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Ragazzi di Vita - Pasolini, IV. RAGAZZI DI VITA (1)

IV. RAGAZZI DI VITA (1)

Il popolo è un grande selvaggio nel seno della società. L. TOLSTOJ

Amerigo era ubbriaco. - Scegnemo qua ar Forte, - fece al Caciotta, che l'ascoltava deferente. - Te presento n'amico mio, - disse poi questi, tanto per dire qualcosa. Amerigo alzò la mano come se fosse di piombo verso il Riccetto; teneva il bavero della giacca rialzato, la faccia era verde sotto i ricci impiastricciati di polvere, e i grossi occhi marroni che fissavano invetriti. Strinse la mano forte, senza parere, come se non ci fosse il minimo dubbio, tra loro, ch'erano tutt'e due dei dritti. Ma subito si scordò del Riccetto, e voltato verso il Caciotta disse: - Ha' ccapito? - Faceva il ragazzo serio, ma però il Caciotta, quello che intanto capiva era che con lui ci si poteva scherzare poco: da Farfarelli un giorno l'aveva visto che sollevava sei sedie legate con una mano, e ne aveva gonfiato a cazzotti e mandato all'ospedale più d'uno a Pietralata. - Ch'hai fatto? - disse il Caciotta, come da pari a pari, tra malandrini. - Mo parlamo, - fece Amerigo, tirandosi su meglio il bavero della giacca.

L'autobus si fermò al Forte di Pietralata; dal bar ancora aperto un riflesso di luce radeva la crosta d'asfalto della Tiburtina Amerigo saltò giù dal predellino molleggiandosi sulle gambe, con un passetto da palestra, senza sfilare le mani dalla saccoccia dei calzoni. - Namo, - disse il Caciotta al Riccetto, che non si capacitava della piega che stavano prendendo le cose, e gli andarono appresso. - Se famo sto pezzo a ppiedi, - disse Amerigo incamminandosi, davanti alla caserma dei bersaglieri, verso Tiburtino. Come furono un po' più giù, strinse il Caciotta per un gomito; camminava mettendo un piede davanti all'altro con una faccia così cattiva che in qualsiasi parte del corpo uno lo toccava, pareva che dovesse farsi male. Strascicava i passi come un bocchissiere un po' groncio e invece, in quella camminata cascante, si vedeva ch'era pronto e svelto peggio d'una bestia. Col Caciotta e il Riccetto continuava a fare il ragazzo serio, che non pensa manco per niente alla forza che c'ha e alla reputazione di meglio guappo di Pietralata: aveva l'aria complice di uno che sta a trattare un affare con una persona pari a lui, che non si giobba. - Si venghi co' me, - disse al Caciotta, - poi te trovi contento. - Indovve? - fece il Caciotta.

Amerigo accennò con la testa avanti, verso Tiburtino. - Qqua, - fece, - da Fileni -. Il Caciotta non aveva sentito mai sto nome. Stette zitto. Amerigo continuò, facendo finta di credere che l'altro avesse capito: - Oggi è sabbato, annamo calli, - disse con voce spenta e un po' da donna, forse come sua madre, e sempre più giallo in faccia. - E nnamoce, - fece il Caciotta alla malandrina; tanto non c'era altro da fare, e lui ormai la prendeva come un divertimento.

Il Riccetto invece se ne stava indietro con gli occhi storti. Come furono all'imbocco di Tiburtino III disse: - Ve saluto, a moretti, io speso. - Addò vai? - fece il Caciotta fermandosi. Pure Amerigo s'era fermato e guardava di traverso con le mani mezze infilate in saccoccia. - A dormì, li mortacci tua. Tengo un zonno che si fo' ancora du passi spiro!

Amerigo gli si avvicinò, guardandolo con gli occhi che parevano insanguinati, come ridendo; rideva per la ragione che non era possibile fare qualche cosa contro quello che lui decideva.

- A moro, - disse a voce bassa e ancora calma, persuasiva, - già te 'ho detto, si è che venghi co' me, poi me devi da ringrazzià... Tu me nun me conosci... - Il Caciotta che lo conosceva guardava divertito, da una parte. Tanto sapeva che il Riccetto sarebbe andato con loro da questo Fileni.

- Tengo sonno te sto a ddì, - fece il Riccetto.

- Ma quale sonno, quale sonno, - fece Amerigo, ridendo sotto la fronte tutta corrugata, allegro sempre per quel pensiero che era assurdo non seguire i suoi consigli, - e nnamo! - Si mise una mano sul cuore: - Er Caciotta qqua te 'o può ddì, ve' Caciò? Io sso uno che nissuno puo ddì niente de me, e si fo una promessa, a morè, stacce, che tutto ha d'annà come che dico io... Pecché? 'N semo tutti amichi, qqua? Io te fo un favore, per modo de ddì, e n'antra vorta tu 'o ffai a me, che, 'un se dovemo da dà na mano uno co l'artro? - S'era fatto solenne: a non stare con lui c'era da far capire che s'era balordi; ma al Riccetto gli rodeva quell'affare lì tra Amerigo e il Caciotta, che gli pareva da naso. Il Caciotta guardava con una strana aria: «Fa un po' come te pare, - pareva che dicesse, - io nun me impiccio». Il Riccetto alzò le spalle. - E chi te sta a ddì niente? - disse a Amerigo, - c'hai raggione te: andatece te cor Caciotta in sto posto, che, c'avete bisogno de me c'avete? - Ma Amerigo non sapeva chi dei due tenesse in saccoccia la grana. Guardò il Riccetto con aria paziente e molto seria. Gli si fece sotto fino a mescolare il suo fiato che sapeva di vino con quello del Riccetto. Ma in quel momento si disegnarono due ombre, ben conosciute, contro l'ombra giallognola dei primi lotti di Tiburtino, che venivano giù verso la fontanella dove s'erano fermati.

