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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.3 La Moglie e l'Amante

4.3 La Moglie e l'Amante

Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe. Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano. Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre. Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l'amore. Da tanto tempo ero privo non d'amore, ma delle corse che vi conducono.

Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera. Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, così di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato.

Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni. Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.

Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia. Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai più! Mai più!». In quell'istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri. Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.

Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina. A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era stabilito per la settimana dopo. Giovanni stava già meglio. Pare che a cena si fosse lasciato indurre a mangiar troppo e l'indigestione avesse assunto l'aspetto di un aggravamento del male.

Io le raccontai di aver già avute quelle notizie dalla madre in cui m'ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico. Neppure Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle spiegazioni. Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie passeggiate. Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale. Poi aggiunsi:

— Quell'Olivi! Me l'ha fatta grossa condannandomi a tanta inerzia.

Augusta, che a quel proposito si sentiva un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto. Io, allora, mi sentii benissimo. Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso. Leggevo oramai l'Apocalisse.

E ad onta che fosse oramai assodato ch'io avevo l'autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s'era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta. Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo del violino che m'era stato consigliato. Prima di uscire seppi che mio suocero aveva passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio. Ne avevo piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi. Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.

Ma fu proprio la musica che mi ricondusse a Carla! Fra i metodi che il venditore m'offerse ve ne fu per errore uno che non era del violino ma del canto. Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell'Arte del Canto (Scuola di Garcia) di E. Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria riguardante la Voce Umana presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi».

Lasciai che il venditore s'occupasse di altri clienti e mi misi a leggere l'operetta. Devo dire che leggevo con un'agitazione che forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia.

Ecco: quella era la via per arrivare a Carla; essa abbisognava di quell'opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non fargliela conoscere. La comperai e ritornai a casa.

L'opera del Garcia constava di due parti di cui una teorica e l'altra pratica. Continuai la lettura con l'intenzione di intenderla tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col Copler. Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all'avventura che m'aspettava.

Ma Augusta stessa fece precipitare gli avvenimenti. M'interruppe nella mia lettura per venir a salutarmi, si chinò su di me e sfiorò la mia guancia con le sue labbra. Mi domandò che cosa facessi e sentito che si trattava di un nuovo metodo, pensò fosse per violino e non si curò di guardare meglio. Io, quand'essa mi lasciò, esagerai il pericolo che avevo corso e pensai che per la mia sicurezza avrei fatto bene di non tenere nel mio studio quel libro. Bisognava portarlo subito al suo destino, ed è così che fui costretto di andar dritto verso la mia avventura. Avevo trovato qualche cosa di più di un pretesto per poter fare quello ch'era il mio desiderio.

Non ebbi più esitazioni di sorta. Giunto su quel pianerottolo, mi rivolsi subito alla porta a sinistra. Però dinanzi a quella porta m'arrestai per un istante ad ascoltare i suoni della ballata «La mia bandiera ch'echeggiavano gloriosamente sulle scale. Pareva che, per tutto quel tempo, Carla avesse continuato a cantare la stessa cosa. Sorrisi pieno di affetto e di desiderio per tanta infantilità. Apersi poi cautamente la porta senza bussare ed entrai nella stanza in punta di piedi. Volevo vederla subito, subito. Nel piccolo ambiente la sua voce era veramente sgradevole. Essa cantava con grande entusiasmo e maggior calore che non quella volta della mia prima visita. Era addirittura abbandonata sullo schienale della sedia per poter emettere tutto il fiato dei suoi polmoni. Io vidi solo la testina fasciata dalle grosse treccie e mi ritirai còlto da un'emozione profonda per aver osato tanto. Essa intanto era arrivata all'ultima nota che non voleva finire più ed io potei ritornare sul pianerottolo e chiudere dietro di me la porta senza ch'essa di me s'accorgesse. Anche quell'ultima nota aveva oscillato in sù e in giù prima di affermarsi sicura. Carla sentiva dunque la nota giusta e toccava ora al Garcia d'intervenire per insegnarle a trovarla più presto.

Bussai quando mi sentii più calmo. Subito essa accorse ad aprire la porta ed io non dimenticherò giammai la sua figurina gentile, poggiata allo stipite, mentre mi fissava coi suoi grandi occhi bruni prima di saper riconoscermi nell'oscurità.

Ma intanto io m'ero calmato in modo da venir ripreso da tutte le mie esitazioni. Ero avviato a tradire Augusta, ma pensavo che come nei giorni precedenti avevo potuto contentarmi di giungere fino al Giardino Pubblico, tanto più facilmente ora avrei potuto fermarmi a quella porta, consegnare quel libro compromettente e andarmene pienamente soddisfatto. Fu un breve istante pieno di buoni propositi. Ricordai persino un consiglio strano che m'era stato dato per liberarmi dall'abitudine del fumo e che poteva valere in quell'occasione: talvolta, per contentarsi, bastava accendere il cerino e gettare poi via e sigaretta e cerino.

