5. DISCIPLINA AUGUSTA (4)
Da un pezzo, m'ero abituato all'insonnia; ma, ormai, il sonno era peggio che non la sua mancanza: appena addormentato, avevo tremendi risvegli. Andavo soggetto a mali di testa che Ermogene attribuiva al clima torrido e al peso dell'elmo; a sera, dopo lunghe fatiche, crollavo a sedere di peso, e alzarmi per ricevere Rufo o Severo era uno sforzo che mi costava molto; i gomiti pesavano sui braccioli della mia poltrona; le gambe mi tremavano come quelle d'un corridore stremato. Il minimo gesto mi costava uno sforzo immenso, e di questi sforzi si componeva ormai la mia esistenza.
Un incidente quasi banale, un'indisposizione pressoché infantile svelò la malattia che si celava sotto quello sfinimento tremendo: durante una riunione dello Stato maggiore, ebbi una emorragia dal naso; sulle prime non detti peso alla cosa; durante il pasto della sera persisteva ancora, e, la notte, mi destai tutto intriso di sangue. Chiamai Celere, il quale dormiva sotto la tenda vicina; ed egli, a sua volta, dette l'allarme a Ermogene; ma l'orribile colata tiepida continuò. Le mani premurose del giovane ufficiale asciugavano quel liquido che m'imbrattava il viso; all'alba, fui colto da sussulti come ne hanno a Roma quei condannati a morte che si aprono le vene nel bagno; riscaldarono alla meglio, con coperte e impacchi bollenti, questo mio corpo che si raggelava; per arrestare il flusso del sangue, Ermogene aveva prescritto la neve, ma non ce n'era al campo, e Celere, tra difficoltà innumerevoli, ne fece trasportare dalla vetta dell'Ermone. Più tardi, seppi che s'era disperato di salvarmi; e io stesso non mi sentivo più legato alla vita se non da un filo sottilissimo, impercettibile come quel mio polso troppo rapido che costernava il medico. Ebbe termine, tuttavia, quell'emorragia inesplicabile; mi alzai dal letto; mi forzai a vivere come al solito, ma senza riuscirvi. Una sera in cui, ancora non del tutto ristabilito, tentai incautamente una passeggiata a cavallo, ebbi un secondo avvertimento più serio del primo. Sentii, per la durata d'un secondo, affrettarsi il battito del mio cuore, poi rallentare, interrompersi, cessare, e mi parve precipitare come un sasso in una voragine buia, senza dubbio la morte. Se lo era, ci si inganna a descriverla silente: ero travolto da una cascata, assordito come un tuffatore dal rombo delle acque. Non toccai il fondo; riemersi alla superficie; ma soffocavo. In quell'istante che credetti l'ultimo, tutta la mia forza s'era concentrata nella mano che s'aggrappava al braccio di Celere ritto al mio fianco: più tardi, mi mostrò la traccia delle mie dita sulla sua spalla. Ma quella breve agonia, come tutte le esperienze del corpo, è inesprimibile, e volere o no resta un segreto dell'uomo che l'ha vissuta. In seguito, ho attraversato crisi analoghe, mai identiche; e senza dubbio non si riesce ad attraversare due volte quel terrore e quel buio senza morirne. Ermogene finì per diagnosticare un inizio di idropisia al cuore; bisognò accettare le restrizioni che m'imponeva il male, improvvisamente diventato il mio padrone; consentire a un lungo periodo di inazione, limitare per qualche tempo le prospettive della mia vita entro lo spazio d'un letto. Avevo quasi vergogna di quella malattia tutta interiore, quasi invisibile, senza febbre, senza ascessi, senza dolori viscerali, e che non ha altri sintomi se non il respiro un po' più ansimante e la traccia livida che la stringa del sandalo lascia sul piede gonfiato.
