×

Utilizziamo i cookies per contribuire a migliorare LingQ. Visitando il sito, acconsenti alla nostra politica dei cookie.


image

Ragazzi di Vita - Pasolini, II. IL RICCETTO (3)

II. IL RICCETTO (3)

Nadia stava lunga sulla rena, ferma, con una faccia piena di odio contro il sole, il vento, il mare, e tutta quella gente che s'era venuta a metter sulla spiaggia come un'invasione di mosche s'una tavola sparecchiata. Ce n'erano a migliaia, dal Battistini al Lido, dal Lido al Marechiaro, dal Marechiaro al Principe, dal Principe all'Ondina, per dozzine di stabilimenti, chi stava disteso alla supina, chi a pancia in basso, ma questi erano per lo più persone anziane: i giovani, i maschi con le mutandine a sbragalone oppure attillate che si vedevano tutte le forme, le femmine, quelle sceme, coi costumini stretti stretti e tutte capelli - passeggiavano su e giù senza fermarsi mai, come se c'avessero il ticchio nervoso. E tutti si chiamavano, gridavano, strillavano, si sfottevano, giocavano, entravano e uscivano dalle cabine, chiamavano il bagnino, c'era perfino una banda di giovincelli trasteverini, con i cappelli messicani in testa, che suonavano davanti al capanno, con la fisarmonica, la ghitarra e le nacchere; e le loro sambe si confondevano con le rumbe dell'altoparlante del Marechiaro che rimbombava contro il mare. La Nadia stava distesa lì in mezzo con un costume nero, e con tanti peli, neri come quelli del diavolo, che gli s'intorcinavano sudati sotto le ascelle, e neri, di carbone, aveva pure i capelli e quegli occhi che ardevano inveleniti.

Era sui quarant'anni, bella grossa, con certe zinne e certi coscioni tosti che facevano tante pieghe con dei pezzi di ciccia lucidi e tirati che parevano gonfiati con la pompa. C'aveva le madonne, perché s'era stufata di stare in quella caciara di fanatici, tanto lei il bagno, nel mare, non lo faceva manco per niente: l'aveva fatto la mattina, il bagno, al Mattonato, nella bagnarola di sor'Anita. Il Riccetto, Alvaro e Rocco, neppure erano dieci minuti ch'erano lì, e lei già se ne sarebbe voluta andare pei fatti suoi.

- Che te rode er c..., a Nadia? - le fece Alvaro calmo calmo, vedendo che c'aveva i nervi. Lei a quelle parole sbottò tutta in una volta: - E namo, - fece, - famo quello che dovemo fà, na cosa sbrigativa, e bona notte! Che stamo a aspettà qqua, me 'o voi dì?

- Eeeeh, ammazza che prescia che c'hai, - fece Rocco. Lei fece una faccia offesa, e si rivoltò come una vipera, con la bocca tirata in giù e gli occhi che gli erano diventati di coccio per la rabbia, grigi come quelli dei malati di cuore: - Te va de intigne? - fece guardando furiosamente Alvaro negli occhi. - Come no? - fece Alvaro. - E alora namo, che aspetti? -concluse lei feroce, con quella bocca rossa che pareva una fessura dell'inferno. Alvaro continuò a guardarla con gli occhi che gli brillavano allegramente di bonaria ironia - Tu me sa che oggi ancora nun hai ricevuto, - disse, facendo il gesto di calcare qualcosa col palmo della mano. - Me pari na libbidinosa! - aggiunse gaiamente.

- Ma va a mmorì ammazzato, - sibilò lei, imbestialita, greve peggio d'un facchino del mattatoio.

- Mo t'accontentamo, va, - concesse Rocco, sulla scia d'Alvaro. -C'avemo certi stennarelli, qqua!

- Pure er Riccetto, sa', - fece Alvaro, - con tutto ch'è pischello. Hai da vede quanto arma, hai da vede!

Il Riccetto restò impassibile, in ginocchio come s'era messo, con le gambe un po' divaricate sulla rena: pure lui aveva in testa il cappello messicano, piazzato dietro le orecchie in modo che sulla fronte schizzavano i riccioletti, e tenuto fermo con uno spago che gli passava sotto la gola.

- Namo, daje, - concesse finalmente Alvaro, facendo alla paragula col mento un cenno verso il capanno. Lei nascose la soddisfazione sotto uno sguardo disgustato e dignitoso, e, puntando le mani a terra e voltandosi col sedere in alto, fece per sollevare un po' alla volta il quintale di ciccia

distribuita a pacchi e pacchetti qua e là dalle zinne ai polpacci.

- Fèrmete! - ordinò Alvaro, - vado avanti io -. S'alzò, e andò avanti, sparendo tra gli ombrelli, le sdraie e il carnaio dei bagnanti. Dopo un po' la Nadia, rizzatasi prima ginocchioni, s'alzò all'impiedi, e gli andò dietro, piantando le fettone nella rena ardente.

Il Riccetto e Rocco restarono lì, ad aspettare il loro turno. Rocco si allungò colle mani sotto la nuca, con la sua solita faccia da balordo. Il Riccetto, visto che tanto lui quanto Alvaro di farsi il bagno in tutta la mattinata non avevano parlato mai, e se n'erano stati sbragati con la schiena contro i capanni, a smicciare le belle sorcone sfornate da Trastevere o dai Prati, dalla Maranella o dal Quarticciolo, gli chiese: - A Rocco, che, sai notà?

