1.2 Il fumo
Mio figlio aveva da poco compiuti i tre anni quando mia moglie ebbe una buona idea. Mi consigliò, per sviziarmi, di farmi rinchiudere per qualche tempo in una casa di salute. Accettai subito, prima di tutto perché volevo che quando mio figlio fosse giunto all'età di potermi giudicare mi trovasse equilibrato e sereno, eppoi per la ragione più urgente che l'Olivi stava male e minacciava di abbandonarmi per cui avrei potuto essere obbligato di prendere il suo posto da un momento all'altro e mi consideravo poco atto ad una grande attività con tutta quella nicotina in corpo.
Dapprima avevamo pensato di andare in Svizzera, il paese classico delle case di salute, ma poi apprendemmo che a Trieste v'era un certo dottor Muli che vi aveva aperto uno stabilimento. Incaricai mia moglie di recarsi da lui, ed egli le offerse di mettere a mia disposizione un appartamentino chiuso nel quale sarei stato sorvegliato da un'infermiera coadiuvata anche da altre persone. Parlandomene mia moglie ora sorrideva ed ora clamorosamente rideva. La divertiva l'idea di farmi rinchiudere ed io di cuore ne ridevo con lei. Era la prima volta ch'essa s'associava a me nei miei tentativi di curarmi. Fino allora ella non aveva mai presa la mia malattia sul serio e diceva che il fumo non era altro che un modo un po' strano e non troppo noioso di vivere. Io credo ch'essa fosse stata sorpresa gradevolmente dopo di avermi sposato di non sentirmi mai rimpiangere la mia libertà, occupato com'ero a rimpiangere altre cose.
Andammo alla casa di salute il giorno in cui l'Olivi mi disse che in nessun caso sarebbe rimasto da me oltre il mese dopo. A casa preparammo un po' di biancheria in un baule e subito di sera andammo dal dottor Muli.
Egli ci accolse in persona alla porta. Allora il dottor Muli era un bel giovane. Si era in pieno d'estate ed egli, piccolo, nervoso, la faccina brunita dal sole nella quale brillavano ancor meglio i suoi vivaci occhi neri, era l'immagine dell'eleganza, nel suo vestito bianco dal colletto fino alle scarpe. Egli destò la mia ammirazione, ma evidentemente ero anch'io oggetto della sua.
Un po' imbarazzato, comprendendo la ragione della sua ammirazione, gli dissi:
— Già: Ella non crede né alla necessità della cura né alla serietà con cui mi vi accingo.
Con un lieve sorriso, che pur mi ferì, il dottore rispose:
— Perché? Forse è vero che la sigaretta è più dannosa per lei di quanto noi medici ammettiamo. Solo non capisco perché lei, invece di cessare ex abrupto di fumare, non si sia piuttosto risolto di diminuire il numero delle sigarette che fuma. Si può fumare, ma non bisogna esagerare.
In verità, a forza di voler cessare del tutto dal fumare, all'eventualità di fumare di meno non avevo mai pensato.
Ma venuto ora, quel consiglio non poteva che affievolire il mio proposito. Dissi una parola risoluta:
— Giacché è deciso, lasci che tenti questa cura.
— Tentare? - e il dottore rise con aria di superiorità. - Una volta che lei vi si è accinto, la cura deve riuscire. Se Lei non vorrà usare della sua forza muscolare con la povera Giovanna, non potrà uscire di qua. Le formalità per liberarla durerebbero tanto che nel frattempo ella avrebbe dimenticato il suo vizio.
Ci trovavamo nell'appartamento che m'era destinato a cui eravamo giunti ritornando a pianoterra dopo di essere saliti al secondo piano.
— Vede? Quella porta sbarrata impedisce la comunicazione con l'altra parte del pianterreno dove si trova l'uscita. Neppure Giovanna ne ha le chiavi. Essa stessa per arrivare all'aperto deve salire al secondo piano ed ha solo lei le chiavi di quella porta che si è aperta per noi su quel pianerottolo. Del resto, al secondo piano c'è sempre sorveglianza. Non c'è male nevvero per una casa di salute destinata a bambini e puerpere?