Mi sarebbe stato anche facile di far così, perché Carla stessa, quando mi riconobbe, arrossì e accennò a fuggire vergognandosi - come seppi poi - di farsi trovare vestita di un povero consunto vestitino di casa.

Una volta riconosciuto, sentii il bisogno di scusarmi:

— Le ho portato questo libro ch'io credo la interesserà. Se vuole, posso lasciarglielo e andarmene subito.

Il suono delle parole - o così mi parve - era abbastanza brusco, ma non il significato, perché in complesso la lasciavo arbitra di decidere lei se avessi dovuto andarmene o restare e tradire Augusta.

Essa subito decise, perché afferrò la mia mano per trattenermi più sicuramente e mi fece entrare. L'emozione m'oscurò la vista e ritengo sia stata provocata non tanto dal dolce contatto di quella mano, ma da quella familiarità che mi parve decidesse del mio e del destino di Augusta. Perciò credo di essere entrato con qualche riluttanza e, quando rievoco la storia del mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto perché trascinatovi.

La faccia di Carla era veramente bella così arrossata. Fui deliziosamente sorpreso all'accorgermi che se non ero stato aspettato da lei, essa pur aveva sperata la mia visita. Essa mi disse con grande compiacenza:

— Lei sentì dunque il bisogno di rivedermi? Di rivedere la poverina che le deve tanto?

Io, certo, se avessi voluto, avrei potuto prenderla subito fra le mie braccia, ma non ci pensavo neppure. Ci pensavo tanto poco che non risposi neppure alle sue parole che mi parevano compromettenti e mi rimisi a parlare del Garcia e della necessità di quel libro per lei. Ne parlai con una furia che mi portò a qualche parola meno considerata. Garcia le avrebbe insegnato il modo di rendere le note solide come il metallo e dolci come l'aria. Le avrebbe spiegato come una nota non possa rappresentare che una linea retta e anzi un piano, ma un piano veramente levigato.

Il mio fervore sparì solo quand'essa m'interruppe per manifestarmi un suo dubbio doloroso:

— Ma dunque a lei non piace come io canto?

Fui stupito della sua domanda. Io avevo fatta una critica rude, ma non ne avevo la coscienza e protestai in piena buona fede. Protestai tanto bene che mi parve di esser ritornato, sempre parlando del solo canto, all'amore che tanto imperiosamente m'aveva trascinato in quella casa. E le mie parole furono tanto amorose che lasciarono tuttavia trasparire una parte di sincerità:

— Come può credere una cosa simile? Sarei qui se così fosse? Io sono stato su quel pianerottolo per lungo tempo a bearmi del suo canto, delizioso ed eccelso canto nella sua ingenuità. Soltanto io ritengo che alla sua perfezione occorra qualche cosa d'altro e sono venuto a portarglielo.

Quale potenza aveva tuttavia nel mio animo il pensiero di Augusta, se continuavo ostinatamente a protestare di non essere stato trascinato dal mio desiderio!

Carla stette a sentire le mie parole lusinghiere, ch'essa non era neppure al caso di analizzare. Non era molto colta, ma, con mia grande sorpresa, compresi che non mancava di buon senso. Mi raccontò ch'essa stessa aveva dei forti dubbii sul suo talento e sulla sua voce: sentiva che non faceva dei progressi. Spesso, dopo una certa quantità di ore di studio, essa si concedeva lo svago e il premio di cantare «La mia Bandiera» sperando di scoprire nella propria voce qualche nuova qualità. Ma era sempre la stessa cosa: non peggio e forse sempre abbastanza bene come le assicuravano quanti la udivano ed io anche (e qui mi mandò dai suoi begli occhi bruni un lampo mitemente interrogativo che dimostrava com'essa avesse bisogno di essere rassicurata sul senso delle mie parole che ancora le sembrava dubbio) ma un vero progresso non c'era. Il maestro diceva che in arte non c'erano progressi lenti, ma grandi salti che portavano alla meta e che un bel giorno essa si sarebbe destata grande artista.

— È una cosa lunga, però, - aggiunse guardando nel vuoto e rivedendo forse tutte le sue ore di noia e di dolore.

Si dice onesto prima di tutto quello ch'è sincero e da parte mia sarebbe stato onestissimo di consigliare alla povera fanciulla di lasciare lo studio del canto e divenire la mia amante. Ma io non ero ancora giunto tanto lontano dal Giardino Pubblico, eppoi, se non altro, non ero molto sicuro del mio giudizio nell'arte del canto. Da alcuni istanti io ero fortemente preoccupato da una sola persona: quel noioso Copler che passava ogni festa nella mia villa con me e con mia moglie. Sarebbe stato quello il momento di trovare un pretesto per pregare la fanciulla di non raccontare al Copler della mia visita. Ma non lo feci non sapendo come travestire la mia domanda e fu bene, perché pochi giorni appresso il povero mio amico ammalò e subito dopo morì.

