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Ragazzi di Vita - Pasolini, VIII. LA COMARE SECCA (2)

VIII. LA COMARE SECCA (2)

Borgo Antico stette ancora un poco zitto e poi si mise pure lui a discendere scivolando col sedere giù per la riva, fin sotto il trampolino di pantano indurito.

- Che, traversi fiume, a Genè? - chiese serio.

- Sìne, - fece Genesio, lasciandosi scappare un mezzo sorriso, con un po' d'emozione.

- Subbito?

- No subbito, dopo, mo me vojo riposà.

Si misero tutti e tre a sedere sulla sabbia nera, col cagnoletto, che vedendosi trascurato per delle cose più importanti che lui non poteva capire, non se ne stava un momento fermo e saltava da uno all'altro fregandogli il muso addosso. Genesio, fumando seriamente, se ne stette un po' zitto, poi fece ai fratelli: - Mo quanno che semo grandi ammazzamo nostro padre.

- Pure io, - disse pronto Mariuccio.

- Tutti e ttre assieme, - confermò Genesio, - l'avemo da ammazzà! E poi se n'annamo a abbità da n'antra parte co' mamma.

Sputò la cicca in acqua, col suo sguardo serio e diritto che luccicava un po' umido.

- L'avrà menata pure stamattina, - fece. Stette zitto per un po' per riuscire a vincersi, e poi ripeté con la sua solita voce sorda e inespressiva:

- Mo quanno che semo grandi je famo vede noi je famo vede.

- Mo provo, - disse poi, senza cambiar tono di voce.

- 'O traversi? - chiese palpitante il più piccolino.

- Ma quale traversi, - disse Genesio. - Fo na prova.

- Che ce vai fin'in mezzo? - chiese ancora Mariuccio.

- Sìne, - fece Genesio. S'alzò e s'inerpicò su per la scarpata.

- Addò vai? - disse meravigliato Mariuccio.

- De làne, - fece Genesio senza voltarsi.

I fratelli gli andarono dietro su per la scarpata e poi ridiscesero dall'altra parte del trampolino, dove il Zinzello si stava finendo d'insaponare, mentre, come a prendere il suo posto, era arrivato un altro cristone, un po' spelacchiato e con la barba lunga sulla faccia che pareva bruciata dalla febbre, ch'era Alfio Lucchetti, lo zio di quell'Amerigo di Pietralata che s'era ammazzato.

- D'addò vengheno questi? - fece il Zinzello bonaccione e beffardo. Alfio, ch'era ancora vestito, coi calzoni neri a righini, li guardò scuotendo ironico la testa e tenendo contro il fianco la mano che stringeva il rotolo dell'asciugamano e del sapone, con un sorriso che gli gonfiava la mandibola tutta punticchiata di barba dura, e un pezzo di basetta che gli scendeva, sotto l'orecchia a sventola, dai capelli pettinati come quelli di un giovincello se pure qua e là c'era qualche filetto bianco. Genesio, proprio come se non si parlasse di lui, senza guardare nessuno, s'era andato a mettere coi piedi nell'acqua. Prima stette ancora un poco a allumare il fiume, poi si spinse dentro fino che l'acqua gli arrivò alla cintola, tenendo le braccia levate, e lì s'immerse nuotando svelto svelto alla cagnolina.

- Se sta a allenà pe traversà fiume, - comunicò Mariuccio, pieno d'ingenuo entusiasmo, ai grossi, guardandoli come se guardasse la cima d'un monte. Ma quelli ormai stavano parlando dei c... loro, e non lo sentirono nemmeno. Genesio arrivò fino a metà dove la corrente faceva tante piccole onde, filando più forte e radunando in quel punto tutta la sporcizia del fiume, tante strisce nere d'olio e una specie di schiuma gialla che pareva formata da migliaia di sputi; poi voltò, si fece trasportare un pochetto in giù, stando fermo, finchè arrivò più sotto del trampolino, poi ricominciò a nuotare verso la riva di qua. S'attaccò un pezzo più giù, verso il ponte, a dei pungiglioni che dalla scarpata quasi a picco pendevano sul pelo del fiume.

Borgo Antico e Mariuccio gli corsero dietro senza badare nemmeno dove mettevano i piedi, scivolando, cadendo, rialzandosi nella fanga, su e giù per la gobba scivolosa del trampolino, seguiti dal cane che s'era messo a abbaiare senza saper bene se doveva essere allarmato oppure contento.

