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Ragazzi di Vita - Pasolini, VII. DENTRO ROMA (4)

VII. DENTRO ROMA (4)

Erano i primi giorni di marzo. Pioveva. Alvaro era giù a Testaccio in un bar, dove dei giovanotti, con aria stanca, giocavano al biliardo; pure lui giocava, tanto per passare il tempo. Lì dentro quel bar erano tutti della malavita, compreso il padrone, un panzone pelato coi riccioletti sul collo che pareva Nerone, che faceva il ricettatore: di quelli che giocavano al biliardo, tutti imblusinati con tutto ch'era giorno di lavoro, anzi un lunedì, nessuno aveva fatto meno di due o tre colpetti grossi, e adesso vivevano di rendita, per quel giorno almeno. Però era l'intero dopopranzo che giocavano in quello stanzone umido dietro il bar, e s'erano stufati, perciò pensarono d'andare a fare un giretto dentro Roma. Come furono dalle parti di Piazza del Popolo, si presentò l'occasione di rubare una vecchia Aprilia, che sarebbe stato proprio da micchi non approfittare: non c'era niente dentro, neppure un paio di guanti, ma loro pensarono di prenderla per divertirsela un pochetto quella sera, e poi lasciarla abbandonata da qualche parte. Un po' avevano bevuto al bare al Testaccio, un po' avevano ribevuto passeggiando per Piazza di Spagna e via del Babuino, un po' ribevvero adesso, girando su e giù per Roma con l'Aprilia appena prelevata. S'ubbriacarono completamente e cominciarono a correre come scellerati. Andarono a fare un po' di carosielli a Piazza Navona, poi siccome l'anello di Piazza Navona era troppo stretto, filarono verso i Cerchi, alla passeggiata Archeologica, e, portando la macchina a turno, andarono a centoventi centotrenta per i vialoni bagnati. Due vigili in motocicletta gli corsero dietro, ma loro, svicolando giù per l'Anagrafe e pei vicoletti di Piazza Giudia li seminarono per la strada: se ne tornarono a Piazza Navona, e girandoci intorno urtarono, buttandola a terra a cinque sei metri di distanza, una carrozzella per fortuna vuota, perchè la creatura camminava per mano alla madre; un uomo gli gridò dietro qualcosa, essi fermarono di brutto, scesero, lo pigliarono di petto, lo pestarono, lasciandolo con la bocca che sanguinava, risalirono sulla macchina, e se la sfangarono a tutta velocità per il Governo Vecchio e Borgo Panigo. Imboccarono il lungotevere, e si gettarono su verso il Ponte Milvio; all'altezza del Ministero della Marina, uno vide una bella signora che camminava sola, tutta linta e pinta, lungo la spalletta: rallentarono, uno scese, s'accostò alla signora, le strappò la borsetta, e via, fatta marcia indietro, attraversarono il ponte, e ridiscesero giù verso Borgo Pio; girarono un po' per Piazza San Pietro, e finirono un'altra volta a Tetaccio a bersi altri tre o quattro bicchierini di cognac. Era già sera, e decisero di andarsi a fare una corsa ad Anzio, a Ardea o a Latina, per la campagna. Risalirono sull'Aprilia, si lanciarono a tutta velocità verso San Giovanni, imboccarono l'Appia: dopo una mezzora erano in un paesello di cui non avevano visto neppure il nome, e andarono a farsi mezzolitro in un'osteria, poi corsero su e giù sempre a più di cento all'ora per quelle strade di campagna, fino a che, quasi per un caso, si trovarono proprio in un posto vicino a Latina che uno di loro già conosceva. Era notte alta. Lasciarono la macchina sul ciglio della strada, e entrarono dentro i cortili d'un casale di campagna, dove rubarono una ventina di polli, ammazzando a revolverate il cane. Caricarono i polli sulla macchina, e partirono filando ai centotrenta, imboccarono un'altra volta l'Appia, e, al trentesimo chilometro da Roma, poco prima di Marino, chissà in che modo, andarono a incassare contro la parte posteriore d'un autotreno. L'Aprilia si ridusse un mucchio di ferro contorto, con dentro mescolati insieme i corpi sanguinanti e le penne dei polli. L'unico che s'era salvato la pelle era Alvaro: ma aveva perduto un braccio e era rimasto cieco.

Raccontando questa storia, il roscetto aveva cominciato a sentire un po' di freschetto, forse per il sonno che c'aveva, e, un po' impallidito in faccia, guardava impaziente con la coda dell'occhio quelli che a intervalli rincasavano, attraversando il portone zitti e ingobbiti.

- Fàmmene annà a dormì, va, sinnò mi padre baccaja, - disse, alla fine, stirandosi.

- Allora se vedemo, - fece il Riccetto, che gli dispiaceva che se ne andasse così, ma non voleva mostrarlo.

- Te saluto, aaa coso, a Riccè, - disse Agnolo, gli strinse la mano, e sparì su per il budello largo e nero della scala M o N, con le sue rampe polverose, chiazzate ogni tanto dalla luce di una sperduta lampadina elettrica.

Il Riccetto se ne andò meditabondo e tranquillo, attraverso i cortili, in via di Donna Olimpia, ripassò davanti ai poliziotti, e, con le mani in saccoccia fischiettando, sotto il Monte di Casadio, prese la strada che portava giù al Ponte Bianco, oltre la Ferrobedò. Ormai non c'aveva più niente da fare lì, e accelerò un po' il passo, sempre fischiettando. Non vedeva l'ora d'essere arrivato giù al Ponte Bianco e d'aver preso il tram per tornarsene a casa a dormire.