- Come, nun so notà! - fece l'altro senza scomporsi. Si me vedi dentro l'acqua, so' na sirena so'!

- Alora intanto ch'aspettamo, fàmise er bagno, daje! - fece il Riccetto.

- Nun me va, nun me va, - disse sbadigliando Rocco, e vattelo a ffà da te, si te ficca.

- Io me lo fo, sa', - disse il Riccetto, deciso, e con un po' d'emozione. Si tolse il sombrero, e corse verso il frangente. Stette lì a pensarci mezz'ora, mettendo prima un piede in acqua e levandolo, poi l'altro e levandolo, poi andando avanti fino a che l'acqua gli arrivava ai ginocchi, facendo uno zompetto ogni volta che veniva l'ondata, che pareva gli dessero una pedata nel sedere. Tutto lo specchio d'acqua davanti a lui era pieno di gente, che quasi non ci stavano, con un moscone che dondolava su e giù tra le capocce. Finalmente si decise e si buttò tutto dentro come una paperella. Il bagno che fece, consistette nello starsi a guardare tutto infreddolito, all'impiedi, con l'acqua fino ai caporelli, dei maschi che s'arrampicavano scorticandosi sopra un paletto e da lì in pizzo facevano le spanzate.

Quando tornò lì davanti alla pista del Marechiaro, gli altri avevano già fatto tutt'e due. Mo spettava a lui, ma lui si sedette di nuovo lì, si rimise in testa il cappello messicano e non disse niente. Parlò Alvaro, invece, rimestando le mandibole: - Aòh, - gli fece, - a Riccetto, prima d'annacce pure te, nun te pare che sarebbe er caso de ofrì quarche cosa... Aòh, io mica inzisto sa'... Ma tu ce 'o sai che noi due c'avemo giusti giusti li sordi pe'r treno e 'a cabbina... - Ce mancherebbe, - rispose il Riccetto: fece una corsa in cabina, levò dalla saccoccia dei calzoni il malloppo dei bigliettoni, ne sfilò uno, riuscì e fece segno alla sua compagnia di muoversi. Quelli s'alzarono e tutt'insieme andarono al bare a bersi una coca cola.

Il sole stava già un po' calando, e la confusione era ancora aumentata: il mare sfolgorava come una spada, dietro il carnaio. Le cabine e i capanni risuonavano di migliaia di grida, e le docce erano piene di giovanotti e di ragazzini, come carcasse coperte di formiche. Quelli dell'orchestra suonavano a tutta callara e il fonografo del Marechiaro intontiva. - A Riccetto, - osservò dopo un po' Alvaro, - mo spetta a tte.

Il Riccetto s'alzò subito in piedi, senza dire una parola, in campana per andare con Nadia in cabina: gli altri tre risero, a vederlo, compresa la Nadia, che lì seduta al tavolino s'era un poco arriconsolata. - Paga, prima, no, - fece bonario Alvaro, con una certa gentilezza, non volendo troppo approfittare dello sbaglio di Riccetto. - M'ero scordato, m'ero, - si giustificò il Riccetto ridendo, mentre dentro ci sformava: pagò e andò avanti, come aveva fatto Alvaro. La cabina scottava di più adesso che l'aria e la rena s'erano un po' rinfrescate: pareva di stare in un forno. I panni puzzavano un po', specie i pedalini, ma c'era un buon odore di sale e di brillantina. Dopo un po', come il Riccetto s'era già abituato all'ombra che c'era dentro, e era già arrapato, la mano della Nadia raspò contro la porta, e il Riccetto le aprì: lei s'infilò dentro, portandosi dietro le chiappe che quando una mano morta, all'Arenula o al Farnese, le paccava, le sentiva uscire dalla sedia spampanate che parevano la coda d'un pitone. Il Riccetto era lì in mezzo, col cappello messicano in testa. Lei zitta zitta si slacciò il reggipetto e le mutandine del due pezzi, se li tolse dalla carne sudata, e pure il Riccetto, vedendola, si tolse gli slip. - Lavora, daje, - le ordinò sottovoce.

Ma mentre facevano quello che dovevano fare, e la Nadia si teneva stretto il pischello tra le braccia con la faccia affondata tra le zinne, piano piano con una mano scivolò su lungo i suoi calzoni appesi contro la parete, la infilò nella saccoccia di dietro, levò il pacco dei soldi e lo mise dentro la sua borsa che pendeva lì appresso.

Il Riccetto abitava alle scuole elementari Giorgio Franceschi. Venendo su dalla strada del Ponte Bianco, che a destra ha una scarpata con in alto le case di Monteverde Vecchio, si vede prima a sinistra, affossato nella sua valletta, il Ferrobedò, poi s'arriva a Donna Olimpia, detta pure i Grattacieli. E il primo edificio a destra, arrivando, sono le scuole. Sull'asfalto slabbrato s'alza una facciata più slabbrata ancora, con al centro una fila di colonne quadrate bianche e agli angoli quattro costruzioni massicce, come torrioni, alte due o tre piani.

C'erano stati lì prima i Tedeschi, poi i Canadesi, poi gli sfollati e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto.

Marcello, invece, abitava ai Grattacieli un po' più avanti: grandi come catene di montagne, con migliaia di finestre, in fila, in cerchi, in diagonali, sulle strade, sui cortili, sulle scalette, a nord, a sud, in pieno sole, in ombra, chiuse o spalancate, vuote o sventolanti di bucati, silenziose o piene della caciara delle donne o delle lagne dei ragazzini. Tutt'intorno si stendevano ancora prati abbandonati, pieni di gobbe e monticelli, zeppi di creature che giocavano coi zinalini sporchi di moccio o mezzi nudi.