Intanto le dissi ch'essa avrebbe trovato nel Garcia tutto quello che cercava, e per un istante solo, ma solo per un istante, essa ansiosamente aspettò dei miracoli da quel libro. Presto però, trovandosi dinanzi a tante parole, dubitò dell'efficacia della magia. Io leggevo le teorie del Garcia in italiano, poi in italiano gliele spiegavo e, quando non bastava, gliele traducevo in triestino, ma essa non sentiva moversi niente nella sua gola e una vera efficacia in quel libro essa avrebbe potuto riconoscere solo se si fosse manifestata in quel punto. Il male è che anch'io, poco dopo, ebbi la convinzione che in mano mia quel libro non valeva molto. Rivedendo per ben tre volte quelle frasi e non sapendo che farmene, mi vendicai della mia incapacità criticandole liberamente. Ecco che il Garcia perdeva il suo e il mio tempo per provare che poiché la voce umana sapeva produrre varii suoni non era giusto di considerarla quale uno strumento solo. Anche il violino allora avrebbe dovuto essere considerato quale un conglomerato di strumenti. Ebbi forse torto di comunicare a Carla tale mia critica, ma accanto ad una donna che si vuole conquistare è difficile di trattenersi dall'approfittare di un'occasione che si presenti per dimostrare la propria superiorità. Essa infatti m'ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sé il libro ch'era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa. Io ancora non mi rassegnai di rinunziarvi e lo rimandai ad altra mia visita. Quando il Copler morì non ve ne fu più di bisogno. Era rotto qualunque nesso fra quella casa e la mia e così il mio procedere non poteva essere frenato che dalla mia coscienza.

Ma intanto eravamo divenuti abbastanza intimi, di un'intimità maggiore di quanto si avrebbe potuto attendersi da quella mezz'ora di conversazione. Io credo che l'accordo in un giudizio critico unisca intimamente. La povera Carla approfittò di tale intimità per mettermi a parte delle sue tristezze. Dopo l'intervento del Copler, in quella casa si viveva modestamente ma senza grandi privazioni. Il maggior peso per le due povere donne era il pensiero del futuro. Perché il Copler portava loro a date ben precise il suo soccorso, ma non permetteva di calcolarvi con sicurezza; egli non voleva pensieri e preferiva li avessero loro. Poi non dava gratuitamente quei denari: Era il vero padrone in quella casa e intendeva di essere informato di ogni piccolezza. Guai se si permettevano una spesa non preventivamente approvata da lui! La madre di Carla, poco tempo prima, era stata indisposta e Carla, per poter accudire alle faccende domestiche, aveva trascurato per qualche giorno di cantare. Informatone dal maestro, il Copler fece una scenata e se ne andò dichiarando che allora non valeva la pena di seccare dei valentuomini per indurli a soccorrerle. Per varii giorni esse vissero nel terrore temendo di essere abbandonate al loro destino. Poi, quando ritornò, rinnovò patti e condizioni e stabilì esattamente per quante ore al giorno Carla dovesse sedere al pianoforte e quante ne potesse dedicare alla casa. Minacciò anche di venir a sorprenderle a tutte le ore del giorno.

— Certo, - concludeva la fanciulla, - egli non vuole altro che il nostro bene, ma s'arrabbia tanto per cose di nessuna importanza, che una volta o l'altra, nell'ira, finirà col gettarci sul lastrico. Ma ora che anche lei si occupa di noi, non c'è più questo pericolo, nevvero?

E di nuovo mi strinse la mano. Poiché io non risposi subito, essa temette ch'io mi sentissi solidale col Copler, e aggiunse:

— Anche il signor Copler dice che lei è tanto buono!

Questa frase voleva essere un complimento diretto a me, ma anche al Copler.

La sua figura presentatami con tanta antipatia da Carla, era nuova per me e destava proprio la mia simpatia. Avrei voluto somigliargli mentre il desiderio che mi aveva portato in quella casa me ne rendeva tanto dissimile! Era ben vero che alle due donne egli portava i denari altrui, ma dava tutta l'opera propria, una parte della propria vita. Quella rabbia, ch'egli dedicava loro, era veramente paterna. Ebbi però un dubbio: e se a tale opera fosse stato indotto dal desiderio? Senz'esitare domandai a Carla:

— Il Copler le ha mai chiesto un bacio?

— Mai! - rispose Carla con vivacità. - Quand'è soddisfatto del mio comportamento, seccamente impartisce la sua approvazione, mi stringe leggermente la mano e se ne va. Altre volte, quand'è arrabbiato, mi rifiuta anche la stretta di mano e non s'accorge nemmeno ch'io dallo spavento piango. Un bacio in quel momento sarebbe per me una liberazione.

Visto ch'io mi misi a ridere, Carla si spiegò meglio: - Accetterei con riconoscenza il bacio di un uomo tanto vecchio cui devo tanto!

Ecco il vantaggio dei malati reali; appariscono più vecchi di quanto non sieno.

Feci un debole tentativo di somigliare al Copler. Sorridendo per non spaventare troppo la povera fanciulla, le dissi che anch'io, quando mi occupavo di qualcuno, finivo col divenire molto imperioso. In complesso anch'io trovavo che quando si studiava un'arte si dovesse farlo seriamente. Poi m'investii tanto bene della mia parte che cessai persino di sorridere. Il Copler aveva ragione d'essere severo con una giovinetta che non poteva intendere il valore del tempo: bisognava anche ricordare quante persone facevano dei sacrifici per aiutarla. Ero veramente serio e severo.