La Ferrobedò, o per dir meglio, la Ferro-Beton, si stendeva alla sua destra nello zucchero filato della luna, un polverone bianco e fragrante, tutta ben ordinata e così silenziosa che si sentiva un guardiano, dentro qualche magazzino, che cantava a mezza voce. E di dietro, s'una specie d'altopiano, controluce, in cima a delle grandi gobbe nere, si profilava immenso il semicerchio di Monteverde Nuovo, punticchiato di lumi, sotto striscioni di nubi che parevano di porcellana, tutti granulosi, nel cielo liscio liscio. Da quand'erano crollate le scuole il Riccetto non s'era più fatto vedere in quei paraggi: e quasi quasi faceva fatica a riconoscerli. C'era troppa pulizia, troppo ordine, il Riccetto non ci si capacitava più. La Ferrobedò, lì sotto, era uno specchio: con le ciminiere alte, che quasi raggiungevano la strada dal fondo del suo valloncello, con gli spiazzi pieni di file ordinate di traverse accatastate alla perfezione, con i fasci di binari che luccicavano intorno a qualche vagone immobile e nero, con le file dei magazzini che, almeno dall'alto, parevano sale da ballo, tanto erano puliti, coi loro tetti rossicci tutti uguali in fila.

Pure la rete metallica, che seguiva lungo la strada la scarpata cespugliosa sopra la fabbrica, era nuova nuova, senza un buco. Solo la vecchia garitta, lì, presso la rete metallica, era sempre tutta fetida e lercia: quelli che ci passavano avanti, continuavano come una volta a farci i loro bisogni: ce n'era dentro, e anche fuori, tutt'intorno, almeno un palmo. Quello era l'unico punto che il Riccetto ritrovò famigliare, proprio come quand'era ragazzino ch'era appena finita la guerra.

Il Begalone e Alduccio se la battevano di nuovo alla svelta verso Campo dei Fiori, con le mani in saccoccia, e le magliette aperte che sventolavano sopra i calzoni, ma senza nè scherzare nè cantare.

- Che, sei n'omo pure te? - ripeteva camminando ingobbito Alduccio.

- An vedi questo! - gridava il Begalone fermandosi in mezzo alla strada e puntandogli contro la mano spalancata con le dita strette, - che, ce sei ito solo te ce sei ito?

- Mbè che c'entra, lui l'aveva detto solamente a me, pe gentilezza! -disse Alduccio facendosi imbuto alla bocca con la mano.

- Ah sei carino sei! - fece il Bègalo riprendendo la marcia. - A 'ncefalitico, - aggiunse poi battendosi con le dita sulla fronte.

- E poi mica t'ho detto fò sortanto io, - disse Alducio, - a scemo, t'ho detto famo a testa e croce!

Nel frattempo, litigando, erano arrivati a Campo dei Fiori, con il selciato tutto innaffiato ma con ancora qualche torso di cavolo e qualche coccia qua e là, e dei ragazzini che ci facevano ancora una partita a pallone colla palla di stracci. In fondo alla piazza, nell'ombra più scura, cominciava un vicoletto, - ch'era via de li Cappellari - con tanti portoni marci, dei voltoni e delle finestrelle sbilenche, e l'acciottolato infraccicato di vecchie pisciate. I due compari si misero sull'ultimo pezzo di luce prima dell'imboccatura del vicoletto, accanto a delle vecchie sedute alla porta di casa, sotto un lampione sganganato, e il Begalone cacciò uno scudo di metallo, lo rigirò tra i diti e lo gettò per aria.

- Testa! - gridò Alduccio.

La moneta picchiò sui sampietrini puzzolenti di pesce, rotolando presso un chiusino: il Bègalo e Alduccio dandosi spallate e tirandosi indietro per le camicette che quasi se le sgaravano, si gettarono sopra a culambrina a guardarla.

- Spetta a mme, - gridò calmo Alduccio, e, tutto gonfio, imboccò per primo il vicoletto. Il Bègalo gli tenne dietro. L'unica luce sul selciato che pareva quello d'una stalla, era la luce che veniva da qualche finestruccia incastrata tra le pareti livide, ed era una parola riconoscere la porta del bussolotto. Ma per fortuna era tinta d'un bel verde pisello, che uno l'avrebbe riconosciuta tra mille e poi era mezza aperta e dava s'un corridoio di mattonelle bianche come quello degli alberghi diurni.

Salirono su per la scaletta, e arrivarono sul pianerottolo del mezzanino; lì da una parte, proseguiva la scala, con un tappeto sfilacciato, sotto una volta bianca, mentre dall'altra si apriva la porta della saletta: nel mezzo c'era la cattedra della padrona.

I due compari, siccome in quel momento lì nell'ingresso non c'era nessuno e la porta della saletta era chiusa, continuarono tutti tranquilli a salire per la seconda rampa della scala. Ma li fermò un ruggito. - Aòh, a disgrazziati zozzi! - Era la padrona che urlava, e così forte da rompersi la vena dell'orina. - An vedi questi, - continuò, - che ve credete d'esse a casa vostra?

Delle risate e delle voci ironiche seguirono quelle parole dalla saletta piena di fumo. E anzi due tre dei clienti che già stavano dentro s'erano alzati e s'erano venuti a appioppare ghignando allo stipite della porta.

