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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 2.2 La Morte di Mio Padre

2.2 La Morte di Mio Padre

Maria venne a sparecchiare e a dirmi che le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Così andai a dormire anch'io del tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come una ninna nanna che s'allontanò sempre di più da me, perché mi immersi nel sonno.

Non so per quanto tempo io abbia dormito. Fui destato da Maria. Pare che più volte essa fosse venuta nella mia stanza a chiamarmi e fosse poi corsa via. Nel mio sonno profondo ebbi dapprima un certo turbamento, poi intravvidi la vecchia che saltava per la camera e infine capii. Mi voleva svegliare, ma quando vi riuscì, essa non era più nella mia stanza. Il vento continuava a cantarmi il sonno ed io, per essere veritiero, debbo confessare che andai alla stanza di mio padre col dolore di essere stato strappato dal mio sonno. Ricordavo che Maria vedeva sempre mio padre in pericolo. Guai a lei se egli non fosse stato ammalato questa volta!

La stanza di mio padre, non grande, era ammobiliata un po' troppo. Alla morte di mia madre, per dimenticare meglio, egli aveva cambiato stanza, portando con sé nel nuovo ambiente più piccolo, tutti i suoi mobili. La stanza illuminata scarsamente da una fiammella a gas posta sul tavolo da notte molto basso, era tutta in ombra. Maria sosteneva mio padre che giaceva supino, ma con una parte del busto sporgente dal letto. La faccia di mio padre coperta di sudore rosseggiava causa la luce vicina. La sua testa poggiava sul petto fedele di Maria. Ruggiva dal dolore e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giù per il mento. Guardava immoto la parete di faccia e non si volse quand'io entrai.

Maria mi raccontò di aver sentito il suo lamento e di essere arrivata in tempo per impedirgli di cadere dal letto. Prima - essa assicurava - egli s'era agitato di più, mentre ora le pareva relativamente tranquillo, ma non si sarebbe rischiata di lasciarlo solo. Voleva forse scusarsi di avermi chiamato mentre io già avevo capito che aveva fatto bene a destarmi. Parlandomi essa piangeva, ma io ancora non piansi con lei ed anzi l'ammonii di stare zitta e di non aumentare coi suoi lamenti lo spavento di quell'ora. Non avevo ancora capito tutto. La poverina fece ogni sforzo per calmare i suoi singulti.

M'avvicinai all'orecchio di mio padre e gridai:

— Perché ti lamenti, papà? Ti senti male?

Credo ch'egli sentisse, perché il suo gemito si fece più fioco ed egli stornò l'occhio dalla parete di faccia come se avesse tentato di vedermi; ma non arrivò a rivolgerlo a me. Più volte gli gridai nell'orecchio la stessa domanda e sempre con lo stesso esito. Il mio contegno virile sparve subito. Mio padre, a quell'ora, era più vicino alla morte che a me, perché il mio grido non lo raggiungeva più. Mi prese un grande spavento e ricordai prima di tutto le parole che avevamo scambiate la sera prima. Poche ore dopo egli s'era mosso per andar a vedere chi di noi due avesse ragione. Curioso! Il mio dolore veniva accompagnato dal rimorso. Celai il capo sul guanciale stesso di mio padre e piansi disperatamente emettendo i singulti che poco prima avevo rimproverati a Maria.

Toccò ora a lei di calmarmi, ma lo fece in modo strano. Mi esortava alla calma parlando però di mio padre, che tuttavia gemeva con gli occhi anche troppo aperti, come di un uomo morto.

— Poverino! - diceva. - Morire così! Con questa ricca e bella chioma. - L'accarezzava. Era vero. La testa di mio padre era incoronata da una ricca, bianca chioma ricciuta, mentre io a trent'anni avevo già i capelli molto radi.

Non ricordai che a questo mondo c'erano i medici e che si supponeva che talvolta portassero la salvezza. Io avevo già vista la morte su quella faccia sconvolta dal dolore e non speravo più. Fu Maria che per prima parlò del medico e andò poi a destare il contadino per mandarlo in città.

Restai solo a sostenere mio padre per una decina di minuti che mi parvero un'eternità. Ricordo che cercai di mettere nelle mie mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore. Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l'amavo tanto?

