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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 3)

PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 3)

Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora contro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era un amico, aveva errato gravemente, gravissimamente, ma con una buona intenzione. Dove andavano a finire le massime di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'egli non perdonava neppure a chi aveva voluto fargli del bene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò che Franco perdonava moltissimo quando a perdonare c'era follia e gloria e perdonava pochissimo quando c'erano semplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsi parlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentiva superiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosamente il colpo. «Ecco!», esclamò con una reticenza piena di sottintesi. «Tu lo difendi! Già!».

Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque. «E perché non parlare, tu?», riprese Franco. «Perché non raccontarmi tutto subito?» «Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosse inutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande. L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, volevo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidato Gilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente voluto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha detto alla nonna che noi non ne sapevamo niente.» «Non lo ha creduto! Naturale!» «E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti avrà ben capito che tu non sapevi niente!» Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccontarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ciglio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Franco avesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venuta fuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un impiegato destituito per ragioni politiche. «Certo!», diss'ella, «avrebbe voluto anche questo! Canaglia!» Suo marito trasalì come se quella scudisciata avesse toccato il sangue anche a lui... «Adagio», diss'egli, «con queste parole! Prima, è una supposizione tua; e poi...» «È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una viltà simile?» Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, rispose ora mollemente a sua moglie. «Sì sì sì, ma insomma...» Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la faceva quasi impazzire. «Almeno questo», diss'ella, «mi consentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensare che questo testamento c'è ancora!» «Oh!», esclamò Franco. «Torniamo da capo?» « Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che io neanche pensi, neanche senta come non piace a te? Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non voglio poi essere né una cosa né l'altra.» La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopra l'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare interamente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella coscienza della sua ribellione. «Va bene», disse Franco parlando a se stesso. «Sarebbe vile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più che domani vado via?» «Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo povero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sulla origine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospitale Maggiore. Fa giustizia.» «No!», rispose Franco. «Chimere! Il fine non giustifica i mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Questa storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No, non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche dichiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in faccia se cambiassi! E parto domattina.» Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero il dialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuore vi fosse adesso qualche cosa di morto. «Hai pensato», disse Franco, «che farei anche disonore a mio padre?» «In che modo?» «Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e poi perché farei supporre la complicità di mio padre nella soppressione del testamento. Già, tu non le capisci queste cose. Che te ne importa?» «Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi che il testamento non sia stato trovato.» Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa si alzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispose a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appoggiar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase un pezzo, assorto nella contemplazione delle ombre della notte. Poi disse piano, senza volgere il capo: «Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me». Nessuna risposta. Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto senza collera, con la dolcezza inesprimibile che aveva nei momenti di depressione fisica o morale, se gli era accaduto, fin dal principio della loro unione, di mancare verso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: «No». «Allora forse non mi amavi come ho creduto?» «No no no.» Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté: «Non mi amavi?» «Sì sì, tanto.» Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rientrò nella voce. «E allora», diss'egli, «perché non mi hai dato tutta l'anima tua?» Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendere il lavoro. Le mani le tremavano. E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva o non doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per la prima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe allargata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale? Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora: «Non parli?». Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò. «È vero, l'anima mia non è mai stata interamente con te.» Tremò nel dir così, tutta, e Franco non respirava più. «Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te», riprese Luisa, «nel sentimento che deve governare tutti gli altri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madre intendeva e tu intendi la religione come un insieme di credenze, di culto e di precetti, ispirato e dominato dall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a concepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, per quanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibile e incomprensibile, non ho mai potuto capire il frutto di costringer la mia ragione ad accettare cose che non intende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigere la mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea superiore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva talmente penetrata, con l'esempio e con la parola, dè miei doveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi davano un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo. Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corrispondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto sopra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione della sua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho conosciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermata nel proposito di diventare, nelle cose di religione, come te, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' alla volta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbo dire anche questo?»

«Sì, tutto.» «Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuore più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma che la tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tutti questi tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amar me, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bellezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuo cuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e di pregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avresti dato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramente vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avresti sentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai, già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chi sente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avrei voluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, poco o molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vai sopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere.» Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di protesta. «Se vuoi», disse umilmente Luisa, «mi fermo.» «No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!» Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro «avanti!». «Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato da fare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quello che fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione colla gente, tener vivo il sentimento buono, preparare tutto ciò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se verrà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tante difficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza al concetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altro concetto. Perché religiosa mi sentivo anch'io moltissimo. Il concetto religioso che mi si veniva formando sempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dio esiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come credi tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non gliene importa nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprende dal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato, dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto il bene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo con tutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio, e che ci occupiamo solamente della terra, delle cose che si possono intendere, che si possono sentire! Adesso capisci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere, di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!» Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le proprie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser finalmente sincera, di porsi con franchezza sopra un terreno proprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sdegno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenera pietà di lui. «Ecco», soggiunse, «se si trattasse solamente di questo dispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificato mille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bisognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa. Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tue mani.» Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, una freddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso di lui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che la evitavano e si fermò per via, respinta da una forza superiore, benché egli non avesse detto una parola né fatto un gesto. «Franco!», supplicò. «Non mi puoi amare più?» Egli non rispose. «Franco! Franco!», diss'ella, tendendogli le mani giunte. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamente indietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eterno mezzo minuto. Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respirazione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio. «Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?»

