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Anna Karenina, Parte Terza: Capitolo VI

Parte Terza: Capitolo VI

Falciarono il Maškin Verch, terminarono le ultime file, indossarono i gabbani e andarono allegramente verso casa.

Levin montò a cavallo e, congedatosi con rammarico dai contadini, prese la via del ritorno. Dall'alto si voltò a guardarli; non si vedevano più nella nebbia che saliva dal basso; si udivano solo le grosse voci allegre, il riso e il suono delle falci che si cozzavano. Sergej Ivanovic da tempo aveva finito di pranzare e stava sorbendo acqua e limone e ghiaccio in camera sua, guardando le riviste e i giornali ricevuti proprio allora con la posta, quando Levin, coi capelli arruffati e appiccicati, la schiena e il petto anneriti e bagnati dal sudore, irruppe in camera con un allegro vociare.

— Abbiamo finito tutto il prato!

Ah, com'è bello, meraviglioso! E tu come te la sei passata? — disse Levin del tutto dimentico della conversazione poco piacevole della sera prima. — Dio mio!

cosa sembri — disse Sergej Ivanovic, voltandosi a guardare, scontento sulle prime, il fratello. — Sì, la porta, la porta, chiudila! — gridò.— Ne avrai fatte entrare certamente una dozzina. Sergej Ivanovic non poteva sopportare le mosche e nella sua stanza apriva le finestre solo di notte e chiudeva con cura le porte.

— Eh, via, neppure una.

E se le ho fatte entrare, le acchiapperò. Tu non puoi immaginare, che piacere! E tu come hai passato la giornata? — Bene.

Ma hai forse falciato tutto il giorno? Avrai una fame da lupo, penso. Kuz'ma ti ha preparato tutto. — No, non ho voglia di mangiare.

Ho mangiato là. Ma ecco, vado a lavarmi. — Bè, vai, vai; vengo subito da te — disse Sergej Ivanovic, scotendo il capo nel guardare il fratello.

— E fai presto — aggiunse sorridendo e, riuniti i suoi libri, si preparò a muoversi. A un tratto anche egli era diventato allegro e non voleva separarsi dal fratello. — Dimmi, quando ha piovuto, dov'eri? — Ma quale pioggia?

Appena poche gocce. Allora vengo subito. Così hai passato bene la giornata? Su, benissimo. — E Levin andò a vestirsi. Dopo cinque minuti i due fratelli si ritrovavano in sala da pranzo.

Sebbene a Levin sembrasse di non aver appetito, e si fosse seduto a tavola solo per non dispiacere Kuz'ma, quando cominciò a mangiare, il pranzo gli parve straordinariamente gustoso. Sergej Ivanovic guardava sorridendo. — Ah, già, c'è una lettera per te — disse.

— Kuz'ma, portala giù, per piacere. E guarda di chiudere la porta. La lettera era di Oblonskij.

Levin la lesse ad alta voce. Oblonskij scriveva da Pietroburgo: “Ho ricevuto una lettera da Dolly; è a Ergušovo e là le cose non vanno troppo bene. Ti prego, va' da lei e aiutala un po' con il tuo consiglio; tu sai tutto. Sarà lieta di vederti. È proprio sola, poverina. Mia suocera con gli altri è ancora all'estero”. — Bene!

Andrò certamente da loro — disse Levin. — Anzi, andremo insieme. Lei è così simpatica. Non è vero? — Stanno lontano da qui?

— Trenta verste.

Forse anche quaranta. Ma la strada è ottima. Andremo comodamente. — Sono molto contento — disse Sergej Ivanovic, sempre sorridendo.

La presenza del fratello minore lo predisponeva subito all'allegria — Eh, che appetito che hai!

— disse, guardando il volto abbronzato rosso-scuro e il collo di lui chino sul piatto. — Ottimo!

Non puoi credere che cura utile contro ogni balordaggine. Voglio arricchire la medicina di un termine nuovo: Arbeitskur . — Su, questo a te non occorre, mi pare.

— Già, ma alle varie specie di malati di nervi, sì.

— E già, bisognerebbe provarlo.

Avrei voluto venire alla fienagione per vederti, ma il caldo era così insopportabile che non sono andato più in là del bosco. Son rimasto un po' a sedere e attraverso il bosco sono andato al villaggio, ho incontrato la tua governante e l'ho saggiata un po' circa l'opinione che i contadini hanno di te. A quanto ho potuto capire, non approvano questo. Ha detto: “non è affar da signori”. In genere, mi pare che, nella concezione popolare, la manifestazione di una certa attività che essi chiamano “da signori” sia molto ben delimitata. E non ammettono che i signori escano fuori dal quadro delle loro concezioni. — Forse; ma questo è un tale godimento, quale non avevo mai provato in tutta la vita.

E non c'è nulla di male. Vero? — rispose Levin. — Che farci se a loro non va? Del resto, io credo che non importi nulla. Eh? — In generale — proseguì Sergej Ivanovic — come vedo, sei soddisfatto della tua giornata.