II Begalone e Alduccio ridiscesero di corsa i quattro scalini che avevano fatto, e ridendo pure loro, si presentarono davanti alla signora, che intanto s'era andata a mettere, trascinando le ciancacce bolse, dietro al suo pulpito. Ma lei non scherzava manco per niente, e neppure la serva, che le stava alle costole come un piattolone, tutta impaturgnata.

- Questi cretini, - fece la signora, che ogni tanto parlava in italiano, perché, siccome era possidente, si considerava nel rango delle persone elevate. - Che, volevate fà marchetta senza caccià na lira? Robba da matti!

- A signò, - fece conciliante il Begalone, - se semo sbajati.

- Sbajati un c... - fece lei, che quando la toccavano nei suoi interessi, parlava alla trasteverina proprio, con tutto ch'era di Frosinone: e allungò di brutto la mano verso di loro. Essi cacciarono le carte d'identità, e gliele fecero vedere; poi, con due facce allegre malgrado la figura da fessi che avevano fatto, entrarono dentro la saletta piena di clienti, che fumavano e se ne stavano seduti sui divani lungo le pareti, rossi come gamberetti, per lo più con delle facce da vittime, zitti e ingrifati.

E eccola lì, in uno sgabello imbottito, al centro della stanza, con due o tre zanzariere color menta intorno alla pancia, la vecchia siciliana che se ne stava seduta, fumandosi una sigaretta tutta impiastricciata di rossetto.

I presenti se la squadravano in silenzio, e lei li guardava infregnata, in faccia, buttando boccate di fumo intorno con le zinne che le arrivavano al bellicolo.

Come entrò, Alduccio le si mise subito davanti, voltando le spalle alla clientela al completo, e facendo un segno colla capoccia, disse tra i denti: -Namo.

«Sto broccolo, - pensò il Begalone, andandosi a mettere seduto s'un pezzetto di divano, - tutti questi è n'ora che sso' qqua, e nissuno c'annava, entra lui e manco entra se 'a porta in camera!» Alduccio e la mignotta intanto se n'erano usciti e se n'erano andati su per la scaletta col tappeto sfilacciato. Il Begalone si mise a fumare, con una chiappa sopra e una chiappa fuori dal divano, accanto a due militari cispadani mezzo rosci che non avevano detto una parola, rispettosi come se anzichè essere al bussolotto fossero in chiesa. «Mo quello quanno riscende, l'anno der c... -pensava nero il Bègalo. - Mo si un'antra vorta nun caccia 'a grana lui je lo fo piccolo er mazzo!» Diede le ultime tirate dalla cicca che gli scottava tra le dita, e la buttò sotto il divano, spiaccicandola col tacco.

Tutto era regolare: la padrona nel corridoio baccajava con la serva; urlava come se la sventrassero, e non si potevano distinguere bene le parole che diceva.

- Tiette, a buciona! - le fecero - com'era regolare, dopo un po' di quella caciara - due o tre giovanotti in un angolo della saletta: e fecero una voce così bassa e sforzata che pareva che gli venisse fuori dalle budella, rompendogli le corde del collo e facendogli schizzare il sangue dagli occhi: poi riprendevano subito l'espressione normale, e nessuno avrebbe potuto dire chi era stato. La padrona non li pensò per niente e continuò a gridare con la pinzòchera. Tutto era regolare, insomma: dopo un po' scendettero altre due delle ragazze; una si mise a sedere sullo sgabello vuoto, l'altra sulle ginocchia di uno dei giovanotti che avevano gridato e poi s'erano subito azzittati, facendo certe facce da vittime che pareva che avessero appena ingollato l'ostia santa. I due militari presero e locchi locchi se ne andarono, inseguiti dagli insulti delle due scaje; i più giovincelli ridevano fra loro rossi come peperoncini, il puzzo del fumo, dei panni sudati e delle scarpe di pezza aumentava sempre più, ma pure questo era regolare. Quando tutt'un botto...

In mezzo alla caciara della saletta, sopra la voce della padrona che lanciava gli ultimi pezzi della sua arringa, e delle ragazze che facevano la lagna, tutt'un botto si sentì venire dall'alto una risata che non finiva mai. In principio nessuno ci fece caso. Né la padrona, né le ragazze, né quei quattro soggetti dei clienti, né il Begalone. Ma poi visto che quella risata continuava, tutti cominciarono a drizzare un po' le orecchie. La padrona cominciò da dietro il suo banco a gettare qualche occhiata sospettosa verso l'alto, poi mise nel cassetto i soldi, che mentre gridava alla serva, non aveva smesso di contare, e andò fin sotto la rampa delle scale, guardando in su. Pure le ragazze s'azzittarono e le andarono intorno, tirandosi dietro gli strascichi di velo, con la ciccia che gli saltellava sotto la pelle odorosa di cipria e di fritto. I giovanotti di Panigo s'alzarono pure loro, e s'andarono ad accalcare davanti alla porta, appoggiati agli stipiti o uno addosso all'altro. Gli altri clienti si assieparono dietro a loro, e per ultimo il Begalone, a tirare il collo per vedere che cosa succedeva.