«Sì.» Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La scosse con violenza e disse amaramente: «Basta». Luisa lo guardò con tristezza indicibile e mormorò: «Basta?». Egli rispose con ira: «Sì, basta basta basta basta!». Tacque un istante e riprese duramente: «Sarò un neghittoso, un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sono poi un bambino da venirmi a quietare con due carezze dopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!». «Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costato tanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?» «Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti si prenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tu sentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole e cosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di me quello che ti piace ma lascia stare le cose che non capisci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!» Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, e la sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio, d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli offuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il marito avrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorché d'orgoglio. Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il lavoro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza saper bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbattendo l'uscio dietro di sé. Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si gelava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, si diede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile, violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie. Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi temperamenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo di confondere in cuor suo la propria causa con quella dell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza, l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima una turbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immaginare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magnanime risposte proprie. A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò per andar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora attese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì alcun movimento e la bambina piangeva sempre più forte. Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetro dell'uscio. Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il viso appoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume della candela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì cadere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza voce con certa severa dolcezza: «Luisa, Maria piange». Luisa levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senza dir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina a sedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno. Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicandolo con la voce grossa di pianto: «No via, papà, no via, papà!». Franco se la strinse in braccio, la coperse di baci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si teneva stretta una mano del papà, non la voleva in alcun modo lasciare. Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte, volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano le mani. «Non vieni a letto?», le chiese Franco. Ella rispose «no» tremando più di prima. Franco credette indovinar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese. «Oh, puoi venire!», diss'egli sdegnoso. Luisa accese il lume e disse più pacatamente che doveva lavorare alle scarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: «Buona notte». Franco rispose asciutto: «Buona notte». Ebbe un momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poiché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coperta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde potersi tenere una manina di Maria che non dormiva ancora, e spense il lume. Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva, bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina e la immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita a lui nelle idee come nei sentimenti, immaginava che quella manina stretta volesse compensarlo del dolore datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti per sempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forse Luisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbe lontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore, pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria, pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mamma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa: «Custodite, custodite la mia Maria!». Offerse tutto se stesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Maria fosse salva dall'errore. «Papà», disse Ombretta. «Un bacio.» Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tacque un minuto e chiamò: «Papà». «Cosa?» «Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà.» «No, no, cara, ma dormi.» «Sì, papà, dormo.» Tacque un altro minuto e poi: «La mamma è a letto, papà?» «No, cara.» «Perché?» «Perché ti fa le scarpette.» «Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come il bisnonno?» «Taci, dormi.» «Contami una storia, papà.» Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Luisa e s'imbarazzò presto. «Oh papà», disse Maria con l'accento della compassione, «tu non sai raccontar le storie.» Questo lo umiliò. «Senti, senti», rispose, e si mise a recitare una ballata di Carrer,

Al bosco nacque, povera bambina, Gerolimina,

rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempre da capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbassando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino a che Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entrò con essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire in pace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essere un tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si rimise subito.

Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pacificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver coscienza di un alto dovere che oramai gl'incombeva di fronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasi sacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, contro lei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e soffrire; e poi... e poi... se Iddio santo vorrà che il cannone tuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla austriaca che la faccia piangere e pregare anche lei! Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere della sera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitarle a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanza tranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto a venire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosa direbbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano, disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette alla scrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia.

Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendeva le scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo e non espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato. «Sono le quattro», diss'ella. «Se vuoi partire manca mezz'ora.» Occorreva partire alle quattro e mezzo per essere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar il primo battello che veniva da Colico. Invece di andar a Como e quindi a Milano come s'era annunciato ufficialmente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S. Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimento e il Generoso. Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliare Maria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò a sé. «Parto», le disse piano. «Ieri sera sono stato cattivo, con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diversamente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio temperamento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore.»

«Per parte mia non ne sento affatto», rispose Luisa con dolcezza, come uno che facilmente è benigno perché si sente superiore. Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fu preso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio che non aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, si inginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro una manina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salotto vi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò se veniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto, la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca, l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello. La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca. Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla «di viaggio» passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la «Zocca de Mainé», la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava. «Vieni a Porlezza per le carte del notaio», diss'egli, «o proprio per accompagnar me?» «Anche questo!», mormorò Luisa, tristemente. «Ho voluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!»

