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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 2)

PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 2)

L'aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lago scendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, dè suoi amori. «Addio, Valsolda», pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l' olea sinensis , il nespolo del Giappone, il pinus pinea , che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui.

Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te". Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dalla riva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Franco! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello.

I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che «dò ôr! dò ôr in barca!» mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma sta benone!». La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!»

Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l'interrogavano. «Come l'ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signora Peppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?». Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla a venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto di lavare. La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!». Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa.

I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nella camera dell'alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?». La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa:

«La marchesa!». Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. «L'è a Lod», diss'ella sottovoce. «El Controlòr l'è staa a Lod. Speri comè!» E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito. Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me», gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermirsi. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente necessario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss'egli. «Si tratta del tuo viaggio di domani!» Appena partiti i Pasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questo colloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pasotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri se non avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Franco era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in che modo? L'amico di Torino poteva essere stato imprudente. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse in aria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti non era l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel voltafaccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a Torino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona, un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commissari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Temeva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasotti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue supposizioni. Insomma non c'era che andare e udire. Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più affettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua moglie ch'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle assolutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombano e una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco dovette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni di amicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio e di lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto, il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in materia. Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pasotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seggiola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo di foulard, lo andava palpando. «Dunque», diss'egli, «caro Franco, come ti dicevo, si tratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi a casa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io non ti porto un affare anche più grosso di quello che hai a Milano.»

Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque. Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare di maneggiarlo e riprese: «Il mio caro amico don Franco Maironi si può immaginare che se io entro in argomento intimo e delicato, ho una ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo e sono autorizzato a farlo».

Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alzarono a quelli torbidi e diffidenti di Franco. «Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuo avvenire.» Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da banda. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolino entrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhi su Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spalliera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di difesa. «È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia verso la tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa onde metter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo padre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che bene mi voleva!» (Franco sapeva che suo padre aveva una volta minacciato Pasotti col bastone perché s'intrometteva troppo nelle faccende di casa sua.) «Basta. Avendo saputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mi son detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Maironi, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. E sono andato.»

Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli era capitato? E chi aveva chiesto intercessioni? «Debbo dirlo», riprese Pasotti, «sono contento. Tua nonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmente si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, ma insomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è una lotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoi principii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi risentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere come soffre; ma insomma piega, piega. Certamente non bisogna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino a spezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire: sopra tutto i suoi principii politici.» Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussulto di tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questo punto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto in mente il bastone del fu don Alessandro.

«Ti capisco», riprese. «Credi che non ti capisca? Io mangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nel cuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro il momento in cui certi colori cederanno il posto a certi altri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarla com'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisogna pigliarla com'è. Si può combattere come ho combattuto io, ma...»

«Tutto questo discorso mi pare inutile», esclamò Franco, alzandosi. «Aspetta!», riprese Pasotti. «Il diavolo non sarà poi forse tanto brutto! Siedi, ascolta!» Franco non volle saperne di sedersi ancora. «Sentiamo!», diss'egli con voce vibrante d'impazienza. «Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matrimonio...» «Grazie!», interruppe il giovane. «Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente; per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanziche all'anno. Non c'è male, eh?» «Avanti!» «Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una condizione umiliante non sarei venuto a proportela. La nonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certa guarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è un modo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lo devo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessi proposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia era ch'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne avevi abbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anche l'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinotti che pensano come te e che sono nella carriera giudiziaria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata. Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale.» «Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu... e tu... e tu...»