La domenica poi non si vedeva proprio altro che creature; i giovincelli e i giovanotti no, perché se ne andavano a Roma per divertirsela, o, quelli ch'erano infagottati, come appunto il Riccetto, a Ostia, tutta vita! Marcello, ch'era rimasto solo a Donna Olimpia, senza una brecola, porello, stava a morire di noia. Se ne veniva ciondolando con le mani in saccoccia dai cortiletti dei Grattacieli dov'era stato a giocare a zecchinetta con dei ragazzini di ott'anni, nove, che dopo un po' però s'erano stufati e se n'erano andati a giocare agli indiani nel Monte di Splendore. Era solo in tutta Donna Olimpia, nello spiazzo al centro dei caseggiati, col sole che bruciava. Attraversò la strada, salì tutto sparato i quattro gradini acciaccati delle scuole, e infilò le scale dell'edificio di destra. La famiglia del Riccetto non abitava dentro le aule, come gli sfollati o quelli che ci s'erano accomodati per primi: ma in un corridoio, di quelli dove si aprono le aule, ch'era stato diviso con dei tramezzi in tanti piccoli locali, lasciando per il passaggio soltanto una piccola striscia lungo le finestre che davano sul cortile: per dove adesso correva Marcello. Dentro quelle specie di stanze si vedevano le brande e i lettucci appena fatti, perché le donne con tutti quei figli avevano tempo di spicciare un po' soltanto il dopopranzo: e tavolini sganganati, seggiole spagliate, stufette, scatole, macchine per cucire, panni di ragazzini messi ad asciugare alle cordicelle. A quell'ora dentro le scuole non c'era quasi nessuno: i giovani no di certo, e i vecchi stavano all'osteria, sotto gli scantinati dei Grattacieli, sicché in casa c'era soltanto che qualche donna anziana.

- A sora Adele! - gridava Marcello facendosi avanti per quella striscia di corridoio ch'era rimasta lungo i finestroni, - a sora Adele!

- Che voi? - gridò digià spazientita la voce di sora Adele, da dentro uno di quei locali, fra i tramezzi. Marcello si fece alla porticina sventolante.

- Che è tornato vostro fijo, a sor'Adè? - chiese.

- None, - fece la sora Adele, che s'era stufata perché era già la terza volta in un'ora che Marcello le veniva a chiedere di suo figlio. Stava seduta s'una seggioletta spagliata, sudata, col giornale che le era caduto sui piedi, e il sedere che le si spampanava da tutte le parti, a pettinarsi davanti a uno specchietto appoggiato contro la macchina per cucire.

Teneva la scrima in mezzo e due bande di capelli arricciati e bruciacchiati che stavano duri come se fossero di legno di qua e di là dalla fronte. Lei se li pettinava impaturgnata, aggrottando le sopracciglia e piegando la bocca con strette le forcine, come se si trattasse dei capelli d'una ragazza, e si potesse permettere d'essere impaziente con loro e di maltrattarli: si stava acchittando per andare in pizzeria con le amiche sue. -Ve saluto, a sora Adele, - fece Marcello andandosene, - diteje a vostro fijo si torna ch'io sto ggiù. «Me ce trova domani, quanno torna, - brontolò tra sé sora Adele, - a cocco bello!»

Marcello ridiscese giù e si ritrovò un'altra volta nella strada vuota. Era tutto ammoppito, quasi gli veniva da piagne, si sfogava a dare calci ai serci. «Mannaggia a sto stronzo, - pensava, quasi parlando da solo, - ma dove se ne sarà ito, dico io, dove se ne sarà ito, senza dì niente a nissuno... Che, così se fà? Così se tratteno l'amici?... Me fa na rabbia che je cecherebbe tre occhi co du dita, a sto fijo de na mignotta!» Si mise a sedere s'uno scalino dove c'era un po' d'ombra: in tutto il raggio in cui poteva spaziare col suo sguardo afflitto non si vedevano che quattro o cinque ragazzini seduti sulla polvere, all'angolo delle scuole verso il Ferrobedò, che si stavano a divertire giocando con un coltellino. Marcello dopo un pochetto prese e andò verso di loro, mettendosi a guardarli all'impiedi, con le mani in saccoccia. Quelli non lo pensavano per niente e continuarono a giocare senza dire una parola. Dopo un po' uno alzò lo sguardo in direzione del Monte di Splendore, e guardando fisso con gli occhi che luccicavano, si mise a strillare: - An vedi Zambuia! - Tutti quanti guardarono verso quel punto e saltarono in piedi correndo via verso il Monte di Splendore. Marcello gli tenne dietro pure lui, piano piano. Arrivò oltre gli sterri, sulle gobbe del Monte che gli altri erano già arrivati e s'erano accucciati all'ombra d'una impalcatura sul pendio, da dove si vedeva tutto Monteverde Nuovo a destra, e, sotto, mezza Roma fino a San Paolo. S'erano accucciati intorno a Zambuia, tenendosi ognuno tra le ginocchia un cuccioletto, mentre Zambuia seguiva tutte le loro mosse con occhio esperto. I ragazzini tacevano e stavano buoni: ridevano soltanto, e non troppo forte, quando qualcuno dei cuccioletti faceva una mossa buffa. Ogni tanto Zambuia ne prendeva uno, come se fosse un pacchetto di stracci, se lo rivoltava da tutte le parti, gli apriva la bocca, poi lo ributtava per terra tra le ginocchia di un ragazzino. L'esaminato stiracchiava un po' la pelle, dava un piccolo guaito, e poi saltellava colle sue gambette storte intorno alle ginocchia nude del ragazzino; oppure se ne andava audacemente a gironzolare lungo il pendio. - Addò va quer fijo de na mignotta, - gridavano allora i ragazzini divertiti. Uno s'alzava, e sgambettando pure lui come il cuccioletto, l'andava a riacchiappare. Poi scherzava con lui, cercando di nascondere, arrossendo con un po' di vergogna, gli slanci affettuosi che quello gli strappava dal cuore. - De chi so' sti cuccioli? - fece Marcello avanzando, con aria superiore, pur mostrando un certo interesse e una certa simpatia per i cagnoletti. - So' mia, - fece scuro Zambuia. - E chi te l'ha dati? - A guercio, - gli fece Zambuia indaffarato a grattare un cucciolo sotto la pancia, - nun vedi che ce sta 'a cagna? - I ragazzini risero. La cagna se ne stava tra le loro gambe, piccola come una zanzara, e zitta zitta. - Daje, - fece imperativo Zambuia. Radunò tutti i cuccioletti raccattandoli di peso di tra le gambe dei ragazzini, e li cacciò contro la pancia della cagna. Subito tutti s'attaccarono alle poppe e grassi come maialetti cominciarono a succhiare, coi ragazzini intorno tutti divertiti ed eccitati che li aizzavano e commentavano ridendo.