Venne così per me l'ora di andare a colazione e specialmente quel giorno non avrei voluto far aspettare Augusta. Porsi la mano a Carla e allora m'avvidi com'essa fosse pallida. Volli confortarla:

— Stia sicura ch'io farò sempre del mio meglio per appoggiarla presso il Copler e tutti gli altri.

Essa ringraziò, ma pareva tuttavia abbattuta. Poi seppi che vedendomi arrivare, essa subito aveva indovinata quasi la verità e aveva pensato ch'io fossi innamorato di lei e quindi salva. Poi invece - e proprio quando m'accinsi ad andarmene - essa credette che anch'io fossi innamorato solo dell'arte e del canto e che perciò se essa non avesse cantato bene e fatti dei progressi, l'avrei abbandonata.

Mi parve abbattutissima. Fui preso da compassione e, visto che non c'era altro tempo da perdere, la rassicurai col mezzo ch'essa stessa aveva designato quale il più efficace. Ero già alla porta che l'attrassi a me, spostai accuratamente col naso la grossa treccia dal suo collo cui così giunsi con le labbra e sfiorai persino coi denti. Aveva l'apparenza di uno scherzo ed anch'essa finì col riderne, ma soltanto quando io la lasciai. Fino a quel momento essa era rimasta inerte e stupita fra le mie braccia.

Mi seguì sul pianerottolo e, quando cominciai a scendere, mi domandò ridendo:

— Quando ritorna?

— Domani o forse più tardi! - risposi io già incerto. Poi più deciso: - Certamente vengo domani! - Quindi, in seguito al desiderio di non compromettermi troppo, aggiunsi: - Continueremo la lettura del Garcia.

Ella non mutò di espressione in quel breve tempo: assentì alla prima malsicura promessa, assentì riconoscente alla seconda e assentì anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo. Le donne sanno sempre quello che vogliono. Non ci furono esitazioni né per parte di Ada che mi respinse, né dall'Augusta che mi prese, e neppure da Carla, che mi lasciò fare.

Sulla via mi trovai subito più vicino ad Augusta che non a Carla. Respirai l'aria fresca, aperta ed ebbi pieno il sentimento della mia libertà. Io non avevo fatto altro che uno scherzo che non poteva perdere tale suo carattere perché era finito su quel collo e sotto quella treccia. Infine Carla aveva accettato quel bacio come una promessa di affetto e sopra tutto di assistenza.

Quel giorno a tavola, però, cominciai veramente a soffrire. Tra me e Augusta stava la mia avventura, come una grande ombra fosca che mi pareva impossibile non fosse vista anche da lei. Mi sentivo piccolo, colpevole e malato, e sentivo il dolore al fianco come un dolore simpatico che riverberasse dalla grande ferita alla mia coscienza. Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: «Non la rivedrò più - pensai - e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l'ultima volta». Non si pretendeva poi mica tanto da me: un solo sforzo, quello di non rivedere più Carla.

Augusta ridendo, mi domandò:

— Sei stato dall'Olivi che ti vedo tanto preoccupato?

Mi misi a ridere anch'io. Era un grande sollievo quello di poter parlare. Le parole non erano quelle che avrebbero potuto dare la pace intera perché per dire quelle sarebbe occorso di confessare eppoi promettere, ma, non potendo altrimenti, era già un bel sollievo di dirne delle altre. Parlai abbondantemente, sempre lieto e buono. Poi trovai ancora di meglio: parlai della piccola lavanderia ch'essa tanto desiderava e che io fino ad allora le avevo rifiutata, e le diedi subito il permesso di costruirla. Essa fu tanto commossa del mio non sollecitato permesso che si alzò e venne a darmi un bacio. Ecco un bacio ch'evidentemente cancellava quell'altro, ed io mi sentii subito meglio.

Fu così ch'ebbimo la lavanderia e ancora oggidì, quando passo dinanzi alla minuscola costruzione, ricordo che Augusta la volle e Carla la consentì.

Seguì un pomeriggio incantevole riempito dal nostro affetto. Nella solitudine la mia coscienza era più seccante. La parola e l'affetto di Augusta valevano a calmarla. Uscimmo insieme. Poi l'accompagnai da sua madre e passai anche tutta la serata con lei.


4.3 La Moglie e l'Amante 4.3 The Wife and the Lover 4.3 La femme et l'amant 4.3 A mulher e o amante

Che la mia resistenza non sia mancata del tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe. Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle strade e delle case che lo circondano. Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi, come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue finestre. Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del giovinetto che per la prima volta accosta l'amore. Da tanto tempo ero privo non d'amore, ma delle corse che vi conducono.

Ero appena uscito dal Giardino Pubblico che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera. Dapprima ebbi un dubbio curioso: di mattina, così di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei tradiva il marito ammalato.

