dalla porta mi giungeva il lamento continuo del moribondo: - Gesù aiutami, dottore aiutami, Gesù aiutami, dottore aiutami, - come una litania di angoscia ininterrotta, e il sussurro delle donne in preghiera. Il fuoco del camino oscillava, guardavo le lunghe ombre muoversi come mosse da un vento, e le tre figure nere dei cacciatori, coi cappelli in capo, immobili davanti al focolare. La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l'umiliazione della mia impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell'albero: tendevo l'orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d'un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.

Verso l'alba il malato si avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro si cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta estrema, e cessò. Non aveva ancor finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d'improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie, e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte. Ogni tanto si affacciavano alla finestra, gridando in quell'unico tono, come ad annunciare la morte alla campagna e al mondo; poi, tornavano nella stanza e riprendevano il ballo e l'ululato, che sarebbe continuato senza riposo per quarantott'ore, fino all'interramento. Era una nota lunga, identica, monotona, straziante. Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere. Per non scoppiare a piangere mi congedai in fretta ed uscii, con Barone, alla luce del primo mattino.

La giornata era serena: i prati e le argille spettrali della sera mi si stendevano innanzi, nudi e solitari nell'aria ancora grigia. Ero libero in quelle distese silenziose: sentivo ancora in me la felicità della notte. Dovevo pure rientrare in paese, ma intanto vagavo per quei campi, roteando allegro il bastone, e fischiando al mio cane, che era eccitato forse da qualche invisibile selvaggina. Decisi di allungare un poco la strada per passare a Gaglianello, la frazione che finora non avevo mai potuto visitare.

È un grosso gruppo di case, su un poggio brullo, non molto alto sul fiume malarico. Ci vivono quattrocento persone, senza strada, né medici, né levatrice, né carabinieri, né funzionari di nessun genere: ma anche laggiù arriva, ogni tanto, l'Ufficiale Esattoriale col suo berretto con le iniziali rosse: U. E. Vidi, con stupore, che ero aspettato. Si sapeva che ero stato al Pantano, si sperava che passassi di là al ritorno. I contadini e le donne erano nella strada, per farmi buona accoglienza: i più strani malati si erano fatti portare sugli usci, perché io li vedessi. Pareva una corte dei miracoli. Nessun dottore era passato di lì, da chissà quanti anni: vecchie malattie, non curate se non con incantesimi, si erano accumulate in quei corpi, crescendo bizzarramente, come funghi su un legno marcio. Passai quasi tutta la mattina girando per quei tuguri, tra quei malarici scarniti, quelle fistole annose, quelle piaghe incancrenite, distribuendo almeno consigli, poiché non potevo scrivere ricette, e bevendo il vino dell'ospitalità. Mi volevano trattenere tutto il giorno, ma dovevo rientrare mi accompagnarono un tratto, pregandomi di ritornare. - Chissà; se potrò, verrò, - dissi loro: ma non ci sono tornato mai più. Lasciai i miei nuovi amici di Gaglianello sul sentiero, e cominciai a risalire, tra i burroni, verso casa.

Il sole era alto e brillante, l'aria tiepida; il terreno tutto a gobbe e monticciuoli, tra cui la via serpeggiava in continui giri e salite e discese brevi, impediva allo sguardo di spaziare lontano. A una svolta mi apparve il brigadiere, che, con un carabiniere, mi veniva incontro, e con loro continuai la strada. Sui cespugli di ginestra saltellavano gli uccelli, dei grossi merli neri, che si levavano in volo al nostro passaggio. - Vuol tirare, dottore? - mi disse il brigadiere, e mi passò il suo moschetto. Del merlo che colpii non rimasero che le penne che scesero lente per l'aria; il corpo doveva essere andato in pezzi, a quel colpo a palla, così sproporzionato, e non ci fermammo a cercarlo. Appena arrivato a Gagliano, mi accorsi, dal viso dei contadini, che qualcosa stava fermentando in paese. Durante la mia assenza, tutti avevano saputo del divieto di esercire, e del tempo perduto, il giorno prima, per poter andare al Pantano. La notizia della morte del contadino era già arrivata, come per non so quale misteriosa telegrafia. Tutti, in paese, conoscevano il morto, e l'amavano. Era il primo e solo morto, in tanti mesi, tra coloro che avevo curati. Tutti pensavano che, se io avessi potuto andar subito, lo avrei certamente salvato: e che la sua fine era dovuta soltanto al ritardo, e alle esitazioni del podestà. Quando io dicevo che probabilmente, anche arrivando qualche ora prima, senza mezzi, senza pratica chirurgica, con scarse possibilità di trasportarlo in tempo non fosse che a Sant'Arcangelo, non avrei potuto far molto, scuotevano la testa increduli: io ero, per loro, un guaritore miracoloso; e nulla mi sarebbe stato impossibile, se fossi giunto in tempo. L'episodio era per loro soltanto una conferma tragica della malvagità che aveva ispirato il divieto che mi avrebbe, d'ora innanzi, impedito di soccorrerli. I contadini avevano dei visi che non avevo ancora mai visto loro: una torva decisione, una disperazione risoluta faceva più neri i loro occhi. Uscivano di casa armati, con i fucili da caccia, e le scuri. - Noi siamo dei cani, - mi dicevano. - Quelli di Roma vogliono che moriamo come cani. Avevamo un cristiano bono, per noi: quelli di Roma ce lo vogliono togliere. Bruceremo il municipio, e ammazzeremo il podestà.