« Non farmi abbassare! », esclamò Franco. «Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona di te stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esattamente, li conservi sempre così netti, così freddi!» Luisa mormoro:

«Sì, siamo diversi». Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno. Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlò e cercò che il discorso non cadesse fino a che la villa non fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabilito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la valigia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne aveva già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di portarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la villa della nonna con le sue suggestioni sinistre, passo. Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte, durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontrati alla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi. E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto le rupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, addio, tempo passato. «Ricordati», disse Franco quasi duramente, «che Maria deve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È un comando che ti do.» «Lo avrei fatto anche senza comando», rispose Luisa. «So che Maria non appartiene solo a me.» Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio. Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole. Quando approdarono si voltò a sua moglie. «Esci anche tu?» Ella rispose: «Se credi». Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. «Guarda», disse Luisa, «che nella borsa troverai da far colazione.» Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. «Fa che Maria», disse Franco, «mi perdoni di esser partito così», e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, «presto, presto!». La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza.

Franco viaggiava sul Falco , da Campo verso Argegno, quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa e gli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indirizzo di carattere di sua moglie: «per te». L'aperse avidamente e lesse: Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che soffro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette delle quali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venir da te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti così duro con me. Debbo aver molto peccato contro la Verità perché mi sieno così difficili e amari i primi passi che faccio seguendo lei.

Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto suscettibile: adesso sento che le tue parole umilianti non potrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte di me, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la mia coscienza della verità.

Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io spero che possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima. Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellina che abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidato e vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noi quando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Io non t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adesso sono io che spero di conquistare te.

Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegno senza muoversi dal suo posto.


PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 3)

Quando il racconto fu terminato si scagliò ancora contro il filosofo balordo, tanto che Luisa lo difese. Era un amico, aveva errato gravemente, gravissimamente, ma con una buona intenzione. Dove andavano a finire le massime di Franco, la carità, il perdono delle offese, s'egli non perdonava neppure a chi aveva voluto fargli del bene? Ella pensò, qui, cose che non disse. Pensò che Franco perdonava moltissimo quando a perdonare c'era follia e gloria e perdonava pochissimo quando c'erano semplicemente ottime ragioni di farlo. Franco a udirsi parlar da lei di carità, s'irritò, non osò dire che si sentiva superiore a un attacco simile, ma ritorse poco generosamente il colpo. «Ecco!», esclamò con una reticenza piena di sottintesi. «Tu lo difendi! Già!».