Quella che rideva se ne stava ancora nella terza rampa delle scale, che spariva sotto la sua piccola volta di calce, oltre il pianerottolo dove il tappeto sfilacciato finiva. Ma, piano piano scendeva gli scalini. Si doveva fermare ogni tanto, per buttare indietro la testa, o per piegarsi sulla pancia, a ridere meglio. Rideva forte, che la sentivano fino nella strada, eppure non tanto di cuore: faceva a-a-a-a-ah, un bel pezzetto, poi smetteva, e ricominciava l'a-a-a-a-ah su un tono più alto, che pareva gli si dovesse intasare il gargarozzo, a quella sciammannata. Finalmente arrivò sul pianerottolo, e lì si rifermò a ridere, di fronte al pubblico che la stava a guardare dal pianerottolo più basso. Per un po' la osservarono a bocca aperta, che si contorceva lassù, ormai senza più quasi voglia, ma, per dispetto, sempre più forte e sgangherata.

- Ma se può sapé che c'hai tanto da ride, a boccona! gridò un giovanotto. Lei guardò lui e gli altri in basso, e rise in faccia pure a loro.

- Fatte na risata su sta n...! - gridò un altro.

Lei si rivoltò verso la rampa che non si vedeva, e senza smettere di ridere, strillò: - E daje, e sbrighete, che te ce vò 'a balia, te ce vò? -Alduccio allora comparve pure lui, accanto alla siciliana, sul pianerottolo, cercando a testa bassa un buco più giù nella cinta dei calzoni per stringerla.

- Vatte a beve uno zabbajone, - continuava lei tra gli scoppi della sua sghignazzata.

- Vaffan..., - disse Alduccio fra di sè, a mezza voce, trovando finalmente il buco giusto della cinta. La siciliana scendeva giù piano per i gradini coperti dal tappeto, appoggiandosi con una mano contro la parete per ridere meglio, e lui le veniva dietro, come nascondendosi dietro di lei. Gli altri in basso, che avevano ormai sgamato, ridevano pure loro, ma non tanto forte, con un po' di discrezione, e borbottando tra le risatelle: - Ma li mortaci tua, ma che sarebbe tutta sta moina? - Ma lei ci rifaceva, senza fantasia e per far rabbia a tutti, smascellandosi. - Tutta sta prescia, -continuava a dirgli - e poi me manni in bianco. A-a-a-a-ah! - Co sta debolezza! - zagajò Alduccio, per dare una giustificazione, ma così piano che si sentì soltanto lui. Già erano arrivati giù sul pianerottolo più basso, dov'erano gli altri; la siciliana con dietro la sua risata isterica entrò nella saletta, facendosi largo in mezzo a quelli che s'erano radunati sulla porta, mentre Alduccio, senza avere il coraggio di guardare in faccia nessuno, incazzato nero, sbolognò subito giù per l'ultima rampa di scale, verso l'uscita, e il Begalone, pagata in fretta la padrona che già incominciava a strillare, gli corse dietro.

- Mo se dovemo fà a pedagna 'a strada infino a 'a stazzione Termini, ce 'o sai sì! - fece preoccupato a Alduccio, come l'ebbe riacchiappato e si fu chiusa la porta del bussolotto dietro le loro spalle.

- E che me frega, - disse Alduccio. Se ne andava avanti senza voltarsi come un lupo rognoso con la coda incollata tra le cosce. Per via dei Cappellari non c'erano che loro due, uno avanti uno dietro, rasente la facciata delle case con sopra due palanche di crosta di sporcizia zuppa d'umidità, nera, e bucate dalle finestrelle con gli stracci appesi: così stretta che allungando una mano da due finestrelle di faccia ci si poteva toccare. C'era un buio che bisognava camminare come i ciechi. - Mo qqua si intruppamo, - fece il Bègalo, - annamo a sbatte 'a faccia su quarche pisciata -. Camminando quasi tentoni, e stando ben attento dove metteva i piedi tutt'a un tratto sbottò a ridere. - Che c'hai da ride? - fece Alduccio voltandosi di brutto di sguincio. L'altro procedendo sul selciato che pareva spalmato di grasso continuava a sganassare. - Fatte n'antra risata! - fece Alduccio fiacco fiacco.

Attraversarono così uno avanti e uno dietro Campo dei Fiori ormai silenzioso, e per Largo Argentina e via Nazionale andarono su verso la stazione Termini e dopo una mezzoretta di marcia forzata ci arrivarono. -S'attaccamo qua-a? - fece sordamente Alduccio. - Più ggiù, mejo, - disse il Begalone, con la faccia allungata e gialla per la stanchezza. S'attaccarono più giù al 9 davanti alla caserma Macao. Il Begalone era allegro. Attaccato al respingente, s'era messo a cantare alla strapazzosa: -Zocoletti, zoccoletti! - Se poi per caso qualche passante voltava gli occhi su di lui, lo prendeva subito di petto. - Che te guardi? - faceva, oppure, secondo i tipi o la corsa del tranve: - A capò, sto attaccato ar tranve, embè? - e gli mostrava interrogativo la mano con le dita strette; o s'era un giovanotto: - Che, me 'i presti te, du scudi, a morè? -, e se poi era una fardona: - Quanto ssei bbòna -, e preso dall'entusiasmo ricominciava a cantare più forte. - E falla finita, - gli disse serio Alduccio durante una fermata, mentre girellavano intorno alla vettura, facendo finta di niente, -mo perché nun je fai na telefonata a 'a squadra mobbile che te venghino a pija: ce sta un fijo de na mignotta attaccato ar tranve, ar numero nove! -Che me frega a mme si me porteno a bottega, che casa mia è mejo? - fece il Begalone riattaccandosi con un salto al respingente.