- Li carubba, - fece il Caciotta. - Me conosciono, - continuò, - so' quelli che me volevano carcerà 'artra sera ar cinema de Tibburtino!

Amerigo li guardò venire avanti, coi suoi occhi malati; si mise una mano sulla faccia, e si strinse la fronte tra le dita. Era bianco come uno straccio e con la bocca faceva una smorfia come se stesse per piangere. Quando le due ombre con la bandoliera a tracolla furono un po' più in là, verso la borgata, si passò un'ultima volta la mano sulla fronte. - Ahioddio, quanto me dole, - disse, - è come un chiodo che me passa 'a testa da parte a parte -. Ma già gli era passato.

Si riaccostò al Riccetto, e gli mise amichevolmente una mano sulla spalla. - A Riccè, - disse, - come te chiami, nun sta a ffà er balordo, si vvenghi pure tte è mejo -. Riprese l'aria espansiva e oratoria: - Parola, -disse, - ch'i fussi er peggio fijo de na mignotta, si dopo 'un me venghi a ddì: a Amerigo, te devo ringrazzià e te fo pure le mi scuse -. La sua mano pesava sulla spalla del Riccetto come una còfana.

Andarono in giù per il corso di Tiburtino, dove solo ai due bar c'era un filo di luce, e in mezzo ai lotti a un piano scrostati e sporchi, con qualche panno appeso alle finestre, si sentiva ancora ronzare una ghitarra. Svoltarono giù per il mercato coperto, unto e verdognolo di pesce, tagliarono per due o tre delle strade tutte uguali che dividevano i lotti, e arrivarono a una delle case con davanti una loggia in stile novecento, acciaccata e cadente. Andarono su per una scaletta, poi per un ballatoio di pietra che dava sulla strada parallela, e bussarono a una porticina, già schiusa e da dove usciva un po' di luce. Una mano dal di dentro aprì e essi si trovarono in una cucina piena di gente silenziosa raggruppata intorno alla tavola. Sei o sette giocavarlo a zecchinetta; gli altri, stretti contro le pareti o il secchiaio pieno di piatti ancora sporchi, stavano a guardare.

Amerigo e gli altri due entrarono piano piano tra il mucchio di gente, che si scansò facendo un po' di posto, e accontentandosi di dargli un'occhiata; poi tutti si misero a osservare le carte, da dietro le spalle dei giocatori. Amerigo stava a guardare, come se non pensasse più al Caciotta e al Riccetto, il gioco le cui mani si seguivano alla svelta con continue vincite o perdite, seguite da qualche bisbiglio più forte e da qualche commento fatto anche a voce alta. Al Caciotta non gliene fregava niente ma benché morisse dal sonno continuava a guardarsi intorno allegramente mentre il Riccetto, ricordando di quand'era ragazzino a Donna Olimpia, e giocava coi soldi delle tubature, gli erano venute le guance rosse e gli occhi gli bruciavano. Come una mano finiva, Amerigo si voltava un poco, non verso i suoi compagni, ma verso l'uno o l'altro degli anziani che erano intorno, scuotendo la testa o sibilando con voce rauca: - Li mortacci sua -. Davanti a lui, con le spallucce curve, c'era un certo Zinzello, coi capelli lisci tirati alla Rudi, un carrettiere, che perdeva sempre, e si faceva sempre più duro e rugoso in faccia; finalmente s'alzò e un altro prese il posto suo. In quel momento Amerigo che stava alle sue spalle si decise. Si voltò verso il Caciotta, e, come fossero stati già d'accordo, con confidenza, e un'espressione amara negli occhi, gli disse: - Prestemle er sacco che c'hai in zaccoccia. - Mica 'o tengo io, - fece il Caciotta.

Gli occhi giallognoli di Amerigo si puntarono sul Riccetto ch'era un poco più indietro: - Caccia sti sordi, - gli disse a voce bassa, per non superare il brusio della cucina. Il Riccetto ammorgiava. - E daje, - fece Amerigo sbrigativo, quasi esasperato, - te 'i rendo, che te credi, mica te 'i sto a rubbà, ce lo sai, sì.

- E caccia, che te frega, - disse il Caciotta.

Il Riccetto disse: - Famo mezzo peromo de 'a vincita, va bbè? - e cacciò il corpo, tenendolo stretto in mano - Si è invece che perdi me rendi mezzo corpo... - aggiunse. - Mica te 'i sto a rubbà, - ripeté Amerigo, - famo come dichi te, daje, - e impaziente gli prese i soldi di mano. Mise tre o quattro piotte sul tavolo, e puntò; le carte scivolavano da una mano all'altra come fossero d'olio, un mazzetto qua uno là, in un minuto, e bastava un'occhiata per vedere s'era andata bene o male.