Quando venne il contadino, mi recai nella mia stanza per scrivere un biglietto e mi fu difficile di mettere insieme quel paio di parole che dovevano dare al dottore un'idea del caso onde potesse portare subito con sé anche dei medicinali. Continuamente vedevo dinanzi a me la sicura imminente morte di mio padre e mi domandavo: «Che cosa farò io ora a questo mondo?».

Poi seguirono delle lunghe ore d'attesa. Ho un ricordo abbastanza esatto di quelle ore. Dopo la prima non occorse più sostenere mio padre che giaceva privo di sensi composto nel letto. Il suo gemito era cessato, ma la sua insensibilità era assoluta. Aveva una respirazione frettolosa, che io, quasi inconsciamente, imitavo. Non potevo respirare a lungo su quel metro e m'accordavo delle soste sperando di trascinare con me al riposo anche l'ammalato. Ma egli correva avanti instancabile. Tentammo invano di fargli prendere un cucchiaio di tè. La sua incoscienza diminuiva quando si trattava di difendersi da un nostro intervento. Risoluto, chiudeva i denti. Anche nell'incoscienza veniva accompagnato da quella sua indomabile ostinazione. Molto prima dell'alba la sua respirazione mutò di ritmo. Si raggruppò in periodi che esordivano con alcune respirazioni lente che avrebbero potuto sembrare di uomo sano, alle quali seguivano altre frettolose che si fermavano in una sosta lunga, spaventosa, che a Maria e a me sembrava l'annunzio della morte. Ma il periodo riprendeva sempre circa eguale, un periodo musicale di una tristezza infinita, così privo di colore. Quella respirazione che non fu sempre uguale, ma sempre rumorosa, divenne come una parte di quella stanza. Da quell'ora vi fu sempre, per lungo e lungo tempo!

Passai alcune ore gettato su un sofà, mentre Maria stava seduta accanto al letto. Su quel sofà piansi le mie più cocenti lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz'obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime.

Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali dolorosi ricordi, scopro che l'immagine che m'ossessionò al primo mio tentativo di vedere nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un'erta, io l'ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno così le locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi s'accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle. Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m'aveva riportato a quella notte, alle ore più importanti della mia vita.

Il dottore Coprosich arrivò alla villa quando ancora non albeggiava, accompagnato da un infermiere che portava una cassetta di medicinali. Aveva dovuto venir a piedi perché, a causa del violento uragano, non aveva trovata una vettura.

Lo accolsi piangendo ed egli mi trattò con grande dolcezza incorandomi anche a sperare. Eppure devo subito dire, che dopo quel nostro incontro, a questo mondo vi sono pochi uomini che destino in me una così viva antipatia come il dottor Coprosich.

Egli, oggi, vive ancora, decrepito e circondato dalla stima di tutta la città. Quando lo scorgo così indebolito e incerto camminare per le vie in cerca di un poco d'attività e d'aria, in me, ancora adesso, si rinnova l'avversione.

Allora il dottore avrà avuto poco più di quarant'anni. S'era dedicato molto alla medicina legale e, per quanto fosse notoriamente un buonissimo italiano, gli venivano affidate dalle imperial regie autorità le perizie più importanti. Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un'altra sua debolezza gli dava dell'importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici. Erano degli occhi spiacevoli allora. Se aveva da dire anche una sola parola rimetteva sul naso gli occhiali ed ecco che i suoi occhi ridivenivano quelli di un buon borghese qualunque che esamina accuratamente le cose di cui parla.

Si sedette in anticamera e riposò per qualche minuto. Mi domandò di raccontargli esattamente quello ch'era avvenuto dal primo allarme fino al suo arrivo. Si levò gli occhiali e fissò con i suoi occhi strani la parete dietro di me.

Cercai di essere esatto, ciò che non fu facile dato lo stato in cui mi trovavo. Ricordavo anche che il dottor Coprosich non tollerava che le persone che non sapevano di medicina usassero termini medici atteggiandosi a sapere qualche cosa di quella materia. E quando arrivai a parlare di quella che a me era apparsa quale una «respirazione cerebrale» egli si mise gli occhiali per dirmi: «Adagio con le definizioni. Vedremo poi di che si tratti». Avevo parlato anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato. Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse intensamente a qualche cosa che s'aggirava nella sua testa e ch'egli non arrivava a formulare. Il dottore, con tanto d'occhiali sul naso, esclamò trionfalmente:

— So quello che s'aggirava nella sua testa!