VII. DENTRO ROMA (4) VII. DENTRO DE ROMA (4) VII. O INTERIOR DE ROMA (4)

Erano i primi giorni di marzo. Pioveva. Alvaro era giù a Testaccio in un bar, dove dei giovanotti, con aria stanca, giocavano al biliardo; pure lui giocava, tanto per passare il tempo. Lì dentro quel bar erano tutti della malavita, compreso il padrone, un panzone pelato coi riccioletti sul collo che pareva Nerone, che faceva il ricettatore: di quelli che giocavano al biliardo, tutti imblusinati con tutto ch'era giorno di lavoro, anzi un lunedì, nessuno aveva fatto meno di due o tre colpetti grossi, e adesso vivevano di rendita, per quel giorno almeno. Però era l'intero dopopranzo che giocavano in quello stanzone umido dietro il bar, e s'erano stufati, perciò pensarono d'andare a fare un giretto dentro Roma. Come furono dalle parti di Piazza del Popolo, si presentò l'occasione di rubare una vecchia Aprilia, che sarebbe stato proprio da micchi non approfittare: non c'era niente dentro, neppure un paio di guanti, ma loro pensarono di prenderla per divertirsela un pochetto quella sera, e poi lasciarla abbandonata da qualche parte. Un po' avevano bevuto al bare al Testaccio, un po' avevano ribevuto passeggiando per Piazza di Spagna e via del Babuino, un po' ribevvero adesso, girando su e giù per Roma con l'Aprilia appena prelevata. S'ubbriacarono completamente e cominciarono a correre come scellerati. Andarono a fare un po' di carosielli a Piazza Navona, poi siccome l'anello di Piazza Navona era troppo stretto, filarono verso i Cerchi, alla passeggiata Archeologica, e, portando la macchina a turno, andarono a centoventi centotrenta per i vialoni bagnati. Due vigili in motocicletta gli corsero dietro, ma loro, svicolando giù per l'Anagrafe e pei vicoletti di Piazza Giudia li seminarono per la strada: se ne tornarono a Piazza Navona, e girandoci intorno urtarono, buttandola a terra a cinque sei metri di distanza, una carrozzella per fortuna vuota, perchè la creatura camminava per mano alla madre; un uomo gli gridò dietro qualcosa, essi fermarono di brutto, scesero, lo pigliarono di petto, lo pestarono, lasciandolo con la bocca che sanguinava, risalirono sulla macchina, e se la sfangarono a tutta velocità per il Governo Vecchio e Borgo Panigo. Imboccarono il lungotevere, e si gettarono su verso il Ponte Milvio; all'altezza del Ministero della Marina, uno vide una bella signora che camminava sola, tutta linta e pinta, lungo la spalletta: rallentarono, uno scese, s'accostò alla signora, le strappò la borsetta, e via, fatta marcia indietro, attraversarono il ponte, e ridiscesero giù verso Borgo Pio; girarono un po' per Piazza San Pietro, e finirono un'altra volta a Tetaccio a bersi altri tre o quattro bicchierini di cognac. Era già sera, e decisero di andarsi a fare una corsa ad Anzio, a Ardea o a Latina, per la campagna. Risalirono sull'Aprilia, si lanciarono a tutta velocità verso San Giovanni, imboccarono l'Appia: dopo una mezzora erano in un paesello di cui non avevano visto neppure il nome, e andarono a farsi mezzolitro in un'osteria, poi corsero su e giù sempre a più di cento all'ora per quelle strade di campagna, fino a che, quasi per un caso, si trovarono proprio in un posto vicino a Latina che uno di loro già conosceva. Era notte alta. Lasciarono la macchina sul ciglio della strada, e entrarono dentro i cortili d'un casale di campagna, dove rubarono una ventina di polli, ammazzando a revolverate il cane. Caricarono i polli sulla macchina, e partirono filando ai centotrenta, imboccarono un'altra volta l'Appia, e, al trentesimo chilometro da Roma, poco prima di Marino, chissà in che modo, andarono a incassare contro la parte posteriore d'un autotreno. L'Aprilia si ridusse un mucchio di ferro contorto, con dentro mescolati insieme i corpi sanguinanti e le penne dei polli. L'unico che s'era salvato la pelle era Alvaro: ma aveva perduto un braccio e era rimasto cieco.

Raccontando questa storia, il roscetto aveva cominciato a sentire un po' di freschetto, forse per il sonno che c'aveva, e, un po' impallidito in faccia, guardava impaziente con la coda dell'occhio quelli che a intervalli rincasavano, attraversando il portone zitti e ingobbiti.

- Fàmmene annà a dormì, va, sinnò mi padre baccaja, - disse, alla fine, stirandosi.

- Allora se vedemo, - fece il Riccetto, che gli dispiaceva che se ne andasse così, ma non voleva mostrarlo.

- Te saluto, aaa coso, a Riccè, - disse Agnolo, gli strinse la mano, e sparì su per il budello largo e nero della scala M o N, con le sue rampe polverose, chiazzate ogni tanto dalla luce di una sperduta lampadina elettrica.

Il Riccetto se ne andò meditabondo e tranquillo, attraverso i cortili, in via di Donna Olimpia, ripassò davanti ai poliziotti, e, con le mani in saccoccia fischiettando, sotto il Monte di Casadio, prese la strada che portava giù al Ponte Bianco, oltre la Ferrobedò. Ormai non c'aveva più niente da fare lì, e accelerò un po' il passo, sempre fischiettando. Non vedeva l'ora d'essere arrivato giù al Ponte Bianco e d'aver preso il tram per tornarsene a casa a dormire.