- A Genesio, a Genesio, - gridavano i due fratellini, nemmeno fosse lontano dieci chilometri.

- Nun ce l'hai fatta, che? - chiese trepidante Mariuccio.

- Già m'avete stufato, - disse per tutta risposta Genesio. Si guardò risentito attorno, con un'occhiata rapida e scontrosa; poi aggiunse, senza guardarli in faccia: - Ho fatto na prova, ve sto a ddì!

Riosservava, adesso che l'aveva assaggiato, il fiume, calcolando le distanze in silenzio. Dietro il correntino c'erano ancora una decina di metri prima d'arrivare all'altra sponda, per dove scendeva a piombo la striscia bianca che lo scarico della varecchina aveva inciso colando nel fiume. Fido si mise a osservare pure lui, accomodandosi a sedere: ansimava con la bocca aperta, e chiudendola ogni tanto per inghiottire o per darsi una leccata. Rispettava il silenzio dei suoi padroncini, con un'espressione un po' abbacchiata: pareva che qualche fijo de na mignotta gli avesse dato un cazzotto in un occhio e gliel'avesse gonfiato, perché tutto bianco come era, solo intorno all'occhio sinistro c'aveva una macchia quasi blu: e da quella parte pure l'orecchia gli penzolava moscia, mentre l'altra se ne stava dritta, tesa, per non perdere neppure il più piccolo rumore.

Nel frattempo quegli sbragati come maiali sul pantano diedero segni di risveglio. Il Tirillo s'andò a mettere come una statua in pizzo al trampolino, fiacco fiacco, dandosi una stirata, e se ne stette lì un po' fermo, a testa bassa facendo schioccare contro il palato la lingua impastata con una smorfia di disgusto. - E quanno ce se butta quello, - fece il Caciotta guardandolo con la coda dell'occhio per non fare lo sforzo di voltarsi. -Che nun ce lo sai che so' nato stanco? - fece rassegnato, con gli occhi rappresi di sonno il Tirillo. Il Begalone s'era messo a tossire che pareva che stesse per sputare da un momento all'altro qualche pezzetto di polmone. - Sei arivato, va! - fece il Tirillo, poi, preso da una improvvisa energia, strillò: - Chi se butta con me? - E bùttecete, vaffan..., - gli disse schifato il Begalone tra i colpi di tosse che gli scremavano i polmoni. Il Tirillo alzò le braccia con una gran moina e si fece un caposotto all'angelo, allargando le gambe come un paperone. - Fai schifo ar c..., - disse il Caciotta, mentre che l'altro stava ancora sotto acqua.