L'aria della rivolta soffiava sul paese. Un profondo senso di giustizia era stato toccato: e quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé l'anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si danno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.

Se avessi voluto, quel giorno, avrei potuto trovarmi (e per un momento l'idea mi sorrise, ma, nel '36, non era ancora giunto il tempo) a capo di qualche centinaio di briganti, e tenere il paese o darmi alla campagna. Invece mi sforzai di calmarli; e non ci riuscii che con molta fatica. I fucili e le scuri furono riportati nelle case: ma i visi non si spianarono. Quelli di Roma, lo Stato, li aveva colpiti troppo a fondo, aveva fatto morire uno di loro; i contadini avevano sentito col peso della morte la mano lontana di Roma, e non volevano essere schiacciati. Il loro primo impulso era stato la vendetta immediata, sui simboli e sugli emissari di Roma. Se io li dissuadevo dalla vendetta, che altro potevano fare? Ahimè, come sempre, nulla. Niente. Ma a questo eterno niente, questa volta, non si rassegnavano. Il giorno seguente, sbollita in parte quell'ira e quel desiderio di sangue, i contadini vennero, a gruppi, da me. Si erano trattenuti dallo sterminio: quei momenti di liberazione nell'odio vendicatore, una volta passati senza sfogo, non possono prolungarsi. Ma ora volevano almeno ottenere che io continuassi legittimamente a essere il loro medico, e avevano deciso di fare una petizione, firmata da tutti, a questo scopo. La loro avversità per lo Stato, estraneo e nemico, si accompagna (e la cosa potrà parere strana, e non lo è) a un senso naturale del diritto, a una spontanea intuizione di quello che, per loro, dovrebbe essere veramente lo Stato: una volontà comune, che diventa legge. La parola «legittimo» qui è una delle piú usate, ma non nel senso di cosa sanzionata e codificata, ma in quello di vero, di autentico. Un uomo è legittimo se agisce bene; un vino è legittimo se non è fatturato. Una petizione firmata da tutti pareva ad essi davvero legittima, e perciò tale da dover avere anche un potere reale. Avevano ragione: ma dovetti spiegar loro quello che, del resto, sapevano meglio di me: che essi avevano a che fare con una forza del tutto illegittima, che non si poteva combattere con le sue stesse armi; che, se per la violenza essi erano troppo deboli, lo erano ancora di più per un diritto disarmato; che il solo risultato della petizione sarebbe stato di farmi immediatamente trasferire in un altro paese. Facessero dunque la petizione, se lo ritenevano bene, ma non si illudessero di ottenerne null'altro che la mia partenza. Capirono fin troppo bene. -Finché gli affari del nostro paese, la nostra vita e la nostra morte, saranno in mano a quelli di Roma, saremo dunque sempre come bestie, - dissero. La petizione fu abbandonata. Ma la cosa stava loro troppo a cuore, perché potesse passare così, senza protesta. E poiché non avevano potuto esprimersi con la violenza, né col diritto, si espressero con l'arte. Vennero un giorno da me due giovani a chiedermi in prestito, con aria misteriosa, una mia tunica bianca da medico. Non chiedessi a che cosa dovesse servire: era un segreto; ma l'avrei saputo il giorno seguente; me l'avrebbero riportata la sera. L'indomani, mentre passeggiavo sulla piazza, vidi la gente accorrere verso la casa del podestà, davanti alla quale s'era radunata una piccola folla. Ci andai anch'io, e mi fu fatto largo. Vidi allora che, dentro a un cerchio di uomini, donne e bambini, spettatori appassionati, era cominciata, senza palco né scene, sui sassi della strada, una rappresentazione teatrale. Ogni anno, come seppi poi, in questi primi giorni di quaresima, i contadini avevano l'usanza di recitare una loro commedia improvvisata. Qualche volta, ma assai di rado, era di soggetto religioso, qualche altra ricordava le gesta dei paladini o dei briganti: il più delle volte erano scene comiche e buffonesche tratte dalla vita quotidiana. Quest'anno, l'animo ancora commosso dalle recenti vicende, i contadini avevano immaginato un dramma satirico, a sfogo poetico dei loro sentimenti. Gli attori erano tutti uomini, anche quelli che facevano parti femminili: giovani contadini miei amici, ma che non potevo riconoscere sotto le loro straordinarie truccature. Il dramma era ridotto a una semplice scena, che gli attori improvvisavano. Un coro di uomini e donne annunziò l'arrivo di un malato; ed ecco il malato, portato su una barella, col viso dipinto di bianco, gli occhi cerchiati di nero, e segni neri sulle guance, incavate come quelle di un morto. Il malato era accompagnato dalla madre piangente, che non diceva altro che: - Figlio mio, figlio mio, - ripetendolo di continuo, per tutto il tempo della rappresentazione come un monotono, triste accompagnamento. Accanto al malato, chiamato dal coro, appariva un uomo vestito di bianco, e su cui riconobbi la mia tunica, che si apprestava a guarirlo: ma ecco comparire, ad impedirglielo, un vecchio dagli abiti neri e dal pizzo caprino. I due medici, il bianco e il nero, lo spirito del bene e quello del male, contendevano, come l'angelo e il demonio, attorno a quel corpo giacente nella barella, e si lanciavano battute satiriche e pungenti. Già l'angelo aveva la meglio, e obbligava a tacere il suo nemico, quando arrivò di corsa un romano, dal viso mostruoso e feroce, che forzò l'uomo bianco ad andarsene. L'uomo nero, il professor Bestianelli (corruzione di Bastianelli, che è celebre anche fra questi contadini) rimase padrone del campo. Da una borsa trasse un coltellaccio, e cominciò l'operazione. Diede un taglio sui vestiti del malato, e, con rapida mossa della mano, trasse fuori dalla ferita una vescica di intestino di maiale che vi era nascosta. Si voltò trionfante verso il coro, che mormorava proteste e parole di orrore, con la vescica fieramente brandita, gridando: - Ecco il cuore! - Con un grosso ago bucò quel cuore, e ne usci uno zampillo di sangue, mentre la madre e le donne del coro cominciavano il lamento per il morto, e il dramma finiva.