- Che, me ne dai uno? - chiese con aria di finta indifferenza Marcello. Zambuia occupato a mantenere un certo ordine tra i cagnoletti alla pappatoria, lo guardò: - See, - fece. E dopo un attimo: - Le tenghi cinque piotte? - A matto, - fece ridendo Marcello battendosi due dita contro la fronte, - ce 'o sai sì che ar giardino zoologgico te li dànno ppe' manco na lira li cuccioletti dei cani lupi? - Ma vaffan..., - fece Zambuia rioccupandosi dei suoi cani. I ragazzini stavano tutti orecchie. - Propio de cani lupi? - s'informò dopo un po' Zambuia. - No, te riconto bucìe, allora, - fece pronto Marcello che s'aspettava quella domanda. - Vallo domandà a Obberdan, er fijo der carzolaro, si nun è vvero, - aggiunse - E che mme frega a mme, - fece Zambuia, - si è è, si no ecchela llì! - Due dei cagnoletti s'erano messi a ringhiare uno contro l'altro come due belve e si stavano a mordere per il naso, attirando l'attenzione dei ragazzini che cominciarono a ridere rotolandosi come cuccioletti anche loro sull'erba. -Famo na piotta, - disse allora Marcello. Zambuia non aprì bocca, ma si vedeva che ci stava. - Va bbè? - insistette Marcello. - Come te pare, -ammise tra i denti Zambuia. - Me pijo questo, - fece pronto Marcello, che intanto aveva già fatto la sua scelta: e ne indicò col dito uno nero e grasso, il più fijo de na mignotta, quello che si voleva pappare il latte tutto lui. I ragazzini guardavano Marcello con invidia, e cercavano di stuzzicare il cagnoletto nero perché mordesse ancora il naso agli altri. Marcello cacciò dal portafoglio una delle due piotte che possedeva. - Tié, - fece. Zambuia senza dir niente allungò una mano e fece sparire le cento lire in saccoccia.

- Torno subbito, aspettateme qqua, eh, - fece Marcello, e ridiscese giù per la china verso le scuole. - A sora Addele, - gridò di nuovo per il corridoio, - a sora Addele.

- Ah, va bbè! - gridò quella ch'aveva appena finito d'acchittarsi. -Ancora qua stai? - fece poi comparendo sulla porta insaccata come una salsiccia nel vestito buono. - Ammazzete, - aggiunse cambiando l'impazienza in buon umore, - fijo bello, s'io ero nei panni tua, sai dove l'avevo mannato a st'ora quer disgrazziato de mi fijo! Ma che è d'oro? -Dovèmio d'annà ar cine assieme, - fece fresco fresco Marcello. - Me sa, -fece la sora Adele mettendosi una mano sul petto, con un gesto sfiduciato e paragulo per cui il mento le scomparve in mezzo alla ciccia del gargarozzo, - che quello fino a mezzanotte a casa nun ce riviè! Sapessi che lenza che d'è, e quanto becca da su padre, ma niente! - Vorrà dì che ripasso, - fece Marcello che stavolta era un po' meno nero, consolandosi col pensiero che c'aveva un cagnoletto meglio ancora di quello d'Agnolo. -Ve saluto, a sora Adele! - Lei, inguantata nell'abito grigio che per il grasso pareva si dovesse sgarare da un momento all'altro, e con le bande di capelli duri a scopetta di qua e di là dalla fronte, rientrò nella camera a darsi un po' di cipria e a prendersi la borsa. Marcello scese giù a razzo per le scale tutte rosicchiate e annerite, con le pareti che ci uscivano pezzi di tubature contorte, e scese in strada, ma aveva appena traversato di qualche passo la soglia, che sentì dietro un gran fracasso, che pareva una bomba e si sentì dare alle spalle una botta secca, come se qualcuno gli avesse ammollato un pugno a tradimento. «Sto fijo de na mignotta!» pensò Marcello, cadendo per terra a pancia in basso, con negli orecchi un gran frastuono e accecato da una nuvola di polverone bianco.