Seppi poi subito che le facevo un torto perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte passata accanto a Giovanni. Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.

Ma mi bastò di averla vista per sentirmi riafferrato dalla mia famiglia. Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo il tempo mormorando: «Mai più! Mai più!». In quell'istante la madre di Augusta con quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri. Fu una buona lezione e bastò per tutto quel giorno.

Augusta non era in casa perché era corsa dal padre col quale rimase tutta la mattina. A tavola mi disse che avevano discusso se, dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era stabilito per la settimana dopo. Giovanni stava già meglio. Pare che a cena si fosse lasciato indurre a mangiar troppo e l'indigestione avesse assunto l'aspetto di un aggravamento del male.

Io le raccontai di aver già avute quelle notizie dalla madre in cui m'ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico. Neppure Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle spiegazioni. Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta delle mie passeggiate. Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale. Poi aggiunsi:

— Quell'Olivi! Me l'ha fatta grossa condannandomi a tanta inerzia.

Augusta, che a quel proposito si sentiva un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto. Io, allora, mi sentii benissimo. Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso. Leggevo oramai l'Apocalisse.

E ad onta che fosse oramai assodato ch'io avevo l'autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s'era fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi proprio dalla parte opposta. Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo del violino che m'era stato consigliato. Prima di uscire seppi che mio suocero aveva passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio. Ne avevo piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi. Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.

Ma fu proprio la musica che mi ricondusse a Carla! Fra i metodi che il venditore m'offerse ve ne fu per errore uno che non era del violino ma del canto. Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell'Arte del Canto (Scuola di Garcia) di E. Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria riguardante la Voce Umana presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi».

Lasciai che il venditore s'occupasse di altri clienti e mi misi a leggere l'operetta. Devo dire che leggevo con un'agitazione che forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia.

Ecco: quella era la via per arrivare a Carla; essa abbisognava di quell'opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non fargliela conoscere. La comperai e ritornai a casa.

L'opera del Garcia constava di due parti di cui una teorica e l'altra pratica. Continuai la lettura con l'intenzione di intenderla tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col Copler. Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all'avventura che m'aspettava.

Ma Augusta stessa fece precipitare gli avvenimenti. M'interruppe nella mia lettura per venir a salutarmi, si chinò su di me e sfiorò la mia guancia con le sue labbra. Mi domandò che cosa facessi e sentito che si trattava di un nuovo metodo, pensò fosse per violino e non si curò di guardare meglio. Io, quand'essa mi lasciò, esagerai il pericolo che avevo corso e pensai che per la mia sicurezza avrei fatto bene di non tenere nel mio studio quel libro. Bisognava portarlo subito al suo destino, ed è così che fui costretto di andar dritto verso la mia avventura. Avevo trovato qualche cosa di più di un pretesto per poter fare quello ch'era il mio desiderio.

Non ebbi più esitazioni di sorta. Giunto su quel pianerottolo, mi rivolsi subito alla porta a sinistra. Però dinanzi a quella porta m'arrestai per un istante ad ascoltare i suoni della ballata «La mia bandiera ch'echeggiavano gloriosamente sulle scale. Pareva che, per tutto quel tempo, Carla avesse continuato a cantare la stessa cosa. Sorrisi pieno di affetto e di desiderio per tanta infantilità. Apersi poi cautamente la porta senza bussare ed entrai nella stanza in punta di piedi. Volevo vederla subito, subito. Nel piccolo ambiente la sua voce era veramente sgradevole. Essa cantava con grande entusiasmo e maggior calore che non quella volta della mia prima visita. Era addirittura abbandonata sullo schienale della sedia per poter emettere tutto il fiato dei suoi polmoni. Io vidi solo la testina fasciata dalle grosse treccie e mi ritirai còlto da un'emozione profonda per aver osato tanto. Essa intanto era arrivata all'ultima nota che non voleva finire più ed io potei ritornare sul pianerottolo e chiudere dietro di me la porta senza ch'essa di me s'accorgesse. Anche quell'ultima nota aveva oscillato in sù e in giù prima di affermarsi sicura. Carla sentiva dunque la nota giusta e toccava ora al Garcia d'intervenire per insegnarle a trovarla più presto.

Bussai quando mi sentii più calmo. Subito essa accorse ad aprire la porta ed io non dimenticherò giammai la sua figurina gentile, poggiata allo stipite, mentre mi fissava coi suoi grandi occhi bruni prima di saper riconoscermi nell'oscurità.

Ma intanto io m'ero calmato in modo da venir ripreso da tutte le mie esitazioni. Ero avviato a tradire Augusta, ma pensavo che come nei giorni precedenti avevo potuto contentarmi di giungere fino al Giardino Pubblico, tanto più facilmente ora avrei potuto fermarmi a quella porta, consegnare quel libro compromettente e andarmene pienamente soddisfatto. Fu un breve istante pieno di buoni propositi. Ricordai persino un consiglio strano che m'era stato dato per liberarmi dall'abitudine del fumo e che poteva valere in quell'occasione: talvolta, per contentarsi, bastava accendere il cerino e gettare poi via e sigaretta e cerino.