Non ho mai saputo chi fosse l'autore: forse non ce n'era uno, ma parecchi, tutti gli attori insieme. Le battute che improvvisavano si riferivano alla questione che agitava gli animi in quei giorni: ma la finezza contadina faceva sì che le allusioni non fossero mai troppo dirette, e che rimanessero comprensibili e penetranti, senza diventare mai pericolose. E, soprattutto, al di là della satira e della protesta, il gusto dell'arte li aveva trascinati: ciascuno viveva la sua parte; e la madre piangente sembrava una disperata eroina di tragedia greca, o una Maria di Iacopone; il malato aveva il vero viso della morte; il nero ciarlatano spillava il sangue dal cuore con un diletto feroce; il romano era un mostro orribile, un drago statale; e il coro assisteva e commentava, con disperata pazienza. Era, quello schema classico, un ricordo di un'arte antica, ridotto al povero residuo dell'arte popolare, o uno spontaneo, originario rinascere, un linguaggio, naturale in queste terre, dove la vita è tutta una tragedia senza teatro? Appena finita la recita, il morto si alzò dalla barella, gli attori scesero svelti pel vicolo, e si avviarono alla casa del dottor Gibilisco. Qui la rappresentazione ricominciò; e, nel corso della giornata, fu ripetuta molte volte, davanti alla casa del dottor Milillo, alla chiesa, alla caserma dei carabinieri, al municipio, sulla piazza, e qua e là per le strade, a Gagliano di Sopra e a Gagliano di Sotto, finché venne la sera, la tunica dell'angelo mi fu trionfalmente riportata, e ciascuno tornò alle sue case.


Parte 23 Part 23

Le giornate cominciavano, lentamente, ad allungarsi: la corsa dell'anno si era invertita; la neve aveva lasciato il posto alle piogge e alle giornate serene. La primavera non era più molto lontana e io pensavo che si sarebbe dovuto provvedere in tempo, prima che il sole riportasse le zanzare, a fare tutto quello che era possibile per combattere la malaria. Anche con i mezzi limitati di cui si poteva disporre in paese, si sarebbe potuto ottenere parecchio; ci si sarebbe dovuti rivolgere alla Croce Rossa per avere il verde di Parigi per disinfettare quelle poche acque ferme nelle vicinanze dell'abitato; fare qualche lavoro per incanalare la fontana vecchia; far provvista di chinino, di atebrina e plasmochina, e di cioccolatini per i bambini, per non trovarci sprovveduti con la bella stagione, e così via. Even with the limited means available in the village, a great deal could have been achieved; one should have turned to the Red Cross to get the green of Paris to disinfect those few still waters in the vicinity of the town; do some work to channel the old fountain; to stock up on quinine, atebrin and plasmoquine, and chocolates for the children, so as not to find us naive in the summer, and so on. Erano tutte cose semplici, e che, secondo la legge, sarebbero state obbligatorie. Cominciai a parlarne e a riparlarne al podestà: ma mi accorsi ben presto che don Luigino approvava i miei consigli, ma si guardava bene dal far nulla. Pensai allora, per costringerlo a una responsabilità, di scrivergli tutto quello che si sarebbe dovuto fare; preparai una specie di memoriale di una ventina di pagine, con i particolari più precisi di tutti i lavori da eseguire, sia per quello che toccava al comune, sia per quello che si doveva chiedere a Roma; e lo consegnai a Magalone. Il podestà lesse il memoriale, se ne disse felice, mi lodò, e con un bel sorriso mi annunciò che, poiché doveva andare il giorno seguente a Matera, lo avrebbe mostrato al prefetto, che avrebbe potuto aiutarci. Don Luigino andò a Matera, e al ritorno corse a dirmi che Sua Eccellenza era stata entusiasta del mio lavoro, che tutto quello che chiedevo per la lotta antimalarica si sarebbe provveduto; e che, di riflesso, ne sarebbe venuto anche un bene per me e per gli altri confinati. Don Luigino era raggiante, e fiero di avermi con sé. Tutto pareva dunque per il meglio.