Amerigo quella prima mano la vinse, e si voltò appena con gli occhi verso il Riccetto che seguiva con la faccia scura. Il Caciotta rideva quanto aveva larga la bocca: - Me sto a sfiatà de fumà, - disse, cercò per le tasche una cicca, la trovò e se l'accendette. Amerigo rivinse pure la seconda mano; si voltava, intascando, a fare qualche osservazione eol giovanotto pettinato alla Rudi, che, ammutolito, gli stava appresso. Gli altri due li guardava soltanto, con sguardo soddisfatto, per tenerseli buoni. Metteva in saccoccia tutta la pecogna che vinceva. Poi subito cominciò a andar male e in cinque o sei mani rimase in bianco. Guardò gli altri due col suo sguardo di cadavere. Il Riccetto aveva gli occhi induriti, afflitti, che quasi stava per piangere; non dissero niente. Amerigo si rimise a osservare il gioco, per cercar di capirlo, e fare i calcoli su come si svolgeva; ogni tanto scambiava qualche parola col carrettiere, spiegando le ragioni per cui aveva perduto pure lui. Dopo un po' si rivolse al Riccetto. - E caccia l'altri sordi, - disse.

- Che, se' matto, - fece il Riccetto, - e domani chi me 'i ridà a mme si riperdemo? - Amerigo pazientò ancora; tacque qualche istante, poi riprese:

- Daje, damme sti sordi. - Ma nun me va de ggiocà ancora, te sto a ddì, -fece a voce bassa il Riccetto. Ma era incerto; Amerigo lo guardava fisso. -Permetti na parola, - disse, gli strinse tra le sue dita di ferro il braccio come fosse un zeppo, e lo fece uscire in mezzo al mucchio di gente fuori dalla porta del ballatoio. Era ricominciato a pioviccicare, ma tra le nuvole stracciate cadeva sui lotti il bianco della luna. - Tu ppe' mme se' come un fratello, - cominciò, - me devi da crede, io quello che c'ho 'n bocca ce l'ho ner core. Domandaje a chi te pare a Pietralata, a Tibburtino, de me, de Amerigo, che nun ce sta nissuno nun ce sta che nun me conosce, e so' er ragazzo più rispettato de tutta 'a borgata, che si posso aiutà uno, 'o aiuto, mica ce sto tanto a penzà, e si è che poi n'artra vorta c'ho bisogno io, che c'entra, quello m'aiuta a mme, è regola - Il Riccetto stette per aprire bocca.

- Ma pecché? - lo interruppe Amerigo, prendendolo con due dita per il risvolto della giacca - Ma pecché? - rifece, scuotendo la testa, tanta era la convinzione di quello che stava a dire, - si quarcheduno te chiede un piacere, pecché 'un je o devi da ffà? N'artra vorta pe' portatte un paragone, poteressi avè bisogno te, è regolare? - Tu c'hai raggione, - disse il Riccetto, - ma si perdo ste du piotte domani che magno? Amerigo allentò le due dita che stringevano il bavero della giacca: si mise una mano sulla fronte scuotendo forte la testa come se gli mancassero le parole per far capire una cosa tanto semplice. - Tu nun m'hai capito quello che te volevo ddì, - fece; e si mise a ridere. - Domani, - continuò, - tu me dai appuntamento; a che ora me 'o puoi dà? - Boh che ne so, a 'e tre, - fece il Riccetto. - 'E tre, - fece Amerigo, - davanti a Farfarelli, va bbè? - Come no, - fece il Riccetto. - Domani a 'e tre davanti a Farfarelli, - disse Amerigo alzando le braccia, - se vedemo e io te ridò li sordi tua. Quanto tenghi in saccoccia? - Boh, saranno quattro fronne, - disse il Riccetto. -Famme vede, - disse Amerigo rimettendogli la morsa delle dita sulla spalla. Il Riccetto cacciò le poche piotte che teneva nella saccoccia dei calzoni: Amerigo gliele prese di mano e le contò. Poi rientrò nella stanza, senza vedere se il Riccetto gli veniva appresso. Il Caciotta stava chiacchierando col carrettiere, che seguiva il gioco. Amerigo allungò tra le schiene dei giocatori seduti i soldi sul tavolo; e riperdette. Puntò un'altra mano, e perdette ancora. Pure stavolta nessuno disse niente. Amerigo si giustificò solo dopo un poco col carrettiere e il Caciotta. Stettero lì dentro ancora una mezzoretta, poi se ne andarono, senza che nessuno ci facesse caso.

Da una parte il cielo era tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla terra. venisse a cadere qualche misero soffio di vento. Dall'altra parte, come ci si voltava, verso Roma, c'era ancora brutto tempo, con dei nuvoli grevi di pioggia e fulmini, che però s'andavano sbrillentando all'orizzonte cosparso di lumi. Da un'altra parte ancora il cielo si stendeva, proprio lì sopra Tiburtino, come sopra l'imbuto d'un cortile, e la luna si appoggiava, spaurita, sugli orli lucenti di qualche macchia di vapore vagante. Giù per le strade tutte uguali di Tiburtino non c'era ormai nessuno, e solo dalla strada centrale si sentiva qualche rumore.

I tre se ne andavano smidollati verso la Tiburtina, tra i lotti, con qualche filo d'erba sulla terra battuta, e il Caciotta canticchiava mentre gli altri due trascinavano le scarpe bianche e nere a punta e tutte fraciche senza dire una parola. - Mo se salutamo, - fece il Riccetto. Amerigo lo guardò con la sua faccia larga e le mascelle che, piegandosi, apparvero enormi e bianche, alla luce della luna. Non aveva espressione, ma la bocca gonfia che vi si apriva come una ferita, più livida che rossa, e gli occhi scontenti, non lasciavano dubbio sui suoi pensieri. - Che ce venimo a ffà a 'a Tibburtina, - fece il Riccetto tanto per dire qualcosa, - mo ce semo, so' du passi so', te li puoi ffà pure da tte -. A storcere lo sguardo d'Amerigo, più che la vera e propria rabbia d'essere contrariato, era che si osasse essere così incoscienti da contrariarlo. Ma questi col Riccetto erano discorsi che si dovevano fare, e bisognava aver la pazienza di farli: e Amerigo li sopportava, ma con quella scontentezza così nera negli occhi che faceva correre un brivido nella schiena. Ricominciò con tutta la sua buona volontà. - Mo si ce riannamo, - disse, - so' sicuro che se vince, mo ho capito er gioco, comprendime quello che te vojo ddì -. Il Riccetto non rispose niente; guardò il Caciotta, che, per la giannetta, aveva la faccia bianca e viola come una cipolla. - Sì, ma ce vonno li sordi, - disse poi raucamente. Amerigo lo guardò impaziente, e pareva che stesse per scuotere la testa e fare con le labbra uno schiocco per significare che non solo lui, ma nessun altro al posto suo, sarebbe stato tanto micco da accettare quella conclusione. S'appoggiò allo stipite tutto rosicchiato d'una porta silenziosa.