Luisa ebbe un sussulto nervoso delle spalle, ma tacque. «E perché non parlare, tu?», riprese Franco. «Perché non raccontarmi tutto subito?» «Perché quando rimproverai Gilardoni egli mi supplicò di tacere ed io credetti, com'era anche vero, che fosse inutile, a cosa fatta, darti un dispiacere così grande. L'ultimo dì dell'anno, quando sei andato in collera, volevo dirtelo, volevo raccontarti ciò che mi aveva confidato Gilardoni, te lo ricordi? E tu non hai assolutamente voluto. Non ho insistito anche perché Gilardoni ha detto alla nonna che noi non ne sapevamo niente.» «Non lo ha creduto! Naturale!» «E se io parlavo cosa ci poteva far questo? Così Pasotti avrà ben capito che tu non sapevi niente!» Franco non replicò. Allora Luisa gli chiese di raccontarle il colloquio e stette ad ascoltarlo senza batter ciglio. Ella indovinò, con l'acume dell'odio, che se Franco avesse accettato di entrare negl'impieghi, sarebbe venuta fuori l'ultima condizione: separarsi dallo zio, da un impiegato destituito per ragioni politiche. «Certo!», diss'ella, «avrebbe voluto anche questo! Canaglia!» Suo marito trasalì come se quella scudisciata avesse toccato il sangue anche a lui... «Adagio», diss'egli, «con queste parole! Prima, è una supposizione tua; e poi...» «È una supposizione mia? E il resto? E offrirti una viltà simile?» Franco che aveva risposto a Pasotti con furore, rispose ora mollemente a sua moglie. «Sì sì sì, ma insomma...» Adesso era lei che diventava violenta. L'idea che la nonna osasse proporre loro l'abbandono dello zio la faceva quasi impazzire. «Almeno questo», diss'ella, «mi consentirai: che pietà non ne merita! Dio mio, pensare che questo testamento c'è ancora!» «Oh!», esclamò Franco. «Torniamo da capo?» « Torniamo da capo! Hai tu il diritto di pretendere che io neanche pensi, neanche senta come non piace a te? Sarei vile, meriterei di essere una schiava, e non voglio poi essere né una cosa né l'altra.» La ribelle intravveduta, sentita qualche volta da Franco attraverso l'amante, la creatura dall'intelletto forte sopra l'amore e orgoglioso, non potuta mai conquistare interamente, gli stava ora di fronte, tutta vibrante nella coscienza della sua ribellione. «Va bene», disse Franco parlando a se stesso. «Sarebbe vile, sarebbe schiava. Si ricorda Ella nemmeno più che domani vado via?» «Non andar via. Resta. Eseguisci la volontà del tuo povero nonno. Ricordati quello che mi hai raccontato sulla origine della sostanza Maironi. Restituisci tutto all'Ospitale Maggiore. Fa giustizia.» «No!», rispose Franco. «Chimere! Il fine non giustifica i mezzi. Il vero fine poi, per te, è colpire la nonna. Questa storia dell'Ospitale è il mezzo di giustificarlo. No, non mi servirò mai di quel testamento. L'ho anche dichiarato a Pasotti, con parole da farmi sputare in faccia se cambiassi! E parto domattina.» Seguì un lungo silenzio. Poi le due voci ripresero il dialogo, gelate e tristi come se nell'uno e nell'altro cuore vi fosse adesso qualche cosa di morto. «Hai pensato», disse Franco, «che farei anche disonore a mio padre?» «In che modo?» «Prima per la forma oltraggiosa delle disposizioni e poi perché farei supporre la complicità di mio padre nella soppressione del testamento. Già, tu non le capisci queste cose. Che te ne importa?» «Ma non è necessario parlar di soppressione. Può darsi che il testamento non sia stato trovato.» Nuovo silenzio. La stessa candela di sego che ardeva sulla tavola aveva una espressione lugubre. Luisa si alzò, raccolse da terra lo stivale del bisnonno e si dispose a incominciar il suo lavoro. Franco andò ad appoggiar la fronte alle invetriate della finestra. Vi rimase un pezzo, assorto nella contemplazione delle ombre della notte. Poi disse piano, senza volgere il capo: «Mai mai l'anima tua non è stata tutta con me». Nessuna risposta. Egli si voltò, adesso, e domandò a sua moglie, affatto senza collera, con la dolcezza inesprimibile che aveva nei momenti di depressione fisica o morale, se gli era accaduto, fin dal principio della loro unione, di mancare verso di lei. Gli fu risposto un impercettibile: «No». «Allora forse non mi amavi come ho creduto?» «No no no.» Franco non era sicuro di aver inteso bene e ripeté: «Non mi amavi?» «Sì sì, tanto.» Lo spirito di lui si rialzò, un'ombra di severità gli rientrò nella voce. «E allora», diss'egli, «perché non mi hai dato tutta l'anima tua?» Ella tacque. Aveva prima tentato invano di riprendere il lavoro. Le mani le tremavano. E adesso veniva questa domanda terribile! Doveva o non doveva rispondere? Rispondendo, rivelando per la prima volta cose sepolte in fondo al cuore, avrebbe allargata la scissura dolorosa; ma poteva non essere leale? Il suo silenzio durò tanto che Franco le chiese ancora: «Non parli?». Ella raccolse tutte le proprie forze e parlò. «È vero, l'anima mia non è mai stata interamente con te.» Tremò nel dir così, tutta, e Franco non respirava più. «Mi sono sempre sentita diversa e staccata da te», riprese Luisa, «nel sentimento che deve governare tutti gli altri. Tu hai le idee religiose di mia madre. Mia madre intendeva e tu intendi la religione come un insieme di credenze, di culto e di precetti, ispirato e dominato dall'amor di Dio. Io ho sempre avuto ripugnanza a concepirla così, non ho mai potuto veramente sentire, per quanto mi sforzassi, questo amore di un Essere invisibile e incomprensibile, non ho mai potuto capire il frutto di costringer la mia ragione ad accettare cose che non intende. Però mi sentivo un desiderio ardente di dirigere la mia vita a qualche cosa di bene secondo un'idea superiore al mio interesse. E poi mia madre mi aveva talmente penetrata, con l'esempio e con la parola, dè miei doveri verso Dio e la Chiesa, che i miei dubbi mi davano un grandissimo dolore, li combattevo quanto potevo. Mia madre era una santa. Ogni atto della sua vita corrispondeva alla sua fede. Anche questo poteva molto sopra di me e poi sapevo che la maggiore afflizione della sua vita era stata l'incredulità di mio padre. Ho conosciuto te, ti ho amato, ti ho sposato, mi sono confermata nel proposito di diventare, nelle cose di religione, come te, perché tu eri come mia madre. Ma ecco, un po' alla volta, ho trovato che tu non eri come mia madre. Debbo dire anche questo?»