Un silenzio straordinario si stabilì tutt'intorno alla mia tenda; pareva che il campo di Betar fosse diventato tutto la camera d'un malato. L'olio aromatico che ardeva ai piedi del mio Genio rendeva ancor più afosa l'atmosfera, sotto quella gabbia di tela; il pulsare di fucina delle mie arterie mi faceva vagamente pensare all'isola dei Titani al limitare della notte. In altri momenti, quel rombo intollerabile diventava quello d'un galoppo che calpesta la terra molle; lo spirito, tenuto per quasi cinquant'anni accuratamente imbrigliato, mi sfuggiva; il grande corpo navigava alla deriva; consentivo a essere l'uomo stanco che conta distrattamente le stelle e le losanghe della coperta; guardavo, nell'ombra, la macchia bianca d'un busto; dal fondo d'un abisso di quasi mezzo secolo, risaliva una cantilena in onore di Epona, la dea dei cavalli, che un tempo canticchiava con voce sommessa la mia nutrice spagnola, una donna alta e cupa, che somigliava a una delle Parche. Le mie giornate, e le notti, sembravano misurate dalle gocce brune che Ermogene contava una a una in una tazza di vetro.
A sera, chiamavo a raccolta le mie forze per ascoltare il rapporto di Rufo; la guerra volgeva al termine: Akiba che, sin dall'inizio delle ostilità, in apparenza s'era ritirato dagli affari pubblici, si dedicava all'insegnamento del diritto rabbinico nella piccola città di Usfa, in Galilea: quell'aula di lezioni era divenuta il centro della resistenza zelota; quelle sue mani di nonagenario cifravano e trasmettevano messaggi segreti ai partigiani di Simone; fu necessario usare la forza per rimandare alle loro case gli scolari fanatizzati che circondavano quel vegliardo. Dopo lunghe esitazioni, Rufo si decise a far interdire, perché sedizioso, lo studio della legge ebraica; pochi giorni dopo, Akiba, che aveva contravvenuto a quel decreto, fu arrestato e giustiziato. Altri nove dottori della legge, l'anima del partito zelota, perirono con lui. Avevo approvato tutte quelle misure con un cenno del capo. Akiba e i suoi fedeli morirono, persuasi fino all'ultimo d'essere i soli innocenti, i soli giusti; non ve ne fu uno che abbia avuto l'idea d'accettare la sua parte di responsabilità nelle sciagure che opprimevano il suo popolo. L'invidierei, se si potessero invidiare i ciechi. Non nego il titolo di eroe a quei dieci forsennati; ma in ogni caso, non erano saggi.
Tre mesi dopo, un freddo mattino di febbraio, mentr'ero seduto in cima a una collina, poggiato al tronco d'un fico spoglio delle foglie, assistetti all'assalto che precedette di poche ore la resa di Betar; vidi uscire uno a uno gli ultimi difensori della fortezza, smunti, laceri, orrendi e tuttavia magnifici come tutto ciò che è indomabile. Alla fine dello stesso mese, mi feci trasportare nel luogo - detto pozzo di Abramo - dove i ribelli, sorpresi con le armi in mano nei loro agglomerati urbani, furono radunati e venduti all'incanto; fanciulli ghignanti, già feroci, quasi deformati da convinzioni implacabili, si vantavano a voce altissima d'aver provocato la morte di dozzine di legionari; vegliardi assorti in un letargo da sonnambuli, matrone dalle carni molli, e altre ancora cupe e solenni come la Grande Madre dei culti d'Oriente, sfilarono sotto l'occhio freddo dei mercanti di schiavi; quella moltitudine mi passò davanti come una polvere. Giosuè Ben-Kisma, il capo dei cosiddetti moderati, che aveva miseramente fallito il suo compito di moderatore, soccombette verso la stessa epoca agli strascichi d'una lunga malattia, e morì invocando la guerra e la vittoria dei Parti su di noi. D'altra parte, gli Ebrei cristianizzati, che non avevamo molestati, e che serbano rancore agli altri appartenenti al popolo ebraico per aver perseguitato il loro profeta, scorsero in noi gli strumenti della collera divina. Durava ancora la lunga serie dei deliri e dei malintesi.