La Ferrobedò, o per dir meglio, la Ferro-Beton, si stendeva alla sua destra nello zucchero filato della luna, un polverone bianco e fragrante, tutta ben ordinata e così silenziosa che si sentiva un guardiano, dentro qualche magazzino, che cantava a mezza voce. E di dietro, s'una specie d'altopiano, controluce, in cima a delle grandi gobbe nere, si profilava immenso il semicerchio di Monteverde Nuovo, punticchiato di lumi, sotto striscioni di nubi che parevano di porcellana, tutti granulosi, nel cielo liscio liscio. Da quand'erano crollate le scuole il Riccetto non s'era più fatto vedere in quei paraggi: e quasi quasi faceva fatica a riconoscerli. C'era troppa pulizia, troppo ordine, il Riccetto non ci si capacitava più. La Ferrobedò, lì sotto, era uno specchio: con le ciminiere alte, che quasi raggiungevano la strada dal fondo del suo valloncello, con gli spiazzi pieni di file ordinate di traverse accatastate alla perfezione, con i fasci di binari che luccicavano intorno a qualche vagone immobile e nero, con le file dei magazzini che, almeno dall'alto, parevano sale da ballo, tanto erano puliti, coi loro tetti rossicci tutti uguali in fila.

Pure la rete metallica, che seguiva lungo la strada la scarpata cespugliosa sopra la fabbrica, era nuova nuova, senza un buco. Solo la vecchia garitta, lì, presso la rete metallica, era sempre tutta fetida e lercia: quelli che ci passavano avanti, continuavano come una volta a farci i loro bisogni: ce n'era dentro, e anche fuori, tutt'intorno, almeno un palmo. Quello era l'unico punto che il Riccetto ritrovò famigliare, proprio come quand'era ragazzino ch'era appena finita la guerra.

Il Begalone e Alduccio se la battevano di nuovo alla svelta verso Campo dei Fiori, con le mani in saccoccia, e le magliette aperte che sventolavano sopra i calzoni, ma senza nè scherzare nè cantare.

- Che, sei n'omo pure te? - ripeteva camminando ingobbito Alduccio.

- An vedi questo! - gridava il Begalone fermandosi in mezzo alla strada e puntandogli contro la mano spalancata con le dita strette, - che, ce sei ito solo te ce sei ito?

- Mbè che c'entra, lui l'aveva detto solamente a me, pe gentilezza! -disse Alduccio facendosi imbuto alla bocca con la mano.

- Ah sei carino sei! - fece il Bègalo riprendendo la marcia. - A 'ncefalitico, - aggiunse poi battendosi con le dita sulla fronte.

- E poi mica t'ho detto fò sortanto io, - disse Alducio, - a scemo, t'ho detto famo a testa e croce!

Nel frattempo, litigando, erano arrivati a Campo dei Fiori, con il selciato tutto innaffiato ma con ancora qualche torso di cavolo e qualche coccia qua e là, e dei ragazzini che ci facevano ancora una partita a pallone colla palla di stracci. In fondo alla piazza, nell'ombra più scura, cominciava un vicoletto, - ch'era via de li Cappellari - con tanti portoni marci, dei voltoni e delle finestrelle sbilenche, e l'acciottolato infraccicato di vecchie pisciate. I due compari si misero sull'ultimo pezzo di luce prima dell'imboccatura del vicoletto, accanto a delle vecchie sedute alla porta di casa, sotto un lampione sganganato, e il Begalone cacciò uno scudo di metallo, lo rigirò tra i diti e lo gettò per aria.

- Testa! - gridò Alduccio.

La moneta picchiò sui sampietrini puzzolenti di pesce, rotolando presso un chiusino: il Bègalo e Alduccio dandosi spallate e tirandosi indietro per le camicette che quasi se le sgaravano, si gettarono sopra a culambrina a guardarla.

- Spetta a mme, - gridò calmo Alduccio, e, tutto gonfio, imboccò per primo il vicoletto. Il Bègalo gli tenne dietro. L'unica luce sul selciato che pareva quello d'una stalla, era la luce che veniva da qualche finestruccia incastrata tra le pareti livide, ed era una parola riconoscere la porta del bussolotto. Ma per fortuna era tinta d'un bel verde pisello, che uno l'avrebbe riconosciuta tra mille e poi era mezza aperta e dava s'un corridoio di mattonelle bianche come quello degli alberghi diurni.

Salirono su per la scaletta, e arrivarono sul pianerottolo del mezzanino; lì da una parte, proseguiva la scala, con un tappeto sfilacciato, sotto una volta bianca, mentre dall'altra si apriva la porta della saletta: nel mezzo c'era la cattedra della padrona.

I due compari, siccome in quel momento lì nell'ingresso non c'era nessuno e la porta della saletta era chiusa, continuarono tutti tranquilli a salire per la seconda rampa della scala. Ma li fermò un ruggito. - Aòh, a disgrazziati zozzi! - Era la padrona che urlava, e così forte da rompersi la vena dell'orina. - An vedi questi, - continuò, - che ve credete d'esse a casa vostra?

Delle risate e delle voci ironiche seguirono quelle parole dalla saletta piena di fumo. E anzi due tre dei clienti che già stavano dentro s'erano alzati e s'erano venuti a appioppare ghignando allo stipite della porta.