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi. «Fermati!», esclamò. «Che maniera è questa?» «Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un momento!», diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non e un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!» Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortito dal colpo. «Che testamento?», diss'egli. «Via!», riprese Pasotti freddo e beffardo. «C'intendiamo bene!» Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. «Ma no!», diss'egli. «Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamenti?» «Ah!», fece Pasotti con ironica dolcezza. «Adesso va benissimo.» Franco l'avrebbe strozzato. «Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so.» Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente. «Oh già!», riprese Pasotti, beffardo più di prima. «Lo informerò io il signore. Sappia dunque che il signor professore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si è recato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato alla marchesa con una copia senza valor legale di un preteso testamento del povero Suo nonno. In questo testamento Ella, signor don Franco, è istituito erede universale con accompagnamento di offese atroci alla moglie e al figlio del testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signor Gilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esser venuto di suo capo, senza farne saper niente a voi.» Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosi oscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forze per non smarrirsi, per dare una risposta degna. «Hai ragione», diss'egli. «Anche la nonna ha ragione. Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostrato quel testamento tre anni sono, la notte del mio matrimonio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto che l'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se si è recato a Lodi per quella bella impresa che dice, ha commesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilo bene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il danaro del Governo: e siccome questa signora ha la fortuna di essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, e adoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte le perfidie che vuole, mai non userò una carta che la disonora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo a nome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché le sdegno! Buona sera.» Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante di sovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sua lanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo né curando affatto dove mettesse i piedi, esclamando di tempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro di rovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusa contro Luisa. Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettava Franco nel salottino con Maria che teneva alzata perché suo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La povera Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi, a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a domandar con una vocina dolente: «Quando viene, papà?». Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per consolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzo scarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, costavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi? Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gli scalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in granaio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie ciarpe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo nonno. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fatta prestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabile stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sulla tavola. «Adesso gli reciteremo l'orazione funebre», diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustia mortale poteva toglierle, se le bisognava. «Prima, però, domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di prenderti il suo stivale.» Ella fece che Maria giungesse le mani e recitasse questa filastrocca guardando comicamente il soffitto:

Caro signor bisnonno benedetto, Questo stival, se Lei non se lo mette, Lo doni alla Sua Ombretta, Che aspetta con gran fretta Un paio di scarpette E Le scocca su in cielo un bel bacetto Alla pianta del piede con rispetto.

Venne poi una poco riverente fantasia come ne nascevan tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storia dell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che un giorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto di pan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mamma con cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimasto in Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? La mamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicato per di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giù dal cielo, se ve lo incontrava. In quel momento entrò Franco. Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano tempesta. «Dunque?», diss'ella. Franco rispose concitato: «Metti a letto Maria». Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò «ti dico di metterla a letto» tanto aspramente che Maria si mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Accese un lume, prese la bambina in braccio, la porse silenziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e la portò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quello stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomiti sulla tavola, si strinse il capo fra le mani. L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardoni gli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti parlava, col ricordo di quel «cosa, silenzio?», di quel «basta!» e del racconto della bambina. Egli aveva dentro a sé come un vortice dove questa idea spariva girando e ricompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuore. «Dunque?», tornò a chiedere Luisa, rientrando. Franco la guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzò e le afferrò le mani. «Dimmi se sai niente!», diss'egli. Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offesero. «Come, se so niente?», esclamò accesa in volto. «Me lo domandi così?» «Ah tu sai!», gridò Franco, gittando da sé le mani di lei e levando le braccia in alto. Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua complicità col professore, la propria smentita, l'offesa mortale, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira, non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spaventata. «No, Franco, no, Franco», diss'ella sottovoce e gli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le labbra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse domandar perdono e la respinse. «Lo so, sì, lo so», diss'ella tornando appassionata al suo petto, «ma l'ho saputo dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegno come te, più di te!» Ma Franco aveva troppo bisogno di sfogarsi, di offendere. «E come vuoi che ti creda?», esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece ancora un passo incontro, gli stese le braccia. «No», supplicò straziata, «dimmi che mi credi, dimmelo subito subito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!»

«Cosa, non so?» «Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto ma non cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più ?» Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinse le mani da rompergliele e disse con voce soffocata: «Ti crederò, sì, ti crederò». Luisa che lo guardava lagrimosa chiese una parola migliore. « Ti crederò », disse, « ti crederò ?» «Ti credo, ti credo.» Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgoglio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accento fu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo convinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per le mani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via via con un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolcemente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncar quel silenzio, parole calde non ne trovava, parole fredde non ne voleva, si mise a raccontare senz'altro come avesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio a Lodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamente fredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suo marito. Mentre riferiva le confidenze del professore, Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente: «E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello? - Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?». La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Aveva già detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilardoni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse! Franco si chetò ma di mala voglia.


PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 2) PARTE DOIS - 8. horas amargas (parte 2)

L'aria era mite, il picco di Cressogno saliva senza neve, tutto glorioso di sole, nel sereno, il sole dorava ancora le coste giallognole della Valsolda picchiettate di ulivi, mentre dall'altra parte del lago scendevano sino all'acqua, nell'ombra azzurrognola, i grandi padiglioni bianchi della Galbiga nevosa e del Bisgnago. Franco stette a guardare col cuore grosso il caro paese dei suoi sogni, dè suoi amori. «Addio, Valsolda», pensò. «E adesso voglio salutare anche voialtre.»

Voialtre erano le sue piante, gli aranci amari, l' olea sinensis , il nespolo del Giappone, il pinus pinea , che verdeggiavano a giusti intervalli lungo il viale diritto, fra le aiuole degli erbaggi e il lago; erano i rosai, i capperi, le agavi che uscivano a pender sopra l'acqua dai fori praticati nel muro. Tutte piccole vite, ancora; il colosso della famiglia, il pino, non misurava tre metri; piccole, pallide vite che parevano sonnecchiare nel pomeriggio invernale. Ma Franco le vedeva nell'avvenire come le aveva pensate piantandole col suo fine sentimento del grazioso e del pittoresco. Ciascuna portava in sé una intenzione di lui.

Le nobili pianticelle del viale, sorgendo sugli erbaggi, dovevano significare una certa finezza di spirito e di cultura nella modesta fortuna della famiglia. Gli aranci avevano il compito speciale di dare al quadretto una intonazione mite e gentile; il dovere del nespolo era di alzare e allargar le braccia frondose sopra un futuro sedile; i rosai e i capperi del muro verso il lago dovevano dire a chi passava in barca la fantasia d'un poeta; le agavi vi avrebbero risposto, in un accordo minore, agli aranci, compagni di esilio; finalmente gli alti destini del pino erano di spiegar un grazioso ombrello sulla breve oasi, di porre il suo accento meridionale sopra l'accordo delle agavi e degli aranci, di incorniciar con la sua verde corona il piccolo seno azzurro di Casarico. Addio, addio! Pareva a Franco che le pianticelle gli rispondessero tristemente: "Perché ci lasci? Che sarà di noi? Tua moglie non ci ama come te". Intanto la barca veduta da don Giuseppe aveva camminato e passava davanti all'orto, alquanto discosto dalla riva. V'erano un signore e una signora. Il signore si alzò in piedi e salutò con voce squillante: «Addio, don Franco! Evviva!». La signora sventolò il fazzoletto. Erano i Pasotti. Franco salutò col cappello.

I Pasotti! In Valsolda di gennaio! Che ci venivano a fare? E quel saluto! Pasotti che dopo la perquisizione non si era fatto più vedere, Pasotti salutar così? Che voleva dir ciò? Franco, perplesso, salì in casa, diede la notizia. Tutti stupirono e sopra tutti la süra Peppina: «Ma comè? El dis de bon? El sür Controlòr? Poer omasc! Anca la süra Barborin? Poera donnètta!». Si commentò il fatto. Chi supponeva una cosa e chi un'altra. Dopo cinque minuti Pasotti entrò strepitando, trascinandosi dietro la signora Barborin carica di scialli e di fagotti, mezza morta dal freddo. Povera creatura, non sapeva dir altro che «dò ôr! dò ôr in barca!» mentre suo marito schiamazzava ghignando negli occhi diabolici: «Le fa bene, le fa bene! Le ho cacciato giù un bicchierino di ginepro a Porlezza. Ha fatto smorfie d'inferno, ma sta benone!». La povera sorda, indovinando che parlava del ginepro, girava gli occhi per il soffitto, rifaceva le smorfie di Porlezza. Pasotti non era mai stato così espansivo. Baciò la mano a Luisa, abbracciò l'ingegnere e Franco accompagnando gli atti con effusioni e profluvi di sentimento. «Carissima donna Luisa! Signora ammirabile e perfetta. Car el me Peder! Car el me re de coeur! Il mondo è grande ma on alter Peder el gh'è propri no, va là! E questo don Franco! Caro il mio Francone! Pensare come t'ho veduto io! In sottane e grembialino. Quando andavi a rubar i fichi al prefetto della Caravina! Sto baloss chì!»