Mi sarebbe stato anche facile di far così, perché Carla stessa, quando mi riconobbe, arrossì e accennò a fuggire vergognandosi - come seppi poi - di farsi trovare vestita di un povero consunto vestitino di casa.

Una volta riconosciuto, sentii il bisogno di scusarmi:

— Le ho portato questo libro ch'io credo la interesserà. Se vuole, posso lasciarglielo e andarmene subito.

Il suono delle parole - o così mi parve - era abbastanza brusco, ma non il significato, perché in complesso la lasciavo arbitra di decidere lei se avessi dovuto andarmene o restare e tradire Augusta.

Essa subito decise, perché afferrò la mia mano per trattenermi più sicuramente e mi fece entrare. L'emozione m'oscurò la vista e ritengo sia stata provocata non tanto dal dolce contatto di quella mano, ma da quella familiarità che mi parve decidesse del mio e del destino di Augusta. Perciò credo di essere entrato con qualche riluttanza e, quando rievoco la storia del mio primo tradimento, ho il sentimento di averlo compiuto perché trascinatovi.

La faccia di Carla era veramente bella così arrossata. Fui deliziosamente sorpreso all'accorgermi che se non ero stato aspettato da lei, essa pur aveva sperata la mia visita. Essa mi disse con grande compiacenza:

— Lei sentì dunque il bisogno di rivedermi? Di rivedere la poverina che le deve tanto?

Io, certo, se avessi voluto, avrei potuto prenderla subito fra le mie braccia, ma non ci pensavo neppure. Ci pensavo tanto poco che non risposi neppure alle sue parole che mi parevano compromettenti e mi rimisi a parlare del Garcia e della necessità di quel libro per lei. Ne parlai con una furia che mi portò a qualche parola meno considerata. Garcia le avrebbe insegnato il modo di rendere le note solide come il metallo e dolci come l'aria. Le avrebbe spiegato come una nota non possa rappresentare che una linea retta e anzi un piano, ma un piano veramente levigato.

Il mio fervore sparì solo quand'essa m'interruppe per manifestarmi un suo dubbio doloroso:

— Ma dunque a lei non piace come io canto?

Fui stupito della sua domanda. Io avevo fatta una critica rude, ma non ne avevo la coscienza e protestai in piena buona fede. Protestai tanto bene che mi parve di esser ritornato, sempre parlando del solo canto, all'amore che tanto imperiosamente m'aveva trascinato in quella casa. E le mie parole furono tanto amorose che lasciarono tuttavia trasparire una parte di sincerità:

— Come può credere una cosa simile? Sarei qui se così fosse? Io sono stato su quel pianerottolo per lungo tempo a bearmi del suo canto, delizioso ed eccelso canto nella sua ingenuità. Soltanto io ritengo che alla sua perfezione occorra qualche cosa d'altro e sono venuto a portarglielo.

Quale potenza aveva tuttavia nel mio animo il pensiero di Augusta, se continuavo ostinatamente a protestare di non essere stato trascinato dal mio desiderio!

Carla stette a sentire le mie parole lusinghiere, ch'essa non era neppure al caso di analizzare. Non era molto colta, ma, con mia grande sorpresa, compresi che non mancava di buon senso. Mi raccontò ch'essa stessa aveva dei forti dubbii sul suo talento e sulla sua voce: sentiva che non faceva dei progressi. Spesso, dopo una certa quantità di ore di studio, essa si concedeva lo svago e il premio di cantare «La mia Bandiera» sperando di scoprire nella propria voce qualche nuova qualità. Ma era sempre la stessa cosa: non peggio e forse sempre abbastanza bene come le assicuravano quanti la udivano ed io anche (e qui mi mandò dai suoi begli occhi bruni un lampo mitemente interrogativo che dimostrava com'essa avesse bisogno di essere rassicurata sul senso delle mie parole che ancora le sembrava dubbio) ma un vero progresso non c'era. Il maestro diceva che in arte non c'erano progressi lenti, ma grandi salti che portavano alla meta e che un bel giorno essa si sarebbe destata grande artista.

— È una cosa lunga, però, - aggiunse guardando nel vuoto e rivedendo forse tutte le sue ore di noia e di dolore.

Si dice onesto prima di tutto quello ch'è sincero e da parte mia sarebbe stato onestissimo di consigliare alla povera fanciulla di lasciare lo studio del canto e divenire la mia amante. Ma io non ero ancora giunto tanto lontano dal Giardino Pubblico, eppoi, se non altro, non ero molto sicuro del mio giudizio nell'arte del canto. Da alcuni istanti io ero fortemente preoccupato da una sola persona: quel noioso Copler che passava ogni festa nella mia villa con me e con mia moglie. Sarebbe stato quello il momento di trovare un pretesto per pregare la fanciulla di non raccontare al Copler della mia visita. Ma non lo feci non sapendo come travestire la mia domanda e fu bene, perché pochi giorni appresso il povero mio amico ammalò e subito dopo morì.