Tre o quattro giorni dopo il ritorno del podestà, arrivò un telegramma della questura di Matera, nel quale mi si vietava di occuparmi di medicina e di esercitare in Gagliano; pena la prigione. Non ho mai saputo se questo improvviso divieto fosse il solo risultato pratico del mio memoriale e del mio eccesso di zelo, come pensavano molti contadini: - Dobbiamo tenercela la malaria: se tu ce la vuoi togliere, ti manderanno via -; o se invece, come pensavano altri, derivasse dalle manovre dei medici del paese; o se forse non fosse generato soltanto dal timore della questura che io diventassi troppo popolare: poiché la mia fama di medico miracoloso andava crescendo; e spesso venivano dei malati anche da paesi lontani, per consultarmi. Il telegramma mi fu portato dai carabinieri, la sera.

L'indomani mattina, all'alba, quando nessuno in paese sapeva ancora del divieto, un uomo a cavallo batté alla mia porta. - Vieni subito, dottore, - mi disse. - Mio fratello sta male. Siamo giù, al Pantano, a tre ore di strada di qui. Ho portato il cavallo-. Il Pantano è una regione, verso 1'Agri, lontana e isolata: c'è una masseria, la sola di tutte queste terre, dove dei contadini vivono sul campo, lontano dal paese. Risposi all'uomo che mi era impossibile venire, perché non potevo uscire dall'abitato, e perché non potevo più neppure fare il medico. Lo consigliai di rivolgersi al dottor Milillo o al dottor Gibilisco. - A quei medicaciucci! Meglio nulla -. Scosse la testa e partì.

Scendeva un nevischio gelido, misto a pioggia. Rimasi in casa tutta la mattina, preparando una lettera per la questura, dove protestavo per il divieto, chiedevo che venisse annullato, e che, in attesa di nuove disposizioni, mi si considerasse almeno autorizzato a non abbandonare in tronco i malati attualmente in cura, e mi si permettesse di continuare a occuparmi, nell'interesse della popolazione, delle misure da prendersi per la lotta antimalarica. Questa lettera non ebbe mai risposta.

Stavo alzandomi da tavola, verso le due del pomeriggio, quando l'uomo del cavallo tornò. Era stato fino al Pantano; suo fratello andava peggio, stava veramente male, bisognava a tutti i costi che io cercassi di salvarlo. Gli dissi di venire con me, e uscimmo insieme per chiedere al podestà una autorizzazione speciale. Don Luigino non era in casa: era andato da sua sorella a prendere il caffè: lo trovammo là, sdraiato su una poltrona. Gli esposi il caso: - È impossibile. Gli ordini di Matera sono tassativi. Non posso prendermi questa responsabilità. Resti con noi, dottore, prenda una tazza di caffè -. Il contadino, un uomo intelligente e deciso, non si arrese, e insistette. Donna Caterina, la mia protettrice, si schierò dalla nostra parte. Il divieto di Matera mandava all'aria tutti i suoi progetti, dava mano libera al suo nemico Gibilisco; ed essa non cessava di deplorarlo e di esclamare: - Queste sono le lettere anonime: ne hanno scritte chissà quante! Gibilisco è stato a Matera la settimana scorsa. Laggiù non sanno che lei è una benedizione per il paese: ma lasci fare a me: abbiamo anche noi dell'influenza in prefettura: il divieto non durerà. Che peccato! - e cercava di consolarmi col caffè e coi dolci. Ma il problema era più urgente, e, per quanto donna Caterina fosse nostra alleata, don Luigino non ci sentiva. - Non posso, ho troppi nemici. Se la cosa si risapesse perderei il posto. Devo obbedire agli ordini della questura -. Don Andrea, il vecchio maestro, approvava, tra un pisolino e un furto di pasticcini: la discussione si prolungava, senza concludere. Al podestà, che amava gli atteggiamenti popolarizzanti, dispiaceva di rifiutare in presenza del contadino, ma la paura la vinceva su tutto. - E poi ci sono gli altri medici. Provi a chiamare quelli. - Non sono buoni a nulla, - diceva il contadino. - Ha ragione, - gridava donna Caterina, - lo zio è troppo vecchio; e quell'altro, non parliamone. E poi, con questo tempo, e senza strade, non ci vorranno andare -. Besides, in this weather, and with no roads, they won't want to go.' Il contadino si alzò. - Vado a cercarli, - disse, e partì. Rimase fuori quasi due ore, e intanto il consiglio di famiglia continuò, senza risultato. Per quanto appoggiato da donna Caterina, non mi riusciva di vincere la paura del podestà: il caso era per lui troppo nuovo, e pesante di responsabilità. Poi, il contadino tornò, con due fogli di carta in mano, e sul viso la soddisfazione di un successo guadagnato con molta lotta. - I due medici non possono venire, sono malati. Mi sono fatto fare da tutti e due una dichiarazione scritta. Ora deve lasciar venire don Carlo. Guardi pure -. E mise i due fogli sotto gli occhi di don Luigino. Il contadino era riuscito, a costo di chissà quali fatiche oratorie, e forse di minacce, a far scrivere a entrambi che, dato il tempo cattivo, e la loro età e salute, non potevano materialmente recarsi fino al Pantano: cosa che, del resto, per il vecchio dottor Milillo, era vera. Ora gli pareva che nulla più potesse impedirmi. Ma il podestà non era convinto, e continuava a discutere. Mandò a chiamare il segretario comunale, cognato della vedova, che era un brav'uomo e pensava che si dovesse lasciarmi andare. Arrivò il dottor Milillo, di malumore per la prova di sfiducia, ma non contrario alla mia andata. Dr. Milillo arrived, ill-tempered by the test of distrust, but not against my going. - Soltanto, si faccia pagare prima. - Just get paid first. Correre fino al Pantano. Nemmeno per duecento lire -; ma il tempo passava, arrivavano altre tazzine di caffè e altre focaccine e si era allo stesso punto. Pensai allora di suggerire che si chiamasse il brigadiere; forse, se egli avesse voluto prendersi personalmente la responsabilità del mio viaggio, il podestà avrebbe, senza troppo compromettersi, potuto consentire. E così avvenne. Il brigadiere, sentito il caso, disse subito che io partissi, che si fidava di me, e non mi avrebbe fatto scortare; che la vita di un uomo doveva passare innanzi a ogni altra considerazione. Fu un momento di sollievo generale: anche don Luigino si disse felice della decisione, e per manifestarmi la sua buona volontà mi mandò a cercare un mantello e degli stivaloni che, secondo lui, mi sarebbero stati necessari in quelle forre. Intanto era calata la sera. Dovettero autorizzarmi a dormire fuori, alla masseria, e a non tornare che l'indomani. E finalmente, tra i saluti e le raccomandazioni di tutti, potei mettermi in cammino col contadino, e il cavallo, e Barone.