Il «baloss» non faceva il viso più incoraggiante del mondo ma l'altro non se ne dava per inteso. Altrettanto poco poteva intendersi sua moglie con le signore che l'interrogavano. «Come l'ha mai faa, süra Pasotti», le gridava la signora Peppina, «a vegnì in Valsolda de sto temp chì?» «Oh dèss, la capiss nient, poera donnètta.» Per quanto anche Luisa ed Ester le gridassero nelle orecchie la stessa domanda, per quanto ella spalancasse la bocca, la sorda non capiva, andava rispondendo a caso: «Se ho mangiàa? Se voeui disnà chì?». Intervenne Pasotti, disse che in ottobre egli e sua moglie eran partiti per un richiamo di affari, senza fare il bucato, che sua moglie lo andava seccando da un pezzo per questo benedetto bucato, che finalmente si era risolto di accontentarla a venire. Allora donna Ester si voltò verso la Pasotti a far l'atto di lavare. La Pasotti guardò suo marito che le teneva gli occhi addosso e rispose: «Sì sì, la bügada, la bügada!». Quell'occhiata, l'impero che lesse negli occhi del Controllore fecero sospettare Luisa che vi fosse sotto un mistero. Questo mistero e le inesplicabili espansioni di Pasotti le suggerirono un altro sospetto. Se fosse venuto per loro? Se nelle cause di questa improvvisa venuta ci avesse parte il viaggio del professore a Lodi? Avrebbe voluto consultarsi col professore, dirgli di fermarsi fino a che i Pasotti fossero partiti; ma come parlargli poi senza che se ne avvedesse Franco? Intanto donna Ester prese congedo e il professore che aveva ottenuto il perdono della capricciosetta, perfidetta signorina, a patto di non domandare il paradiso, ebbe licenza di accompagnarla a casa.

I Pasotti non potevano salire ad Albogasio Superiore fino a che il mezzadro, fatto avvertire subito, non avesse posto loro in ordine e riscaldata almeno una stanza. Parlò subito di piantare un tarocchino in tre con l'ingegnere e Franco. Allora se ne andò anche la signora Peppina e la Pasotti chiese a Luisa di ritirarsi un momento, la pregò di accompagnarla. Appena fu sola coll'amica nella camera dell'alcova si guardò attorno con due occhioni spaventati e poi sussurrò: «Sèm minga chì per la bügada neh, sèm minga chì per la bügada!». Luisa la interrogò silenziosamente, col viso e col gesto, perché a parlar forte in sala avrebbero udito. Stavolta la Pasotti capì, rispose che non sapeva niente, che suo marito non le aveva detto niente, che le aveva imposto la storia del bucato ma che del bucato a lei non importava nulla. Allora Luisa prese un pezzo di carta e scrisse: «Cosa sospetti?». La Pasotti lesse e poi cominciò una mimica complicatissima. Scrollamenti del capo, stralunamenti d'occhi, sospiri, invocazioni al soffitto; pareva che si combattesse dentro di lei una gran battaglia di timori e di speranze. Finalmente fece «ah!», afferrò la penna e scrisse sotto la domanda di Luisa:

«La marchesa!». Lasciò cader la penna, stette a contemplar l'amica. «L'è a Lod», diss'ella sottovoce. «El Controlòr l'è staa a Lod. Speri comè!» E poi scappò in sala temendo esser sospettata da suo marito. Finito il tarocco, Pasotti si accostò a una finestra, disse forte qualche cosa sugli effetti della luce crepuscolare e chiamò Franco. «Bisogna che tu venga stasera da me», gli disse piano, «devo parlarti.» Franco cercò schermirsi. Partiva l'indomani mattina per Milano, lasciava la famiglia per qualche tempo, gli era difficile passar la sera fuori di casa. Pasotti replicò ch'era assolutamente necessario. «Si tratta del tuo viaggio di domani», diss'egli. «Si tratta del tuo viaggio di domani!» Appena partiti i Pasotti per Albogasio Superiore, Franco riferì questo colloquio a sua moglie. Egli n'era stato turbatissimo. Pasotti sapeva, dunque; non avrebbe fatto tanti misteri se non avesse inteso alludere al viaggio di Torino. E Franco era seccatissimo che Pasotti sapesse. Ma in che modo? L'amico di Torino poteva essere stato imprudente. E adesso che voleva da lui, Pasotti? C'era forse in aria qualche altro colpo della Polizia? Ma Pasotti non era l'uomo da venire ad avvertirnelo! E tutto quel voltafaccia di amabilità? Non si voleva ch'egli andasse a Torino, forse. Non si voleva che trovasse una strada buona, un modo di sottrarre sé e i suoi alla povertà, ai commissari e ai gendarmi! Pensa e ripensa, non poteva essere che questo. Luisa n'era poco persuasa, in cuor suo. Temeva altra cosa; non dubitava però neppur lei che Pasotti sapesse di Torino e ciò scompigliava tutte le sue supposizioni. Insomma non c'era che andare e udire. Franco andò alle otto, Pasotti lo ricevette colla più affettuosa cordialità e gli fece le scuse di sua moglie ch'era già a letto. Prima d'entrar in argomento volle assolutamente che pigliasse un bicchiere di S. Colombano e una fetta di panettone. Col vino e col dolce Franco dovette inghiottire, suo malgrado, molte dichiarazioni di amicizia, i più sperticati elogi di sua moglie, di suo zio e di lui stesso. Vuotato finalmente il bicchiere ed il piatto, il mellifluo bargnìf si mostrò disposto ad entrare in materia. Erano seduti a un tavolino, l'uno in faccia all'altro. Pasotti, appoggiato comodamente alla spalliera della seggiola, teneva tra le mani un fazzoletto rosso e giallo di foulard, lo andava palpando. «Dunque», diss'egli, «caro Franco, come ti dicevo, si tratta del tuo viaggio di domani. Ho inteso dire oggi a casa tua che parti per affari: si tratta di vedere se io non ti porto un affare anche più grosso di quello che hai a Milano.»

Franco, sorpreso da questo inaspettato esordio, tacque. Pasotti chinò gli occhi sul fazzoletto senza restare di maneggiarlo e riprese: «Il mio caro amico don Franco Maironi si può immaginare che se io entro in argomento intimo e delicato, ho una ragione grave di farlo, sento il dovere di farlo e sono autorizzato a farlo».

Le mani si fermarono, gli occhi brillanti e acuti si alzarono a quelli torbidi e diffidenti di Franco. «Si tratta, mio caro Franco, del tuo presente e del tuo avvenire.» Ciò detto, Pasotti posò risolutamente il foulard da banda. Appoggiate le braccia e giunte le mani sul tavolino entrò nel cuore dell'argomento tenendo sempre gli occhi su Franco che, raccolto alla sua volta indietro sulla spalliera, lo guardava pallido, in una ostile attitudine di difesa. «È dunque un pezzo che io, per l'antica amicizia verso la tua famiglia, ho in mente di far qualche cosa onde metter fine a un dissidio dolorosissimo. Anche tuo padre, povero don Alessandro! Che cuor d'oro! Che bene mi voleva!» (Franco sapeva che suo padre aveva una volta minacciato Pasotti col bastone perché s'intrometteva troppo nelle faccende di casa sua.) «Basta. Avendo saputo che tua nonna era a Lodi, domenica scorsa mi son detto: dopo tanti dispiaceri che hanno avuto i Maironi, forse questo è il momento. Andiamo, tentiamo. E sono andato.»

Pausa. Franco fremeva. Che razza d'intercessore gli era capitato? E chi aveva chiesto intercessioni? «Debbo dirlo», riprese Pasotti, «sono contento. Tua nonna ha le sue idee, ha un'età in cui le idee difficilmente si cambiano, ha il carattere che sai, molto fermo, ma insomma il cuore c'è. Ti vuol bene, sai. Soffre. Vi è una lotta continua, dentro di lei, fra i suoi sentimenti e i suoi principii; anche, se vuoi, tra i suoi sentimenti e i suoi risentimenti. Povera marchesa! È penoso di vedere come soffre; ma insomma piega, piega. Certamente non bisogna mica aspettarsi poi troppo. Piega ma non fino a spezzare ciò che la sostiene, i suoi principii, voglio dire: sopra tutto i suoi principii politici.» Gli occhi di Franco, le mascelle inquiete, un sussulto di tutta la persona dissero a Pasotti: non toccar questo punto, bada a te! Pasotti si fermò; gli era forse venuto in mente il bastone del fu don Alessandro.