Intanto le dissi ch'essa avrebbe trovato nel Garcia tutto quello che cercava, e per un istante solo, ma solo per un istante, essa ansiosamente aspettò dei miracoli da quel libro. Presto però, trovandosi dinanzi a tante parole, dubitò dell'efficacia della magia. Io leggevo le teorie del Garcia in italiano, poi in italiano gliele spiegavo e, quando non bastava, gliele traducevo in triestino, ma essa non sentiva moversi niente nella sua gola e una vera efficacia in quel libro essa avrebbe potuto riconoscere solo se si fosse manifestata in quel punto. Il male è che anch'io, poco dopo, ebbi la convinzione che in mano mia quel libro non valeva molto. Rivedendo per ben tre volte quelle frasi e non sapendo che farmene, mi vendicai della mia incapacità criticandole liberamente. Ecco che il Garcia perdeva il suo e il mio tempo per provare che poiché la voce umana sapeva produrre varii suoni non era giusto di considerarla quale uno strumento solo. Anche il violino allora avrebbe dovuto essere considerato quale un conglomerato di strumenti. Ebbi forse torto di comunicare a Carla tale mia critica, ma accanto ad una donna che si vuole conquistare è difficile di trattenersi dall'approfittare di un'occasione che si presenti per dimostrare la propria superiorità. Essa infatti m'ammirò, ma proprio fisicamente allontanò da sé il libro ch'era il nostro Galeotto, ma che non ci accompagnò fino alla colpa. Io ancora non mi rassegnai di rinunziarvi e lo rimandai ad altra mia visita. Quando il Copler morì non ve ne fu più di bisogno. Era rotto qualunque nesso fra quella casa e la mia e così il mio procedere non poteva essere frenato che dalla mia coscienza.

Ma intanto eravamo divenuti abbastanza intimi, di un'intimità maggiore di quanto si avrebbe potuto attendersi da quella mezz'ora di conversazione. Io credo che l'accordo in un giudizio critico unisca intimamente. La povera Carla approfittò di tale intimità per mettermi a parte delle sue tristezze. Dopo l'intervento del Copler, in quella casa si viveva modestamente ma senza grandi privazioni. Il maggior peso per le due povere donne era il pensiero del futuro. Perché il Copler portava loro a date ben precise il suo soccorso, ma non permetteva di calcolarvi con sicurezza; egli non voleva pensieri e preferiva li avessero loro. Poi non dava gratuitamente quei denari: Era il vero padrone in quella casa e intendeva di essere informato di ogni piccolezza. Guai se si permettevano una spesa non preventivamente approvata da lui! La madre di Carla, poco tempo prima, era stata indisposta e Carla, per poter accudire alle faccende domestiche, aveva trascurato per qualche giorno di cantare. Informatone dal maestro, il Copler fece una scenata e se ne andò dichiarando che allora non valeva la pena di seccare dei valentuomini per indurli a soccorrerle. Per varii giorni esse vissero nel terrore temendo di essere abbandonate al loro destino. Poi, quando ritornò, rinnovò patti e condizioni e stabilì esattamente per quante ore al giorno Carla dovesse sedere al pianoforte e quante ne potesse dedicare alla casa. Minacciò anche di venir a sorprenderle a tutte le ore del giorno.

— Certo, - concludeva la fanciulla, - egli non vuole altro che il nostro bene, ma s'arrabbia tanto per cose di nessuna importanza, che una volta o l'altra, nell'ira, finirà col gettarci sul lastrico. Ma ora che anche lei si occupa di noi, non c'è più questo pericolo, nevvero?

E di nuovo mi strinse la mano. Poiché io non risposi subito, essa temette ch'io mi sentissi solidale col Copler, e aggiunse:

— Anche il signor Copler dice che lei è tanto buono!

Questa frase voleva essere un complimento diretto a me, ma anche al Copler.

La sua figura presentatami con tanta antipatia da Carla, era nuova per me e destava proprio la mia simpatia. Avrei voluto somigliargli mentre il desiderio che mi aveva portato in quella casa me ne rendeva tanto dissimile! Era ben vero che alle due donne egli portava i denari altrui, ma dava tutta l'opera propria, una parte della propria vita. Quella rabbia, ch'egli dedicava loro, era veramente paterna. Ebbi però un dubbio: e se a tale opera fosse stato indotto dal desiderio? Senz'esitare domandai a Carla:

— Il Copler le ha mai chiesto un bacio?

— Mai! - rispose Carla con vivacità. - Quand'è soddisfatto del mio comportamento, seccamente impartisce la sua approvazione, mi stringe leggermente la mano e se ne va. Altre volte, quand'è arrabbiato, mi rifiuta anche la stretta di mano e non s'accorge nemmeno ch'io dallo spavento piango. Un bacio in quel momento sarebbe per me una liberazione.

Visto ch'io mi misi a ridere, Carla si spiegò meglio: - Accetterei con riconoscenza il bacio di un uomo tanto vecchio cui devo tanto!

