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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 10. Esüsmaria, sciora Lüisa! (parte 2)

PARTE SECONDA - 10. Esüsmaria, sciora Lüisa! (parte 2)

Aveva l'occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in un solo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che le batteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d'un torbido velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passione delle cose intorno alla sua propria. Discendeva lenta lenta, con l'ombrello chiuso, stringendone forte il manico, come fosse stato la impugnatura d'un'arma. La scalinata è un po' tortuosa, bisogna scendere alquanti scalini prima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse la portantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto di due portatori. Luisa discese fin dove si spandono sopra la scalinata i rami d'un gran noce. Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori della marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene. Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina con l'ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori, giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero, che si facessero da banda per lasciarle il passo.

Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch'erano alla testa della portantina, un fratello d'Ismaele e un cugino della Veronica. A quattro passi accennò loro, con un gesto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamente, posarono la portantina a terra e così fecero, senza saperne il perché, i due portatori che seguivano. Pasotti alzò l'ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, un cipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da banda per lasciarla passare, non sospettando che l'incontro fosse premeditato. Ma Luisa non si mosse. «Ella non credeva incontrarmi, signor Pasotti», disse a voce alta. La marchesa mise il capo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vigor nuovo nella sua voce floscia: «Avanti!»

In quel momento partirono dall'alto del sagrato acute, disperate grida: «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!». Luisa non udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori «avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.

«Avanti pure!», diss'ella, risoluta di mettersi a fianco della portantina. «Non ho a dire che due parole.» Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima immaginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi allora dal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.

«Parole, adesso?», fece Pasotti avanzandosi quasi minaccioso. «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!», si gridò da vicino con accento di strazio; e venne con le grida un rumor di passi precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. «Sì, adesso!», rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Io avverto, per mia bontà, questa signora...» «Sciora Lüisa!» Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre, quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate, singhiozzanti: «Che La vegna a cà subet! Che La vegna a cà subet!». Le facce, i pianti, le voci la strapparon d'un colpo fuori della sua passione, del suo proposito. Si avventò fra quelle donne esclamando: «Cosa c'è?». Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzanti dall'orbita: «Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!». «Ma cosa c'è, stupide?» «La Soa tosa, la Soa tosa!» Ella gridò come pazza: «La Maria? La Maria? Cosa? Cosa?», udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò uno strido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su per la scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro, ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia, che strillavano e piangevano. Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull'ultimo scalino. Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sollevarono. Urlò: «Dio, è morta?». Qualcuno rispose: «No, no!». «Il medico?», diss'ella ansando. «Il medico?». Molte voci risposero che c'era. Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro a lei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero incontrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide: «È viva? È viva?». Il compagno d'Ismaele ritornò indietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veniva. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere: «Esüsmaria, sciora Luisa!», e fece atto di trattenerla. Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita da lui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro, correndo: «L'è forsi nient! l'è forsi nient!». Pareva che la pioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangendo. Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancora la forza di gridare: «Maria! Maria mia!». La finestra dell'alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Ester che la sgridava. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbigliavano: «Coraggio! Speriamo!». Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano. Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto: «Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!». All'entrata della camera dell'alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò sola. Avevan dovuto accendere il lume perché nell'alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente; facendo pressioni sull'addome. «Dottore? Dottore?», singhiozzò Luisa. «Facciamo il possibile», rispose il dottore, grave. Ella si precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, li coperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da un tremito. «No no!», fece il dottore. «Coraggio, coraggio!» «A me», esclamò Luisa. Il dottore l'arrestò con un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respirò più volte profondamente, si rialzò. «Ma è rosea, è rosea!», sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in silenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria. Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L'uscio della sala era aperto; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una voce mormorò:

«Si muove». Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore spense il cerino. «Lana calda!», diss'egli. Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato, ella dall'altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre della piccina. Dopo un po', vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto. «Ceda, ceda», diss'egli perché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sono stanco anch'io. Non è possibile.» Luisa scosse il capo senza parlare continuando l'opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò a Ester di far riscaldare dell'altra lana per coprirne le gambe della bambina. Ester andò, fece lei, perché la Veronica, appena successo il caso, era sparita, non si trovava più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le domandarono: «E così? E così?». Ester fece un gesto sconsolato, passò senza rispondere. Poi le discussioni ricominciarono a mezza voce. Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell`acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena. Discese a salti, vide aperto l'uscio della darsena ed entrò. Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s'era posto di traverso, avendo la poppa quasi addosso al muro. In faccia all'uscio che mette dalla via pubblica nella darsena, corre un andito dal quale due scalette scendono all'acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l'ultimo scalino, dov'eran sessanta o settanta centimetri d'acqua, vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e il capo sott'acqua. Nel trarla dall'acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la bambina gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, per fortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutò Ester a spogliar la povera creatura che non dava più segni di vita. Con chi era ella stata prima di scendere in darsena? Con la Veronica no, perché la Veronica era stata veduta entrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la sua guardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester o con il professore neppure. Ester l'aveva mandata a pregare nella camera dell'alcova e poi non l'aveva veduta più. La Cia stava a lavorare e l'ingegnere a scrivere quando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall. Maria doveva esser discesa in darsena dalla camera dell'alcova per mettere la sua barchetta nell'acqua e fatalmente avea trovato aperta la porta di casa, aperto l'uscio della darsena. Il Toni Gall era d'opinione che avesse passato qualche minuto nell'acqua perché galleggiava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nel fondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con la Cia, con l'ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano, meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove prima stavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva. La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch'egli vedesse davanti a sé l'ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza. E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto, dell'uomo savio e forte. Dall'uscio aperto dell'alcova venivan voci ora d'interrogazione ora di comando. Nessuno poté però dire, per un'ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualche volta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo zio Piero volgeva il capo verso l'uscio dell'alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur troppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava. Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene di tutti. Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottore aveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile: desistiamo», e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.

Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchio se non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacere con un gesto brusco.

Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester e tre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forte: «C'è qui il signor ingegnere?». «Scior sì», rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume. L'ingegnere non parlò né si mosse. Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi, che mi piace ricordar qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero. «Signor ingegnere», diss'egli con le lagrime agli occhi, «adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei.» «Io?», rispose lo zio Piero alzando il viso. «Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre.» «Lo lasci stare, il mio padrone», brontolò la Cia. «Non è buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.» Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere e baci. L'ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un momento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e disse al medico: «Debbo andar solo?» «Desidera che ci sia anch'io?» «Sì.» «Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma tentare bisogna.» Il dottore mandò via le donne ch'erano ancora nell'alcova, poi si volse dall'entrata all'ingegnere e gli fè segno di venire. «Donna Luisa», diss'egli dolcemente. «C'è lo zio, il suo caro zio, che viene a pregarla.» Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fatti due passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, la baciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su le labbra, gemiti lunghi, inesprimibili. «Sì sì sì sì», diss'ella, quasi con un sorriso tenero nella voce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar il suo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che gli vuol tanto bene. Sì sì sì sì.» «Luisa», disse lo zio Piero, «quietati. Tutto è stato fatto quel che si poteva fare, adesso vieni con me, non star più qui, vieni con me.» «Zio zio zio», fece Luisa con una voce grossa di tenerezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno, cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tua Maria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il nostro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio.» Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo. «Lasciala in pace», diss'egli con voce soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: «Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio.

Che ci andiamo, Maria? Sì, sì, andiamo, andiamo». Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro al collo del vecchio, gli sussurrò: «un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo». Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime. «Guarda, guarda, zio», diss'ella. «Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!»

L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che gli s'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il riso e l'amore della casa. «Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.» «Basta!», disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch'è in Paradiso.» L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno. «No!», stridette, «no! non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!» Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il letto matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemiti che non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'ingegnere che tremava. «Passerà, passerà», diss'egli. «Bisogna aver pazienza. Adesso resto io.»

In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte. «E avvertire il signor don Franco?», diss'egli. Si parlò allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano, l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, a nome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisse il telegramma, in sala c'era un'altra persona, la povera Pasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accompagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, disperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva entrare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì, raccomandando quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangere in loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova e il prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pasotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini, piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entrare da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzo alla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina al Signore. «Che La guarda», soggiunse, «che La guarda, sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Signor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soa mammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Paradis!» Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: «L'à capii che ghe credi minga, mi, al So Paradis! El me Paradis l'è chi!». L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli usci singhiozzando. Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usciva più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare.