Un'iscrizione posta sul luogo ove sorgeva Gerusalemme proibì agli Ebrei, pena la morte, di tornare ad abitare in quel cumulo di macerie; essa riproduceva parola per parola la frase che un tempo era scritta sulla porta del tempio, e che interdiceva l'ingresso ai non circoncisi. Un giorno all'anno, il nove del mese di Ab, agli Ebrei si accordava il diritto di piangere innanzi a un muro in rovina. I più devoti si rifiutarono di abbandonare la terra natìa, e si stabilirono alla meglio nelle regioni meno devastate dalla guerra; i più fanatici si trasferirono nel territorio dei Parti, altri emigrarono ad Antiochia, ad Alessandria, a Pergamo; i più scaltri si recarono a Roma, ove prosperarono. La Giudea fu cancellata dalla carta e, per mio ordine, assunse il nome di Palestina. Durante quei quattro anni di guerra, erano state saccheggiate e distrutte cinquanta fortezze, e più di novecento città e villaggi; il nemico aveva perduto quasi seicentomila uomini; i combattimenti, le febbri endemiche, le epidemie ce ne avevano rapiti quasi novantamila. Immediatamente dopo la guerra, il paese fu riordinato, fu ricostruita Aelia Capitolina sebbene su scala ridotta: c'è sempre da ricominciare.
Mi riposai qualche tempo a Sidone, dove un mercante greco mi prestò la sua casa e i suoi giardini. In marzo, le corti interne erano già ricoperte di rose. Avevo ripreso le forze; anzi scoprii risorse prodigiose in questo corpo che era rimasto così prostrato dalla violenza della prima crisi. Non si comprendono le malattie se non se ne riconosce la strana somiglianza con le guerre e con l'amore: i compromessi, le finte, le esigenze, quell'amalgama unico e bizzarro che nasce dalla mescolanza d'un temperamento con un male. Stavo meglio, ma per giocare d'astuzia con il mio corpo, imporgli i miei voleri o cedere prudentemente ai suoi, mi ci voleva tanta abilità quanta ce n'era voluta in altri tempi per ampliare e regolare il mio universo, costruire la mia vita, abbellirla infine. Ripresi con moderazione gli esercizi del ginnasio; il medico non mi vietava più d'andare a cavallo, ma questo, ormai, era solo un mezzo di trasporto per me; avevo rinunciato ai rischiosi volteggi d'un tempo. Durante qualsiasi lavoro, qualsiasi piacere, l'essenziale non era più il lavoro o il piacere, ma l'uscirne senza fatica. Gli amici si meravigliavano d'una guarigione apparentemente così completa; si sforzavano di credere che quel male fosse dovuto solo agli sforzi eccessivi di quegli anni di guerra e che non sarebbe riapparso, ma io non la pensavo a quel modo; pensavo ai grandi abeti delle foreste di Bitinia, che il guardiaboschi passando segna d'un intacco; tornerà ad abbatterli la prossima stagione. Verso la fine della primavera, m'imbarcai per l'Italia su una grossa nave della flotta, e portai con me Celere, divenutomi indispensabile, e Diotimo di Gadara, giovane greco di nascita servile, che avevo incontrato a Sidone, e che era bello. La rotta del ritorno attraversava l'Arcipelago: per l'ultima volta, non v'ha dubbio, della mia vita, contemplai i delfini balzare nelle acque turchine; osservai, senza pensare ormai a trarne presagi, il lungo volo regolare degli uccelli migratori, che a volte, per riposarsi, si posano senza timori sul ponte della nave; assaporai quell'aroma di sale e di sole sulla pelle umana, il profumo di lentischio e di terebinto delle isole nelle quali si vorrebbe vivere, e dove si sa già che non si farà mai scalo. Diotimo ha ricevuto quella perfetta istruzione letteraria che spesso s'impartisce, per valorizzarli, ai giovani schiavi dotati di attrattive fisiche; al crepuscolo, disteso a poppa, sotto una tenda di porpora, lo ascoltavo leggermi qualche poeta del suo paese, sino a che la notte non cancellava del pari i versi che descrivono la tragica incertezza della vita umana e quelli che parlano di colombe, di serti di rose, di bocche baciate. Un alito umido esalava dal mare; le stelle salivano una a una al loro posto assegnato; la nave, inclinata dal vento, filava verso l'Occidente, ove si sfilacciava ancora un'ultima stria purpurea; dietro di noi, si allungava un solco fosforescente, ben presto ricoperto dalle masse nere delle onde. Mi dicevo che a Roma mi attendevano due soli affari importanti: uno era la scelta del mio successore, che interessava tutto l'impero; l'altro era la mia morte, e concerneva me solo.
