×

Utilizziamo i cookies per contribuire a migliorare LingQ. Visitando il sito, acconsenti alla nostra politica dei cookie.


image

Anna Karenina, Parte Terza: Capitolo III

Parte Terza: Capitolo III

— E sai, ho pensato a te — disse Sergej Ivanovic.

— Non c'è nulla di paragonabile a quello che avviene nel vostro distretto, a quanto dice quel dottore; ma non è mica sciocco quel giovane. E io ti ho detto e ti ripeto: non è bene che tu non vada alle riunioni e che in genere ti renda estraneo all'attività del consiglio distrettuale. Se le persone dabbene se ne allontanano, tutto andrà, s'intende, Dio sa come. Le tasse che si pagano, servono per gli stipendi, ma non vi sono scuole, né infermieri, né levatrici, né farmacie, non c'è nulla. — Ma io ho provato — rispose piano e svogliato Levin — non posso!

Ebbene, che fare? — Che cosa non puoi?

Io, confesso, non capisco. L'indifferenza, l'inesperienza, non le ammetto; possibile che sia solo pigrizia? — Né la prima, né la seconda, e nemmeno la terza.

Ho provato e credo di non poterci far nulla — disse Levin. Egli non prestava attenzione a quello che diceva il fratello.

Guardava l'aratura di là dal fiume, e scorgeva qualcosa di scuro senza riuscire a distinguere se fosse un cavallo o l'amministratore a cavallo. — Perché non puoi farci nulla?

Hai fatto una prova e secondo te non è andata bene e ti rassegni. Ma com'è che non hai amor proprio? — L'amor proprio — disse Levin, punto nel vivo dalle parole del fratello — io non lo capisco.

Se all'università mi avessero detto che gli altri capivano il calcolo integrale e io no, allora ci sarebbe entrato l'amor proprio. Ma qui bisogna prima esser convinti di avere delle speciali attitudini a queste cose e, quel che più conta, esser convinti che queste cose siano molto importanti. — Eh, già!

Che forse tutto ciò non è importante? — disse Sergej Ivanovic, tocco nel vivo perché il fratello non trovava importante quel che interessava lui e perché, evidentemente, non lo ascoltava quasi. — Non mi sembra importante, non mi tocca, che vuoi mai?...

— rispose Levin mentre s'accorgeva che quel che vedeva era l'amministratore, e l'amministratore, probabilmente, aveva mandato via gli operai dall'aratura. Essi voltavano gli aratri. «Possibile che abbiano già arato?» pensò. — Su, ma ascolta — disse il fratello maggiore, corrugando il suo bel viso intelligente — vi sono dei limiti a tutto.

È molto bello essere un originale e un uomo schietto e spregiare ogni falsità, questo lo so; ma ecco, quello che tu dici, o non ha senso, o ha un senso tutt'altro che buono. Come puoi trovare poco importante che questa popolazione che tu ami, come mi assicuri.... «Io non l'ho mai assicurato» pensò Konstantin Levin.

— ... muoia senza aiuti?

Queste mammane fanno morir di fame i bambini e il popolo marcisce nell'ignoranza e rimane in potere di un qualsiasi scribacchino, mentre tu hai in mano i mezzi per riparare a questo, e non te ne dài pensiero perché, secondo te, la cosa non è importante. — E Sergej Ivanovic gli pose il dilemma: — O sei così poco evoluto da non riuscire a intravedere tutto quello che puoi fare, o non vuoi rinunciare alla tua tranquillità, alla tua vanità o che so io, per fare ciò. Konstantin Levin sentiva che non gli restava ormai che dichiararsi vinto e confessare la mancanza di interesse per una causa comune.

E questo lo offendeva e lo addolorava. — E l'uno e l'altro — disse reciso — non vedo proprio come si possa....

— Come?

Non si può, ripartendo bene il denaro, creare un'assistenza medica? — Non si può, a quanto pare.

Per le quattromila verste quadrate del nostro distretto, con le nostre zazory , con le tempeste di neve, con la stagione dei lavori, non vedo la possibilità di dare in ogni luogo un'assistenza medica. E poi, in genere, io non credo alla medicina. — Via, permettimi, questo è ingiusto.... Io ti porterò migliaia di esempi... via, e le scuole?

— Perché le scuole?

— Che dici?

Può esservi mai dubbio sull'utilità delle scuole? Se la scuola è buona per te, lo è anche per gli altri. Konstantin Levin si sentiva moralmente messo con le spalle al muro e perciò si accalorava dando prova, senza volerlo, della sua indifferenza al benessere collettivo.

— Può darsi che tutto questo vada bene; ma io, perché devo curarmi di istituire dei posti di assistenza medica di cui non farò mai uso, e delle scuole dove non manderò certo i miei figli, dove neanche i contadini vorranno mandare i loro e dove non credo ancora che proprio ci si debbano mandare?

— disse.

Questo modo inatteso di vedere la questione disorientò Sergej Ivanovic per un attimo; ma subito egli preparò un nuovo piano di attacco.