«Sì, tutto.» «Ho trovato che tu eri la bontà stessa, che avevi il cuore più caldo, più generoso, più nobile della terra, ma che la tua fede e le tue pratiche rendevano quasi inutili tutti questi tesori. Tu non operavi. Tu eri contento di amar me, la bambina, l'Italia, i tuoi fiori, la tua musica, le bellezze del lago e delle montagne. In questo seguivi il tuo cuore. Per l'ideale superiore ti bastava di credere e di pregare. Senza la fede e senza la preghiera tu avresti dato il fuoco che hai nell'anima a quello ch'è sicuramente vero, ch'è sicuramente giusto qui sulla terra, avresti sentito quel bisogno di operare che sentivo io. Tu lo sai, già, come ti avrei voluto in certe cose! Per esempio, chi sente il patriottismo più di te? Nessuno. Bene, io avrei voluto che tu cercassi di servirlo proprio davvero, poco o molto, il tuo paese. Adesso vai in Piemonte ma ci vai sopra tutto perché non abbiamo quasi più da vivere.» Franco accigliatissimo, fece un atto iracondo di protesta. «Se vuoi», disse umilmente Luisa, «mi fermo.» «No, no, avanti, fuori tutto, è meglio!» Egli rispose tanto concitato, tanto sdegnoso, che Luisa tacque e solo ripigliò il suo discorso dopo un altro «avanti!». «Anche senz'andare in Piemonte ci sarebbe stato da fare in Valsolda, in Val Porlezza, in Vall'Intelvi quello che fa V. sul lago di Como, mettersi in relazione colla gente, tener vivo il sentimento buono, preparare tutto ciò ch'è bene preparare per il giorno della guerra, se verrà. Io te lo dicevo e tu non ti persuadevi, mi facevi tante difficoltà. Questa inerzia favoriva la mia ripugnanza al concetto tuo della religione e la mia tendenza ad un altro concetto. Perché religiosa mi sentivo anch'io moltissimo. Il concetto religioso che mi si veniva formando sempre più chiaro nella mente era questo, in breve: Dio esiste, è anche potente, è anche sapiente, tutto come credi tu; ma che noi lo adoriamo e gli parliamo non gliene importa nulla. Ciò ch'egli vuole da noi lo si comprende dal cuore che ci ha fatto, dalla coscienza che ci ha dato, dal luogo dove ci ha posto. Vuole che amiamo tutto il bene, che detestiamo tutto il male, e che operiamo con tutte le nostre forze secondo quest'amore e quest'odio, e che ci occupiamo solamente della terra, delle cose che si possono intendere, che si possono sentire! Adesso capisci come concepisco io il mio dovere, il nostro dovere, di fronte a tutte le ingiustizie, a tutte le prepotenze!» Più Luisa procedeva nel definire ed esprimere le proprie idee, più si sentiva contenta di farlo, di esser finalmente sincera, di porsi con franchezza sopra un terreno proprio e fermo; più si spegneva dentro di lei ogni sdegno contro il marito, più le saliva nel cuore una tenera pietà di lui. «Ecco», soggiunse, «se si trattasse solamente di questo dispiacere circa la nonna, non credi che avrei sacrificato mille volte l'opinione mia piuttosto che affliggerti? Bisognava bene che ci fosse sotto qualche altra cosa. Adesso sai tutto, adesso l'anima mia l'ho messa nelle tue mani.» Ella lesse sulla fronte di suo marito un dolor cupo, una freddezza nemica. Si alzò, mosse adagio adagio verso di lui, a mani giunte, fissandolo, cercando gli occhi che la evitavano e si fermò per via, respinta da una forza superiore, benché egli non avesse detto una parola né fatto un gesto. «Franco!», supplicò. «Non mi puoi amare più?» Egli non rispose. «Franco! Franco!», diss'ella, tendendogli le mani giunte. Poi fece l'atto di avanzare. Egli si tirò bruscamente indietro. Stettero così a fronte in silenzio, per un eterno mezzo minuto. Franco teneva le labbra serrate, si udiva la sua respirazione frequente. Fu lui che ruppe il silenzio. «Quello che hai detto è proprio il tuo pensiero?»