II Begalone e Alduccio ridiscesero di corsa i quattro scalini che avevano fatto, e ridendo pure loro, si presentarono davanti alla signora, che intanto s'era andata a mettere, trascinando le ciancacce bolse, dietro al suo pulpito. Ma lei non scherzava manco per niente, e neppure la serva, che le stava alle costole come un piattolone, tutta impaturgnata.

- Questi cretini, - fece la signora, che ogni tanto parlava in italiano, perché, siccome era possidente, si considerava nel rango delle persone elevate. - Che, volevate fà marchetta senza caccià na lira? Robba da matti!

- A signò, - fece conciliante il Begalone, - se semo sbajati.

- Sbajati un c... - fece lei, che quando la toccavano nei suoi interessi, parlava alla trasteverina proprio, con tutto ch'era di Frosinone: e allungò di brutto la mano verso di loro. Essi cacciarono le carte d'identità, e gliele fecero vedere; poi, con due facce allegre malgrado la figura da fessi che avevano fatto, entrarono dentro la saletta piena di clienti, che fumavano e se ne stavano seduti sui divani lungo le pareti, rossi come gamberetti, per lo più con delle facce da vittime, zitti e ingrifati.

E eccola lì, in uno sgabello imbottito, al centro della stanza, con due o tre zanzariere color menta intorno alla pancia, la vecchia siciliana che se ne stava seduta, fumandosi una sigaretta tutta impiastricciata di rossetto.

I presenti se la squadravano in silenzio, e lei li guardava infregnata, in faccia, buttando boccate di fumo intorno con le zinne che le arrivavano al bellicolo.

Come entrò, Alduccio le si mise subito davanti, voltando le spalle alla clientela al completo, e facendo un segno colla capoccia, disse tra i denti: -Namo.

«Sto broccolo, - pensò il Begalone, andandosi a mettere seduto s'un pezzetto di divano, - tutti questi è n'ora che sso' qqua, e nissuno c'annava, entra lui e manco entra se 'a porta in camera!» Alduccio e la mignotta intanto se n'erano usciti e se n'erano andati su per la scaletta col tappeto sfilacciato. Il Begalone si mise a fumare, con una chiappa sopra e una chiappa fuori dal divano, accanto a due militari cispadani mezzo rosci che non avevano detto una parola, rispettosi come se anzichè essere al bussolotto fossero in chiesa. «Mo quello quanno riscende, l'anno der c... -pensava nero il Bègalo. - Mo si un'antra vorta nun caccia 'a grana lui je lo fo piccolo er mazzo!» Diede le ultime tirate dalla cicca che gli scottava tra le dita, e la buttò sotto il divano, spiaccicandola col tacco.

Tutto era regolare: la padrona nel corridoio baccajava con la serva; urlava come se la sventrassero, e non si potevano distinguere bene le parole che diceva.

- Tiette, a buciona! - le fecero - com'era regolare, dopo un po' di quella caciara - due o tre giovanotti in un angolo della saletta: e fecero una voce così bassa e sforzata che pareva che gli venisse fuori dalle budella, rompendogli le corde del collo e facendogli schizzare il sangue dagli occhi: poi riprendevano subito l'espressione normale, e nessuno avrebbe potuto dire chi era stato. La padrona non li pensò per niente e continuò a gridare con la pinzòchera. Tutto era regolare, insomma: dopo un po' scendettero altre due delle ragazze; una si mise a sedere sullo sgabello vuoto, l'altra sulle ginocchia di uno dei giovanotti che avevano gridato e poi s'erano subito azzittati, facendo certe facce da vittime che pareva che avessero appena ingollato l'ostia santa. I due militari presero e locchi locchi se ne andarono, inseguiti dagli insulti delle due scaje; i più giovincelli ridevano fra loro rossi come peperoncini, il puzzo del fumo, dei panni sudati e delle scarpe di pezza aumentava sempre più, ma pure questo era regolare. Quando tutt'un botto...

In mezzo alla caciara della saletta, sopra la voce della padrona che lanciava gli ultimi pezzi della sua arringa, e delle ragazze che facevano la lagna, tutt'un botto si sentì venire dall'alto una risata che non finiva mai. In principio nessuno ci fece caso. Né la padrona, né le ragazze, né quei quattro soggetti dei clienti, né il Begalone. Ma poi visto che quella risata continuava, tutti cominciarono a drizzare un po' le orecchie. La padrona cominciò da dietro il suo banco a gettare qualche occhiata sospettosa verso l'alto, poi mise nel cassetto i soldi, che mentre gridava alla serva, non aveva smesso di contare, e andò fin sotto la rampa delle scale, guardando in su. Pure le ragazze s'azzittarono e le andarono intorno, tirandosi dietro gli strascichi di velo, con la ciccia che gli saltellava sotto la pelle odorosa di cipria e di fritto. I giovanotti di Panigo s'alzarono pure loro, e s'andarono ad accalcare davanti alla porta, appoggiati agli stipiti o uno addosso all'altro. Gli altri clienti si assieparono dietro a loro, e per ultimo il Begalone, a tirare il collo per vedere che cosa succedeva.