- Mo si cacci n'antro mezzo sacco, - fece come se il Riccetto avesse sempre ammesso d'avere ancora della grana, - se riprendemo tutto quello ch'avemo perzo, e se famo er doppio -. La sua voce era sempre più spenta, in contrasto col suo corpo che lì, sullo stipite della porta, pareva quello enorme dei maiali appesi quanto son lunghi a un uncino davanti alle macellerie. Pure gli occhi gli s'erano fatti piccoli e appannati come quelli dei maiali appesi; e nella smorfia della sua bella faccia si vedeva che la pazienza stava per finire. Il Riccetto mormorò ancora con le sopracciglia tirate come un ragazzino: - Ma si nun tengo più na lira!

Amerigo si sedette sullo scalino slabbrato. - Magari me faccio pure dieci anni de Reggina Celi, ma stanotte io devo da giocà, - fece a voce bassa. Il Riccetto pensò dentro di sé tremando «So' c... nostra», e stette zitto per non dargli spago. Ma quello, dopo un po' di silenzio che doveva rinforzare le sue parole, riprese con voce più rauca ma più forte, così, per cancellarne l'impressione, e per ricominciare daccapo col discorso cordiale: - Che, n'ho già fatti pochi de anni a bottega! - Indovve, a Porta Portese, che? -fece il Caciotta. - Sìne, - disse Amerigo. Si era fatto nero, e le labbra tonde e raggrinzite gli tremavano. - M'hanno carcerato pe' violenza carnale, - fece. - Ammazzete, a chi l'hai fatta 'a festa? - disse il Caciotta.

-A na pecora, - disse disperato Amerigo. - Mo er pastore m'ha visto che me la in..., li mortacci sua, e m'ha dinunciato -. Stava quasi per piangere, con la bocca semiaperta e le sopracciglia tirate in su, sulla fronte piena di rughe giovanili tra i ricci di statua. - Ammazza, - disse dolorosamente, - quante me n'hanno date, quante!... - La sua voce s'era fatta acuta, come quella delle donne quando si lamentano di qualche vecchia ingiustizia che ancora le fa patire. - Quante! - ripeté. - Tiè, guarda, - fece tirandosi su la camicia di sotto la cinta dei calzoni e mostrando la schiena, - ancora ce stanno li segni. - Che t'hanno fatto? - fece il Caciotta.

- Le frustate che m'hanno dato, le frustate, li mortacci loro, - fece Amerigo arrotando i denti. - E guarda, ancora ce stanno li segni, ripeté, tirandosi su meglio la camicia fin sul collo. La schiena era rimasta nuda, larga come un lastrone d'acciaio, coi riflessi azzurrini, sotto la luna. Segni non se ne vedevano per niente, su quel carname liscio e abbronzato. Il Caciotta vi si chinò sopra e esplorò coscienzioso lungo il gran ponte delle vertebre che s'incurvava sospeso tra la cinta dei calzoni e la nuca nascosta sotto la camicia; e dopo aver ben guardato, fece - mh, mh, - risollevandosi. - Hai vvisto, - fece Amerigo con la voce fiacca di sua madre. - 'Un ce se vede un c... - disse il Caciotta.

- Come, - fece Amerigo, - guardece mejo -. Il Caciotta si ripiegò sopra la gran schiena, e dovette per forza vederci qualche cosa, dato lo sguardo torvo che attraverso l'espressione dolorosa gli aveva lanciato Amerigo. -Ammazzete, - disse a pieni polmoni. Amerigo si tirò giù la camicia, e alzandosi in piedi la cacciò sotto i calzoni. Il vapore di pianto davanti agli occhi s'era asciugato, ed essi erano rimasti nudi e secchi nella loro tinta castana. Quella moina delle frustate e la sua lagna avevano avuto l'effetto di portare alla discussione degli argomenti davanti ai quali, ormai per comune accordo, il Riccetto non poteva che ammollare, e senza più una parola. - Namo, - fece Amerigo, come appunto si fosse fatto il chiaro, ed egli fosse stato finalmente capito. Siccome il Riccetto ammorgiava ancora, gli s'accostò e gli prese accuratamente tra le dita il bavero della giacca: - A coso, - fece, - a morè, namo. Che, me voi fa perde 'a pazzienza mo... -aggiunse con uno sguardo disperato, come se quelle fossero state parole che lui stesso non avrebbe voluto dire, e che la colpa, quindi, fosse tutta del Riccetto. Così se ne tornarono verso la bisca, e quando furono sugli scalini esterni il Riccetto a uno sguardo di Amerigo tirò fuori senza dire niente un altro mezzo sacco.