Ma in quel momento si sentì un gran rombo e una gran caciara, che troncarono ogni commento. Pareva che venisse avanti il terremoto. Dilagava dalla parte di Tiburtino, e procedeva parallelamente per la Tiburtina e per la riva dell'Aniene. Dalla parte della Tiburtina si sentiva un frastuono che pareva che schiantasse le radici della terra, un frastuono regolare e sempre uguale, dove di tanto in tanto si distinguevano dei raschi e degli strappi, che parevano di rabbia e che scomparivano di botto. Procedeva come un immenso compressore macinando tutto il pezzo d'orizzonte tra i lotti di Tiburtino e il Monte del Pecoraro, sgranocchiando e sgretolando tutto quello che incontrava, come un bombardamento a tappeto. Dall'altra parte, invece, sulla riva dell'Aniene, era come se si fosse scatenato un branco di scimmiette e di pappagalli, cacciati dalla foresta da qualche incendio, che strìllavano a rotta di collo, non si capiva bene se perché avessero paura o perché fossero trasportati dall'entusiasmo. Si trattava d'un esercito di ragazzini, sfornati da mezzo Tiburtino, che correvano come scellerati, coi calzoncini boni, e agitando le magliette o le canottiere che s'erano tolti in corsa. Non si sentiva che cosa gridassero, tutt'insieme, da un gruppo all'altro, perché nella corsa s'erano scaglionati e sparsi lungo tutta la riva: ma venivano avanti insieme al rombo, e mano a mano che si distingueva meglio questo, si sentivano più chiari anche i loro strilli. - Li bersajeri, li bersajeri! - gridavano, mentre già i primi stavano franando alla curva del trampolino, e si vedeva benissimo che non gliene fregava niente dei bersaglieri, ma che quella era un'occasione buona per fare un po' di caciara. Correndo come cavallini coi capelli al vento, erano in testa lo Sgarone, il Roscetto, Armandino, con una faccia allegra e beffarda in contraddizione con la foga della corsa e delle grida selvagge che lanciavano. Era una fantasia improvvisata dai ragazzini che, siccome erano in tanti, si sentivano forti di fronte ai grossi e facevano i paraguletti. La valanga passò a tutta birra, alzando la polvere rossa e pesante lungo il ciglione spelacchiato, e seguendo la curva del fiume e gridando, sempre col massimo disinteresse ma più forte che potevano, - li bersajeriii -, voltarono in su verso la Tiburtina. Lì stava già arrivando la colonna autocorazzata, con le staffette dei bersaglieri in motocicletta, le autoblinde, alternate ai camion pieni di file di bersaglieri con le divise mimetizzate e i mitra tra le ginocchia, e ai carri armati coi cingoli che bucherellavano l'asfalto come se fosse di burro. I primi pischelli già si cominciavano a inerpicare su per la scarpata della strada, presso il ponte, mentre gli ultimi, un gruppetto di fiji de mignotta con tutto ch'erano ancora dei poppanti di cinque o sei anni, s'erano messi in fila, e cantando ironicamente la marcia dei bersaglieri, - papparappa pappa para, papparappa pappa paara -, venivano avanti al passo. Preso dall'entusiasmo pure il Caciotta si mise a correre dietro di loro, e pure il Tirillo ch'era risortito tra le strisce d'olio e le sputate. Borgo Antico e Mariuccio gridarono con le corde del collo tirate a Genesio: - Venghi a Genè? ce stanno li carri armati! - Ma Genesio alzò le spalle e come se nemmeno li avesse sentiti si mise pensieroso a sedere lì tra i cespugli dove si trovava. - Venghi, a Genè? - continuavano a gridare gli altri due, tutti ansiosi. Poi vedendo che proprio Genesio non c'aveva intenzione di venire, presero una volta tanto la strada da soli, trottando dietro ai due grossi, verso la scarpata della Tiburtina, seguiti dal povero Fido che non ci capiva più niente.

Al trampolino c'erano rimasti solo Alfio Lucchetti, appartato e minaccioso, perchè l'altro, il Zinzello, se n'era ito, Alduccio, con la faccia sempre nascosta tra le braccia contro la polvere che cominciava a bruciare, Genesio, tutto solo come un eremita dall'altra parte del trampolino e il Begalone. Il Begalone non la smetteva di tossire con dei raschi e delle espettorazioni che parevano botti dati con un mestolo dentro un bidone vuoto; la sua pelle gialla era coperta da una mano di rossore che nascondeva i cigolini; pareva che sul suo costato di crocefisso, anziché pelle normale, ci fosse attaccata della carne bollita. Andò a estrarre dalla saccoccia dei calzoni un fazzoletto già tutto spruzzato di macchioline rosse, e tossendo si compresse con quello la bocca. Nessuno gli dava retta. E lui tossiva, per suo conto, bestemmiando e dicendo i morti. Finalmente gli passò, e piano piano, andò a rimettere il fazzoletto dentro la saccoccia, ributtando i panni come fossero stracci sotto il cespuglio. Siccome la tosse gli aveva lasciato un giramento di testa e anche una specie di nausea, certo pure per la debolezza, perché la notte prima non aveva dormito quasi niente, pensò che un bagnetto forse gli faceva bene. Tirò su la sua carcassa da terra, si legò bene il pezzo di spago che, girandogli intorno alla testa come una specie di nastro sfilacciato, gli teneva a posto lo strato di capelli gialli e sbiaditi che gli piovevano lunghi alla malandrina fino ai primi ossicini delle vertebre, e si portò locco locco, perché non c'era nessuno che l'osservava, nell'orlo sputacchioso del fiume, a farsi un semplice bagno qualsiasi, come i vecchi quando si vanno a lavare i piedi, o Alfio, lì accosto, che ormai aveva deposto le ambizioni di gioventù, e si serviva del fiume come d'una bagnarola. Immerse le sue fettacce nell'acqua, le tirò su una alla volta con uno scatto come fanno le galline, per il freddo improvviso che sentiva, digrignando tra i denti: - Mannaggia a d... -, poi ci si abituò un pochetto, e infregnato scese giù verso il centro del fiume, piano piano fino a che l'acqua gl'arrivò ai caporelli che spuntavano rossi come due pezzetti di ceralacca sul costolame. Finalmente si gettò a nuoto, e navigò per un po' a mezzobraccetto in mezzo al fiume: ma si sentì ancora peggio: la capoccia gli girava come un picchio con la zagaia, e gli pareva di sentirsi dentro lo stomaco come un gatto morto. Stava quasi per sturbarsi. Si spaventò e cominciò a nuotare affannosamente verso la riva; appena rimesso piede a terra tutto gocciolante, non riuscì a reggersi diritto, s'inginocchiò sulla fanga e li rivomitò. La mattina, siccome il giorno precedente aveva fatto digiuno, s'era mangiato, poveraccio, un mezzo canestro di pane e cotiche: doveva aver fatto indigestione, e adesso ricacciava fuori pure l'anima.