E si mise a ridere, forse all'idea di avermi rinchiuso fra bambini.
Chiamò Giovanna e me la presentò. Era una piccola donnina di un'età che non si poteva precisare e che poteva variare fra' quaranta e i sessant'anni. Aveva dei piccoli occhi di una luce intensa sotto ai capelli molto grigi. Il dottore le disse:
— Ecco il signore col quale dovete essere pronta di fare i pugni.
Essa mi guardò scrutandomi, si fece molto rossa e gridò con voce stridula:
— Io farò il mio dovere, ma non posso certo lottare con lei. Se lei minaccerà, io chiamerò l'infermiere ch'è un uomo forte e, se non venisse subito, la lascerei andare dove vuole perché io non voglio certo rischiare la pelle!
Appresi poi che il dottore le aveva affidato quell'incarico con la promessa di un compenso abbastanza lauto, e ciò aveva contribuito a spaventarla. Allora le sue parole m'indispettirono. M'ero cacciato volontariamente in una bella posizione!
— Ma che pelle d'Egitto! - urlai. - Chi toccherà la sua pelle? - Mi rivolsi al dottore: - Vorrei che questa donna sia avvisata di non seccarmi! Ho portati con me alcuni libri e vorrei essere lasciato in pace.
Il dottore intervenne con qualche parola di ammonimento a Giovanna. Per scusarsi, costei continuò ad attaccarmi:
— Io ho delle figliuole, due e piccine, e devo vivere.
— Io non mi degnerei di ammazzarla, - risposi con accento che certo non poteva rassicurare la poverina.
Il dottore la fece allontanare incaricandola di andar a prendere non so che cosa al piano superiore e, per rabbonirmi, mi propose di mettere un'altra persona al suo posto, aggiungendo:
— Non è una cattiva donna e quando le avrò raccomandato di essere più discreta, non le darà altro motivo a lagnanze.
Nel desiderio di dimostrare che non davo alcuna importanza alla persona incaricata di sorvegliarmi, mi dichiarai d'accordo di sopportarla. Sentii il bisogno di quietarmi, levai di tasca la penultima sigaretta e la fumai avidamente. Spiegai al dottore che ne avevo prese con me solo due e che volevo cessar di fumare in punto alla mezzanotte.
Mia moglie si congedò da me insieme al dottore. Mi disse sorridendo:
— Giacché hai deciso così, sii forte.
Il suo sorriso che io amavo tanto mi parve una derisione e fu proprio in quell'istante che nel mio animo germinò un sentimento nuovo che doveva far sì che un tentativo intrapreso con tanta serietà dovesse subito miseramente fallire. Mi sentii subito male, ma seppi che cosa mi facesse soffrire soltanto quando fui lasciato solo. Una folle, amara gelosia per il giovine dottore. Lui bello, lui libero! Lo dicevano la Venere fra' Medici. Perché mia moglie non l'avrebbe amato? Seguendola, quando se ne erano andati, egli le aveva guardato i piedi elegantemente calzati. Era la prima volta che mi sentivo geloso dacché m'ero sposato. Quale tristezza! S'accompagnava certamente al mio abietto stato di prigioniero! Lottai! Il sorriso di mia moglie era il suo solito sorriso e non una derisione per avermi eliminato dalla casa. Era certamente lei che m'aveva fatto rinchiudere pur non accordando alcuna importanza al mio vizio; ma certamente l'aveva fatto per compiacermi. Eppoi non ricordavo che non era tanto facile d'innamorarsi di mia moglie? Se il dottore le aveva guardato i piedi, certamente l'aveva fatto per vedere quali stivali dovesse comperare per la sua amante. Ma fumai subito l'ultima sigaretta; e non era la mezzanotte, ma le ventitré, un'ora impossibile per un'ultima sigaretta.