«Ti capisco», riprese. «Credi che non ti capisca? Io mangio il pane del Governo e devo tenermi chiuso nel cuore ciò che penso, ma del resto son con te, sospiro il momento in cui certi colori cederanno il posto a certi altri. Tua nonna non è così e, sfido, bisogna pigliarla com'è. Se si vuol venire a un accomodamento bisogna pigliarla com'è. Si può combattere come ho combattuto io, ma...»

«Tutto questo discorso mi pare inutile», esclamò Franco, alzandosi. «Aspetta!», riprese Pasotti. «Il diavolo non sarà poi forse tanto brutto! Siedi, ascolta!» Franco non volle saperne di sedersi ancora. «Sentiamo!», diss'egli con voce vibrante d'impazienza. «Intanto la nonna è disposta a riconoscere il tuo matrimonio...» «Grazie!», interruppe il giovane. «Aspetta!... e a farvi un assegno molto conveniente; per quel che ho capito, fra le sei e le ottomila svanziche all'anno. Non c'è male, eh?» «Avanti!» «Aspetta! Non c'è niente di umiliante. Se ci fosse una condizione umiliante non sarei venuto a proportela. La nonna desidera che tu ti occupi e che tu dia una certa guarentigia di non immischiarti in affari politici. Vi è un modo decoroso di combinare una cosa e l'altra, questo lo devo riconoscere, benché, te lo dico chiaro, io avessi proposto alla nonna un partito diverso. L'idea mia era ch'ella ti mettesse alla testa degli affari suoi. Ne avevi abbastanza per non poter pensare ad altro. Però, anche l'idea della nonna è buona. Conosco fior di giovinotti che pensano come te e che sono nella carriera giudiziaria. È una carriera molto indipendente e molto rispettata. Una parola tua e tu sei ascoltante al Tribunale.» «Io?», proruppe Franco. «Io! No, caro Pasotti! No! Non mi si manda, taci! la Polizia in casa, non si fa bestialmente destituire un galantuomo che ha la sola colpa di essere zio di mia moglie, taci ti dico! non si cercano oggi tutte le vie di affamare la mia famiglia e me, per offrirci domani del pane sporco. No, sai, no, grida pure, per fame no, viva Dio, nessuno mi prende! Dillo pure alla nonna e tu... e tu... e tu...»