A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto.

L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare. Silenzio. «Maledetto lago!», fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.


PARTE SECONDA - 10. Esüsmaria, sciora Lüisa! (parte 2)

Aveva l'occhio freddo, la persona eretta. Raccolta in un solo pensiero, disprezzò la pioggia scrosciante che le batteva sul capo e sulle spalle, che la cingeva d'un torbido velo e di strepito. Le piaceva, forse, quella passione delle cose intorno alla sua propria. Discendeva lenta lenta, con l'ombrello chiuso, stringendone forte il manico, come fosse stato la impugnatura d'un'arma. La scalinata è un po' tortuosa, bisogna scendere alquanti scalini prima di vederne il fondo. Giunta sulla svolta, scorse la portantina, ferma. I due barcaiuoli pigliavano il posto di due portatori. Luisa discese fin dove si spandono sopra la scalinata i rami d'un gran noce. Lì si fermò, proprio nel momento in cui i portatori della marchesa cominciavano a salire. Tutto andava bene. Pasotti e don Giuseppe, salendo dietro la portantina con l'ombrello aperto, non potevano vederla. I portatori, giunti che fossero a lei, bisognava che si fermassero, che si facessero da banda per lasciarle il passo.

Quando si avvicinarono, riconobbe i due ch'erano alla testa della portantina, un fratello d'Ismaele e un cugino della Veronica. A quattro passi accennò loro, con un gesto imperioso, di fermarsi. Obbedirono immediatamente, posarono la portantina a terra e così fecero, senza saperne il perché, i due portatori che seguivano. Pasotti alzò l'ombrello, vide Luisa, fece un atto di sorpresa, un cipiglio nero; afferrò don Giuseppe, lo trasse da banda per lasciarla passare, non sospettando che l'incontro fosse premeditato. Ma Luisa non si mosse. «Ella non credeva incontrarmi, signor Pasotti», disse a voce alta. La marchesa mise il capo fuori, la ravvisò, si ritrasse dicendo con qualche vigor nuovo nella sua voce floscia: «Avanti!»

In quel momento partirono dall'alto del sagrato acute, disperate grida: «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!». Luisa non udì. Pasotti aveva irosamente gridato ai portatori «avanti!» e i portatori riprendevano le stanghe.

«Avanti pure!», diss'ella, risoluta di mettersi a fianco della portantina. «Non ho a dire che due parole.» Se Pasotti e la vecchia marchesa avevano prima immaginato lagrime e suppliche, dovettero attendersi allora dal fiero viso e dalla vibrante voce ben altro.