«Sì.» Egli teneva le mani sulla spalliera d'una seggiola. La scosse con violenza e disse amaramente: «Basta». Luisa lo guardò con tristezza indicibile e mormorò: «Basta?». Egli rispose con ira: «Sì, basta basta basta basta!». Tacque un istante e riprese duramente: «Sarò un neghittoso, un inerte, un egoista, tutto quello che vuoi, ma non sono poi un bambino da venirmi a quietare con due carezze dopo avermi detto tutto quello che mi hai detto! Basta!». «Oh Franco, ti ho fatto male, lo so, ma mi è costato tanto di farti male! Non puoi prendermi con bontà?» «Ah, prenderti con bontà! Tu vuoi ferire e che ti si prenda con bontà! Tu sei superiore a tutti, tu giudichi, tu sentenzii, tu sei la sola che intende cosa Dio vuole e cosa non vuole! Questo no, sai, del resto. Di' pure di me quello che ti piace ma lascia stare le cose che non capisci. Occupati del tuo stivale, piuttosto!» Egli non voleva vedere in sua moglie che l'orgoglio, e la sua stessa collera gli era nata quasi tutta d'orgoglio, d'amor proprio offeso, era una collera impura che gli offuscava la mente e il cuore. Sì la moglie che il marito avrebbero creduto poter essere accusati di tutto fuorché d'orgoglio. Ella tacque, riprese il suo posto, tentò riprendere il lavoro, maneggiava nervosamente gli strumenti senza saper bene che si facesse. Franco se n'andò in sala, sbattendo l'uscio dietro di sé. Nel buio della sala, abbandonata dopo le cinque, si gelava; ma Franco non se n'accorse. Si buttò sul canapè, si diede tutto al suo dolore, alla sua collera, a una facile, violenta difesa mentale di se stesso contro la moglie. Siccome Luisa si era levata, fosse pure con certi temperamenti, contro lui e contro Dio, gli faceva comodo di confondere in cuor suo la propria causa con quella dell'altro muto, terribile Offeso. La sorpresa, l'amarezza, l'ira, le buone e le cattive ragioni gli fecero prima una turbinosa tempesta nel cervello. Poi si sfogò a immaginare pentimenti di Luisa, domande di perdono, magnanime risposte proprie. A un tratto udì Maria gridare e piangere. Si alzò per andar a vedere cos'avesse, ma era senza lume. Allora attese un poco pensando che andrebbe Luisa. Non udì alcun movimento e la bambina piangeva sempre più forte. Si accostò pian piano al salotto, guardò per il vetro dell'uscio. Luisa teneva le braccia incrociate sulla tavola e il viso appoggiato alle braccia. Non si vedevano, al lume della candela, che i suoi bei capelli bruni. Franco si sentì cadere la collera, aperse l'uscio e chiamò a mezza voce con certa severa dolcezza: «Luisa, Maria piange». Luisa levò il viso pallidissimo, prese la candela e uscì senza dir parola. Suo marito la seguì. Trovarono la bambina a sedere sul letto, tutta piangente, spaventata da un sogno. Quando vide suo padre gli stese le braccia supplicandolo con la voce grossa di pianto: «No via, papà, no via, papà!». Franco se la strinse in braccio, la coperse di baci, la chetò, la ripose nel letticciuolo. Ella si teneva stretta una mano del papà, non la voleva in alcun modo lasciare. Luisa prese un'altra candela sul suo tavolino da notte, volle accenderla e non le riusciva, tanto le tremavano le mani. «Non vieni a letto?», le chiese Franco. Ella rispose «no» tremando più di prima. Franco credette indovinar in lei una supposizione, un timore, e se ne offese. «Oh, puoi venire!», diss'egli sdegnoso. Luisa accese il lume e disse più pacatamente che doveva lavorare alle scarpette. Uscì e solamente sulla soglia mormorò: «Buona notte». Franco rispose asciutto: «Buona notte». Ebbe un momento l'idea di spogliarsi, l'abbandonò subito poiché sua moglie stava alzata a lavorare. Tolse una coperta, si coricò vestito, dalla parte del letticciuolo onde potersi tenere una manina di Maria che non dormiva ancora, e spense il lume. Che dolcezza, quella manina cara! Franco la sentiva, bambina, la sua figliuola, innocente, amorosa bambina e la immaginava donna, tutta sua nel cuore, tutta unita a lui nelle idee come nei sentimenti, immaginava che quella manina stretta volesse compensarlo del dolore datogli da Luisa, dirgli: papà, tu e io siamo uniti per sempre. Dio, gli venivano i brividi a pensare che forse Luisa vorrebbe educarla nelle sue idee e ch'egli sarebbe lontano, non ci potrebbe far niente! Pregò il Signore, pregò il Maestro così dolce ai bambini, pregò Maria, pregò la santa nonna Teresa, pregò la sua propria mamma di cui sapeva ch'era stata tanto pura e tanto religiosa: «Custodite, custodite la mia Maria!». Offerse tutto se stesso, la felicità terrena, la salute, la vita purché Maria fosse salva dall'errore. «Papà», disse Ombretta. «Un bacio.» Egli si sporse dal letto, si chinò a cercar con le labbra il caro visino e poi le disse di tacere, di dormire. Ella tacque un minuto e chiamò: «Papà». «Cosa?» «Non ho mica il mulo sotto il guanciale, sai, papà.» «No, no, cara, ma dormi.» «Sì, papà, dormo.» Tacque un altro minuto e poi: «La mamma è a letto, papà?» «No, cara.» «Perché?» «Perché ti fa le scarpette.» «Le porto anche in Paradiso, io, le scarpette, come il bisnonno?» «Taci, dormi.» «Contami una storia, papà.» Egli si provò ma non aveva la fantasia né l'arte di Luisa e s'imbarazzò presto. «Oh papà», disse Maria con l'accento della compassione, «tu non sai raccontar le storie.» Questo lo umiliò. «Senti, senti», rispose, e si mise a recitare una ballata di Carrer,