Lo sapevo anch'io, ma non lo dissi per non far arrabbiare il dottor Coprosich: erano gli edemi.

Andammo al letto dell'ammalato. Con l'aiuto dell'infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

— Basta! - disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

— Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.

Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

Era perciò senza occhiali e quando l'alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz'occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell'avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt'al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L'evidenza della mia colpa m'atterrò, ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch'io perciò la deridevo.

Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. - Fra un paio d'ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, - disse.

— C'è speranza dunque? - esclamai io.

— Nessunissima! - rispose seccamente. - Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po' della sua coscienza, forse per impazzire.

Alzò le spalle e rimise a posto l'asciugamano. Quell'alzata di spalle significava proprio un disdegno per l'opera propria e m'incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all'idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell'alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

— Dottore! - supplicai. - Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l'avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull'opera sua.

Con grande bontà egli mi disse:

— Via, si calmi. La coscienza dell'infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch'è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l'infermiere resterà qui.

Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l'infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l'ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m'arrabbiai. Poteva esserci un'azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz'avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare - con quell'affanno! - la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.

Io odio quell'uomo perché egli allora s'arrabbiò con me. È ciò ch'io non seppi mai perdonargli. Egli s'agitò tanto che dimenticò d'inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.

Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l'ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c'erano altri posti a questo mondo!

Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:

— Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell'istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz'ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.

Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d'impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull'importanza che poteva avere l'intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz'ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.

Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!

Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev'essere stato per tale riguardo ch'io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio cuore, di quei giorni, non v'è altro residuo che l'antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.

Più tardi andammo ancora una volta al letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta una pezzuola sulla tempia per coprire le ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle subito provare se la sua coscienza avesse aumentato e gli gridò nelle orecchie. L'ammalato non reagì in alcun modo.

— Meglio così! - dissi io con grande coraggio, ma sempre piangendo.

— L'effetto atteso non potrà mancare! - rispose il dottore. - Non vede che la respirazione s'è già modificata?

Infatti, frettolosa e affaticata, la respirazione non formava più quei periodi che mi avevano spaventato.

L'infermiere disse qualche cosa al medico che annuì. Si trattava di provare al malato la camicia di forza. Trassero quell'ordigno dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo a star seduto sul letto. Allora l'ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo che subito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell'ammalato ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe bambole.

Il dottore trionfò:

— È tutt'altra cosa; - mormorò.

Sì: era tutt'altra cosa! Per me nient'altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio padre sulla fronte e nel pensiero gli augurai:

— Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al sonno eterno!

Ed è così che augurai a mio padre la morte, ma il dottore non l'indovinò perché mi disse bonariamente:

— Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo ritornare in sé!

Quando il dottore partì, l'alba era spuntata. Un'alba fosca, esitante. Il vento che soffiava ancora a raffiche, mi parve meno violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.

Accompagnai il dottore in giardino. Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse il mio livore. La mia faccia significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una smorfia di disgusto, che mi sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il viottolo che conduceva all'uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve, barcollava e si fermava ad ogni raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella smorfia e sentii il bisogno di altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.

L'ammalato dormiva sempre. Solo disse due parole che io non intesi, ma nel più calmo tono di conversazione, stranissimo perché interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S'avvicinava alla coscienza e alla disperazione?

2.2 La Morte di Mio Padre 2.2 Ο θάνατος του πατέρα μου 2.2 My Father's Death 2.2 La muerte de mi padre 2.2 La mort de mon père 2.2 A morte do meu pai 2.2 Min fars död

Maria venne a sparecchiare e a dirmi che le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Così andai a dormire anch'io del tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come una ninna nanna che s'allontanò sempre di più da me, perché mi immersi nel sonno.