Pasotti aveva sicuramente un sangue di derivazione felina, cupido, fine, prudente, carezzevole, pronto alla simulazione ma soggetto alla collera. Era venuto interrompendo l'invettiva di Maironi con proteste sempre più violente; a quest'ultima apostrofe, sentendo arrivar un nembo di accuse che tanto più lo irritavano quanto più le indovinava, balzò egli pure in piedi. «Fermati!», esclamò. «Che maniera è questa?» «Buona sera!», disse Franco, pigliando il cappello. Ma Pasotti non intendeva lasciarlo partire così. «Un momento!», diss'egli battendo e ribattendo affrettati pugni sul tavolino. «Voialtri vi fate delle illusioni, voialtri sperate molto in quel testamento e quello non e un testamento, quello è un pezzo di carta straccia, quello è il delirio di un pazzo!» Franco, ch'era già presso all'uscio, si fermò, tramortito dal colpo. «Che testamento?», diss'egli. «Via!», riprese Pasotti freddo e beffardo. «C'intendiamo bene!» Una vampa di collera riaccese il sangue a Franco. «Ma no!», diss'egli. «Fuori! parla! Cosa ne sai tu di testamenti?» «Ah!», fece Pasotti con ironica dolcezza. «Adesso va benissimo.» Franco l'avrebbe strozzato. «Sono stato a Lodi, non te l'ho detto? Dunque so.» Franco, fuori di sé, protestò di non capire niente. «Oh già!», riprese Pasotti, beffardo più di prima. «Lo informerò io il signore. Sappia dunque che il signor professore Gilardoni, il quale non è affatto amico Suo, si è recato in fine di dicembre a Lodi, e si è presentato alla marchesa con una copia senza valor legale di un preteso testamento del povero Suo nonno. In questo testamento Ella, signor don Franco, è istituito erede universale con accompagnamento di offese atroci alla moglie e al figlio del testatore. Ecco che adesso Ella sa. Del resto il signor Gilardoni è stato fedele alla consegna, ha detto di esser venuto di suo capo, senza farne saper niente a voi.» Franco ascoltò, livido come un cadavere, sentendosi oscurar la vista e l'anima, raccogliendo tutte le sue forze per non smarrirsi, per dare una risposta degna. «Hai ragione», diss'egli. «Anche la nonna ha ragione. Chi ha torto è il professor Gilardoni. Egli mi ha mostrato quel testamento tre anni sono, la notte del mio matrimonio. Gli ho detto di abbruciarlo e ho creduto che l'avesse fatto. Se non lo ha fatto, mi ha ingannato. Se si è recato a Lodi per quella bella impresa che dice, ha commesso una indelicatezza e una stoltezza enorme. Voi avete avuto ragione di pensar male di noi. Ma sappilo bene! Io disprezzo il danaro della nonna quanto il danaro del Governo: e siccome questa signora ha la fortuna di essere la madre di mio padre, mai, capisci, mai, e adoperi ella pure contro di noi tutte le bassezze, tutte le perfidie che vuole, mai non userò una carta che la disonora! Sono troppo superiore a lei! Va' e dille questo a nome mio e dille che si riprenda le sue offerte perché le sdegno! Buona sera.» Lasciò Pasotti sbalordito e se n'andò tutto tremante di sovreccitazione e di collera, dimenticò di ripigliar la sua lanterna, discese al buio, a gran passi, non sapendo né curando affatto dove mettesse i piedi, esclamando di tempo in tempo, buttando fuori ciò che aveva dentro di rovente: pezzi d'ira contro il Gilardoni, pezzi di accusa contro Luisa. Lo zio era andato a letto per tempo e Luisa aspettava Franco nel salottino con Maria che teneva alzata perché suo padre potesse averla un poco, l'ultima sera. La povera Ombretta Pipì aveva cominciato presto a infastidirsi, a far una boccuccia grossa, un visetto piagnoloso, a domandar con una vocina dolente: «Quando viene, papà?». Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per consolare gli afflitti. Ombrettina non teneva da un pezzo scarpettine sane e le scarpettine, anche in Valsolda, costavano denari. Pochi, sì, e quando ce n'è pochissimi? Ma ell'aveva una mamma unica al mondo per calzare gli scalzi. Proprio il giorno prima, Luisa, cercando in granaio un pezzo di corda, aveva trovato fra vecchie ciarpe, casse vuote e seggiole rotte, uno stivale di suo nonno. Lo aveva posto a rammollire nell'acqua, s'era fatta prestare trincetto, lesina e forbice. Prese ora il venerabile stivale che fece spavento a Ombretta e lo posò sulla tavola. «Adesso gli reciteremo l'orazione funebre», diss'ella con quel brio voluto che neppure un'angustia mortale poteva toglierle, se le bisognava. «Prima, però, domanderai al tuo signor bisnonno il permesso di prenderti il suo stivale.» Ella fece che Maria giungesse le mani e recitasse questa filastrocca guardando comicamente il soffitto:

Caro signor bisnonno benedetto, Questo stival, se Lei non se lo mette, Lo doni alla Sua Ombretta, Che aspetta con gran fretta Un paio di scarpette E Le scocca su in cielo un bel bacetto Alla pianta del piede con rispetto.