IV. RAGAZZI DI VITA (1) IV. KIDS OF LIFE (1) IV. CHICOS DE LA VIDA (1)

Il popolo è un grande selvaggio nel seno della società. L. TOLSTOJ

Amerigo era ubbriaco. - Scegnemo qua ar Forte, - fece al Caciotta, che l'ascoltava deferente. - Te presento n'amico mio, - disse poi questi, tanto per dire qualcosa. Amerigo alzò la mano come se fosse di piombo verso il Riccetto; teneva il bavero della giacca rialzato, la faccia era verde sotto i ricci impiastricciati di polvere, e i grossi occhi marroni che fissavano invetriti. Strinse la mano forte, senza parere, come se non ci fosse il minimo dubbio, tra loro, ch'erano tutt'e due dei dritti. Ma subito si scordò del Riccetto, e voltato verso il Caciotta disse: - Ha' ccapito? - Faceva il ragazzo serio, ma però il Caciotta, quello che intanto capiva era che con lui ci si poteva scherzare poco: da Farfarelli un giorno l'aveva visto che sollevava sei sedie legate con una mano, e ne aveva gonfiato a cazzotti e mandato all'ospedale più d'uno a Pietralata. - Ch'hai fatto? - disse il Caciotta, come da pari a pari, tra malandrini. - Mo parlamo, - fece Amerigo, tirandosi su meglio il bavero della giacca.

L'autobus si fermò al Forte di Pietralata; dal bar ancora aperto un riflesso di luce radeva la crosta d'asfalto della Tiburtina Amerigo saltò giù dal predellino molleggiandosi sulle gambe, con un passetto da palestra, senza sfilare le mani dalla saccoccia dei calzoni. - Namo, - disse il Caciotta al Riccetto, che non si capacitava della piega che stavano prendendo le cose, e gli andarono appresso. - Se famo sto pezzo a ppiedi, - disse Amerigo incamminandosi, davanti alla caserma dei bersaglieri, verso Tiburtino. Come furono un po' più giù, strinse il Caciotta per un gomito; camminava mettendo un piede davanti all'altro con una faccia così cattiva che in qualsiasi parte del corpo uno lo toccava, pareva che dovesse farsi male. Strascicava i passi come un bocchissiere un po' groncio e invece, in quella camminata cascante, si vedeva ch'era pronto e svelto peggio d'una bestia. Col Caciotta e il Riccetto continuava a fare il ragazzo serio, che non pensa manco per niente alla forza che c'ha e alla reputazione di meglio guappo di Pietralata: aveva l'aria complice di uno che sta a trattare un affare con una persona pari a lui, che non si giobba. - Si venghi co' me, - disse al Caciotta, - poi te trovi contento. - Indovve? - fece il Caciotta.

Amerigo accennò con la testa avanti, verso Tiburtino. - Qqua, - fece, - da Fileni -. Il Caciotta non aveva sentito mai sto nome. Stette zitto. Amerigo continuò, facendo finta di credere che l'altro avesse capito: - Oggi è sabbato, annamo calli, - disse con voce spenta e un po' da donna, forse come sua madre, e sempre più giallo in faccia. - E nnamoce, - fece il Caciotta alla malandrina; tanto non c'era altro da fare, e lui ormai la prendeva come un divertimento.

Il Riccetto invece se ne stava indietro con gli occhi storti. Come furono all'imbocco di Tiburtino III disse: - Ve saluto, a moretti, io speso. - Addò vai? - fece il Caciotta fermandosi. Pure Amerigo s'era fermato e guardava di traverso con le mani mezze infilate in saccoccia. - A dormì, li mortacci tua. Tengo un zonno che si fo' ancora du passi spiro!

Amerigo gli si avvicinò, guardandolo con gli occhi che parevano insanguinati, come ridendo; rideva per la ragione che non era possibile fare qualche cosa contro quello che lui decideva.

- A moro, - disse a voce bassa e ancora calma, persuasiva, - già te 'ho detto, si è che venghi co' me, poi me devi da ringrazzià... Tu me nun me conosci... - Il Caciotta che lo conosceva guardava divertito, da una parte. Tanto sapeva che il Riccetto sarebbe andato con loro da questo Fileni.

- Tengo sonno te sto a ddì, - fece il Riccetto.

- Ma quale sonno, quale sonno, - fece Amerigo, ridendo sotto la fronte tutta corrugata, allegro sempre per quel pensiero che era assurdo non seguire i suoi consigli, - e nnamo! - Si mise una mano sul cuore: - Er Caciotta qqua te 'o può ddì, ve' Caciò? Io sso uno che nissuno puo ddì niente de me, e si fo una promessa, a morè, stacce, che tutto ha d'annà come che dico io... Pecché? 'N semo tutti amichi, qqua? Io te fo un favore, per modo de ddì, e n'antra vorta tu 'o ffai a me, che, 'un se dovemo da dà na mano uno co l'artro? - S'era fatto solenne: a non stare con lui c'era da far capire che s'era balordi; ma al Riccetto gli rodeva quell'affare lì tra Amerigo e il Caciotta, che gli pareva da naso. Il Caciotta guardava con una strana aria: «Fa un po' come te pare, - pareva che dicesse, - io nun me impiccio». Il Riccetto alzò le spalle. - E chi te sta a ddì niente? - disse a Amerigo, - c'hai raggione te: andatece te cor Caciotta in sto posto, che, c'avete bisogno de me c'avete? - Ma Amerigo non sapeva chi dei due tenesse in saccoccia la grana. Guardò il Riccetto con aria paziente e molto seria. Gli si fece sotto fino a mescolare il suo fiato che sapeva di vino con quello del Riccetto. Ma in quel momento si disegnarono due ombre, ben conosciute, contro l'ombra giallognola dei primi lotti di Tiburtino, che venivano giù verso la fontanella dove s'erano fermati.