Non so per quanto tempo io abbia dormito. Fui destato da Maria. Pare che più volte essa fosse venuta nella mia stanza a chiamarmi e fosse poi corsa via. It seems that several times she had come to my room to call me and then ran away. Nel mio sonno profondo ebbi dapprima un certo turbamento, poi intravvidi la vecchia che saltava per la camera e infine capii. In my deep sleep I was first troubled, then I caught a glimpse of the old woman jumping around the room and finally understood. Mi voleva svegliare, ma quando vi riuscì, essa non era più nella mia stanza. Il vento continuava a cantarmi il sonno ed io, per essere veritiero, debbo confessare che andai alla stanza di mio padre col dolore di essere stato strappato dal mio sonno. Ricordavo che Maria vedeva sempre mio padre in pericolo. Guai a lei se egli non fosse stato ammalato questa volta!

La stanza di mio padre, non grande, era ammobiliata un po' troppo. Alla morte di mia madre, per dimenticare meglio, egli aveva cambiato stanza, portando con sé nel nuovo ambiente più piccolo, tutti i suoi mobili. La stanza illuminata scarsamente da una fiammella a gas posta sul tavolo da notte molto basso, era tutta in ombra. Maria sosteneva mio padre che giaceva supino, ma con una parte del busto sporgente dal letto. La faccia di mio padre coperta di sudore rosseggiava causa la luce vicina. La sua testa poggiava sul petto fedele di Maria. Ruggiva dal dolore e la bocca era tanto inerte che ne colava la saliva giù per il mento. Guardava immoto la parete di faccia e non si volse quand'io entrai.

Maria mi raccontò di aver sentito il suo lamento e di essere arrivata in tempo per impedirgli di cadere dal letto. Prima - essa assicurava - egli s'era agitato di più, mentre ora le pareva relativamente tranquillo, ma non si sarebbe rischiata di lasciarlo solo. Voleva forse scusarsi di avermi chiamato mentre io già avevo capito che aveva fatto bene a destarmi. Parlandomi essa piangeva, ma io ancora non piansi con lei ed anzi l'ammonii di stare zitta e di non aumentare coi suoi lamenti lo spavento di quell'ora. Non avevo ancora capito tutto. La poverina fece ogni sforzo per calmare i suoi singulti.

M'avvicinai all'orecchio di mio padre e gridai:

— Perché ti lamenti, papà? Ti senti male?

Credo ch'egli sentisse, perché il suo gemito si fece più fioco ed egli stornò l'occhio dalla parete di faccia come se avesse tentato di vedermi; ma non arrivò a rivolgerlo a me. Più volte gli gridai nell'orecchio la stessa domanda e sempre con lo stesso esito. Il mio contegno virile sparve subito. My manly demeanor immediately disappeared. Mio padre, a quell'ora, era più vicino alla morte che a me, perché il mio grido non lo raggiungeva più. Mi prese un grande spavento e ricordai prima di tutto le parole che avevamo scambiate la sera prima. Poche ore dopo egli s'era mosso per andar a vedere chi di noi due avesse ragione. Curioso! Il mio dolore veniva accompagnato dal rimorso. Celai il capo sul guanciale stesso di mio padre e piansi disperatamente emettendo i singulti che poco prima avevo rimproverati a Maria. I concealed my head on my father's own pillow and wept in despair, emitting the sobs I had reproached Mary with just before.

Toccò ora a lei di calmarmi, ma lo fece in modo strano. Mi esortava alla calma parlando però di mio padre, che tuttavia gemeva con gli occhi anche troppo aperti, come di un uomo morto.

— Poverino! - diceva. - Morire così! Con questa ricca e bella chioma. - L'accarezzava. Era vero. La testa di mio padre era incoronata da una ricca, bianca chioma ricciuta, mentre io a trent'anni avevo già i capelli molto radi.

Non ricordai che a questo mondo c'erano i medici e che si supponeva che talvolta portassero la salvezza. I did not remember that there were doctors in this world and that they were supposed to bring salvation sometimes. Io avevo già vista la morte su quella faccia sconvolta dal dolore e non speravo più. Fu Maria che per prima parlò del medico e andò poi a destare il contadino per mandarlo in città.