Quella che rideva se ne stava ancora nella terza rampa delle scale, che spariva sotto la sua piccola volta di calce, oltre il pianerottolo dove il tappeto sfilacciato finiva. Ma, piano piano scendeva gli scalini. Si doveva fermare ogni tanto, per buttare indietro la testa, o per piegarsi sulla pancia, a ridere meglio. Rideva forte, che la sentivano fino nella strada, eppure non tanto di cuore: faceva a-a-a-a-ah, un bel pezzetto, poi smetteva, e ricominciava l'a-a-a-a-ah su un tono più alto, che pareva gli si dovesse intasare il gargarozzo, a quella sciammannata. Finalmente arrivò sul pianerottolo, e lì si rifermò a ridere, di fronte al pubblico che la stava a guardare dal pianerottolo più basso. Per un po' la osservarono a bocca aperta, che si contorceva lassù, ormai senza più quasi voglia, ma, per dispetto, sempre più forte e sgangherata.

- Ma se può sapé che c'hai tanto da ride, a boccona! gridò un giovanotto. Lei guardò lui e gli altri in basso, e rise in faccia pure a loro.

- Fatte na risata su sta n...! - gridò un altro.

Lei si rivoltò verso la rampa che non si vedeva, e senza smettere di ridere, strillò: - E daje, e sbrighete, che te ce vò 'a balia, te ce vò? -Alduccio allora comparve pure lui, accanto alla siciliana, sul pianerottolo, cercando a testa bassa un buco più giù nella cinta dei calzoni per stringerla.

- Vatte a beve uno zabbajone, - continuava lei tra gli scoppi della sua sghignazzata.

- Vaffan..., - disse Alduccio fra di sè, a mezza voce, trovando finalmente il buco giusto della cinta. La siciliana scendeva giù piano per i gradini coperti dal tappeto, appoggiandosi con una mano contro la parete per ridere meglio, e lui le veniva dietro, come nascondendosi dietro di lei. Gli altri in basso, che avevano ormai sgamato, ridevano pure loro, ma non tanto forte, con un po' di discrezione, e borbottando tra le risatelle: - Ma li mortaci tua, ma che sarebbe tutta sta moina? - Ma lei ci rifaceva, senza fantasia e per far rabbia a tutti, smascellandosi. - Tutta sta prescia, -continuava a dirgli - e poi me manni in bianco. A-a-a-a-ah! - Co sta debolezza! - zagajò Alduccio, per dare una giustificazione, ma così piano che si sentì soltanto lui. Già erano arrivati giù sul pianerottolo più basso, dov'erano gli altri; la siciliana con dietro la sua risata isterica entrò nella saletta, facendosi largo in mezzo a quelli che s'erano radunati sulla porta, mentre Alduccio, senza avere il coraggio di guardare in faccia nessuno, incazzato nero, sbolognò subito giù per l'ultima rampa di scale, verso l'uscita, e il Begalone, pagata in fretta la padrona che già incominciava a strillare, gli corse dietro.

- Mo se dovemo fà a pedagna 'a strada infino a 'a stazzione Termini, ce 'o sai sì! - fece preoccupato a Alduccio, come l'ebbe riacchiappato e si fu chiusa la porta del bussolotto dietro le loro spalle.

- E che me frega, - disse Alduccio. Se ne andava avanti senza voltarsi come un lupo rognoso con la coda incollata tra le cosce. Per via dei Cappellari non c'erano che loro due, uno avanti uno dietro, rasente la facciata delle case con sopra due palanche di crosta di sporcizia zuppa d'umidità, nera, e bucate dalle finestrelle con gli stracci appesi: così stretta che allungando una mano da due finestrelle di faccia ci si poteva toccare. C'era un buio che bisognava camminare come i ciechi. - Mo qqua si intruppamo, - fece il Bègalo, - annamo a sbatte 'a faccia su quarche pisciata -. Camminando quasi tentoni, e stando ben attento dove metteva i piedi tutt'a un tratto sbottò a ridere. - Che c'hai da ride? - fece Alduccio voltandosi di brutto di sguincio. L'altro procedendo sul selciato che pareva spalmato di grasso continuava a sganassare. - Fatte n'antra risata! - fece Alduccio fiacco fiacco.

Attraversarono così uno avanti e uno dietro Campo dei Fiori ormai silenzioso, e per Largo Argentina e via Nazionale andarono su verso la stazione Termini e dopo una mezzoretta di marcia forzata ci arrivarono. -S'attaccamo qua-a? - fece sordamente Alduccio. - Più ggiù, mejo, - disse il Begalone, con la faccia allungata e gialla per la stanchezza. S'attaccarono più giù al 9 davanti alla caserma Macao. Il Begalone era allegro. Attaccato al respingente, s'era messo a cantare alla strapazzosa: -Zocoletti, zoccoletti! - Se poi per caso qualche passante voltava gli occhi su di lui, lo prendeva subito di petto. - Che te guardi? - faceva, oppure, secondo i tipi o la corsa del tranve: - A capò, sto attaccato ar tranve, embè? - e gli mostrava interrogativo la mano con le dita strette; o s'era un giovanotto: - Che, me 'i presti te, du scudi, a morè? -, e se poi era una fardona: - Quanto ssei bbòna -, e preso dall'entusiasmo ricominciava a cantare più forte. - E falla finita, - gli disse serio Alduccio durante una fermata, mentre girellavano intorno alla vettura, facendo finta di niente, -mo perché nun je fai na telefonata a 'a squadra mobbile che te venghino a pija: ce sta un fijo de na mignotta attaccato ar tranve, ar numero nove! -Che me frega a mme si me porteno a bottega, che casa mia è mejo? - fece il Begalone riattaccandosi con un salto al respingente.