II. IL RICCETTO (3) II. THE URCHIN (3) II. EL ERIZO (3) II. O OURIÇO-CACHEIRO (3)

Nadia stava lunga sulla rena, ferma, con una faccia piena di odio contro il sole, il vento, il mare, e tutta quella gente che s'era venuta a metter sulla spiaggia come un'invasione di mosche s'una tavola sparecchiata. Ce n'erano a migliaia, dal Battistini al Lido, dal Lido al Marechiaro, dal Marechiaro al Principe, dal Principe all'Ondina, per dozzine di stabilimenti, chi stava disteso alla supina, chi a pancia in basso, ma questi erano per lo più persone anziane: i giovani, i maschi con le mutandine a sbragalone oppure attillate che si vedevano tutte le forme, le femmine, quelle sceme, coi costumini stretti stretti e tutte capelli - passeggiavano su e giù senza fermarsi mai, come se c'avessero il ticchio nervoso. E tutti si chiamavano, gridavano, strillavano, si sfottevano, giocavano, entravano e uscivano dalle cabine, chiamavano il bagnino, c'era perfino una banda di giovincelli trasteverini, con i cappelli messicani in testa, che suonavano davanti al capanno, con la fisarmonica, la ghitarra e le nacchere; e le loro sambe si confondevano con le rumbe dell'altoparlante del Marechiaro che rimbombava contro il mare. La Nadia stava distesa lì in mezzo con un costume nero, e con tanti peli, neri come quelli del diavolo, che gli s'intorcinavano sudati sotto le ascelle, e neri, di carbone, aveva pure i capelli e quegli occhi che ardevano inveleniti.

Era sui quarant'anni, bella grossa, con certe zinne e certi coscioni tosti che facevano tante pieghe con dei pezzi di ciccia lucidi e tirati che parevano gonfiati con la pompa. C'aveva le madonne, perché s'era stufata di stare in quella caciara di fanatici, tanto lei il bagno, nel mare, non lo faceva manco per niente: l'aveva fatto la mattina, il bagno, al Mattonato, nella bagnarola di sor'Anita. Il Riccetto, Alvaro e Rocco, neppure erano dieci minuti ch'erano lì, e lei già se ne sarebbe voluta andare pei fatti suoi.

- Che te rode er c..., a Nadia? - le fece Alvaro calmo calmo, vedendo che c'aveva i nervi. Lei a quelle parole sbottò tutta in una volta: - E namo, - fece, - famo quello che dovemo fà, na cosa sbrigativa, e bona notte! Che stamo a aspettà qqua, me 'o voi dì?

- Eeeeh, ammazza che prescia che c'hai, - fece Rocco. Lei fece una faccia offesa, e si rivoltò come una vipera, con la bocca tirata in giù e gli occhi che gli erano diventati di coccio per la rabbia, grigi come quelli dei malati di cuore: - Te va de intigne? - fece guardando furiosamente Alvaro negli occhi. - Come no? - fece Alvaro. - E alora namo, che aspetti? -concluse lei feroce, con quella bocca rossa che pareva una fessura dell'inferno. Alvaro continuò a guardarla con gli occhi che gli brillavano allegramente di bonaria ironia - Tu me sa che oggi ancora nun hai ricevuto, - disse, facendo il gesto di calcare qualcosa col palmo della mano. - Me pari na libbidinosa! - aggiunse gaiamente.

- Ma va a mmorì ammazzato, - sibilò lei, imbestialita, greve peggio d'un facchino del mattatoio.

- Mo t'accontentamo, va, - concesse Rocco, sulla scia d'Alvaro. -C'avemo certi stennarelli, qqua!

- Pure er Riccetto, sa', - fece Alvaro, - con tutto ch'è pischello. Hai da vede quanto arma, hai da vede!

Il Riccetto restò impassibile, in ginocchio come s'era messo, con le gambe un po' divaricate sulla rena: pure lui aveva in testa il cappello messicano, piazzato dietro le orecchie in modo che sulla fronte schizzavano i riccioletti, e tenuto fermo con uno spago che gli passava sotto la gola.

- Namo, daje, - concesse finalmente Alvaro, facendo alla paragula col mento un cenno verso il capanno. Lei nascose la soddisfazione sotto uno sguardo disgustato e dignitoso, e, puntando le mani a terra e voltandosi col sedere in alto, fece per sollevare un po' alla volta il quintale di ciccia

distribuita a pacchi e pacchetti qua e là dalle zinne ai polpacci.

- Fèrmete! - ordinò Alvaro, - vado avanti io -. S'alzò, e andò avanti, sparendo tra gli ombrelli, le sdraie e il carnaio dei bagnanti. Dopo un po' la Nadia, rizzatasi prima ginocchioni, s'alzò all'impiedi, e gli andò dietro, piantando le fettone nella rena ardente.

Il Riccetto e Rocco restarono lì, ad aspettare il loro turno. Rocco si allungò colle mani sotto la nuca, con la sua solita faccia da balordo. Il Riccetto, visto che tanto lui quanto Alvaro di farsi il bagno in tutta la mattinata non avevano parlato mai, e se n'erano stati sbragati con la schiena contro i capanni, a smicciare le belle sorcone sfornate da Trastevere o dai Prati, dalla Maranella o dal Quarticciolo, gli chiese: - A Rocco, che, sai notà?

- Come, nun so notà! - fece l'altro senza scomporsi. Si me vedi dentro l'acqua, so' na sirena so'!