«Parole, adesso?», fece Pasotti avanzandosi quasi minaccioso. «Sciora Lüisa! Sciora Lüisa!», si gridò da vicino con accento di strazio; e venne con le grida un rumor di passi precipitosi. Ma Luisa non parve udir niente. «Sì, adesso!», rispose a Pasotti con alterezza inesprimibile. «Io avverto, per mia bontà, questa signora...» «Sciora Lüisa!» Ella dovette pure interrompersi e voltarsi. Due, tre, quattro donne le furono addosso, stravolte, scarmigliate, singhiozzanti: «Che La vegna a cà subet! Che La vegna a cà subet!». Le facce, i pianti, le voci la strapparon d'un colpo fuori della sua passione, del suo proposito. Si avventò fra quelle donne esclamando: «Cosa c'è?». Ed esse sapevano solo ripetere con gli occhi schizzanti dall'orbita: «Che La vegna a cà! Che La vegna a cà!». «Ma cosa c'è, stupide?» «La Soa tosa, la Soa tosa!» Ella gridò come pazza: «La Maria? La Maria? Cosa? Cosa?», udì fra i singhiozzi nominar il lago, cacciò uno strido e, apertasi la via come una fiera, si slanciò su per la scalinata. Quelle donne non poterono tenerle dietro, ma sul sagrato ce ne erano altre, malgrado la pioggia, che strillavano e piangevano. Luisa si sentì mancare, precipitò a terra sull'ultimo scalino. Le donne accorsero a lei, dieci mani la presero, la sollevarono. Urlò: «Dio, è morta?». Qualcuno rispose: «No, no!». «Il medico?», diss'ella ansando. «Il medico?». Molte voci risposero che c'era. Ella parve riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa. Otto o dieci persone si precipitarono dietro a lei. Due sole poterono seguirla. Volava. Al cimitero incontrò Ismaele e un altro, gridò appena li vide: «È viva? È viva?». Il compagno d'Ismaele ritornò indietro di corsa per andar ad avvertire che la madre veniva. Ismaele piangeva, seppe solamente rispondere: «Esüsmaria, sciora Luisa!», e fece atto di trattenerla. Luisa lo urtò freneticamente via, passò oltre, seguita da lui che aveva perduta la testa e adesso le gridava dietro, correndo: «L'è forsi nient! l'è forsi nient!». Pareva che la pioggia dirotta, continua, eguale, lo smentisse piangendo. Giunta ansante sul sagrato di Oria, Luisa ebbe ancora la forza di gridare: «Maria! Maria mia!». La finestra dell'alcova era aperta. Udì la Cia che piangeva ed Ester che la sgridava. Alcune persone fra le quali il professor Gilardoni le uscirono incontro. Il professore teneva le mani giunte e piangeva silenziosamente, pallido come un cadavere. Gli altri bisbigliavano: «Coraggio! Speriamo!». Ella fu per cadere, esausta. Il professore le cinse la vita con un braccio, la trasse su per le scale che eran gremite di gente, come pure il corridoio, al primo piano. Luisa passò, quasi portata di peso, fra voci affannose di conforto: «Coraggio, coraggio! Chi sa! Chi sa!». All'entrata della camera dell'alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò sola. Avevan dovuto accendere il lume perché nell'alcova, causa la pioggia, faceva scuro. La povera dolce Ombretta posava nuda sul letto cogli occhi semiaperti e la bocca pure semiaperta. Il viso era leggermente roseo, le labbra nerastre, il corpo di una lividezza cadaverica. Il dottore, aiutato da Ester, tentava la respirazione artificiale, portando le piccole braccia sopra il capo e lungo i fianchi, alternativamente; facendo pressioni sull'addome. «Dottore? Dottore?», singhiozzò Luisa. «Facciamo il possibile», rispose il dottore, grave. Ella si precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura, li coperse di baci forsennati. Allora Ester fu presa da un tremito. «No no!», fece il dottore. «Coraggio, coraggio!» «A me», esclamò Luisa. Il dottore l'arrestò con un gesto e fece segno ad Ester di sostare. Si chinò sul visino di Maria, le mise la bocca sulla bocca, respirò più volte profondamente, si rialzò. «Ma è rosea, è rosea!», sussurrò Luisa ansando. Il dottore sospirò in silenzio, accese un cerino, lo accostò alle labbra di Maria. Tre o quattro donne che pregavano ginocchioni si alzarono, si accostarono al letto palpitanti, trattenendo il respiro. L'uscio della sala era aperto; altri volti si affacciarono di là, silenziosi, intenti. Luisa, inginocchiata accanto al letto, teneva gli occhi fissi alla fiamma. Una voce mormorò:

«Si muove». Ester, dritta dietro Luisa, scosse il capo. Il dottore spense il cerino. «Lana calda!», diss'egli. Luisa si precipitò fuori e il dottore riprese i movimenti delle braccia. Poi, quando Luisa ritornò con la lana riscaldata, egli da un lato, ella dall'altro si diedero a strofinar forte il petto e il ventre della piccina. Dopo un po', vedendo il pallore, il viso contraffatto di Luisa, il medico fece segno ad una ragazza di pigliarne il posto. «Ceda, ceda», diss'egli perché Luisa aveva fatto un gesto di protesta. «Sono stanco anch'io. Non è possibile.» Luisa scosse il capo senza parlare continuando l'opera sua con energia convulsa. Il dottore alzò silenziosamente le spalle e le sopracciglia, cedette il proprio posto alla ragazza e ordinò a Ester di far riscaldare dell'altra lana per coprirne le gambe della bambina. Ester andò, fece lei, perché la Veronica, appena successo il caso, era sparita, non si trovava più. Nel corridoio e sulle scale la gente discuteva il fatto, il come, il dove. Quando passò Ester tutti le domandarono: «E così? E così?». Ester fece un gesto sconsolato, passò senza rispondere. Poi le discussioni ricominciarono a mezza voce. Non si sapeva per quanto tempo la bambina fosse rimasta nell`acqua. Durante la furia del temporale un tale Toni Gall si trovava nelle stalle dietro casa Ribera. Gli venne in mente che il battello del signor ingegnere fosse legato male e potesse fracassarsi ai muri della darsena. Discese a salti, vide aperto l'uscio della darsena ed entrò. Il battello ballava spaventosamente, inondato dagli sprazzi delle onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s'era posto di traverso, avendo la poppa quasi addosso al muro. In faccia all'uscio che mette dalla via pubblica nella darsena, corre un andito dal quale due scalette scendono all'acqua, la prima di fianco alla prora della barca, la seconda di fianco alla poppa. Il Toni Gall discese per la scaletta seconda onde accorciare la catena di poppa. Là, fra la barca e l'ultimo scalino, dov'eran sessanta o settanta centimetri d'acqua, vide fluttuare il corpicino di Maria col dorso a galla e il capo sott'acqua. Nel trarla dall'acqua scorse nel fondo una barchetta di metallo. Portò su la bambina gridando con la sua terribile voce, fece correre tutto il paese e, per fortuna, anche il medico, che si trovava a Oria, aiutò Ester a spogliar la povera creatura che non dava più segni di vita. Con chi era ella stata prima di scendere in darsena? Con la Veronica no, perché la Veronica era stata veduta entrar nel ripostiglio dei vasi dietro la casa con la sua guardia di finanza prima che Luisa uscisse. Con Ester o con il professore neppure. Ester l'aveva mandata a pregare nella camera dell'alcova e poi non l'aveva veduta più. La Cia stava a lavorare e l'ingegnere a scrivere quando avevano udito le grida formidabili del Toni Gall. Maria doveva esser discesa in darsena dalla camera dell'alcova per mettere la sua barchetta nell'acqua e fatalmente avea trovato aperta la porta di casa, aperto l'uscio della darsena. Il Toni Gall era d'opinione che avesse passato qualche minuto nell'acqua perché galleggiava discosto dal luogo dove la barchetta giaceva nel fondo. Egli descriveva per la centesima volta la sua scoperta spaventosa stando in sala con la Cia, con l'ingegnere, il professore ed altri del paese. Tutti singhiozzavano, meno lo zio Piero. Seduto sul canapè dove prima stavano il Gilardoni ed Ester, pareva impietrato. Non aveva una lagrima, non aveva una parola. Le chiacchiere del Toni Gall gli davano evidentemente noia, ma taceva. La sua nobile fisionomia era piuttosto solenne e grave che turbata. Pareva ch'egli vedesse davanti a sé l'ombra del Fato antico. Neppure domandava notizie; si capiva che non aveva speranza. E si capiva che il suo dolore era ben diverso da quelle chiassose nervosità passeggere che gli si agitavano intorno. Era il dolore muto, composto, dell'uomo savio e forte. Dall'uscio aperto dell'alcova venivan voci ora d'interrogazione ora di comando. Nessuno poté però dire, per un'ora e mezzo, di aver udita la voce di Luisa. Qualche volta venivan pure voci trepide, quasi liete. Pareva a qualcuno, là dentro, notare un moto, un alito, un tepor di vita. Allora tutti quelli che eran fuori accorrevano. Lo zio Piero volgeva il capo verso l'uscio dell'alcova e solo in quei momenti si disordinava un poco nel viso. Pur troppo vide ogni volta la gente ritornarsene lentamente, in un silenzio accorato. Passarono le cinque. Il tempo durando piovoso, la luce mancava. Alle cinque e mezzo si udì finalmente la voce di Luisa. Fu uno strido acuto, inenarrabile, che agghiacciò il sangue nelle vene di tutti. Rispose la voce del dottore con un accento di premurosa protesta. Si seppe che il dottore aveva fatto un gesto come per dire: «oramai è inutile: desistiamo», e che al grido di lei aveva ripreso il lavoro.