Il tempo si era rasserenato. Il nevischio e la pioggia erano cessati. Un vento gagliardo andava spazzando il cielo, e la luna appariva rotonda e chiara fra le nubi rotte e correnti. Appena fuori del selciato ripido del paese, verso il Timbone della Madonna degli Angeli, il mio compagno, che aveva portato sinora il cavallo per la briglia, si fermò perché io montassi in sella. Da molti anni non salivo a cavallo, e di notte, per quei burroni, preferivo le mie gambe. Dissi che usasse egli la bestia, che io sarei andato a piedi e di buon passo. Mi guardò stupito, come se il mondo fosse sottosopra. Lui, un cafone, a cavallo, e io, un signore, a piedi. Non sia mai! Faticai a persuaderlo: infine si indusse a malincuore a seguire il mio consiglio. Cominciò allora una vera corsa verso il Pantano. Io scendevo a grandi passi per il sentiero precipitoso, il cavallo mi seguiva dappresso, e sentivo dietro a me il suo caldo respiro, e lo schiocco degli zoccoli nel fango. Andavo come inseguito, per quei luoghi ignoti, animato dall'aria notturna, dal silenzio, dal moto, coll'animo pieno di leggerezza. La luna riempiva il cielo e pareva si versasse sulla terra. Su una terra remota come la luna, bianca in quella luce silenziosa, senza una pianta né un filo d'erba, tormentata dalle acque di sempre, scavata, rigata, bucata. Le argille precipitavano verso 1'Agri, in coni, grotte, anfratti, piagge, variegate bizzarramente dalla luce e dall'ombra, e noi cercavamo, senza parlare, la nostra via in quel labirinto, lavorato dai secoli e dai terremoti. Su quel paesaggio spettrale mi pareva di volare, senza peso, come un uccello.

Dopo piú di due ore di quella corsa, salì verso di noi, nel silenzio, l'abbaiare lungo di un cane. Uscimmo dalle argille, e ci trovammo su un prato in pendio, e sul fondo ci apparve, tra terreni ondulati, il biancore della masseria. Nella casa, lontana da ogni paese, il mio compagno e il fratello malato abitavano soli con le loro due mogli e i bambini. Ma sull'uscio ci aspettavano tre cacciatori di Pisticci, che erano arrivati il giorno avanti per cacciare le volpi verso il fiume, e s'erano fermati per assistere il loro amico. Anche le due donne erano di Pisticci, e sorelle alte, con grandi occhi neri e visi nobili, bellissime nel costume del loro paese, con la gonna lunga a balze bianche e nere, e il capo avvolto da veli e da nastri bianchi e neri, che le facevano assomigliare a strane farfalle. Mi avevano preparato i cibi migliori, il latte e il formaggio fresco, e me li offrirono appena arrivato, con quella non servile ospitalità antica, che mette gli uomini alla pari. Mi avevano aspettato tutto il giorno, come un salvatore: ma mi accorsi subito che non c'era più nulla da fare. Era una peritonite con perforazione, il malato era ormai in agonia, e neppure un'operazione, se anche io avessi saputo e potuto farla, l'avrebbe più salvato. Non restava che calmare i suoi dolori con qualche iniezione di morfina e aspettare.