— Molto soddisfatto.

Abbiamo falciato l'intero prato. E sapessi con che razza di vecchietto ho fatto amicizia! Non te lo puoi immaginare: un incanto! — Dunque, sei contento della tua giornata.

E io pure. Per primo, ho risolto due mosse di scacchi di cui una è molto carina, si apre con un pedone, te la mostrerò. E poi ho pensato alla nostra conversazione di iersera. — Cosa?

Alla conversazione di ieri? — disse Levin, socchiudendo beatamente gli occhi e riprendendo fiato dopo la fine del pasto, nell'impossibilità assoluta di ricordare quale fosse stata la conversazione del giorno innanzi. — Ti dimostrerò che hai ragione solo in parte.

Il nostro disaccordo consiste in questo: che tu poni come movente l'interesse personale, e io suppongo che ogni uomo che abbia un certo grado di cultura debba interessarsi del bene comune. Può anche darsi che tu abbia ragione, che sia più desiderabile un'attività materiale spronata dall'interesse. In generale tu sei una natura troppo primesautière , come dicono i francesi; per te o un'attività appassionata, energica, o niente. Levin udiva le parole del fratello, ma non capiva proprio nulla e non voleva capire.

Temeva solo che il fratello gli rivolgesse qualche domanda, perché allora sarebbe subito apparso che non lo ascoltava affatto. — Così è, amico mio — disse Sergej Ivanovic, toccandogli la spalla.

— Sì, s'intende.

Ma cosa mai! Io non mi intestardisco mica — rispose Levin con un colpevole sorriso infantile. “Ma di che si discuteva?

— pensava. — S'intende, ho ragione io ed ha ragione lui e tutto va benissimo. Ma debbo passare in amministrazione a dare gli ordini”. Si alzò stirandosi e sorridendo. Anche Sergej Ivanovic sorrise.

— Vuoi fare una passeggiata, andiamo insieme — disse, desideroso di non staccarsi dal fratello che emanava freschezza e vigore.

— Andiamo, passiamo pure in amministrazione, se ci devi andare. — Ah, Dio mio!

— gridò Levin così forte che Sergej Ivanovic si spaventò. — Che hai?

— E il braccio di Agaf'ja Michajlovna!

— disse Levin, battendosi la fronte. — Me n'ero proprio scordato! — Va molto meglio.

— Via, faccio una corsa da lei.

Non farai in tempo a metterti il cappello che sarò qui. E, correndo giù per la scala, fece risonare i tacchi come una raganella.


Parte Terza: Capitolo VI Part Three: Chapter VI Tercera parte: Capítulo VI

Falciarono il Maškin Verch, terminarono le ultime file, indossarono i gabbani e andarono allegramente verso casa.

Levin montò a cavallo e, congedatosi con rammarico dai contadini, prese la via del ritorno. Dall’alto si voltò a guardarli; non si vedevano più nella nebbia che saliva dal basso; si udivano solo le grosse voci allegre, il riso e il suono delle falci che si cozzavano. Sergej Ivanovic da tempo aveva finito di pranzare e stava sorbendo acqua e limone e ghiaccio in camera sua, guardando le riviste e i giornali ricevuti proprio allora con la posta, quando Levin, coi capelli arruffati e appiccicati, la schiena e il petto anneriti e bagnati dal sudore, irruppe in camera con un allegro vociare.

— Abbiamo finito tutto il prato!

Ah, com’è bello, meraviglioso! E tu come te la sei passata? — disse Levin del tutto dimentico della conversazione poco piacevole della sera prima. — Dio mio!

cosa sembri — disse Sergej Ivanovic, voltandosi a guardare, scontento sulle prime, il fratello. — Sì, la porta, la porta, chiudila! — gridò.— Ne avrai fatte entrare certamente una dozzina. Sergej Ivanovic non poteva sopportare le mosche e nella sua stanza apriva le finestre solo di notte e chiudeva con cura le porte.

— Eh, via, neppure una.

E se le ho fatte entrare, le acchiapperò. Tu non puoi immaginare, che piacere! E tu come hai passato la giornata? — Bene.

Ma hai forse falciato tutto il giorno? Avrai una fame da lupo, penso. Kuz’ma ti ha preparato tutto. — No, non ho voglia di mangiare.

Ho mangiato là. Ma ecco, vado a lavarmi. — Bè, vai, vai; vengo subito da te — disse Sergej Ivanovic, scotendo il capo nel guardare il fratello.

— E fai presto — aggiunse sorridendo e, riuniti i suoi libri, si preparò a muoversi. A un tratto anche egli era diventato allegro e non voleva separarsi dal fratello. — Dimmi, quando ha piovuto, dov’eri? — Ma quale pioggia?

Appena poche gocce. Allora vengo subito. Così hai passato bene la giornata? Su, benissimo. — E Levin andò a vestirsi. Dopo cinque minuti i due fratelli si ritrovavano in sala da pranzo.