Così lo trovarono quelli ch'erano corsi sulla strada a vedersi passare i carri armati fino a che l'ultimo era svoltato su verso Ponte Mammolo. - Er Begalone se sente male! - annunciò gridando il Caciotta, scorgendolo per primo disteso a terra con la bocca sulla fanga. Tutti gli corsero intorno, ma lui non pareva neppure accorgersene, con l'occhio semiaperto che guardava il vuoto. Il Caciotta e il Tirillo si misero a scuoterlo per le spalle:

- A Bègalo, a Bègalo, che te senti? - gli chiedevano, e lui niente, zitto, con la faccia tutta zozza che faceva rivoltare lo stomaco. Aveva intorno, tutti smandrappati e sudati, almeno una trentina di ragazzini, che si davano spinte fra di loro e litigavano per vederlo. Pure Alduccio scese giù, con la faccia congestionata dalla ceccagna, e cominciò a gridare: - Fate largo, levàteve, a scemi, che nun vedete che je tojete l'aria? - Pure lui scosse il Bègalo per le spalle, in mezzo al cerchio che s'era rinchiuso intorno. Il Bègalo diceva qualche cosa fra sé, con una smorfia di nausea. - Che sta a ddì? - chiese il Caciotta. - Boh, - fece il Tirillo con una certa impressione.

- Lavamolo, - decise invece Alduccio, dandosi da fare. Facendo coppa con le mani prese un po' d'acqua dal fiume e la gettò contro la faccia del Begalone, che si scosse un momento come gli ubbriachi, ripiombando subito nel suo torpore. - Daje, - fece Alduccio. Gli altri due l'aiutarono, e con tre o quattro spruzzate date bene fecero scorrere giù dalla faccia e dai pettorali del Bègalo tutta la zozzeria. - Mo so' cavoli nostra, - ciancicò il Caciotta, - che se lo dovemo incollà insin'a ccasa -. Il Tirillo approvò col gesto d'uno che riceve una botta in testa, e facendo una smorfia che significava: - Ammazza, a Caciò -. A ogni modo si dovettero rassegnare. Tirarono il Begalone a secco un po' più su sulla riva, e lo lasciarono così disteso, mentre che loro si vestivano. Poi, in mezzo al pubblico dei ragazzini che assistevano eccitati, rivestirono pure il Begalone, che lasciava fare, con ogni tanto qualche nuovo sforzo di vomito. Per portarlo via, il Caciotta lo prese sotto le ascelle e il Tirillo per i piedi, e così cominciarono la marcia verso Tiburtino, fermandosi ogni cinque sei metri per riposarsi, seguiti dal codazzo di pischelli che si accavallavano e s'accapigliavano per stargli più appresso. Alduccio li accompagnò solo per un pezzo, lungo il sentiero, dandogli il cambio ogni tanto. Poi quando fu per tornarsene indietro, scorse da lontano il Riccetto che veniva avanti, evidentemente pieno di buon umore, tutto acchittato e camminando con attenzione per non sporcarsi di polvere gli scarpini bianchi a buchi: in mano teneva gli slippi nuovi ben ripiegati, e la camicetta azzurra gli sventolava sopra le chiappe.

Alduccio allora corse ancora un po' avanti riguadagnando il pezzo che aveva perduto in confronto alla processione dei ragazzini, giusto in tempo per sentire le prime informazioni che si faceva dare con faccia severa il Riccetto.