- Alora intanto ch'aspettamo, fàmise er bagno, daje! - fece il Riccetto.

- Nun me va, nun me va, - disse sbadigliando Rocco, e vattelo a ffà da te, si te ficca.

- Io me lo fo, sa', - disse il Riccetto, deciso, e con un po' d'emozione. Si tolse il sombrero, e corse verso il frangente. Stette lì a pensarci mezz'ora, mettendo prima un piede in acqua e levandolo, poi l'altro e levandolo, poi andando avanti fino a che l'acqua gli arrivava ai ginocchi, facendo uno zompetto ogni volta che veniva l'ondata, che pareva gli dessero una pedata nel sedere. Tutto lo specchio d'acqua davanti a lui era pieno di gente, che quasi non ci stavano, con un moscone che dondolava su e giù tra le capocce. Finalmente si decise e si buttò tutto dentro come una paperella. Il bagno che fece, consistette nello starsi a guardare tutto infreddolito, all'impiedi, con l'acqua fino ai caporelli, dei maschi che s'arrampicavano scorticandosi sopra un paletto e da lì in pizzo facevano le spanzate.

Quando tornò lì davanti alla pista del Marechiaro, gli altri avevano già fatto tutt'e due. Mo spettava a lui, ma lui si sedette di nuovo lì, si rimise in testa il cappello messicano e non disse niente. Parlò Alvaro, invece, rimestando le mandibole: - Aòh, - gli fece, - a Riccetto, prima d'annacce pure te, nun te pare che sarebbe er caso de ofrì quarche cosa... Aòh, io mica inzisto sa'... Ma tu ce 'o sai che noi due c'avemo giusti giusti li sordi pe'r treno e 'a cabbina... - Ce mancherebbe, - rispose il Riccetto: fece una corsa in cabina, levò dalla saccoccia dei calzoni il malloppo dei bigliettoni, ne sfilò uno, riuscì e fece segno alla sua compagnia di muoversi. Quelli s'alzarono e tutt'insieme andarono al bare a bersi una coca cola.

Il sole stava già un po' calando, e la confusione era ancora aumentata: il mare sfolgorava come una spada, dietro il carnaio. Le cabine e i capanni risuonavano di migliaia di grida, e le docce erano piene di giovanotti e di ragazzini, come carcasse coperte di formiche. Quelli dell'orchestra suonavano a tutta callara e il fonografo del Marechiaro intontiva. - A Riccetto, - osservò dopo un po' Alvaro, - mo spetta a tte.

Il Riccetto s'alzò subito in piedi, senza dire una parola, in campana per andare con Nadia in cabina: gli altri tre risero, a vederlo, compresa la Nadia, che lì seduta al tavolino s'era un poco arriconsolata. - Paga, prima, no, - fece bonario Alvaro, con una certa gentilezza, non volendo troppo approfittare dello sbaglio di Riccetto. - M'ero scordato, m'ero, - si giustificò il Riccetto ridendo, mentre dentro ci sformava: pagò e andò avanti, come aveva fatto Alvaro. La cabina scottava di più adesso che l'aria e la rena s'erano un po' rinfrescate: pareva di stare in un forno. I panni puzzavano un po', specie i pedalini, ma c'era un buon odore di sale e di brillantina. Dopo un po', come il Riccetto s'era già abituato all'ombra che c'era dentro, e era già arrapato, la mano della Nadia raspò contro la porta, e il Riccetto le aprì: lei s'infilò dentro, portandosi dietro le chiappe che quando una mano morta, all'Arenula o al Farnese, le paccava, le sentiva uscire dalla sedia spampanate che parevano la coda d'un pitone. Il Riccetto era lì in mezzo, col cappello messicano in testa. Lei zitta zitta si slacciò il reggipetto e le mutandine del due pezzi, se li tolse dalla carne sudata, e pure il Riccetto, vedendola, si tolse gli slip. - Lavora, daje, - le ordinò sottovoce.

Ma mentre facevano quello che dovevano fare, e la Nadia si teneva stretto il pischello tra le braccia con la faccia affondata tra le zinne, piano piano con una mano scivolò su lungo i suoi calzoni appesi contro la parete, la infilò nella saccoccia di dietro, levò il pacco dei soldi e lo mise dentro la sua borsa che pendeva lì appresso.

Il Riccetto abitava alle scuole elementari Giorgio Franceschi. Venendo su dalla strada del Ponte Bianco, che a destra ha una scarpata con in alto le case di Monteverde Vecchio, si vede prima a sinistra, affossato nella sua valletta, il Ferrobedò, poi s'arriva a Donna Olimpia, detta pure i Grattacieli. E il primo edificio a destra, arrivando, sono le scuole. Sull'asfalto slabbrato s'alza una facciata più slabbrata ancora, con al centro una fila di colonne quadrate bianche e agli angoli quattro costruzioni massicce, come torrioni, alte due o tre piani.

C'erano stati lì prima i Tedeschi, poi i Canadesi, poi gli sfollati e da ultimo gli sfrattati, come la famiglia del Riccetto.

Marcello, invece, abitava ai Grattacieli un po' più avanti: grandi come catene di montagne, con migliaia di finestre, in fila, in cerchi, in diagonali, sulle strade, sui cortili, sulle scalette, a nord, a sud, in pieno sole, in ombra, chiuse o spalancate, vuote o sventolanti di bucati, silenziose o piene della caciara delle donne o delle lagne dei ragazzini. Tutt'intorno si stendevano ancora prati abbandonati, pieni di gobbe e monticelli, zeppi di creature che giocavano coi zinalini sporchi di moccio o mezzi nudi.