Stette un po' di tempo in silenzio, tirò fuori un amo, lo gettò in acqua e, sorridendo, si volse al fratello.

— Su, permettimi.... In primo luogo, il posto di assistenza medica è servito anche a te.

Ecco, noi per Agaf'ja Michajlovna abbiamo mandato a chiamare il medico condotto. — Già ma io penso che il braccio resterà storto.

— Questo è ancora da vedere.... Poi un contadino, un lavoratore istruito ti è più utile e più accetto.

— No, domanda a chi vuoi — rispose deciso Konstantin Levin — uno che sappia leggere e scrivere, come lavoratore, è peggiore degli altri.

E le strade non si possono fare aggiustare; e i ponti, appena messi a posto, li portano via. — Del resto — disse, aggrottando le sopracciglia Sergej Ivanovic, che non amava le contraddizioni e particolarmente quelle che saltavano continuamente di palo in frasca e senza alcuna connessione introducevano nella discussione elementi nuovi, così che non si poteva sapere a quali di essi rispondere — del resto non si tratta di questo.

Permetti. Riconosci che l'istruzione è un bene per il popolo? — Lo riconosco — disse Levin senza riflettere, e subito pensò di non aver detto quello che pensava.

Sentiva che, riconoscendo ciò, gli sarebbe stato dimostrato che diceva delle sciocchezze che non avevano alcun senso. Come questo gli sarebbe stato dimostrato, non lo sapeva, ma sapeva che, senza dubbio, gli sarebbe stato dimostrato, a fil di logica, e aspettava questa dimostrazione. La dimostrazione fu più semplice di quella che Levin si aspettava.

— Se riconosci come un bene l'istruzione — disse Sergej Ivanovic — allora tu, come uomo onesto, non puoi non amare e non aderire a quest'opera e non desiderare di lavorare per essa.

— Ma io ancora non la riconosco buona — disse arrossendo Levin.

— Come?

O ora hai detto di sì.... — Cioè, non la riconosco né buona né possibile.

— Questo non lo puoi sapere, senza aver prima fatto tutti i tentativi.

— Su, ammettiamo — disse Levin, sebbene non lo ammettesse per nulla — ammettiamo pure che sia così; ma io tuttavia non vedo la necessità di dovermi affannare per questo.

— Sarebbe a dire?

— No, giacché abbiamo preso a parlarne, spiegamelo dal lato filosofico — disse Levin.

— Non capisco cosa c'entri qui la filosofia — disse Sergej Ivanovic, con un tono che a Levin parve tale da non volergli riconoscere il diritto di discutere di filosofia, e questo lo irritò.

— Ecco come — disse, accalorandosi.

— Io penso che il movente di tutte le nostre azioni sia l'interesse personale. Ora nelle istituzioni provinciali io, nella mia qualità di nobile, non ci vedo nulla che cooperi al mio benessere. Le strade non diventano migliori e, se pure rimangono quali sono, i miei cavalli mi portano anche per quelle cattive. Del dottore e del posto di assistenza medica non ho bisogno; il giudice conciliatore non mi occorre; io non mi rivolgo e non mi rivolgerò mai a lui. Le scuole non solo non mi occorrono, ma mi sono persino dannose, come ti ho detto. Per me le istituzioni distrettuali hanno il solo scopo di obbligarmi a pagare diciotto copeche per desjatina , e farmi andare in città a pernottare con le cimici e ascoltare ogni sorta di sciocchezze e brutture: ed in questo l'interesse personale non mi stimola affatto. — Permettimi — interruppe con un sorriso Sergej Ivanovic — l'interesse personale non ci stimolava a lavorare per la liberazione dei contadini, eppure noi abbiamo lavorato!

— No — interruppe, sempre più accalorandosi, Konstantin.

— La liberazione dei contadini era un'altra cosa. Lì c'era, sì, un interesse personale. Volevamo scrollar da noi questo giogo che opprimeva tutti noi uomini giusti. Ma essere delegato, discutere sulla quantità necessaria di cloache e sulla maniera di far passare le fogne in una città in cui non vivo; essere giurato e giudicare un contadino che ha rubato un prosciutto e ascoltare per sei ore di seguito tutte le sciocchezze che inventano i difensori e i procuratori e star lì a sentire come il presidente interroga il vecchio Alëška, lo scemo che sta da me: «Confessate, voi, signor imputato, il furto del prosciutto?». «Eh?». Konstantin Levin aveva già smarrito il filo del discorso e s'era messo a rifare il presidente e Alëška lo scemo, e gli pareva che tutto questo riguardasse la questione.

Ma Sergej Ivanovic alzò le spalle.

— Ebbene, con questo che vuoi dire?

— Io voglio dire che quei diritti che mi... che toccano il mio interesse personale, io li difenderò sempre con tutte le mie forze; che quando eravamo studenti e i gendarmi facevano le perquisizioni e leggevano le nostre lettere, io ero pronto con tutte le mie forze a difendere i miei diritti, a difendere il mio diritto alla libertà e alla cultura.