VIII. LA COMARE SECCA (2) VIII. EL COMARE SECO (2) VIII. O COMARE SECO (2)

Borgo Antico stette ancora un poco zitto e poi si mise pure lui a discendere scivolando col sedere giù per la riva, fin sotto il trampolino di pantano indurito.

- Che, traversi fiume, a Genè? - chiese serio.

- Sìne, - fece Genesio, lasciandosi scappare un mezzo sorriso, con un po' d'emozione.

- Subbito?

- No subbito, dopo, mo me vojo riposà.

Si misero tutti e tre a sedere sulla sabbia nera, col cagnoletto, che vedendosi trascurato per delle cose più importanti che lui non poteva capire, non se ne stava un momento fermo e saltava da uno all'altro fregandogli il muso addosso. Genesio, fumando seriamente, se ne stette un po' zitto, poi fece ai fratelli: - Mo quanno che semo grandi ammazzamo nostro padre.

- Pure io, - disse pronto Mariuccio.

- Tutti e ttre assieme, - confermò Genesio, - l'avemo da ammazzà! E poi se n'annamo a abbità da n'antra parte co' mamma.

Sputò la cicca in acqua, col suo sguardo serio e diritto che luccicava un po' umido.

- L'avrà menata pure stamattina, - fece. Stette zitto per un po' per riuscire a vincersi, e poi ripeté con la sua solita voce sorda e inespressiva:

- Mo quanno che semo grandi je famo vede noi je famo vede.

- Mo provo, - disse poi, senza cambiar tono di voce.

- 'O traversi? - chiese palpitante il più piccolino.

- Ma quale traversi, - disse Genesio. - Fo na prova.

- Che ce vai fin'in mezzo? - chiese ancora Mariuccio.

- Sìne, - fece Genesio. S'alzò e s'inerpicò su per la scarpata.

- Addò vai? - disse meravigliato Mariuccio.

- De làne, - fece Genesio senza voltarsi.

I fratelli gli andarono dietro su per la scarpata e poi ridiscesero dall'altra parte del trampolino, dove il Zinzello si stava finendo d'insaponare, mentre, come a prendere il suo posto, era arrivato un altro cristone, un po' spelacchiato e con la barba lunga sulla faccia che pareva bruciata dalla febbre, ch'era Alfio Lucchetti, lo zio di quell'Amerigo di Pietralata che s'era ammazzato.

- D'addò vengheno questi? - fece il Zinzello bonaccione e beffardo. Alfio, ch'era ancora vestito, coi calzoni neri a righini, li guardò scuotendo ironico la testa e tenendo contro il fianco la mano che stringeva il rotolo dell'asciugamano e del sapone, con un sorriso che gli gonfiava la mandibola tutta punticchiata di barba dura, e un pezzo di basetta che gli scendeva, sotto l'orecchia a sventola, dai capelli pettinati come quelli di un giovincello se pure qua e là c'era qualche filetto bianco. Genesio, proprio come se non si parlasse di lui, senza guardare nessuno, s'era andato a mettere coi piedi nell'acqua. Prima stette ancora un poco a allumare il fiume, poi si spinse dentro fino che l'acqua gli arrivò alla cintola, tenendo le braccia levate, e lì s'immerse nuotando svelto svelto alla cagnolina.

- Se sta a allenà pe traversà fiume, - comunicò Mariuccio, pieno d'ingenuo entusiasmo, ai grossi, guardandoli come se guardasse la cima d'un monte. Ma quelli ormai stavano parlando dei c... loro, e non lo sentirono nemmeno. Genesio arrivò fino a metà dove la corrente faceva tante piccole onde, filando più forte e radunando in quel punto tutta la sporcizia del fiume, tante strisce nere d'olio e una specie di schiuma gialla che pareva formata da migliaia di sputi; poi voltò, si fece trasportare un pochetto in giù, stando fermo, finchè arrivò più sotto del trampolino, poi ricominciò a nuotare verso la riva di qua. S'attaccò un pezzo più giù, verso il ponte, a dei pungiglioni che dalla scarpata quasi a picco pendevano sul pelo del fiume.

Borgo Antico e Mariuccio gli corsero dietro senza badare nemmeno dove mettevano i piedi, scivolando, cadendo, rialzandosi nella fanga, su e giù per la gobba scivolosa del trampolino, seguiti dal cane che s'era messo a abbaiare senza saper bene se doveva essere allarmato oppure contento.