La domenica poi non si vedeva proprio altro che creature; i giovincelli e i giovanotti no, perché se ne andavano a Roma per divertirsela, o, quelli ch'erano infagottati, come appunto il Riccetto, a Ostia, tutta vita! Marcello, ch'era rimasto solo a Donna Olimpia, senza una brecola, porello, stava a morire di noia. Se ne veniva ciondolando con le mani in saccoccia dai cortiletti dei Grattacieli dov'era stato a giocare a zecchinetta con dei ragazzini di ott'anni, nove, che dopo un po' però s'erano stufati e se n'erano andati a giocare agli indiani nel Monte di Splendore. Era solo in tutta Donna Olimpia, nello spiazzo al centro dei caseggiati, col sole che bruciava. Attraversò la strada, salì tutto sparato i quattro gradini acciaccati delle scuole, e infilò le scale dell'edificio di destra. La famiglia del Riccetto non abitava dentro le aule, come gli sfollati o quelli che ci s'erano accomodati per primi: ma in un corridoio, di quelli dove si aprono le aule, ch'era stato diviso con dei tramezzi in tanti piccoli locali, lasciando per il passaggio soltanto una piccola striscia lungo le finestre che davano sul cortile: per dove adesso correva Marcello. Dentro quelle specie di stanze si vedevano le brande e i lettucci appena fatti, perché le donne con tutti quei figli avevano tempo di spicciare un po' soltanto il dopopranzo: e tavolini sganganati, seggiole spagliate, stufette, scatole, macchine per cucire, panni di ragazzini messi ad asciugare alle cordicelle. A quell'ora dentro le scuole non c'era quasi nessuno: i giovani no di certo, e i vecchi stavano all'osteria, sotto gli scantinati dei Grattacieli, sicché in casa c'era soltanto che qualche donna anziana.

- A sora Adele! - gridava Marcello facendosi avanti per quella striscia di corridoio ch'era rimasta lungo i finestroni, - a sora Adele!

- Che voi? - gridò digià spazientita la voce di sora Adele, da dentro uno di quei locali, fra i tramezzi. Marcello si fece alla porticina sventolante.

- Che è tornato vostro fijo, a sor'Adè? - chiese.

- None, - fece la sora Adele, che s'era stufata perché era già la terza volta in un'ora che Marcello le veniva a chiedere di suo figlio. Stava seduta s'una seggioletta spagliata, sudata, col giornale che le era caduto sui piedi, e il sedere che le si spampanava da tutte le parti, a pettinarsi davanti a uno specchietto appoggiato contro la macchina per cucire.

Teneva la scrima in mezzo e due bande di capelli arricciati e bruciacchiati che stavano duri come se fossero di legno di qua e di là dalla fronte. Lei se li pettinava impaturgnata, aggrottando le sopracciglia e piegando la bocca con strette le forcine, come se si trattasse dei capelli d'una ragazza, e si potesse permettere d'essere impaziente con loro e di maltrattarli: si stava acchittando per andare in pizzeria con le amiche sue. -Ve saluto, a sora Adele, - fece Marcello andandosene, - diteje a vostro fijo si torna ch'io sto ggiù. «Me ce trova domani, quanno torna, - brontolò tra sé sora Adele, - a cocco bello!»

Marcello ridiscese giù e si ritrovò un'altra volta nella strada vuota. Era tutto ammoppito, quasi gli veniva da piagne, si sfogava a dare calci ai serci. «Mannaggia a sto stronzo, - pensava, quasi parlando da solo, - ma dove se ne sarà ito, dico io, dove se ne sarà ito, senza dì niente a nissuno... Che, così se fà? Così se tratteno l'amici?... Me fa na rabbia che je cecherebbe tre occhi co du dita, a sto fijo de na mignotta!» Si mise a sedere s'uno scalino dove c'era un po' d'ombra: in tutto il raggio in cui poteva spaziare col suo sguardo afflitto non si vedevano che quattro o cinque ragazzini seduti sulla polvere, all'angolo delle scuole verso il Ferrobedò, che si stavano a divertire giocando con un coltellino. Marcello dopo un pochetto prese e andò verso di loro, mettendosi a guardarli all'impiedi, con le mani in saccoccia. Quelli non lo pensavano per niente e continuarono a giocare senza dire una parola. Dopo un po' uno alzò lo sguardo in direzione del Monte di Splendore, e guardando fisso con gli occhi che luccicavano, si mise a strillare: - An vedi Zambuia! - Tutti quanti guardarono verso quel punto e saltarono in piedi correndo via verso il Monte di Splendore. Marcello gli tenne dietro pure lui, piano piano. Arrivò oltre gli sterri, sulle gobbe del Monte che gli altri erano già arrivati e s'erano accucciati all'ombra d'una impalcatura sul pendio, da dove si vedeva tutto Monteverde Nuovo a destra, e, sotto, mezza Roma fino a San Paolo. S'erano accucciati intorno a Zambuia, tenendosi ognuno tra le ginocchia un cuccioletto, mentre Zambuia seguiva tutte le loro mosse con occhio esperto. I ragazzini tacevano e stavano buoni: ridevano soltanto, e non troppo forte, quando qualcuno dei cuccioletti faceva una mossa buffa. Ogni tanto Zambuia ne prendeva uno, come se fosse un pacchetto di stracci, se lo rivoltava da tutte le parti, gli apriva la bocca, poi lo ributtava per terra tra le ginocchia di un ragazzino. L'esaminato stiracchiava un po' la pelle, dava un piccolo guaito, e poi saltellava colle sue gambette storte intorno alle ginocchia nude del ragazzino; oppure se ne andava audacemente a gironzolare lungo il pendio. - Addò va quer fijo de na mignotta, - gridavano allora i ragazzini divertiti. Uno s'alzava, e sgambettando pure lui come il cuccioletto, l'andava a riacchiappare. Poi scherzava con lui, cercando di nascondere, arrossendo con un po' di vergogna, gli slanci affettuosi che quello gli strappava dal cuore. - De chi so' sti cuccioli? - fece Marcello avanzando, con aria superiore, pur mostrando un certo interesse e una certa simpatia per i cagnoletti. - So' mia, - fece scuro Zambuia. - E chi te l'ha dati? - A guercio, - gli fece Zambuia indaffarato a grattare un cucciolo sotto la pancia, - nun vedi che ce sta 'a cagna? - I ragazzini risero. La cagna se ne stava tra le loro gambe, piccola come una zanzara, e zitta zitta. - Daje, - fece imperativo Zambuia. Radunò tutti i cuccioletti raccattandoli di peso di tra le gambe dei ragazzini, e li cacciò contro la pancia della cagna. Subito tutti s'attaccarono alle poppe e grassi come maialetti cominciarono a succhiare, coi ragazzini intorno tutti divertiti ed eccitati che li aizzavano e commentavano ridendo.