Restai solo a sostenere mio padre per una decina di minuti che mi parvero un'eternità. Ricordo che cercai di mettere nelle mie mani, che toccavano quel corpo torturato, tutta la dolcezza che aveva invaso il mio cuore. Le parole egli non poteva sentirle. Come avrei fatto a fargli sapere che l'amavo tanto?

Quando venne il contadino, mi recai nella mia stanza per scrivere un biglietto e mi fu difficile di mettere insieme quel paio di parole che dovevano dare al dottore un'idea del caso onde potesse portare subito con sé anche dei medicinali. Continuamente vedevo dinanzi a me la sicura imminente morte di mio padre e mi domandavo: «Che cosa farò io ora a questo mondo?».

Poi seguirono delle lunghe ore d'attesa. Ho un ricordo abbastanza esatto di quelle ore. Dopo la prima non occorse più sostenere mio padre che giaceva privo di sensi composto nel letto. After the first one it was no longer necessary to support my father who lay unconscious composed in bed. Il suo gemito era cessato, ma la sua insensibilità era assoluta. Aveva una respirazione frettolosa, che io, quasi inconsciamente, imitavo. Non potevo respirare a lungo su quel metro e m'accordavo delle soste sperando di trascinare con me al riposo anche l'ammalato. I couldn't breathe for long on that meter, and I would tune out stops hoping to drag the sick person with me to rest as well. Ma egli correva avanti instancabile. Tentammo invano di fargli prendere un cucchiaio di tè. We tried in vain to get him to take a spoonful of tea. La sua incoscienza diminuiva quando si trattava di difendersi da un nostro intervento. Risoluto, chiudeva i denti. Anche nell'incoscienza veniva accompagnato da quella sua indomabile ostinazione. Molto prima dell'alba la sua respirazione mutò di ritmo. Si raggruppò in periodi che esordivano con alcune respirazioni lente che avrebbero potuto sembrare di uomo sano, alle quali seguivano altre frettolose che si fermavano in una sosta lunga, spaventosa, che a Maria e a me sembrava l'annunzio della morte. It clustered into periods that began with a few slow breaths that might have sounded like a healthy man's, which were followed by other hurried ones that paused in a long, frightening pause that to Mary and me seemed like the announcement of death. Ma il periodo riprendeva sempre circa eguale, un periodo musicale di una tristezza infinita, così privo di colore. Quella respirazione che non fu sempre uguale, ma sempre rumorosa, divenne come una parte di quella stanza. Da quell'ora vi fu sempre, per lungo e lungo tempo!

Passai alcune ore gettato su un sofà, mentre Maria stava seduta accanto al letto. Su quel sofà piansi le mie più cocenti lacrime. Il pianto offusca le proprie colpe e permette di accusare, senz'obbiezioni, il destino. Piangevo perché perdevo il padre per cui ero sempre vissuto. Non importava che gli avessi tenuto poca compagnia. I miei sforzi per diventare migliore non erano stati fatti per dare una soddisfazione a lui? Il successo cui anelavo doveva bensì essere anche il mio vanto verso di lui, che di me aveva sempre dubitato, ma anche la sua consolazione. Ed ora invece egli non poteva più aspettarmi e se ne andava convinto della mia insanabile debolezza. Le mie lacrime erano amarissime.

Scrivendo, anzi incidendo sulla carta tali dolorosi ricordi, scopro che l'immagine che m'ossessionò al primo mio tentativo di vedere nel mio passato, quella locomotiva che trascina una sequela di vagoni su per un'erta, io l'ebbi per la prima volta ascoltando da quel sofà il respiro di mio padre. Vanno così le locomotive che trascinano dei pesi enormi: emettono degli sbuffi regolari che poi s'accelerano e finiscono in una sosta, anche quella una sosta minacciosa perché chi ascolta può temere di veder finire la macchina e il suo traino a precipizio a valle. Davvero! Il mio primo sforzo di ricordare, m'aveva riportato a quella notte, alle ore più importanti della mia vita.

Il dottore Coprosich arrivò alla villa quando ancora non albeggiava, accompagnato da un infermiere che portava una cassetta di medicinali. Aveva dovuto venir a piedi perché, a causa del violento uragano, non aveva trovata una vettura.