Apersi un libro. Leggevo senz'intendere e avevo addirittura delle visioni. La pagina su cui tenevo fisso lo sguardo si copriva della fotografia del dottor Muli in tutta la sua gloria di bellezza ed eleganza. Non seppi resistere! Chiamai Giovanna. Forse discorrendo mi sarei quietato.
Essa venne e mi guardò subito con occhio diffidente. Urlò con la sua voce stridula: - Non s'aspetti d'indurmi a deviare dal mio dovere.
Intanto, per quietarla, mentii e le dichiarai ch'io non ci pensavo nemmeno, che non avevo più voglia di leggere e preferivo di far quattro chiacchiere con lei.
La feci sedere a me in faccia. Proprio, mi ripugnava con quel suo aspetto da vecchia e gli occhi giovanili e mobili come quelli di tutti gli animali deboli. Compassionavo me stesso, per dover sopportare una compagnia simile! È vero che neppure in libertà io so scegliere le compagnie che meglio mi si confacciano perché di solito sono esse che scelgono me, come fece mia moglie.
Pregai Giovanna di svagarmi e poiché dichiarò di non sapermi dir nulla che valesse la mia attenzione, la pregai di raccontarmi della sua famiglia, aggiungendo che quasi tutti a questo mondo ne avevano almeno una.
Essa allora obbedì e incominciò col raccontarmi che aveva dovuto mettere le sue due figliuole all'Istituto dei Poveri.
Io cominciavo ad ascoltare volentieri il suo racconto perché quei diciotto mesi di gravidanza sbrigati così, mi facevano ridere. Ma essa aveva un'indole troppo polemica ed io non seppi ascoltarla quando dapprima volle provarmi ch'essa non avrebbe potuto fare altrimenti data l'esiguità del suo salario e che il dottore aveva avuto torto quando pochi giorni prima aveva dichiarato che due corone al giorno bastavano dacché l'Istituto dei Poveri manteneva tutta la sua famiglia. Urlava:
— E il resto? Quando sono state provviste del cibo e dei vestiti, non hanno mica avuto tutto quello che occorre! - E giù una filza di cose che doveva procurare alle sue figliole e che io non ricordo più, visto che per proteggere il mio udito dalla sua voce stridula, rivolgevo di proposito il mio pensiero ad altra cosa. Ma ne ero tuttavia ferito e mi parve di aver diritto ad un compenso:
— Non si potrebbe avere una sigaretta, una sola? Io la pagherei dieci corone, ma domani, perché con me non ho neppur un soldo.
Giovanna fu enormemente spaventata della mia proposta. Si mise ad urlare; voleva chiamare subito l'infermiere e si levò dal suo posto per uscire.
Per farla tacere desistetti subito dal mio proposito e, a caso, tanto per dire qualche cosa e darmi un contegno, domandai:
— Ma in questa prigione ci sarà almeno qualche cosa da bere?
Giovanna fu pronta nella risposta e, con mia meraviglia in un vero tono di conversazione, senz'urlare:
— Anzi! Il dottore, prima di uscire mi ha consegnata questa bottiglia di cognac. Ecco la bottiglia ancora chiusa. Guardi, è intatta.
Mi trovavo in condizione tale che non vedevo per me altra via d'uscita che l'ubriachezza. Ecco dove m'aveva condotto la fiducia in mia moglie!
In quel momento a me pareva che il vizio del fumo non valesse lo sforzo cui m'ero lasciato indurre. Ora non fumavo già da mezz'ora e non ci pensavo affatto, occupato com'ero dal pensiero di mia moglie e del dottor Muli. Ero dunque guarito del tutto, ma irrimediabilmente ridicolo!
Stappai la bottiglia e mi versai un bicchierino del liquido giallo. Giovanna stava a guardarmi a bocca aperta, ma io esitai di offrirgliene.
— Potrò averne dell'altro quando avrò vuotata questa bottiglia?
Giovanna sempre nel più gradevole tono di conversazione mi rassicurò: - Tanto quanto ne vorrà! Per soddisfare un suo desiderio la signora che dirige la dispensa dovrebbe levarsi magari a mezzanotte!