- A Genesio, a Genesio, - gridavano i due fratellini, nemmeno fosse lontano dieci chilometri.

- Nun ce l'hai fatta, che? - chiese trepidante Mariuccio.

- Già m'avete stufato, - disse per tutta risposta Genesio. Si guardò risentito attorno, con un'occhiata rapida e scontrosa; poi aggiunse, senza guardarli in faccia: - Ho fatto na prova, ve sto a ddì!

Riosservava, adesso che l'aveva assaggiato, il fiume, calcolando le distanze in silenzio. Dietro il correntino c'erano ancora una decina di metri prima d'arrivare all'altra sponda, per dove scendeva a piombo la striscia bianca che lo scarico della varecchina aveva inciso colando nel fiume. Fido si mise a osservare pure lui, accomodandosi a sedere: ansimava con la bocca aperta, e chiudendola ogni tanto per inghiottire o per darsi una leccata. Rispettava il silenzio dei suoi padroncini, con un'espressione un po' abbacchiata: pareva che qualche fijo de na mignotta gli avesse dato un cazzotto in un occhio e gliel'avesse gonfiato, perché tutto bianco come era, solo intorno all'occhio sinistro c'aveva una macchia quasi blu: e da quella parte pure l'orecchia gli penzolava moscia, mentre l'altra se ne stava dritta, tesa, per non perdere neppure il più piccolo rumore.

Nel frattempo quegli sbragati come maiali sul pantano diedero segni di risveglio. Il Tirillo s'andò a mettere come una statua in pizzo al trampolino, fiacco fiacco, dandosi una stirata, e se ne stette lì un po' fermo, a testa bassa facendo schioccare contro il palato la lingua impastata con una smorfia di disgusto. - E quanno ce se butta quello, - fece il Caciotta guardandolo con la coda dell'occhio per non fare lo sforzo di voltarsi. -Che nun ce lo sai che so' nato stanco? - fece rassegnato, con gli occhi rappresi di sonno il Tirillo. Il Begalone s'era messo a tossire che pareva che stesse per sputare da un momento all'altro qualche pezzetto di polmone. - Sei arivato, va! - fece il Tirillo, poi, preso da una improvvisa energia, strillò: - Chi se butta con me? - E bùttecete, vaffan..., - gli disse schifato il Begalone tra i colpi di tosse che gli scremavano i polmoni. Il Tirillo alzò le braccia con una gran moina e si fece un caposotto all'angelo, allargando le gambe come un paperone. - Fai schifo ar c..., - disse il Caciotta, mentre che l'altro stava ancora sotto acqua.