Lo accolsi piangendo ed egli mi trattò con grande dolcezza incorandomi anche a sperare. Eppure devo subito dire, che dopo quel nostro incontro, a questo mondo vi sono pochi uomini che destino in me una così viva antipatia come il dottor Coprosich.

Egli, oggi, vive ancora, decrepito e circondato dalla stima di tutta la città. Quando lo scorgo così indebolito e incerto camminare per le vie in cerca di un poco d'attività e d'aria, in me, ancora adesso, si rinnova l'avversione.

Allora il dottore avrà avuto poco più di quarant'anni. S'era dedicato molto alla medicina legale e, per quanto fosse notoriamente un buonissimo italiano, gli venivano affidate dalle imperial regie autorità le perizie più importanti. Era un uomo magro e nervoso, la faccia insignificante rilevata dalla calvizie che gli simulava una fronte altissima. Un'altra sua debolezza gli dava dell'importanza: quando levava gli occhiali (e lo faceva sempre quando voleva meditare) i suoi occhi accecati guardavano accanto o al disopra del suo interlocutore e avevano il curioso aspetto degli occhi privi di colore di un statua, minacciosi o, forse, ironici. Erano degli occhi spiacevoli allora. Se aveva da dire anche una sola parola rimetteva sul naso gli occhiali ed ecco che i suoi occhi ridivenivano quelli di un buon borghese qualunque che esamina accuratamente le cose di cui parla.

Si sedette in anticamera e riposò per qualche minuto. Mi domandò di raccontargli esattamente quello ch'era avvenuto dal primo allarme fino al suo arrivo. Si levò gli occhiali e fissò con i suoi occhi strani la parete dietro di me.

Cercai di essere esatto, ciò che non fu facile dato lo stato in cui mi trovavo. Ricordavo anche che il dottor Coprosich non tollerava che le persone che non sapevano di medicina usassero termini medici atteggiandosi a sapere qualche cosa di quella materia. E quando arrivai a parlare di quella che a me era apparsa quale una «respirazione cerebrale» egli si mise gli occhiali per dirmi: «Adagio con le definizioni. Vedremo poi di che si tratti». Avevo parlato anche del contegno strano di mio padre, della sua ansia di vedermi, della sua fretta di coricarsi. Non gli riferii i discorsi strani di mio padre: forse temevo di essere costretto di dire qualche cosa delle risposte che allora io a mio padre avevo dato. Raccontai però che papà non arrivava ad esprimersi con esattezza e che pareva pensasse intensamente a qualche cosa che s'aggirava nella sua testa e ch'egli non arrivava a formulare. I recounted, however, that Father did not get to express himself exactly, and that he seemed to be thinking intensely about some thing that was wandering around in his head that he could not get to formulate. Il dottore, con tanto d'occhiali sul naso, esclamò trionfalmente:

— So quello che s'aggirava nella sua testa!

Lo sapevo anch'io, ma non lo dissi per non far arrabbiare il dottor Coprosich: erano gli edemi.

Andammo al letto dell'ammalato. Con l'aiuto dell'infermiere egli girò e rigirò quel povero corpo inerte per un tempo che a me parve lunghissimo. Lo ascoltò e lo esplorò. Tentò di farsi aiutare dal paziente stesso, ma invano.

— Basta! - disse ad un certo punto. Mi si avvicinò con gli occhiali in mano guardando il pavimento e, con un sospiro, mi disse:

— Abbiate coraggio! È un caso gravissimo.

Andammo alla mia stanza ove egli si lavò anche la faccia.

Era perciò senza occhiali e quando l'alzò per asciugarla, la sua testa bagnata sembrava la testina strana di un amuleto fatta da mani inesperte. Ricordò di averci visti alcuni mesi prima ed espresse meraviglia perché non fossimo più ritornati da lui. Anzi aveva creduto che lo avessimo abbandonato per altro medico; egli allora aveva ben chiaramente dichiarato che mio padre abbisognava di cure. Quando rimproverava, così senz'occhiali, era terribile. Aveva alzata la voce e voleva spiegazioni. I suoi occhi le cercavano dappertutto.