Ecco il vantaggio dei malati reali; appariscono più vecchi di quanto non sieno.

Feci un debole tentativo di somigliare al Copler. Sorridendo per non spaventare troppo la povera fanciulla, le dissi che anch'io, quando mi occupavo di qualcuno, finivo col divenire molto imperioso. In complesso anch'io trovavo che quando si studiava un'arte si dovesse farlo seriamente. Poi m'investii tanto bene della mia parte che cessai persino di sorridere. Il Copler aveva ragione d'essere severo con una giovinetta che non poteva intendere il valore del tempo: bisognava anche ricordare quante persone facevano dei sacrifici per aiutarla. Ero veramente serio e severo.

Venne così per me l'ora di andare a colazione e specialmente quel giorno non avrei voluto far aspettare Augusta. Porsi la mano a Carla e allora m'avvidi com'essa fosse pallida. Volli confortarla:

— Stia sicura ch'io farò sempre del mio meglio per appoggiarla presso il Copler e tutti gli altri.

Essa ringraziò, ma pareva tuttavia abbattuta. Poi seppi che vedendomi arrivare, essa subito aveva indovinata quasi la verità e aveva pensato ch'io fossi innamorato di lei e quindi salva. Poi invece - e proprio quando m'accinsi ad andarmene - essa credette che anch'io fossi innamorato solo dell'arte e del canto e che perciò se essa non avesse cantato bene e fatti dei progressi, l'avrei abbandonata.

Mi parve abbattutissima. Fui preso da compassione e, visto che non c'era altro tempo da perdere, la rassicurai col mezzo ch'essa stessa aveva designato quale il più efficace. Ero già alla porta che l'attrassi a me, spostai accuratamente col naso la grossa treccia dal suo collo cui così giunsi con le labbra e sfiorai persino coi denti. Aveva l'apparenza di uno scherzo ed anch'essa finì col riderne, ma soltanto quando io la lasciai. Fino a quel momento essa era rimasta inerte e stupita fra le mie braccia.

Mi seguì sul pianerottolo e, quando cominciai a scendere, mi domandò ridendo:

— Quando ritorna?

— Domani o forse più tardi! - risposi io già incerto. Poi più deciso: - Certamente vengo domani! - Quindi, in seguito al desiderio di non compromettermi troppo, aggiunsi: - Continueremo la lettura del Garcia.

Ella non mutò di espressione in quel breve tempo: assentì alla prima malsicura promessa, assentì riconoscente alla seconda e assentì anche al mio terzo proposito, sempre sorridendo. Le donne sanno sempre quello che vogliono. Non ci furono esitazioni né per parte di Ada che mi respinse, né dall'Augusta che mi prese, e neppure da Carla, che mi lasciò fare.

Sulla via mi trovai subito più vicino ad Augusta che non a Carla. Respirai l'aria fresca, aperta ed ebbi pieno il sentimento della mia libertà. Io non avevo fatto altro che uno scherzo che non poteva perdere tale suo carattere perché era finito su quel collo e sotto quella treccia. Infine Carla aveva accettato quel bacio come una promessa di affetto e sopra tutto di assistenza.

Quel giorno a tavola, però, cominciai veramente a soffrire. Tra me e Augusta stava la mia avventura, come una grande ombra fosca che mi pareva impossibile non fosse vista anche da lei. Mi sentivo piccolo, colpevole e malato, e sentivo il dolore al fianco come un dolore simpatico che riverberasse dalla grande ferita alla mia coscienza. Mentre distrattamente fingevo di mangiare, cercai il sollievo in un proposito ferreo: «Non la rivedrò più - pensai - e se, per riguardo, la dovrò rivedere, sarà per l'ultima volta». Non si pretendeva poi mica tanto da me: un solo sforzo, quello di non rivedere più Carla.

Augusta ridendo, mi domandò:

— Sei stato dall'Olivi che ti vedo tanto preoccupato?

Mi misi a ridere anch'io. Era un grande sollievo quello di poter parlare. Le parole non erano quelle che avrebbero potuto dare la pace intera perché per dire quelle sarebbe occorso di confessare eppoi promettere, ma, non potendo altrimenti, era già un bel sollievo di dirne delle altre. Parlai abbondantemente, sempre lieto e buono. Poi trovai ancora di meglio: parlai della piccola lavanderia ch'essa tanto desiderava e che io fino ad allora le avevo rifiutata, e le diedi subito il permesso di costruirla. Essa fu tanto commossa del mio non sollecitato permesso che si alzò e venne a darmi un bacio. Ecco un bacio ch'evidentemente cancellava quell'altro, ed io mi sentii subito meglio.

Fu così ch'ebbimo la lavanderia e ancora oggidì, quando passo dinanzi alla minuscola costruzione, ricordo che Augusta la volle e Carla la consentì.

Seguì un pomeriggio incantevole riempito dal nostro affetto. Nella solitudine la mia coscienza era più seccante. La parola e l'affetto di Augusta valevano a calmarla. Uscimmo insieme. Poi l'accompagnai da sua madre e passai anche tutta la serata con lei.