Io non soffersi mai d'avarizia e Giovanna ebbe subito il suo bicchierino colmo all'orlo. Non aveva finito di dire un grazie che già l'aveva vuotato e subito diresse gli occhi vivaci alla bottiglia. Fu perciò lei stessa che mi diede l'idea di ubriacarla. Ma non fu mica facile!
Non saprei ripetere esattamente quello ch'essa mi disse, dopo aver ingoiati varii bicchierini, nel suo puro dialetto triestino, ma ebbi tutta l'impressione di trovarmi da canto una persona che, se non fossi stato stornato dalle mie preoccupazioni, avrei potuto stare a sentire con diletto.
Prima di tutto mi confidò ch'era proprio così che a lei piaceva di lavorare. A tutti a questo mondo sarebbe spettato il diritto di passare ogni giorno un paio d'ore su una poltrona tanto comoda, in faccia ad una bottiglia di liquore buono, di quello che non fa male.
Tentai di conversare anch'io. Le domandai se, quand'era vivo suo marito, il lavoro per lei fosse stato organizzato proprio a quel modo.
Essa si mise a ridere. Da vivo suo marito l'aveva più picchiata che baciata e, in confronto a quello ch'essa aveva dovuto lavorare per lui, ora tutto avrebbe potuto sembrarle un riposo anche prima ch'io a quella casa arrivassi con la mia cura.
Poi Giovanna si fece pensierosa e mi domandò se credevo che i morti vedessero quello che facevano i vivi. Annuii brevemente. Ma essa volle sapere se i morti, quando arrivavano al di là, risapevano tutto quello che quaggiù era avvenuto quand'essi erano stati ancora vivi.
Per un momento la domanda valse proprio a distrarmi. Era stata poi mossa con una voce sempre più soave perché, per non farsi sentire dai morti, Giovanna l'aveva abbassata.
— Voi, dunque - le dissi - avete tradito vostro marito.
Essa mi pregò di non gridare eppoi confessò di averlo tradito, ma soltanto nei primi mesi del loro matrimonio. Poi s'era abituata alle busse e aveva amato il suo uomo.
Per conservare viva la conversazione domandai:
— È dunque la prima delle vostre figliuole che deve la vita a quell'altro?
Sempre a bassa voce essa ammise di crederlo anche in seguito a certe somiglianze. Le doleva molto di aver tradito il marito. Lo diceva, ma sempre ridendo perché son cose di cui si ride anche quando dolgono. Ma solo dacché era morto, perché prima, visto che non sapeva, la cosa non poteva aver avuto importanza.
Spintovi da una certa simpatia fraterna, tentai di lenire il suo dolore e le dissi ch'io credevo che i morti sapessero tutto, ma che di certe cose s'infischiassero.
— Solo i vivi ne soffrono! - esclamai battendo sul tavolo il pugno.
Ne ebbi una contusione alla mano e non c'è di meglio di un dolore fisico per destare delle idee nuove. Intravvidi la possibilità che intanto ch'io mi cruciavo al pensiero che mia moglie approfittasse della mia reclusione per tradirmi, forse il dottore si trovasse tuttavia nella casa di salute, nel quale caso io avrei potuto riavere la mia tranquillità. Pregai Giovanna di andar a vedere, dicendole che sentivo il bisogno di dire qualche cosa al dottore e promettendole in premio l'intera bottiglia. Essa protestò che non amava di bere tanto, ma subito mi compiacque e la sentii arrampicarsi traballando sulla scala di legno fino al secondo piano per uscire dalla nostra clausura. Poi ridiscese, ma scivolò facendo un grande rumore e gridando.
— Che il diavolo ti porti! - mormorai io fervidamente. Se essa si fosse rotto l'osso del collo la mia posizione sarebbe stata semplificata di molto.