La casa era fatta di due camere, che comunicavano per una larga apertura. Nella seconda stava il malato, col fratello e le donne che lo vegliavano. Nella prima stanza il fuoco era acceso in un grande camino; attorno al fuoco sedevano i tre cacciatori. Appoggiato all'angolo opposto, mi era stato preparato un letto, altissimo e soffice. Io andavo ogni tanto dal malato, e poi rimanevo a conversare a bassa voce coi cacciatori accanto al fuoco. Quando fummo nel mezzo della notte, mi arrampicai sul mio letto per riposare, senza spogliarmi. Ma non presi sonno.

Restavo sdraiato lassù, come su un palco aereo. Appesi al muro, tutt'intorno al letto, erano i corpi delle volpi uccise di fresco. Sentivo il loro odore selvatico, vedevo i loro musi arguti all'ondeggiare rossastro delle fiamme, e muovendo appena la mano, toccavo il loro pelame che sapeva di grotta e di bosco. Dalla porta mi giungeva il lamento continuo del moribondo: - Gesù aiutami, dottore aiutami, Gesù aiutami, dottore aiutami, - come una litania di angoscia ininterrotta, e il sussurro delle donne in preghiera. Il fuoco del camino oscillava, guardavo le lunghe ombre muoversi come mosse da un vento, e le tre figure nere dei cacciatori, coi cappelli in capo, immobili davanti al focolare. La morte era nella casa: amavo quei contadini, sentivo il dolore e l'umiliazione della mia impotenza. Perché allora una così grande pace scendeva in me? Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell'albero: tendevo l'orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d'un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.

Verso l'alba il malato si avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro si cambiarono in un rantolo, e anche quello si affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta estrema, e cessò. Non aveva ancor finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d'improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie, e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte. Ogni tanto si affacciavano alla finestra, gridando in quell'unico tono, come ad annunciare la morte alla campagna e al mondo; poi, tornavano nella stanza e riprendevano il ballo e l'ululato, che sarebbe continuato senza riposo per quarantott'ore, fino all'interramento. Era una nota lunga, identica, monotona, straziante. Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola, pareva entrasse nelle viscere. Per non scoppiare a piangere mi congedai in fretta ed uscii, con Barone, alla luce del primo mattino.

La giornata era serena: i prati e le argille spettrali della sera mi si stendevano innanzi, nudi e solitari nell'aria ancora grigia. Ero libero in quelle distese silenziose: sentivo ancora in me la felicità della notte. Dovevo pure rientrare in paese, ma intanto vagavo per quei campi, roteando allegro il bastone, e fischiando al mio cane, che era eccitato forse da qualche invisibile selvaggina. Decisi di allungare un poco la strada per passare a Gaglianello, la frazione che finora non avevo mai potuto visitare.

È un grosso gruppo di case, su un poggio brullo, non molto alto sul fiume malarico. Ci vivono quattrocento persone, senza strada, né medici, né levatrice, né carabinieri, né funzionari di nessun genere: ma anche laggiù arriva, ogni tanto, l'Ufficiale Esattoriale col suo berretto con le iniziali rosse: U. E. Vidi, con stupore, che ero aspettato. Si sapeva che ero stato al Pantano, si sperava che passassi di là al ritorno. I contadini e le donne erano nella strada, per farmi buona accoglienza: i più strani malati si erano fatti portare sugli usci, perché io li vedessi. Pareva una corte dei miracoli. Nessun dottore era passato di lì, da chissà quanti anni: vecchie malattie, non curate se non con incantesimi, si erano accumulate in quei corpi, crescendo bizzarramente, come funghi su un legno marcio. Passai quasi tutta la mattina girando per quei tuguri, tra quei malarici scarniti, quelle fistole annose, quelle piaghe incancrenite, distribuendo almeno consigli, poiché non potevo scrivere ricette, e bevendo il vino dell'ospitalità. Mi volevano trattenere tutto il giorno, ma dovevo rientrare mi accompagnarono un tratto, pregandomi di ritornare. - Chissà; se potrò, verrò, - dissi loro: ma non ci sono tornato mai più. Lasciai i miei nuovi amici di Gaglianello sul sentiero, e cominciai a risalire, tra i burroni, verso casa.