Al bosco nacque, povera bambina, Gerolimina,

rifacendosi, dopo quattro strofe che ne sapeva, sempre da capo, con intonazioni sempre più misteriose e abbassando via via la voce in un bisbiglio inarticolato, fino a che Ombretta Pipì, cullata dal metro e dalla rima, entrò con essi nel mondo dei sogni. Quando la udì dormire in pace gli parve così crudele di lasciarla, gli parve d'essere un tal traditore che vacillò nel suo proponimento. Si rimise subito.

Il dolce dialogo con la bambina gli aveva alquanto pacificato e rischiarato lo spirito. Incominciò ad aver coscienza di un alto dovere che oramai gl'incombeva di fronte alla moglie: mostrarlesi uomo a costo di qualsiasi sacrificio, nella volontà e nell'azione, difendere, contro lei, la propria fede con le opere, partire, lavorare e soffrire; e poi... e poi... se Iddio santo vorrà che il cannone tuoni per l'Italia, via, avanti, e venga pure una palla austriaca che la faccia piangere e pregare anche lei! Gli sovvenne di non aver dette le sue preghiere della sera. Povero Franco, non gli era mai successo di recitarle a letto senz'assopirsi a metà. Sentendosi abbastanza tranquillo, pensando che Luisa tarderebbe forse molto a venire, ebbe paura di addormentarsi e si domandò cosa direbbe se lo trovasse addormentato. Si alzò pian piano, disse le sue preghiere, accese quindi il lume, sedette alla scrivania, si pose a leggere e si addormentò sulla sedia.

Fu svegliato dagli zoccoli della Veronica che scendeva le scale. Luisa non era ancora venuta. Entrò poco dopo e non espresse alcuna meraviglia di veder Franco alzato. «Sono le quattro», diss'ella. «Se vuoi partire manca mezz'ora.» Occorreva partire alle quattro e mezzo per essere sicuramente a Menaggio in tempo di pigliar il primo battello che veniva da Colico. Invece di andar a Como e quindi a Milano come s'era annunciato ufficialmente, Franco doveva scendere ad Argegno e salire a S. Fedele, calare in Svizzera per la Val Mara o per Orimento e il Generoso. Franco accennò a sua moglie di tacere, di non svegliare Maria. Poi, ancora con un silenzioso gesto, la chiamò a sé. «Parto», le disse piano. «Ieri sera sono stato cattivo, con te. Ti domando perdono. Dovevo risponderti diversamente, anche avendo ragione. Tu conosci il mio temperamento. Perdonami. Almeno non serbarmi rancore.»

«Per parte mia non ne sento affatto», rispose Luisa con dolcezza, come uno che facilmente è benigno perché si sente superiore. Gli ultimi preparativi furono fatti in silenzio, il caffè fu preso in silenzio. Franco andò ad abbracciare lo zio che non aveva salutato la sera, poi entrò solo nell'alcova, si inginocchiò al lettuccio di Maria, sfiorò col labbro una manina che pendeva dalla sponda. Ritornando in salotto vi trovò Luisa con lo scialle e il cappello, le domandò se veniva a Porlezza anche lei. Sì, veniva. Tutto era pronto, la borsa a mano l'aveva Luisa, la valigetta era in barca, l'Ismaele aspettava alla scaletta della darsena con un piede sullo scalino e un piede sulla prua del battello. La Veronica accompagnò i viaggiatori col lume, diede il buon viaggio al padrone, tutta compunta, avendo odorata la burrasca. Due minuti ancora e il pesante battello spinto da Ismaele con la remata lenta e tranquilla «di viaggio» passava sotto il muro dell'orto. Franco mise il capo al finestrino. Passarono, nel chiaror fioco della notte stellata senza luna, i rosai, i capperi, le agavi pendenti dal muro, passarono gli aranci, il nespolo, il pino. Addio, addio! Passarono il Camposanto, la «Zocca de Mainé», la stradicciuola fatta tante volte con Maria, il Tavorell. Franco non guardò più. Non c'era il solito lume, quella notte, nel casottino del battello ed egli non poteva vedere sua moglie, che non parlava. «Vieni a Porlezza per le carte del notaio», diss'egli, «o proprio per accompagnar me?» «Anche questo!», mormorò Luisa, tristemente. «Ho voluto esser leale con te fino all'estremo e tu te ne sei offeso. Mi domandi perdono e poi mi dici queste cose. Capisco che non si può esser fedeli alla verità senza soffrire molto, molto, molto. Pazienza, ormai ho preso questa strada. Se son venuta per accompagnarti, lo saprai. Non farmi abbassare a dirlo adesso!»