Invece arrivò a me sorridendo perché si trovava in quello stato in cui i dolori non dolgono troppo. Mi raccontò di aver parlato con l'infermiere che andava a coricarsi, ma restava a sua disposizione a letto, per il caso in cui fossi divenuto cattivo. Sollevò la mano e con l'indice teso accompagnò quelle parole da un atto di minaccia attenuato da un sorriso. Poi, più seccamente, aggiunse che il dottore non era rientrato dacché era uscito con mia moglie. Proprio da allora! Anzi per qualche ora l'infermiere aveva sperato che fosse ritornato perché un malato avrebbe avuto bisogno di esser visto da lui. Ora non lo sperava più.
Io la guardai indagando se il sorriso che contraeva la sua faccia fosse stereotipato o se fosse nuovo del tutto e originato dal fatto che il dottore si trovava con mia moglie anziché con me, ch'ero il suo paziente. Mi colse un'ira da farmi girare la testa. Devo confessare che, come sempre, nel mio animo lottavano due persone di cui l'una, la più ragionevole, mi diceva: «Imbecille! Perché pensi che tua moglie ti tradisca? Essa non avrebbe il bisogno di rinchiuderti per averne l'opportunità.» L'altra ed era certamente quella che voleva fumare, mi dava pur essa dell'imbecille, ma per gridare: «Non ricordi la comodità che proviene dall'assenza del marito? Col dottore che ora è pagato da te!».
Giovanna, sempre bevendo, disse: - Ho dimenticato di chiudere la porta del secondo piano. Ma non voglio far più quei due piani. Già lassù c'è sempre della gente e lei farebbe una bella figura se tentasse di scappare.
— Già! - feci io con quel minimo d'ipocrisia che occorreva oramai per ingannare la poverina. Poi inghiottii anch'io del cognac e dichiarai che ormai che avevo tanto di quel liquore a mia disposizione, delle sigarette non m'importava più niente. Essa subito mi credette e allora le raccontai che non ero veramente io che volevo svezzarmi dal fumo. Mia moglie lo voleva. Bisognava sapere che quando io arrivavo a fumare una decina di sigarette diventavo terribile. Qualunque donna allora mi fosse stata a tiro si trovava in pericolo.
Giovanna si mise a ridere rumorosamente abbandonandosi sulla sedia:
— Ed è vostra moglie che v'impedisce di fumare le dieci sigarette che occorrono?
— Era proprio così! Almeno a me essa lo impediva.
Non era mica sciocca Giovanna, quand'aveva tanto cognac in corpo. Fu colta da un impeto di riso che quasi la faceva cadere dalla sedia, ma quando il fiato glielo permetteva, con parole spezzate, dipinse un magnifico quadretto suggeritole dalla mia malattia: - Dieci sigarette... mezz'ora... si punta la sveglia... eppoi...
La corressi:
— Per dieci sigarette io abbisogno di un'ora circa. Poi per aspettarne il pieno effetto occorre un'altra ora circa, dieci minuti di più, dieci di meno...
Improvvisamente Giovanna si fece seria e si levò senza grande fatica dalla sua sedia. Disse che sarebbe andata a coricarsi perché si sentiva un po' di male alla testa. L'invitai di prendere la bottiglia con sé, perché io ne avevo abbastanza di quel liquore. Ipocritamente dissi che il giorno seguente volevo che mi si procurasse del buon vino.
Ma al vino essa non pensava. Prima di uscire con la bottiglia sotto il braccio mi squadrò con un'occhiataccia che mi fece spavento.
Aveva lasciata la porta aperta e dopo qualche istante cadde nel mezzo della stanza un pacchetto che subito raccolsi: conteneva undici sigarette di numero. Per essere sicura, la povera Giovanna aveva voluto abbondare. Sigarette ordinarie, ungheresi. Ma la prima che accesi fu buonissima. Mi sentii grandemente sollevato. Dapprima pensai che mi compiacevo di averla fatta a quella casa ch'era buonissima per rinchiudervi dei bambini, ma non me. Poi scopersi che l'avevo fatta anche a mia moglie e mi pareva di averla ripagata di pari moneta. Perché, altrimenti, la mia gelosia si sarebbe tramutata in una curiosità tanto sopportabile? Restai tranquillo a quel posto fumando quelle sigarette nauseanti.