Il sole era alto e brillante, l'aria tiepida; il terreno tutto a gobbe e monticciuoli, tra cui la via serpeggiava in continui giri e salite e discese brevi, impediva allo sguardo di spaziare lontano. A una svolta mi apparve il brigadiere, che, con un carabiniere, mi veniva incontro, e con loro continuai la strada. Sui cespugli di ginestra saltellavano gli uccelli, dei grossi merli neri, che si levavano in volo al nostro passaggio. - Vuol tirare, dottore? - mi disse il brigadiere, e mi passò il suo moschetto. Del merlo che colpii non rimasero che le penne che scesero lente per l'aria; il corpo doveva essere andato in pezzi, a quel colpo a palla, così sproporzionato, e non ci fermammo a cercarlo. Appena arrivato a Gagliano, mi accorsi, dal viso dei contadini, che qualcosa stava fermentando in paese. Durante la mia assenza, tutti avevano saputo del divieto di esercire, e del tempo perduto, il giorno prima, per poter andare al Pantano. La notizia della morte del contadino era già arrivata, come per non so quale misteriosa telegrafia. Tutti, in paese, conoscevano il morto, e l'amavano. Era il primo e solo morto, in tanti mesi, tra coloro che avevo curati. Tutti pensavano che, se io avessi potuto andar subito, lo avrei certamente salvato: e che la sua fine era dovuta soltanto al ritardo, e alle esitazioni del podestà. Quando io dicevo che probabilmente, anche arrivando qualche ora prima, senza mezzi, senza pratica chirurgica, con scarse possibilità di trasportarlo in tempo non fosse che a Sant'Arcangelo, non avrei potuto far molto, scuotevano la testa increduli: io ero, per loro, un guaritore miracoloso; e nulla mi sarebbe stato impossibile, se fossi giunto in tempo. L'episodio era per loro soltanto una conferma tragica della malvagità che aveva ispirato il divieto che mi avrebbe, d'ora innanzi, impedito di soccorrerli. I contadini avevano dei visi che non avevo ancora mai visto loro: una torva decisione, una disperazione risoluta faceva più neri i loro occhi. Uscivano di casa armati, con i fucili da caccia, e le scuri. - Noi siamo dei cani, - mi dicevano. - Quelli di Roma vogliono che moriamo come cani. Avevamo un cristiano bono, per noi: quelli di Roma ce lo vogliono togliere. Bruceremo il municipio, e ammazzeremo il podestà.

L'aria della rivolta soffiava sul paese. Un profondo senso di giustizia era stato toccato: e quella gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti, sentiva rinascere in sé l'anima dei briganti. Così sono sempre le violente ed effimere esplosioni di questi uomini compressi; un risentimento antichissimo e potente affiora, per un motivo umano; e si danno al fuoco i casotti del dazio e le caserme dei carabinieri, e si sgozzano i signori; nasce, per un momento, una ferocia spagnola, una atroce, sanguinosa libertà. Poi vanno in carcere, indifferenti, come chi ha sfogato in un attimo quello che attendeva da secoli.