Ma in quel momento si sentì un gran rombo e una gran caciara, che troncarono ogni commento. Pareva che venisse avanti il terremoto. Dilagava dalla parte di Tiburtino, e procedeva parallelamente per la Tiburtina e per la riva dell'Aniene. Dalla parte della Tiburtina si sentiva un frastuono che pareva che schiantasse le radici della terra, un frastuono regolare e sempre uguale, dove di tanto in tanto si distinguevano dei raschi e degli strappi, che parevano di rabbia e che scomparivano di botto. Procedeva come un immenso compressore macinando tutto il pezzo d'orizzonte tra i lotti di Tiburtino e il Monte del Pecoraro, sgranocchiando e sgretolando tutto quello che incontrava, come un bombardamento a tappeto. Dall'altra parte, invece, sulla riva dell'Aniene, era come se si fosse scatenato un branco di scimmiette e di pappagalli, cacciati dalla foresta da qualche incendio, che strìllavano a rotta di collo, non si capiva bene se perché avessero paura o perché fossero trasportati dall'entusiasmo. Si trattava d'un esercito di ragazzini, sfornati da mezzo Tiburtino, che correvano come scellerati, coi calzoncini boni, e agitando le magliette o le canottiere che s'erano tolti in corsa. Non si sentiva che cosa gridassero, tutt'insieme, da un gruppo all'altro, perché nella corsa s'erano scaglionati e sparsi lungo tutta la riva: ma venivano avanti insieme al rombo, e mano a mano che si distingueva meglio questo, si sentivano più chiari anche i loro strilli. - Li bersajeri, li bersajeri! - gridavano, mentre già i primi stavano franando alla curva del trampolino, e si vedeva benissimo che non gliene fregava niente dei bersaglieri, ma che quella era un'occasione buona per fare un po' di caciara. Correndo come cavallini coi capelli al vento, erano in testa lo Sgarone, il Roscetto, Armandino, con una faccia allegra e beffarda in contraddizione con la foga della corsa e delle grida selvagge che lanciavano. Era una fantasia improvvisata dai ragazzini che, siccome erano in tanti, si sentivano forti di fronte ai grossi e facevano i paraguletti. La valanga passò a tutta birra, alzando la polvere rossa e pesante lungo il ciglione spelacchiato, e seguendo la curva del fiume e gridando, sempre col massimo disinteresse ma più forte che potevano, - li bersajeriii -, voltarono in su verso la Tiburtina. Lì stava già arrivando la colonna autocorazzata, con le staffette dei bersaglieri in motocicletta, le autoblinde, alternate ai camion pieni di file di bersaglieri con le divise mimetizzate e i mitra tra le ginocchia, e ai carri armati coi cingoli che bucherellavano l'asfalto come se fosse di burro. I primi pischelli già si cominciavano a inerpicare su per la scarpata della strada, presso il ponte, mentre gli ultimi, un gruppetto di fiji de mignotta con tutto ch'erano ancora dei poppanti di cinque o sei anni, s'erano messi in fila, e cantando ironicamente la marcia dei bersaglieri, - papparappa pappa para, papparappa pappa paara -, venivano avanti al passo. Preso dall'entusiasmo pure il Caciotta si mise a correre dietro di loro, e pure il Tirillo ch'era risortito tra le strisce d'olio e le sputate. Borgo Antico e Mariuccio gridarono con le corde del collo tirate a Genesio: - Venghi a Genè? ce stanno li carri armati! - Ma Genesio alzò le spalle e come se nemmeno li avesse sentiti si mise pensieroso a sedere lì tra i cespugli dove si trovava. - Venghi, a Genè? - continuavano a gridare gli altri due, tutti ansiosi. Poi vedendo che proprio Genesio non c'aveva intenzione di venire, presero una volta tanto la strada da soli, trottando dietro ai due grossi, verso la scarpata della Tiburtina, seguiti dal povero Fido che non ci capiva più niente.

Al trampolino c'erano rimasti solo Alfio Lucchetti, appartato e minaccioso, perchè l'altro, il Zinzello, se n'era ito, Alduccio, con la faccia sempre nascosta tra le braccia contro la polvere che cominciava a bruciare, Genesio, tutto solo come un eremita dall'altra parte del trampolino e il Begalone. Il Begalone non la smetteva di tossire con dei raschi e delle espettorazioni che parevano botti dati con un mestolo dentro un bidone vuoto; la sua pelle gialla era coperta da una mano di rossore che nascondeva i cigolini; pareva che sul suo costato di crocefisso, anziché pelle normale, ci fosse attaccata della carne bollita. Andò a estrarre dalla saccoccia dei calzoni un fazzoletto già tutto spruzzato di macchioline rosse, e tossendo si compresse con quello la bocca. Nessuno gli dava retta. E lui tossiva, per suo conto, bestemmiando e dicendo i morti. Finalmente gli passò, e piano piano, andò a rimettere il fazzoletto dentro la saccoccia, ributtando i panni come fossero stracci sotto il cespuglio. Siccome la tosse gli aveva lasciato un giramento di testa e anche una specie di nausea, certo pure per la debolezza, perché la notte prima non aveva dormito quasi niente, pensò che un bagnetto forse gli faceva bene. Tirò su la sua carcassa da terra, si legò bene il pezzo di spago che, girandogli intorno alla testa come una specie di nastro sfilacciato, gli teneva a posto lo strato di capelli gialli e sbiaditi che gli piovevano lunghi alla malandrina fino ai primi ossicini delle vertebre, e si portò locco locco, perché non c'era nessuno che l'osservava, nell'orlo sputacchioso del fiume, a farsi un semplice bagno qualsiasi, come i vecchi quando si vanno a lavare i piedi, o Alfio, lì accosto, che ormai aveva deposto le ambizioni di gioventù, e si serviva del fiume come d'una bagnarola. Immerse le sue fettacce nell'acqua, le tirò su una alla volta con uno scatto come fanno le galline, per il freddo improvviso che sentiva, digrignando tra i denti: - Mannaggia a d... -, poi ci si abituò un pochetto, e infregnato scese giù verso il centro del fiume, piano piano fino a che l'acqua gl'arrivò ai caporelli che spuntavano rossi come due pezzetti di ceralacca sul costolame. Finalmente si gettò a nuoto, e navigò per un po' a mezzobraccetto in mezzo al fiume: ma si sentì ancora peggio: la capoccia gli girava come un picchio con la zagaia, e gli pareva di sentirsi dentro lo stomaco come un gatto morto. Stava quasi per sturbarsi. Si spaventò e cominciò a nuotare affannosamente verso la riva; appena rimesso piede a terra tutto gocciolante, non riuscì a reggersi diritto, s'inginocchiò sulla fanga e li rivomitò. La mattina, siccome il giorno precedente aveva fatto digiuno, s'era mangiato, poveraccio, un mezzo canestro di pane e cotiche: doveva aver fatto indigestione, e adesso ricacciava fuori pure l'anima.