- Che, me ne dai uno? - chiese con aria di finta indifferenza Marcello. Zambuia occupato a mantenere un certo ordine tra i cagnoletti alla pappatoria, lo guardò: - See, - fece. E dopo un attimo: - Le tenghi cinque piotte? - A matto, - fece ridendo Marcello battendosi due dita contro la fronte, - ce 'o sai sì che ar giardino zoologgico te li dànno ppe' manco na lira li cuccioletti dei cani lupi? - Ma vaffan..., - fece Zambuia rioccupandosi dei suoi cani. I ragazzini stavano tutti orecchie. - Propio de cani lupi? - s'informò dopo un po' Zambuia. - No, te riconto bucìe, allora, - fece pronto Marcello che s'aspettava quella domanda. - Vallo domandà a Obberdan, er fijo der carzolaro, si nun è vvero, - aggiunse - E che mme frega a mme, - fece Zambuia, - si è è, si no ecchela llì! - Due dei cagnoletti s'erano messi a ringhiare uno contro l'altro come due belve e si stavano a mordere per il naso, attirando l'attenzione dei ragazzini che cominciarono a ridere rotolandosi come cuccioletti anche loro sull'erba. -Famo na piotta, - disse allora Marcello. Zambuia non aprì bocca, ma si vedeva che ci stava. - Va bbè? - insistette Marcello. - Come te pare, -ammise tra i denti Zambuia. - Me pijo questo, - fece pronto Marcello, che intanto aveva già fatto la sua scelta: e ne indicò col dito uno nero e grasso, il più fijo de na mignotta, quello che si voleva pappare il latte tutto lui. I ragazzini guardavano Marcello con invidia, e cercavano di stuzzicare il cagnoletto nero perché mordesse ancora il naso agli altri. Marcello cacciò dal portafoglio una delle due piotte che possedeva. - Tié, - fece. Zambuia senza dir niente allungò una mano e fece sparire le cento lire in saccoccia.

- Torno subbito, aspettateme qqua, eh, - fece Marcello, e ridiscese giù per la china verso le scuole. - A sora Addele, - gridò di nuovo per il corridoio, - a sora Addele.

- Ah, va bbè! - gridò quella ch'aveva appena finito d'acchittarsi. -Ancora qua stai? - fece poi comparendo sulla porta insaccata come una salsiccia nel vestito buono. - Ammazzete, - aggiunse cambiando l'impazienza in buon umore, - fijo bello, s'io ero nei panni tua, sai dove l'avevo mannato a st'ora quer disgrazziato de mi fijo! Ma che è d'oro? -Dovèmio d'annà ar cine assieme, - fece fresco fresco Marcello. - Me sa, -fece la sora Adele mettendosi una mano sul petto, con un gesto sfiduciato e paragulo per cui il mento le scomparve in mezzo alla ciccia del gargarozzo, - che quello fino a mezzanotte a casa nun ce riviè! Sapessi che lenza che d'è, e quanto becca da su padre, ma niente! - Vorrà dì che ripasso, - fece Marcello che stavolta era un po' meno nero, consolandosi col pensiero che c'aveva un cagnoletto meglio ancora di quello d'Agnolo. -Ve saluto, a sora Adele! - Lei, inguantata nell'abito grigio che per il grasso pareva si dovesse sgarare da un momento all'altro, e con le bande di capelli duri a scopetta di qua e di là dalla fronte, rientrò nella camera a darsi un po' di cipria e a prendersi la borsa. Marcello scese giù a razzo per le scale tutte rosicchiate e annerite, con le pareti che ci uscivano pezzi di tubature contorte, e scese in strada, ma aveva appena traversato di qualche passo la soglia, che sentì dietro un gran fracasso, che pareva una bomba e si sentì dare alle spalle una botta secca, come se qualcuno gli avesse ammollato un pugno a tradimento. «Sto fijo de na mignotta!» pensò Marcello, cadendo per terra a pancia in basso, con negli orecchi un gran frastuono e accecato da una nuvola di polverone bianco.