Certo egli aveva ragione ed io meritavo dei rimproveri. Debbo dire qui, che sono sicuro che non è per quelle parole che io odio il dottor Coprosich. Mi scusai raccontandogli dell'avversione di mio padre per medici e medicine; parlavo piangendo e il dottore, con bontà generosa, cercò di quietarmi dicendomi che se anche fossimo ricorsi a lui prima, la sua scienza avrebbe potuto tutt'al più ritardare la catastrofe cui assistevamo ora, ma non impedirla.

Però, come continuò a indagare sui precedenti della malattia, ebbe nuovi argomenti di rimprovero per me. Egli voleva sapere se mio padre in quegli ultimi mesi si fosse lagnato delle sue condizioni di salute, del suo appetito e del suo sonno. Non seppi dirgli nulla di preciso; neppure se mio padre avesse mangiato molto o poco a quel tavolo a cui sedevamo giornalmente insieme. L'evidenza della mia colpa m'atterrò, ma il dottore non insistette affatto nelle domande. Apprese da me che Maria lo vedeva sempre moribondo e ch'io perciò la deridevo.

Egli stava pulendosi le orecchie, guardando in alto. - Fra un paio d'ore probabilmente ricupererà la coscienza almeno in parte, - disse.

— C'è speranza dunque? - esclamai io.

— Nessunissima! - rispose seccamente. - Però le mignatte non sbagliano mai in questo caso. Ricupererà di sicuro un po' della sua coscienza, forse per impazzire.

Alzò le spalle e rimise a posto l'asciugamano. Quell'alzata di spalle significava proprio un disdegno per l'opera propria e m'incoraggiò a parlare. Ero pieno di terrore all'idea che mio padre avesse potuto rimettersi dal suo torpore per vedersi morire, ma senza quell'alzata di spalle non avrei avuto il coraggio di dirlo.

— Dottore! - supplicai. - Non le pare sia una cattiva azione di farlo ritornare in sé?

Scoppiai in pianto. La voglia di piangere l'avevo sempre nei miei nervi scossi, ma mi vi abbandonavo senza resistenza per far vedere le mie lagrime e farmi perdonare dal dottore il giudizio che avevo osato di dare sull'opera sua.

Con grande bontà egli mi disse:

— Via, si calmi. La coscienza dell'infermo non sarà mai tanto chiara da fargli comprendere il suo stato. Egli non è un medico. Basterà non dirgli ch'è moribondo, ed egli non lo saprà. Ci può invece toccare di peggio: potrebbe cioè impazzire. Ho però portata con me la camicia di forza e l'infermiere resterà qui.

Più spaventato che mai, lo supplicai di non applicargli le mignatte. Egli allora con tutta calma mi raccontò che l'infermiere gliele aveva sicuramente già applicate perché egli ne aveva dato l'ordine prima di lasciare la stanza di mio padre. Allora m'arrabbiai. Poteva esserci un'azione più malvagia di quella di richiamare in sé un ammalato, senz'avere la minima speranza di salvarlo e solo per esporlo alla disperazione, o al rischio di dover sopportare - con quell'affanno! - la camicia di forza? Con tutta violenza, ma sempre accompagnando le mie parole di quel pianto che domandava indulgenza, dichiarai che mi pareva una crudeltà inaudita di non lasciar morire in pace chi era definitivamente condannato.

Io odio quell'uomo perché egli allora s'arrabbiò con me. È ciò ch'io non seppi mai perdonargli. Egli s'agitò tanto che dimenticò d'inforcare gli occhiali e tuttavia scoperse esattamente il punto ove si trovava la mia testa per fissarla con i suoi occhi terribili. Mi disse che gli pareva io volessi recidere anche quel tenue filo di speranza che vi era ancora. Me lo disse proprio così, crudamente.

Ci si avviava a un conflitto. Piangendo e urlando obbiettai che pochi istanti prima egli stesso aveva esclusa qualunque speranza di salvezza per l'ammalato. La casa mia e chi vi abitava non dovevano servire ad esperimenti per i quali c'erano altri posti a questo mondo!

Con grande severità e una calma che la rendeva quasi minacciosa, egli rispose:

— Io le spiegai quale era lo stato della scienza in quell'istante. Ma chi può dire quello che può avvenire fra mezz'ora o fino a domani? Tenendo in vita suo padre io ho lasciata aperta la via a tutte le possibilità.