Così lo trovarono quelli ch'erano corsi sulla strada a vedersi passare i carri armati fino a che l'ultimo era svoltato su verso Ponte Mammolo. - Er Begalone se sente male! - annunciò gridando il Caciotta, scorgendolo per primo disteso a terra con la bocca sulla fanga. Tutti gli corsero intorno, ma lui non pareva neppure accorgersene, con l'occhio semiaperto che guardava il vuoto. Il Caciotta e il Tirillo si misero a scuoterlo per le spalle:

- A Bègalo, a Bègalo, che te senti? - gli chiedevano, e lui niente, zitto, con la faccia tutta zozza che faceva rivoltare lo stomaco. Aveva intorno, tutti smandrappati e sudati, almeno una trentina di ragazzini, che si davano spinte fra di loro e litigavano per vederlo. Pure Alduccio scese giù, con la faccia congestionata dalla ceccagna, e cominciò a gridare: - Fate largo, levàteve, a scemi, che nun vedete che je tojete l'aria? - Pure lui scosse il Bègalo per le spalle, in mezzo al cerchio che s'era rinchiuso intorno. Il Bègalo diceva qualche cosa fra sé, con una smorfia di nausea. - Che sta a ddì? - chiese il Caciotta. - Boh, - fece il Tirillo con una certa impressione.

- Lavamolo, - decise invece Alduccio, dandosi da fare. Facendo coppa con le mani prese un po' d'acqua dal fiume e la gettò contro la faccia del Begalone, che si scosse un momento come gli ubbriachi, ripiombando subito nel suo torpore. - Daje, - fece Alduccio. Gli altri due l'aiutarono, e con tre o quattro spruzzate date bene fecero scorrere giù dalla faccia e dai pettorali del Bègalo tutta la zozzeria. - Mo so' cavoli nostra, - ciancicò il Caciotta, - che se lo dovemo incollà insin'a ccasa -. Il Tirillo approvò col gesto d'uno che riceve una botta in testa, e facendo una smorfia che significava: - Ammazza, a Caciò -. A ogni modo si dovettero rassegnare. Tirarono il Begalone a secco un po' più su sulla riva, e lo lasciarono così disteso, mentre che loro si vestivano. Poi, in mezzo al pubblico dei ragazzini che assistevano eccitati, rivestirono pure il Begalone, che lasciava fare, con ogni tanto qualche nuovo sforzo di vomito. Per portarlo via, il Caciotta lo prese sotto le ascelle e il Tirillo per i piedi, e così cominciarono la marcia verso Tiburtino, fermandosi ogni cinque sei metri per riposarsi, seguiti dal codazzo di pischelli che si accavallavano e s'accapigliavano per stargli più appresso. Alduccio li accompagnò solo per un pezzo, lungo il sentiero, dandogli il cambio ogni tanto. Poi quando fu per tornarsene indietro, scorse da lontano il Riccetto che veniva avanti, evidentemente pieno di buon umore, tutto acchittato e camminando con attenzione per non sporcarsi di polvere gli scarpini bianchi a buchi: in mano teneva gli slippi nuovi ben ripiegati, e la camicetta azzurra gli sventolava sopra le chiappe.

Alduccio allora corse ancora un po' avanti riguadagnando il pezzo che aveva perduto in confronto alla processione dei ragazzini, giusto in tempo per sentire le prime informazioni che si faceva dare con faccia severa il Riccetto.