Poi, nel lamento monotono che la pioggia minuta e fitta metteva a tutte le finestre aperte, il silenzio della casa parve divenuto più sepolcrale. La sala, il corridoio andavano diventando bui, vi si andò avvivando il debole chiaror di candele che usciva dall'alcova. La gente cominciò a ritirarsi, un'ombra dopo l'altra, silenziosamente, in punta di piedi. Si udivano poi sul ciottolato della via gli scarponi pesanti, passi senza voci. La Cia si avviò pian piano al suo padrone, gli sussurrò all'orecchio se non volesse prendere qualche cosa. Egli la fece tacere con un gesto brusco.

Dopo le sette, essendo partiti tutti gli estranei alla famiglia meno il Toni Gall, Ismaele, il professore, l'Ester e tre o quattro donne ch'erano nell'alcova, si udirono dei gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani. Il dottore entrò in sala. Non ci si vedeva. Urtò in una sedia e disse forte: «C'è qui il signor ingegnere?». «Scior sì», rispose il Toni Gall e andò a pigliar un lume. L'ingegnere non parlò né si mosse. Il Toni Gall ritornò presto con un lume e il dottor Aliprandi, che mi piace ricordar qui come un franco galantuomo, una bella mente e un nobile cuore, si avvicinò al canapè dove sedeva lo zio Piero. «Signor ingegnere», diss'egli con le lagrime agli occhi, «adesso bisogna che faccia qualche cosa Lei.» «Io?», rispose lo zio Piero alzando il viso. «Sì, bisogna almeno cercare di condurla via. Bisogna che venga Lei e ci metta una parola. Lei è come un padre. Questi sono i momenti del padre.» «Lo lasci stare, il mio padrone», brontolò la Cia. «Non è buono per queste cose. Ci soffre e niente altro.» Adesso si udivano, insieme ai gemiti, voci tenere e baci. L'ingegnere puntò i pugni sul canapè e rimase un momento a capo chino. Poi si alzò, non senza stento, e disse al medico: «Debbo andar solo?» «Desidera che ci sia anch'io?» «Sì.» «Va bene. Del resto sarà inutile. Forzare non vorrei ma tentare bisogna.» Il dottore mandò via le donne ch'erano ancora nell'alcova, poi si volse dall'entrata all'ingegnere e gli fè segno di venire. «Donna Luisa», diss'egli dolcemente. «C'è lo zio, il suo caro zio, che viene a pregarla.» Il vecchio entrò col viso pacato ma vacillando. Fatti due passi nella camera si fermò. Luisa era seduta sul letto con la sua bambina morta in braccio, la stringeva, la baciava sul viso e sul collo, gemeva, premendovi su le labbra, gemiti lunghi, inesprimibili. «Sì sì sì sì», diss'ella, quasi con un sorriso tenero nella voce. «È il tuo zio, cara, è il tuo zio che viene a trovar il suo tesoro, la sua Ombretta, la sua Ombretta Pipì che gli vuol tanto bene. Sì sì sì sì.» «Luisa», disse lo zio Piero, «quietati. Tutto è stato fatto quel che si poteva fare, adesso vieni con me, non star più qui, vieni con me.» «Zio zio zio», fece Luisa con una voce grossa di tenerezza, senza guardarlo, stringendosi il cadavere sul seno, cullandolo. «Vieni qua, vieni qua, vieni qua dalla tua Maria. Vieni, vieni qua da noi che sei il nostro zio, il nostro caro zio. No, cara, no, cara, non ci abbandona mica il nostro zio.» Lo zio tremò, il dolore lo vinse un momento, gli strappò un singhiozzo. «Lasciala in pace», diss'egli con voce soffocata. Essa non parve udirlo, riprese: «Andiamo noi, cara, andiamo noi dal nostro zio.

Che ci andiamo, Maria? Sì, sì, andiamo, andiamo». Si lasciò sdrucciolare dal letto a terra si avviò verso lo zio stringendosi al petto col braccio sinistro la sua dolce morta, passò l'altro al collo del vecchio, gli sussurrò: «un bacio, un bacio alla tua Ombretta, un bacio solo, uno solo». Lo zio Piero si chinò, baciò il visetto già deturpato amaramente dalla morte, lo bagnò di due grosse lagrime. «Guarda, guarda, zio», diss'ella. «Dottore, porti qua il lume. Sì sì, non sia cattivo, dottore. Guarda, zio, che tesoro. Dottore!»