Venne poi una poco riverente fantasia come ne nascevan tante nel cervello di Luisa, una bizzarra storia dell'angioletto che lustra gli stivali in paradiso e che un giorno, per voler pigliare senza permesso un pezzetto di pan d'oro, aveva lasciato cadere sulla Terra lo stivale del bisnonno. Maria si rasserenò, rise, interruppe la mamma con cento domande sul pan d'oro e sullo stivale rimasto in Paradiso. Che ne farebbe di quello il bisnonno? La mamma le spiegò che il bisnonno lo avrebbe applicato per di dietro all'imperatore d'Austria onde buttarlo giù dal cielo, se ve lo incontrava. In quel momento entrò Franco. Luisa vide subito che gli occhi e la fronte segnavano tempesta. «Dunque?», diss'ella. Franco rispose concitato: «Metti a letto Maria». Luisa osservò che aveva tenuta la bambina alzata per aspettarlo, perché stesse un po' con lui. Franco replicò «ti dico di metterla a letto» tanto aspramente che Maria si mise a piangere. Luisa si fece rossa ma tacque. Accese un lume, prese la bambina in braccio, la porse silenziosamente a suo padre per un bacio, che fu freddo, e la portò via. Franco non la seguì. Si arrabbiò di veder quello stivale e lo gettò in terra. Poi sedette, piantò i gomiti sulla tavola, si strinse il capo fra le mani. L'amara idea che Luisa fosse complice del Gilardoni gli era lampeggiata in mente subito, mentre Pasotti parlava, col ricordo di quel «cosa, silenzio?», di quel «basta!» e del racconto della bambina. Egli aveva dentro a sé come un vortice dove questa idea spariva girando e ricompariva sempre più basso, sempre più vicino al cuore. «Dunque?», tornò a chiedere Luisa, rientrando. Franco la guardò un momento in silenzio, la scrutò. Poi si alzò e le afferrò le mani. «Dimmi se sai niente!», diss'egli. Ella indovinò, ma quello sguardo e quel modo la offesero. «Come, se so niente?», esclamò accesa in volto. «Me lo domandi così?» «Ah tu sai!», gridò Franco, gittando da sé le mani di lei e levando le braccia in alto. Ella presentì ciò che veniva, il sospetto della sua complicità col professore, la propria smentita, l'offesa mortale, irrimediabile che Franco le avrebbe fatto se, nell'ira, non avesse creduto alla sua parola, e giunse le mani spaventata. «No, Franco, no, Franco», diss'ella sottovoce e gli gettò le braccia al collo, volle chiuder coi baci le labbra di lui. Ma egli fraintese, credette che volesse domandar perdono e la respinse. «Lo so, sì, lo so», diss'ella tornando appassionata al suo petto, «ma l'ho saputo dopo, quando era cosa fatta, ne ho avuto sdegno come te, più di te!» Ma Franco aveva troppo bisogno di sfogarsi, di offendere. «E come vuoi che ti creda?», esclamò. Ella indietreggiò con un grido, poi gli fece ancora un passo incontro, gli stese le braccia. «No», supplicò straziata, «dimmi che mi credi, dimmelo subito subito perché altrimenti tu non sai, tu non sai!»

«Cosa, non so?» «Tu non sai come sono io che ti amerò ancora ma non vorrò più essere moglie per te, che potrò soffrir tanto ma non cambiare, mai più! Capisci cosa vuol dire mai più ?» Egli la trasse a sé, la sottile persona ansante, le strinse le mani da rompergliele e disse con voce soffocata: «Ti crederò, sì, ti crederò». Luisa che lo guardava lagrimosa chiese una parola migliore. « Ti crederò », disse, « ti crederò ?» «Ti credo, ti credo.» Lo credeva davvero ma dov'è ira è sempre anche orgoglio. Non volle subito arrendersi del tutto; il suo accento fu piuttosto d'un uomo compiacente che d'un uomo convinto. Restarono ambedue silenziosi, tenendosi per le mani, cominciarono a sciogliersi l'un dall'altro via via con un impercettibile moto. Fu Luisa che infine, dolcemente, si staccò del tutto. Sentiva la necessità di troncar quel silenzio, parole calde non ne trovava, parole fredde non ne voleva, si mise a raccontare senz'altro come avesse saputo dal Gilardoni del malaugurato viaggio a Lodi. Parlava con voce tranquilla, non propriamente fredda ma triste, stando seduta alla tavola in faccia a suo marito. Mentre riferiva le confidenze del professore, Franco si riaccendeva, la interrompeva continuamente: «E non gli hai detto questo? - E non gli hai detto quello? - Non gli hai detto stupido? - Non gli hai detto bestia?». La prima volta Luisa lasciò correre, poi protestò. Aveva già detto di essersi sdegnata per lo sproposito del Gilardoni; pareva quasi, adesso, che suo marito ne dubitasse! Franco si chetò ma di mala voglia.