Si mise allora gli occhiali e, col suo aspetto d'impiegato pedantesco, aggiunse ancora delle spiegazioni che non finivano più, sull'importanza che poteva avere l'intervento del medico nel destino economico di una famiglia. Mezz'ora in più di respiro poteva decidere del destino di un patrimonio.

Piangevo oramai anche perché compassionavo me stesso per dover star a sentire tali cose in simile momento. Ero esausto e cessai dal discutere. Tanto le mignatte erano già state applicate!

Il medico è una potenza quando si trova al letto di un ammalato ed io al dottor Coprosich usai ogni riguardo. Dev'essere stato per tale riguardo ch'io non osai di proporre un consulto, cosa che mi rimproverai per lunghi anni. Ora anche quel rimorso è morto insieme a tutti i miei altri sentimenti di cui parlo qui con la freddezza con cui racconterei di avvenimenti toccati ad un estraneo. Nel mio cuore, di quei giorni, non v'è altro residuo che l'antipatia per quel medico che tuttavia si ostina a vivere.

Più tardi andammo ancora una volta al letto di mio padre. Lo trovammo che dormiva adagiato sul fianco destro. Gli avevano posta una pezzuola sulla tempia per coprire le ferite prodotte dalle mignatte. Il dottore volle subito provare se la sua coscienza avesse aumentato e gli gridò nelle orecchie. L'ammalato non reagì in alcun modo.

— Meglio così! - dissi io con grande coraggio, ma sempre piangendo.

— L'effetto atteso non potrà mancare! - rispose il dottore. - Non vede che la respirazione s'è già modificata?

Infatti, frettolosa e affaticata, la respirazione non formava più quei periodi che mi avevano spaventato.

L'infermiere disse qualche cosa al medico che annuì. Si trattava di provare al malato la camicia di forza. Trassero quell'ordigno dalla valigia e alzarono mio padre obbligandolo a star seduto sul letto. Allora l'ammalato aperse gli occhi: erano foschi, non ancora aperti alla luce. Io singhiozzai ancora, temendo che subito guardassero e vedessero tutto. Invece, quando la testa dell'ammalato ritornò sul guanciale, quegli occhi si rinchiusero, come quelli di certe bambole.

Il dottore trionfò:

— È tutt'altra cosa; - mormorò.

Sì: era tutt'altra cosa! Per me nient'altro che una grave minaccia. Con fervore baciai mio padre sulla fronte e nel pensiero gli augurai:

— Oh, dormi! Dormi fino ad arrivare al sonno eterno!

Ed è così che augurai a mio padre la morte, ma il dottore non l'indovinò perché mi disse bonariamente:

— Anche a lei fa piacere, ora, di vederlo ritornare in sé!

Quando il dottore partì, l'alba era spuntata. Un'alba fosca, esitante. Il vento che soffiava ancora a raffiche, mi parve meno violento, benché sollevasse tuttavia la neve ghiacciata.

Accompagnai il dottore in giardino. Esageravo gli atti di cortesia perché non indovinasse il mio livore. La mia faccia significava solo considerazione e rispetto. Mi concessi una smorfia di disgusto, che mi sollevò dallo sforzo, solo quando lo vidi allontanare per il viottolo che conduceva all'uscita della villa. Piccolo e nero in mezzo alla neve, barcollava e si fermava ad ogni raffica per poter resistere meglio. Non mi bastò quella smorfia e sentii il bisogno di altri atti violenti, dopo tanto sforzo. Camminai per qualche minuto per il viale, nel freddo, a capo scoperto, pestando irosamente i piedi nella neve alta. Non so però se tanta ira puerile fosse rivolta al dottore o non piuttosto a me stesso. Prima di tutto a me stesso, a me che avevo voluto morto mio padre e che non avevo osato dirlo. Il mio silenzio convertiva quel mio desiderio ispirato dal più puro affetto filiale, in un vero delitto che mi pesava orrendamente.

L'ammalato dormiva sempre. Solo disse due parole che io non intesi, ma nel più calmo tono di conversazione, stranissimo perché interruppe il suo respiro sempre frequentissimo tanto lontano da ogni calma. S'avvicinava alla coscienza e alla disperazione?