Sebbene a Levin sembrasse di non aver appetito, e si fosse seduto a tavola solo per non dispiacere Kuz’ma, quando cominciò a mangiare, il pranzo gli parve straordinariamente gustoso. Sergej Ivanovic guardava sorridendo. — Ah, già, c’è una lettera per te — disse.

— Kuz’ma, portala giù, per piacere. E guarda di chiudere la porta. La lettera era di Oblonskij.

Levin la lesse ad alta voce. Oblonskij scriveva da Pietroburgo: “Ho ricevuto una lettera da Dolly; è a Ergušovo e là le cose non vanno troppo bene. Ti prego, va' da lei e aiutala un po' con il tuo consiglio; tu sai tutto. Sarà lieta di vederti. È proprio sola, poverina. Mia suocera con gli altri è ancora all’estero”. — Bene!

Andrò certamente da loro — disse Levin. — Anzi, andremo insieme. Lei è così simpatica. Non è vero? — Stanno lontano da qui?

— Trenta verste.

Forse anche quaranta. Ma la strada è ottima. Andremo comodamente. — Sono molto contento — disse Sergej Ivanovic, sempre sorridendo.

La presenza del fratello minore lo predisponeva subito all’allegria — Eh, che appetito che hai!

— disse, guardando il volto abbronzato rosso-scuro e il collo di lui chino sul piatto. — Ottimo!

Non puoi credere che cura utile contro ogni balordaggine. Voglio arricchire la medicina di un termine nuovo: Arbeitskur . — Su, questo a te non occorre, mi pare.

— Già, ma alle varie specie di malati di nervi, sì.

— E già, bisognerebbe provarlo.

Avrei voluto venire alla fienagione per vederti, ma il caldo era così insopportabile che non sono andato più in là del bosco. Son rimasto un po' a sedere e attraverso il bosco sono andato al villaggio, ho incontrato la tua governante e l’ho saggiata un po' circa l’opinione che i contadini hanno di te. A quanto ho potuto capire, non approvano questo. Ha detto: “non è affar da signori”. In genere, mi pare che, nella concezione popolare, la manifestazione di una certa attività che essi chiamano “da signori” sia molto ben delimitata. E non ammettono che i signori escano fuori dal quadro delle loro concezioni. — Forse; ma questo è un tale godimento, quale non avevo mai provato in tutta la vita.

E non c’è nulla di male. Vero? — rispose Levin. — Che farci se a loro non va? Del resto, io credo che non importi nulla. Eh? — In generale — proseguì Sergej Ivanovic — come vedo, sei soddisfatto della tua giornata.

— Molto soddisfatto.

Abbiamo falciato l’intero prato. E sapessi con che razza di vecchietto ho fatto amicizia! Non te lo puoi immaginare: un incanto! — Dunque, sei contento della tua giornata.

E io pure. Per primo, ho risolto due mosse di scacchi di cui una è molto carina, si apre con un pedone, te la mostrerò. E poi ho pensato alla nostra conversazione di iersera. — Cosa?

Alla conversazione di ieri? — disse Levin, socchiudendo beatamente gli occhi e riprendendo fiato dopo la fine del pasto, nell’impossibilità assoluta di ricordare quale fosse stata la conversazione del giorno innanzi. — Ti dimostrerò che hai ragione solo in parte.

Il nostro disaccordo consiste in questo: che tu poni come movente l’interesse personale, e io suppongo che ogni uomo che abbia un certo grado di cultura debba interessarsi del bene comune. Può anche darsi che tu abbia ragione, che sia più desiderabile un’attività materiale spronata dall’interesse. In generale tu sei una natura troppo primesautière , come dicono i francesi; per te o un’attività appassionata, energica, o niente. Levin udiva le parole del fratello, ma non capiva proprio nulla e non voleva capire.

Temeva solo che il fratello gli rivolgesse qualche domanda, perché allora sarebbe subito apparso che non lo ascoltava affatto. — Così è, amico mio — disse Sergej Ivanovic, toccandogli la spalla.

— Sì, s’intende.

Ma cosa mai! Io non mi intestardisco mica — rispose Levin con un colpevole sorriso infantile. “Ma di che si discuteva?

— pensava. — S’intende, ho ragione io ed ha ragione lui e tutto va benissimo. Ma debbo passare in amministrazione a dare gli ordini”. Si alzò stirandosi e sorridendo. Anche Sergej Ivanovic sorrise.

— Vuoi fare una passeggiata, andiamo insieme — disse, desideroso di non staccarsi dal fratello che emanava freschezza e vigore.

— Andiamo, passiamo pure in amministrazione, se ci devi andare. — Ah, Dio mio!

— gridò Levin così forte che Sergej Ivanovic si spaventò. — Che hai?

— E il braccio di Agaf’ja Michajlovna!

— disse Levin, battendosi la fronte. — Me n’ero proprio scordato! — Va molto meglio.

— Via, faccio una corsa da lei.

Non farai in tempo a metterti il cappello che sarò qui. E, correndo giù per la scala, fece risonare i tacchi come una raganella.