- Li carubba, - fece il Caciotta. - Me conosciono, - continuò, - so' quelli che me volevano carcerà 'artra sera ar cinema de Tibburtino!

Amerigo li guardò venire avanti, coi suoi occhi malati; si mise una mano sulla faccia, e si strinse la fronte tra le dita. Era bianco come uno straccio e con la bocca faceva una smorfia come se stesse per piangere. Quando le due ombre con la bandoliera a tracolla furono un po' più in là, verso la borgata, si passò un'ultima volta la mano sulla fronte. - Ahioddio, quanto me dole, - disse, - è come un chiodo che me passa 'a testa da parte a parte -. Ma già gli era passato.

Si riaccostò al Riccetto, e gli mise amichevolmente una mano sulla spalla. - A Riccè, - disse, - come te chiami, nun sta a ffà er balordo, si vvenghi pure tte è mejo -. Riprese l'aria espansiva e oratoria: - Parola, -disse, - ch'i fussi er peggio fijo de na mignotta, si dopo 'un me venghi a ddì: a Amerigo, te devo ringrazzià e te fo pure le mi scuse -. La sua mano pesava sulla spalla del Riccetto come una còfana.

Andarono in giù per il corso di Tiburtino, dove solo ai due bar c'era un filo di luce, e in mezzo ai lotti a un piano scrostati e sporchi, con qualche panno appeso alle finestre, si sentiva ancora ronzare una ghitarra. Svoltarono giù per il mercato coperto, unto e verdognolo di pesce, tagliarono per due o tre delle strade tutte uguali che dividevano i lotti, e arrivarono a una delle case con davanti una loggia in stile novecento, acciaccata e cadente. Andarono su per una scaletta, poi per un ballatoio di pietra che dava sulla strada parallela, e bussarono a una porticina, già schiusa e da dove usciva un po' di luce. Una mano dal di dentro aprì e essi si trovarono in una cucina piena di gente silenziosa raggruppata intorno alla tavola. Sei o sette giocavarlo a zecchinetta; gli altri, stretti contro le pareti o il secchiaio pieno di piatti ancora sporchi, stavano a guardare.

Amerigo e gli altri due entrarono piano piano tra il mucchio di gente, che si scansò facendo un po' di posto, e accontentandosi di dargli un'occhiata; poi tutti si misero a osservare le carte, da dietro le spalle dei giocatori. Amerigo stava a guardare, come se non pensasse più al Caciotta e al Riccetto, il gioco le cui mani si seguivano alla svelta con continue vincite o perdite, seguite da qualche bisbiglio più forte e da qualche commento fatto anche a voce alta. Al Caciotta non gliene fregava niente ma benché morisse dal sonno continuava a guardarsi intorno allegramente mentre il Riccetto, ricordando di quand'era ragazzino a Donna Olimpia, e giocava coi soldi delle tubature, gli erano venute le guance rosse e gli occhi gli bruciavano. Come una mano finiva, Amerigo si voltava un poco, non verso i suoi compagni, ma verso l'uno o l'altro degli anziani che erano intorno, scuotendo la testa o sibilando con voce rauca: - Li mortacci sua -. Davanti a lui, con le spallucce curve, c'era un certo Zinzello, coi capelli lisci tirati alla Rudi, un carrettiere, che perdeva sempre, e si faceva sempre più duro e rugoso in faccia; finalmente s'alzò e un altro prese il posto suo. In quel momento Amerigo che stava alle sue spalle si decise. Si voltò verso il Caciotta, e, come fossero stati già d'accordo, con confidenza, e un'espressione amara negli occhi, gli disse: - Prestemle er sacco che c'hai in zaccoccia. - Mica 'o tengo io, - fece il Caciotta.

Gli occhi giallognoli di Amerigo si puntarono sul Riccetto ch'era un poco più indietro: - Caccia sti sordi, - gli disse a voce bassa, per non superare il brusio della cucina. Il Riccetto ammorgiava. - E daje, - fece Amerigo sbrigativo, quasi esasperato, - te 'i rendo, che te credi, mica te 'i sto a rubbà, ce lo sai, sì.

- E caccia, che te frega, - disse il Caciotta.

Il Riccetto disse: - Famo mezzo peromo de 'a vincita, va bbè? - e cacciò il corpo, tenendolo stretto in mano - Si è invece che perdi me rendi mezzo corpo... - aggiunse. - Mica te 'i sto a rubbà, - ripeté Amerigo, - famo come dichi te, daje, - e impaziente gli prese i soldi di mano. Mise tre o quattro piotte sul tavolo, e puntò; le carte scivolavano da una mano all'altra come fossero d'olio, un mazzetto qua uno là, in un minuto, e bastava un'occhiata per vedere s'era andata bene o male.

Amerigo quella prima mano la vinse, e si voltò appena con gli occhi verso il Riccetto che seguiva con la faccia scura. Il Caciotta rideva quanto aveva larga la bocca: - Me sto a sfiatà de fumà, - disse, cercò per le tasche una cicca, la trovò e se l'accendette. Amerigo rivinse pure la seconda mano; si voltava, intascando, a fare qualche osservazione eol giovanotto pettinato alla Rudi, che, ammutolito, gli stava appresso. Gli altri due li guardava soltanto, con sguardo soddisfatto, per tenerseli buoni. Metteva in saccoccia tutta la pecogna che vinceva. Poi subito cominciò a andar male e in cinque o sei mani rimase in bianco. Guardò gli altri due col suo sguardo di cadavere. Il Riccetto aveva gli occhi induriti, afflitti, che quasi stava per piangere; non dissero niente. Amerigo si rimise a osservare il gioco, per cercar di capirlo, e fare i calcoli su come si svolgeva; ogni tanto scambiava qualche parola col carrettiere, spiegando le ragioni per cui aveva perduto pure lui. Dopo un po' si rivolse al Riccetto. - E caccia l'altri sordi, - disse.