Se avessi voluto, quel giorno, avrei potuto trovarmi (e per un momento l'idea mi sorrise, ma, nel '36, non era ancora giunto il tempo) a capo di qualche centinaio di briganti, e tenere il paese o darmi alla campagna. Invece mi sforzai di calmarli; e non ci riuscii che con molta fatica. I fucili e le scuri furono riportati nelle case: ma i visi non si spianarono. Quelli di Roma, lo Stato, li aveva colpiti troppo a fondo, aveva fatto morire uno di loro; i contadini avevano sentito col peso della morte la mano lontana di Roma, e non volevano essere schiacciati. Il loro primo impulso era stato la vendetta immediata, sui simboli e sugli emissari di Roma. Se io li dissuadevo dalla vendetta, che altro potevano fare? Ahimè, come sempre, nulla. Niente. Ma a questo eterno niente, questa volta, non si rassegnavano. Il giorno seguente, sbollita in parte quell'ira e quel desiderio di sangue, i contadini vennero, a gruppi, da me. Si erano trattenuti dallo sterminio: quei momenti di liberazione nell'odio vendicatore, una volta passati senza sfogo, non possono prolungarsi. Ma ora volevano almeno ottenere che io continuassi legittimamente a essere il loro medico, e avevano deciso di fare una petizione, firmata da tutti, a questo scopo. La loro avversità per lo Stato, estraneo e nemico, si accompagna (e la cosa potrà parere strana, e non lo è) a un senso naturale del diritto, a una spontanea intuizione di quello che, per loro, dovrebbe essere veramente lo Stato: una volontà comune, che diventa legge. La parola «legittimo» qui è una delle piú usate, ma non nel senso di cosa sanzionata e codificata, ma in quello di vero, di autentico. Un uomo è legittimo se agisce bene; un vino è legittimo se non è fatturato. Una petizione firmata da tutti pareva ad essi davvero legittima, e perciò tale da dover avere anche un potere reale. A petition signed by all seemed to them truly legitimate, and therefore such as to also have real power. Avevano ragione: ma dovetti spiegar loro quello che, del resto, sapevano meglio di me: che essi avevano a che fare con una forza del tutto illegittima, che non si poteva combattere con le sue stesse armi; che, se per la violenza essi erano troppo deboli, lo erano ancora di più per un diritto disarmato; che il solo risultato della petizione sarebbe stato di farmi immediatamente trasferire in un altro paese. Facessero dunque la petizione, se lo ritenevano bene, ma non si illudessero di ottenerne null'altro che la mia partenza. Capirono fin troppo bene. -Finché gli affari del nostro paese, la nostra vita e la nostra morte, saranno in mano a quelli di Roma, saremo dunque sempre come bestie, - dissero. La petizione fu abbandonata. Ma la cosa stava loro troppo a cuore, perché potesse passare così, senza protesta. E poiché non avevano potuto esprimersi con la violenza, né col diritto, si espressero con l'arte. Vennero un giorno da me due giovani a chiedermi in prestito, con aria misteriosa, una mia tunica bianca da medico. Non chiedessi a che cosa dovesse servire: era un segreto; ma l'avrei saputo il giorno seguente; me l'avrebbero riportata la sera. L'indomani, mentre passeggiavo sulla piazza, vidi la gente accorrere verso la casa del podestà, davanti alla quale s'era radunata una piccola folla. Ci andai anch'io, e mi fu fatto largo. Vidi allora che, dentro a un cerchio di uomini, donne e bambini, spettatori appassionati, era cominciata, senza palco né scene, sui sassi della strada, una rappresentazione teatrale. Ogni anno, come seppi poi, in questi primi giorni di quaresima, i contadini avevano l'usanza di recitare una loro commedia improvvisata. Qualche volta, ma assai di rado, era di soggetto religioso, qualche altra ricordava le gesta dei paladini o dei briganti: il più delle volte erano scene comiche e buffonesche tratte dalla vita quotidiana. Quest'anno, l'animo ancora commosso dalle recenti vicende, i contadini avevano immaginato un dramma satirico, a sfogo poetico dei loro sentimenti. Gli attori erano tutti uomini, anche quelli che facevano parti femminili: giovani contadini miei amici, ma che non potevo riconoscere sotto le loro straordinarie truccature. Il dramma era ridotto a una semplice scena, che gli attori improvvisavano. Un coro di uomini e donne annunziò l'arrivo di un malato; ed ecco il malato, portato su una barella, col viso dipinto di bianco, gli occhi cerchiati di nero, e segni neri sulle guance, incavate come quelle di un morto. Il malato era accompagnato dalla madre piangente, che non diceva altro che: - Figlio mio, figlio mio, - ripetendolo di continuo, per tutto il tempo della rappresentazione come un monotono, triste accompagnamento. Accanto al malato, chiamato dal coro, appariva un uomo vestito di bianco, e su cui riconobbi la mia tunica, che si apprestava a guarirlo: ma ecco comparire, ad impedirglielo, un vecchio dagli abiti neri e dal pizzo caprino. I due medici, il bianco e il nero, lo spirito del bene e quello del male, contendevano, come l'angelo e il demonio, attorno a quel corpo giacente nella barella, e si lanciavano battute satiriche e pungenti. Già l'angelo aveva la meglio, e obbligava a tacere il suo nemico, quando arrivò di corsa un romano, dal viso mostruoso e feroce, che forzò l'uomo bianco ad andarsene. L'uomo nero, il professor Bestianelli (corruzione di Bastianelli, che è celebre anche fra questi contadini) rimase padrone del campo. Da una borsa trasse un coltellaccio, e cominciò l'operazione. Diede un taglio sui vestiti del malato, e, con rapida mossa della mano, trasse fuori dalla ferita una vescica di intestino di maiale che vi era nascosta. Si voltò trionfante verso il coro, che mormorava proteste e parole di orrore, con la vescica fieramente brandita, gridando: - Ecco il cuore! - Con un grosso ago bucò quel cuore, e ne usci uno zampillo di sangue, mentre la madre e le donne del coro cominciavano il lamento per il morto, e il dramma finiva.

Non ho mai saputo chi fosse l'autore: forse non ce n'era uno, ma parecchi, tutti gli attori insieme. Le battute che improvvisavano si riferivano alla questione che agitava gli animi in quei giorni: ma la finezza contadina faceva sì che le allusioni non fossero mai troppo dirette, e che rimanessero comprensibili e penetranti, senza diventare mai pericolose. E, soprattutto, al di là della satira e della protesta, il gusto dell'arte li aveva trascinati: ciascuno viveva la sua parte; e la madre piangente sembrava una disperata eroina di tragedia greca, o una Maria di Iacopone; il malato aveva il vero viso della morte; il nero ciarlatano spillava il sangue dal cuore con un diletto feroce; il romano era un mostro orribile, un drago statale; e il coro assisteva e commentava, con disperata pazienza. Era, quello schema classico, un ricordo di un'arte antica, ridotto al povero residuo dell'arte popolare, o uno spontaneo, originario rinascere, un linguaggio, naturale in queste terre, dove la vita è tutta una tragedia senza teatro? Appena finita la recita, il morto si alzò dalla barella, gli attori scesero svelti pel vicolo, e si avviarono alla casa del dottor Gibilisco. Qui la rappresentazione ricominciò; e, nel corso della giornata, fu ripetuta molte volte, davanti alla casa del dottor Milillo, alla chiesa, alla caserma dei carabinieri, al municipio, sulla piazza, e qua e là per le strade, a Gagliano di Sopra e a Gagliano di Sotto, finché venne la sera, la tunica dell'angelo mi fu trionfalmente riportata, e ciascuno tornò alle sue case.