Dopo una mezz'ora circa ricordai che bisognava fuggire da quella casa ove Giovanna aspettava il suo compenso. Mi levai le scarpe e uscii sul corridoio. La porta della stanza di Giovanna era socchiusa e, a giudicare dalla sua respirazione rumorosa e regolare, a me parve ch'essa dormisse. Salii con tutta prudenza fino al secondo piano ove dietro di quella porta - l'orgoglio del dottor Muli, - infilai le scarpe. Uscii su un pianerottolo e mi misi a scendere le scale, lentamente per non destar sospetto.
Ero arrivato al pianerottolo del primo piano, quando una signorina vestita con qualche eleganza da infermiera, mi seguì per domandarmi cortesemente:
— Lei cerca qualcuno?
Era bellina e a me non sarebbe dispiaciuto di finire accanto a lei le dieci sigarette. Le sorrisi un po' aggressivo:
— Il dottor Muli non è in casa?
Essa fece tanto d'occhi:
— A quest'ora non è mai qui.
— Non saprebbe dirmi dove potrei trovarlo ora? Ho a casa un malato che avrebbe bisogno di lui.
Cortesemente mi diede l'indirizzo del dottore ed io lo ripetei più volte per farle credere che volessi ricordarlo. Non mi sarei mica tanto affrettato di andar via, ma essa, seccata, mi volse le spalle. Venivo addirittura buttato fuori della mia prigione.
Da basso una donna fu pronta ad aprirmi la porta. Non avevo un soldo con me e mormorai:
— La mancia gliela darò un'altra volta.
Non si può mai conoscere il futuro. Da me le cose si ripetono: non era escluso ch'io fossi ripassato per di là.
La notte era chiara e calda. Mi levai il cappello per sentir meglio la brezza della libertà. Guardai le stelle con ammirazione come se le avessi conquistate da poco. Il giorno seguente, lontano dalla casa di salute, avrei cessato di fumare. Intanto in un caffè ancora aperto mi procurai delle buone sigarette perché non sarebbe stato possibile di chiudere la mia carriera di fumatore con una di quelle sigarette della povera Giovanna. Il cameriere che me le diede mi conosceva e me le lasciò a fido.
Giunto alla mia villa suonai furiosamente il campanello. Dapprima venne alla finestra la fantesca eppoi, dopo un tempo non tanto breve, mia moglie. Io l'attesi pensando con perfetta freddezza: - Sembrerebbe che ci sia il dottor Muli. - Ma, avendomi riconosciuto, mia moglie fece echeggiare nella strada deserta il suo riso tanto sincero che sarebbe bastato a cancellare ogni dubbio.
In casa m'attardai per fare qualche atto d'inquisitore. Mia moglie cui promisi di raccontare il giorno appresso le mie avventure ch'essa credeva di conoscere, mi domandò:
— Ma perché non ti corichi?
Per scusarmi dissi:
— Mi pare che tu abbia approfittato della mia assenza per cambiar di posto a quell'armadio.
È vero ch'io credo che le cose, in casa, sieno sempre spostate ed è anche vero che mia moglie molto spesso le sposta, ma in quel momento io guardavo ogni cantuccio per vedere se vi era nascosto il piccolo, elegante corpo del dottor Muli.
Da mia moglie ebbi una buona notizia. Ritornando dalla casa di salute s'era imbattuta nel figlio dell'Olivi che le aveva raccontato che il vecchio stava molto meglio dopo di aver presa una medicina prescrittagli da un suo nuovo medico.
Addormentandomi pensai di aver fatto bene di lasciare la casa di salute poiché avevo tutto il tempo per curarmi lentamente. Anche mio figlio che dormiva nella stanza vicina non s'apprestava certamente ancora a giudicarmi o ad imitarmi. Assolutamente non v'era fretta.