- Che, se' matto, - fece il Riccetto, - e domani chi me 'i ridà a mme si riperdemo? - Amerigo pazientò ancora; tacque qualche istante, poi riprese:

- Daje, damme sti sordi. - Ma nun me va de ggiocà ancora, te sto a ddì, -fece a voce bassa il Riccetto. Ma era incerto; Amerigo lo guardava fisso. -Permetti na parola, - disse, gli strinse tra le sue dita di ferro il braccio come fosse un zeppo, e lo fece uscire in mezzo al mucchio di gente fuori dalla porta del ballatoio. Era ricominciato a pioviccicare, ma tra le nuvole stracciate cadeva sui lotti il bianco della luna. - Tu ppe' mme se' come un fratello, - cominciò, - me devi da crede, io quello che c'ho 'n bocca ce l'ho ner core. Domandaje a chi te pare a Pietralata, a Tibburtino, de me, de Amerigo, che nun ce sta nissuno nun ce sta che nun me conosce, e so' er ragazzo più rispettato de tutta 'a borgata, che si posso aiutà uno, 'o aiuto, mica ce sto tanto a penzà, e si è che poi n'artra vorta c'ho bisogno io, che c'entra, quello m'aiuta a mme, è regola - Il Riccetto stette per aprire bocca.

- Ma pecché? - lo interruppe Amerigo, prendendolo con due dita per il risvolto della giacca - Ma pecché? - rifece, scuotendo la testa, tanta era la convinzione di quello che stava a dire, - si quarcheduno te chiede un piacere, pecché 'un je o devi da ffà? N'artra vorta pe' portatte un paragone, poteressi avè bisogno te, è regolare? - Tu c'hai raggione, - disse il Riccetto, - ma si perdo ste du piotte domani che magno? Amerigo allentò le due dita che stringevano il bavero della giacca: si mise una mano sulla fronte scuotendo forte la testa come se gli mancassero le parole per far capire una cosa tanto semplice. - Tu nun m'hai capito quello che te volevo ddì, - fece; e si mise a ridere. - Domani, - continuò, - tu me dai appuntamento; a che ora me 'o puoi dà? - Boh che ne so, a 'e tre, - fece il Riccetto. - 'E tre, - fece Amerigo, - davanti a Farfarelli, va bbè? - Come no, - fece il Riccetto. - Domani a 'e tre davanti a Farfarelli, - disse Amerigo alzando le braccia, - se vedemo e io te ridò li sordi tua. Quanto tenghi in saccoccia? - Boh, saranno quattro fronne, - disse il Riccetto. -Famme vede, - disse Amerigo rimettendogli la morsa delle dita sulla spalla. Il Riccetto cacciò le poche piotte che teneva nella saccoccia dei calzoni: Amerigo gliele prese di mano e le contò. Poi rientrò nella stanza, senza vedere se il Riccetto gli veniva appresso. Il Caciotta stava chiacchierando col carrettiere, che seguiva il gioco. Amerigo allungò tra le schiene dei giocatori seduti i soldi sul tavolo; e riperdette. Puntò un'altra mano, e perdette ancora. Pure stavolta nessuno disse niente. Amerigo si giustificò solo dopo un poco col carrettiere e il Caciotta. Stettero lì dentro ancora una mezzoretta, poi se ne andarono, senza che nessuno ci facesse caso.

Da una parte il cielo era tutto schiarito, e vi brillavano certe stellucce umide, sperdute nella sua grandezza, come in una sconfinata parete di metallo, da dove, sulla terra. venisse a cadere qualche misero soffio di vento. Dall'altra parte, come ci si voltava, verso Roma, c'era ancora brutto tempo, con dei nuvoli grevi di pioggia e fulmini, che però s'andavano sbrillentando all'orizzonte cosparso di lumi. Da un'altra parte ancora il cielo si stendeva, proprio lì sopra Tiburtino, come sopra l'imbuto d'un cortile, e la luna si appoggiava, spaurita, sugli orli lucenti di qualche macchia di vapore vagante. Giù per le strade tutte uguali di Tiburtino non c'era ormai nessuno, e solo dalla strada centrale si sentiva qualche rumore.