Roma m'aveva preparato un trionfo, e questa volta l'accettai. Non lottavo più contro questi costumi al tempo stesso venerabili e vani; mi appariva salutare, di fronte a un mondo così pronto all'oblio, tutto ciò che mette in rilievo lo sforzo dell'uomo, sia pure per la durata d'un giorno. Non si trattava soltanto della repressione della rivolta giudaica; era in un senso assai più profondo, noto a me solo, che avevo trionfato. Associai a quegli onori il nome di Arriano. Aveva inflitto alle orde alane una serie di disfatte che le ricacciava per molto tempo in quel centro oscuro dell'Asia dal quale avevano creduto evadere; l'Armenia era salva; il lettore di Senofonte se ne rivelava l'emulo; non era estinta la razza di quei letterati che in caso di necessità sanno comandare e combattere. Quella sera, rientrando nella mia casa di Tivoli, ero stanco nell'animo ma calmo, quando presi dalle mani di Diotimo il vino e l'incenso del sacrificio giornaliero al mio Genio.
Da semplice privato, avevo cominciato a comprare e mettere insieme pezzo per pezzo i terreni che si estendono ai piedi dei monti Sabini, al limitare delle sorgenti, con l'ostinazione paziente d'un contadino che amplia le sue vigne; tra un giro di ispezione imperiale e l'altro, avevo posto le tende sotto quei boschetti invasi da muratori e architetti, dove un giovinetto imbevuto di tutte le superstizioni asiatiche chiedeva piamente che gli alberi fossero risparmiati. Di ritorno dal mio grande viaggio d'Oriente, m'ero messo con una specie di sacra frenesia a completare lo scenario immenso di quell'opera già quasi terminata. Questa volta vi feci ritorno per terminare i miei giorni il più dignitosamente possibile. Tutto era predisposto per regolare il lavoro così come il piacere: la cancelleria, le sale per le udienze, il tribunale dove avrei giudicato in ultimo appello la cause difficili, m'avrebbero risparmiato faticosi andirivieni fra Tivoli e Roma. Avevo dotato ciascuno di quegli edifici di nomi evocanti la Grecia: il Pecile, l'Accademia, il Pritaneo. Sapevo bene che quella valle angusta, disseminata d'olivi, non era il Tempe, ma ero giunto in quell'età in cui non v'è una bella località che non ce ne ricordi un'altra, più bella, e ogni piacere s'arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi. Consentivo ad abbandonarmi a quella nostalgia ch'è la malinconia del desiderio. A un angolo particolarmente ombroso del parco, avevo persino dato il nome di Stige; a una prato costellato d'anemoni quello di Campi Elisi, preparandomi così a quell'altro mondo i cui tormenti somigliano tanto a quelli del nostro, ma le cui gioie nebulose non valgono le nostre. Ma, soprattutto, nel cuore di quel ritiro, m'ero fatto costruire un asilo ancor più celato, un isolotto di marmo al centro d'un laghetto contornato di colonne, una stanza segreta che un ponte girevole, così lieve che si può con una mano sola farlo scivolare nella sua corsia, unisce alla riva, o, piuttosto, segrega da essa. In quel padiglione feci trasportare due o tre statue a me care, e quel piccolo busto d'Augusto fanciullo che Svetonio m'aveva dato ai tempi della nostra amicizia; all'ora della siesta, mi recavo là per dormire, per pensare, per leggere. Sdraiato sulla soglia, il mio cane allungava innanzi a sé le zampe rigide; un riflesso di luce si riverberava sul marmo; Diotimo, per rinfrescarsi, posava la gota al fianco levigato d'una vasca. Io pensavo al mio successore.