« Non farmi abbassare! », esclamò Franco. «Io non capisco. Siamo tanto diversi in tante cose, del resto. Dio mio! come siamo diversi! Tu sei sempre così padrona di te stessa, sai sempre esprimere i tuoi pensieri così esattamente, li conservi sempre così netti, così freddi!» Luisa mormoro:

«Sì, siamo diversi». Non parlarono più né l'uno né l'altro fino a Cressogno. Quando furono vicini alla villa della nonna, Luisa parlò e cercò che il discorso non cadesse fino a che la villa non fosse passata. Si fece ripetere tutto l'itinerario stabilito, suggerì di pigliar la sola borsa a mano perché la valigia imbarazzerebbe troppo da Argegno in poi. Ne aveva già parlato con Ismaele e Ismaele s'incaricava di portarla a Lugano e di spedirla a Torino di là. Intanto la villa della nonna con le sue suggestioni sinistre, passo. Ecco il santuario della Caravina, adesso. Due volte, durante i loro amori, Franco e Luisa s'erano incontrati alla festa della Caravina l'otto settembre, sotto gli ulivi. E passò anche la cara piccola chiesa cinta d'ulivi sotto le rupi paurose del picco di Cressogno. Addio, chiesa, addio, tempo passato. «Ricordati», disse Franco quasi duramente, «che Maria deve dire le sue preghiere ogni mattina e ogni sera. È un comando che ti do.» «Lo avrei fatto anche senza comando», rispose Luisa. «So che Maria non appartiene solo a me.» Silenzio fino a Porlezza. L'uscir dalla cala placida della Valsolda, il veder altre valli, altri orizzonti e il lago segnato dalle prime brezze dell'alba, traevano i due viaggiatori ad altri pensieri, li facevano pensare, senza che ne sapessero il perché, all'avvenire incerto precorso da bisbigli annunciatori di grandi cose, che passavan di furto per il pesante silenzio austriaco. Si udì qualcuno gridare dalla riva di Porlezza e Ismaele si mise a remar di lena. Era il vetturino, il Toni Pollìn, che gridava di far presto se non si voleva perdere il vapore a Menaggio. Ecco gli ultimi momenti. Franco abbassò il vetro dell'usciolino, guardò quell'uomo come se avesse un grande interesse di udirne le parole. Quando approdarono si voltò a sua moglie. «Esci anche tu?» Ella rispose: «Se credi». Uscirono. Una carrettella era sulla riva, pronta. «Guarda», disse Luisa, «che nella borsa troverai da far colazione.» Si abbracciarono, si scambiarono un bacio rapido e freddo davanti tre o quattro curiosi. «Fa che Maria», disse Franco, «mi perdoni di esser partito così», e furono le ultime sue parole perché il Toni Pollìn insisteva, «presto, presto!». La carrettella partì di gran trotto e con un gran fracasso di frustate per la stretta, scura viuzza di Porlezza.

Franco viaggiava sul Falco , da Campo verso Argegno, quando pensò di prender qualche cosa. Aperse la borsa e gli balzò il cuore vedendo una lettera con questo indirizzo di carattere di sua moglie: «per te». L'aperse avidamente e lesse: Se tu sapessi cosa mi sento io nell'anima, quel che soffro, come sono tentata di lasciar qui le scarpette delle quali m'intendo assai meno che tu non creda, e di venir da te a rinnegar quello che t'ho detto, non saresti così duro con me. Debbo aver molto peccato contro la Verità perché mi sieno così difficili e amari i primi passi che faccio seguendo lei.

Tu mi credi orgogliosa e io stessa mi credevo molto suscettibile: adesso sento che le tue parole umilianti non potrebbero trattenermi dal venirti a cercare. Ciò che mi trattiene è una Voce dentro di me, una Voce più forte di me, che mi comanda di tutto sacrificare fuorché la mia coscienza della verità.

Ah, io spero un premio di questo sacrificio! Io spero che possiamo un giorno essere uniti con tutta l'anima. Esco in giardinetto a coglier per te la brava rosellina che abbiamo ammirata insieme ier l'altro, che ha sfidato e vinto gennaio. Ti ricordi quanti ostacoli erano fra noi quando la prima volta ebbi un fiore dalle tue mani? Io non t'amavo ancora e tu già pensavi a vincermi. Adesso sono io che spero di conquistare te.

Mancò poco che Franco lasciasse passare Argegno senza muoversi dal suo posto.