L'Aliprandi era riluttante e tentò resistere ancora; ma quel dolore folle aveva qualche cosa di sacro che gli s'impose. Obbedì, prese il lume e lo accostò al piccolo cadavere che faceva con quegli occhi semiaperti e quelle pupille dilatate una pietà immensa ed era stato la Maria, la Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio, il riso e l'amore della casa. «Guarda, zio, questo piccolo petto come l'abbiamo maltrattato, povero tesoro, come gli abbiamo fatto male con tanto strofinare. La tua mamma è stata, sai, Maria, la tua brutta mamma e quel cattivo dottore lì.» «Basta!», disse il dottore risolutamente, posando il lume sulla scrivania. «Parli pure alla Sua bambina, ma non a questa, a quella ch'è in Paradiso.» L'impressione fu terribile. Ogni tenerezza sparì dal viso di Luisa. Ella indietreggiò cupa, stringendosi la sua morta sul seno. «No!», stridette, «no! non in Paradiso! È mia! È mia! Dio è cattivo! No! Non gliela do!» Indietreggiò indietreggiò sin dentro all'alcova, tra il letto matrimoniale e il lettuccio, ricominciò i lunghi gemiti che non parevano umani. L'Aliprandi fece uscire l'ingegnere che tremava. «Passerà, passerà», diss'egli. «Bisogna aver pazienza. Adesso resto io.»

In sala c'era Ismaele che prese il professore a parte. «E avvertire il signor don Franco?», diss'egli. Si parlò allo zio, si decise di mandar un telegramma da Lugano, l'indomani mattina perché oramai era troppo tardi, a nome dello zio, parlando di malattia grave. Ester scrisse il telegramma, in sala c'era un'altra persona, la povera Pasotti corsa lì mentre suo marito era andato ad accompagnare la marchesa a Cressogno. Ella singhiozzava, disperata d'aver dato quella barchetta a Maria. Voleva entrare da Luisa ma il dottore, udendo pianger forte, uscì, raccomandando quiete, silenzio. La Pasotti andò a piangere in loggia. Con lei erano venuti il curato don Brazzova e il prefetto della Caravina che avevan pranzato a casa Pasotti. Più tardi venne il curato di Castello, l'Introini, piangendo come un ragazzo. Volle assolutamente entrare da Luisa malgrado il medico e s'inginocchiò in mezzo alla camera, supplicò Luisa di donar la sua bambina al Signore. «Che La guarda», soggiunse, «che La guarda, sciora Lüisa, se La voeur propi minga donàghela al Signor, che ghe La dona a la Soa nonna Teresa, a la Soa mammin de Lee, che ghe l'avarà inscì cara, sü in Paradis!» Luisa fu intenerita, non dalle parole, ma dal pianto e rispose con dolcezza: «L'à capii che ghe credi minga, mi, al So Paradis! El me Paradis l'è chi!». L'Aliprandi fece al curato un gesto di preghiera e quegli usci singhiozzando. Il medico parti da Oria verso la mezzanotte insieme al professore. Tutta la casa taceva, neppur dall'alcova usciva più alcuna voce. L'Aliprandi aveva passate le ultime due ore in sala, col professore ed Ester, senza udir mai un grido né un gemito né un movimento qualsiasi. Era andato due volte a guardare. Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto con i gomiti sulle ginocchia e la faccia tra le mani, contemplando il lettuccio che l'Aliprandi non poteva vedere. A lui questa immobilità nuova dispiaceva quasi più che la sovreccitazione di prima. Poiché Ester intendeva restare tutta la notte, le raccomandò che tentasse, con discrezione, di scuoter la sua amica, di farla piangere e parlare.

A vegliare con Ester si trattenevano altre donne del paese e Ismaele che doveva partir per Lugano alle cinque. Lo zio Piero era andato a letto.

L'Aliprandi e il professore si fermarono sul sagrato a guardar la finestra illuminata dell'alcova, ad ascoltare. Silenzio. «Maledetto lago!», fece il dottore, pigliando il braccio del suo compagno e rimettendosi in via. Certo egli pensava, così dicendo, alla dolce creaturina che il lago aveva uccisa, ma v'era pure nel suo cuore il dubbio che altri guai fossero in cammino, che l'opera sinistra delle acque perfide non fosse ancora compiuta; e v'era una pietà immensa per il padre, per il povero padre che non sapeva ancora niente.