Non ho figli e non lo rimpiango. Certo, nelle ore di stanchezza e di debolezza, quando ci si rinnega, a volte mi son rimproverato di non essermi dato il fastidio di generare un figlio che mi avrebbe continuato. Ma questo rimpianto tanto vano poggia su due ipotesi egualmente incerte: che un figlio necessariamente ci continui, e che questo singolare miscuglio di bene e di male, questa somma di particolarità infime e bizzarre che costituiscono un individuo meriti davvero d'essere prolungata. Le mie virtù, le ho utilizzate come ho potuto. Dei miei vizi, ne ho fatto buon uso. Ma non ci tengo in modo speciale a lasciarmi in retaggio a qualcuno. Del resto, l'autentica continuità umana non si stabilisce attraverso il sangue: è Cesare l'erede diretto d'Alessandro, e non già quel bimbo gracile, nato da una principessa persiana in una cittadella asiatica; ed Epaminonda, morendo senza prole, aveva ben ragione di vantarsi d'avere per figlie le sue vittorie. La maggior parte degli uomini che contano nella storia, ha avuto una progenie mediocre, o ancor peggio: si direbbe che essi esauriscano in sé tutte le risorse d'una razza. L'affetto paterno, poi, è quasi sempre in conflitto con gl'interessi d'un capo di Stato, e anche se ciò non fosse il figlio dell'imperatore per di più deve sottostare ai pregiudizi d'una educazione principesca, la peggiore fra tutte, per un futuro imperatore. Fortunatamente, per quel poco che il nostro Stato ha saputo darsi una norma per la successione imperiale, essa è l'adozione: e anche in questo, io ravviso la saggezza di Roma. Conosco bene i pericoli d'una scelta, gli incerti ch'essa comporta; e non ignoro che l'accecamento non è esclusivo dell'affetto paterno; ma questa scelta a cui l'intelligenza presiede, o, quanto meno, partecipa, mi apparirà sempre infinitamente preferibile agli oscuri incontri del caso e della ottusa natura. L'impero al più degno: è bello che chi ha dato prova delle sue capacità nel maneggio degli affari di Stato scelga il successore, e che tale scelta, così gravida di conseguenze, sia, a un tempo, il suo estremo privilegio e l'estremo servigio ch'egli rende allo Stato. Ma proprio questa scelta così importante mi sembrava più ardua che mai.
Avevo biasimato aspramente Traiano per aver tergiversato vent'anni, prima di prendere la risoluzione d'adottarmi, e per averlo fatto solo sul letto di morte. Ma erano già trascorsi quasi diciott'anni dal mio avvento al trono, e, malgrado i rischi d'un'esistenza avventurosa, avevo rimandato a mia volta a più tardi la scelta d'un successore. Mille chiacchiere erano corse, in proposito, false quasi tutte; erano state tentate mille ipotesi: ma quel che si credeva il mio segreto non era che il mio dubbio, la mia esitazione. Mi guardavo intorno: non difettavano i funzionari onesti, ma nessuno aveva la statura necessaria. Quarant'anni intemerati postulavano a favore di Marcio Turbo, il mio caro compagno d'altri tempi, il mio incomparabile prefetto del pretorio; ma aveva la mia stessa età, era troppo vecchio. Giulio Severo, generale eccellente, buon amministratore della Britannia, s'intendeva ben poco dei complessi affari d'Oriente; Arriano aveva fatto prova di tutte le qualità richieste a uno statista, ma era greco; e non è ancora il momento d'imporre un imperatore greco ai pregiudizi di Roma.