I tre se ne andavano smidollati verso la Tiburtina, tra i lotti, con qualche filo d'erba sulla terra battuta, e il Caciotta canticchiava mentre gli altri due trascinavano le scarpe bianche e nere a punta e tutte fraciche senza dire una parola. - Mo se salutamo, - fece il Riccetto. Amerigo lo guardò con la sua faccia larga e le mascelle che, piegandosi, apparvero enormi e bianche, alla luce della luna. Non aveva espressione, ma la bocca gonfia che vi si apriva come una ferita, più livida che rossa, e gli occhi scontenti, non lasciavano dubbio sui suoi pensieri. - Che ce venimo a ffà a 'a Tibburtina, - fece il Riccetto tanto per dire qualcosa, - mo ce semo, so' du passi so', te li puoi ffà pure da tte -. A storcere lo sguardo d'Amerigo, più che la vera e propria rabbia d'essere contrariato, era che si osasse essere così incoscienti da contrariarlo. Ma questi col Riccetto erano discorsi che si dovevano fare, e bisognava aver la pazienza di farli: e Amerigo li sopportava, ma con quella scontentezza così nera negli occhi che faceva correre un brivido nella schiena. Ricominciò con tutta la sua buona volontà. - Mo si ce riannamo, - disse, - so' sicuro che se vince, mo ho capito er gioco, comprendime quello che te vojo ddì -. Il Riccetto non rispose niente; guardò il Caciotta, che, per la giannetta, aveva la faccia bianca e viola come una cipolla. - Sì, ma ce vonno li sordi, - disse poi raucamente. Amerigo lo guardò impaziente, e pareva che stesse per scuotere la testa e fare con le labbra uno schiocco per significare che non solo lui, ma nessun altro al posto suo, sarebbe stato tanto micco da accettare quella conclusione. S'appoggiò allo stipite tutto rosicchiato d'una porta silenziosa.

- Mo si cacci n'antro mezzo sacco, - fece come se il Riccetto avesse sempre ammesso d'avere ancora della grana, - se riprendemo tutto quello ch'avemo perzo, e se famo er doppio -. La sua voce era sempre più spenta, in contrasto col suo corpo che lì, sullo stipite della porta, pareva quello enorme dei maiali appesi quanto son lunghi a un uncino davanti alle macellerie. Pure gli occhi gli s'erano fatti piccoli e appannati come quelli dei maiali appesi; e nella smorfia della sua bella faccia si vedeva che la pazienza stava per finire. Il Riccetto mormorò ancora con le sopracciglia tirate come un ragazzino: - Ma si nun tengo più na lira!

Amerigo si sedette sullo scalino slabbrato. - Magari me faccio pure dieci anni de Reggina Celi, ma stanotte io devo da giocà, - fece a voce bassa. Il Riccetto pensò dentro di sé tremando «So' c... nostra», e stette zitto per non dargli spago. Ma quello, dopo un po' di silenzio che doveva rinforzare le sue parole, riprese con voce più rauca ma più forte, così, per cancellarne l'impressione, e per ricominciare daccapo col discorso cordiale: - Che, n'ho già fatti pochi de anni a bottega! - Indovve, a Porta Portese, che? -fece il Caciotta. - Sìne, - disse Amerigo. Si era fatto nero, e le labbra tonde e raggrinzite gli tremavano. - M'hanno carcerato pe' violenza carnale, - fece. - Ammazzete, a chi l'hai fatta 'a festa? - disse il Caciotta.

-A na pecora, - disse disperato Amerigo. - Mo er pastore m'ha visto che me la in..., li mortacci sua, e m'ha dinunciato -. Stava quasi per piangere, con la bocca semiaperta e le sopracciglia tirate in su, sulla fronte piena di rughe giovanili tra i ricci di statua. - Ammazza, - disse dolorosamente, - quante me n'hanno date, quante!... - La sua voce s'era fatta acuta, come quella delle donne quando si lamentano di qualche vecchia ingiustizia che ancora le fa patire. - Quante! - ripeté. - Tiè, guarda, - fece tirandosi su la camicia di sotto la cinta dei calzoni e mostrando la schiena, - ancora ce stanno li segni. - Che t'hanno fatto? - fece il Caciotta.

- Le frustate che m'hanno dato, le frustate, li mortacci loro, - fece Amerigo arrotando i denti. - E guarda, ancora ce stanno li segni, ripeté, tirandosi su meglio la camicia fin sul collo. La schiena era rimasta nuda, larga come un lastrone d'acciaio, coi riflessi azzurrini, sotto la luna. Segni non se ne vedevano per niente, su quel carname liscio e abbronzato. Il Caciotta vi si chinò sopra e esplorò coscienzioso lungo il gran ponte delle vertebre che s'incurvava sospeso tra la cinta dei calzoni e la nuca nascosta sotto la camicia; e dopo aver ben guardato, fece - mh, mh, - risollevandosi. - Hai vvisto, - fece Amerigo con la voce fiacca di sua madre. - 'Un ce se vede un c... - disse il Caciotta.

- Come, - fece Amerigo, - guardece mejo -. Il Caciotta si ripiegò sopra la gran schiena, e dovette per forza vederci qualche cosa, dato lo sguardo torvo che attraverso l'espressione dolorosa gli aveva lanciato Amerigo. -Ammazzete, - disse a pieni polmoni. Amerigo si tirò giù la camicia, e alzandosi in piedi la cacciò sotto i calzoni. Il vapore di pianto davanti agli occhi s'era asciugato, ed essi erano rimasti nudi e secchi nella loro tinta castana. Quella moina delle frustate e la sua lagna avevano avuto l'effetto di portare alla discussione degli argomenti davanti ai quali, ormai per comune accordo, il Riccetto non poteva che ammollare, e senza più una parola. - Namo, - fece Amerigo, come appunto si fosse fatto il chiaro, ed egli fosse stato finalmente capito. Siccome il Riccetto ammorgiava ancora, gli s'accostò e gli prese accuratamente tra le dita il bavero della giacca: - A coso, - fece, - a morè, namo. Che, me voi fa perde 'a pazzienza mo... -aggiunse con uno sguardo disperato, come se quelle fossero state parole che lui stesso non avrebbe voluto dire, e che la colpa, quindi, fosse tutta del Riccetto. Così se ne tornarono verso la bisca, e quando furono sugli scalini esterni il Riccetto a uno sguardo di Amerigo tirò fuori senza dire niente un altro mezzo sacco.