Capisco il servizio militare perché interessa la sorte dei miei figli, dei miei fratelli e di me stesso; sono pronto a giudicare tutto quanto mi riguarda; ma giudicare se e come distribuire quarantamila rubli di denaro del distretto o giudicare Alëška lo scemo, io questo non lo capisco e non posso farlo. Konstantin Levin parlava come se si fosse rotta la diga che tratteneva la sua loquela; Sergej Ivanovic sorrideva.

— E domani potrai essere giudicato tu stesso: ti piacerebbe forse essere giudicato dalla vecchia Camera criminale?

— Io non sarò giudicato.

Io non sgozzerò nessuno, e non ne avrò bisogno. Su via! — continuò, passando di nuovo a cosa che non riguardava affatto la questione — le nostre istituzioni distrettuali e tutto il resto somigliano alle piccole betulle che noi ficchiamo in terra dovunque il giorno di Pentecoste, perché sembrino un bosco venuto su spontaneamente in Europa; ma io non posso innaffiare e credere in queste piccole betulle con tutta l'anima. Sergej Ivanovic alzò le spalle, esprimendo con questo gesto la sua meraviglia per queste betulle spuntate ora nella questione chi sa mai da quale parte; mentre aveva capito subito a cosa volesse alludere il fratello.

— Scusami, ma così non si può ragionare — osservò.

Ma Konstantin Levin voleva giustificare quella manchevolezza che riconosceva in se stesso, l'indifferenza cioè verso il bene comune e continuò.

— Io penso — disse che nessuna attività può essere salda se non ha le radici nell'interesse personale.

Questa è una verità d'ordine generale, filosofico — disse, ripetendo con intenzione la parola «filosofico», quasi desiderasse mostrare che anche lui aveva il diritto, come tutti, di parlare di filosofia. Sergej Ivanovic ancora una volta sorrise.

«E anche lui — pensò — ha una certa filosofia al servizio delle proprie tendenze». — Su via, la filosofia lasciala stare — disse.

— Il compito della filosofia di tutti i secoli consiste proprio nel trovare il legame indispensabile fra l'interesse personale e quello generale. Ma questo non riguarda la questione, mentre, per quel che la concerne, io devo soltanto correggere il tuo paragone. Le betulle non sono conficcate, ma alcune sono piantate e altre seminate; e a queste ultime ci si deve rivolgere con maggior cura. Soltanto i popoli che guardano all'avvenire, soltanto quelli si possono chiamare storici, quelli che sentono ciò che è importante e significativo nelle loro istituzioni, e ne hanno cura. E Sergej Ivanovic trasportò la questione sul terreno storico-filosofico inaccessibile a Konstantin Levin, dimostrandogli tutta l'infondatezza del suo punto di vista.

— Che questo poi non ti piaccia, questo, perdonami, fa parte della nostra pigrizia russa e del barstvo , e io sono sicuro che, quanto a te, si tratta di una deviazione momentanea che passerà.

Konstantin taceva.

Sentiva d'essere sconfitto da ogni lato, ma nello stesso tempo sentiva che quello che egli intendeva dire non era stato capito dal fratello, non sapeva bene perché: perché non aveva saputo esporlo lui chiaramente o perché il fratello non aveva voluto o non aveva potuto capirlo? Ma non stette a riflettere e, senza replicare, cominciò a pensare a una faccenda del tutto diversa, tutta sua personale. Sergej Ivanovic avvolse l'ultimo amo, slegò il cavallo e insieme si avviarono.


Parte Terza: Capitolo III Part Three: Chapter III Terceira parte: Capítulo III

— E sai, ho pensato a te — disse Sergej Ivanovic.

— Non c’è nulla di paragonabile a quello che avviene nel vostro distretto, a quanto dice quel dottore; ma non è mica sciocco quel giovane. E io ti ho detto e ti ripeto: non è bene che tu non vada alle riunioni e che in genere ti renda estraneo all’attività del consiglio distrettuale. Se le persone dabbene se ne allontanano, tutto andrà, s’intende, Dio sa come. Le tasse che si pagano, servono per gli stipendi, ma non vi sono scuole, né infermieri, né levatrici, né farmacie, non c’è nulla. — Ma io ho provato — rispose piano e svogliato Levin — non posso!

Ebbene, che fare? — Che cosa non puoi?

Io, confesso, non capisco. L’indifferenza, l’inesperienza, non le ammetto; possibile che sia solo pigrizia? — Né la prima, né la seconda, e nemmeno la terza.

Ho provato e credo di non poterci far nulla — disse Levin. Egli non prestava attenzione a quello che diceva il fratello.

Guardava l’aratura di là dal fiume, e scorgeva qualcosa di scuro senza riuscire a distinguere se fosse un cavallo o l’amministratore a cavallo. — Perché non puoi farci nulla?

Hai fatto una prova e secondo te non è andata bene e ti rassegni. Ma com’è che non hai amor proprio? — L’amor proprio — disse Levin, punto nel vivo dalle parole del fratello — io non lo capisco.

Se all’università mi avessero detto che gli altri capivano il calcolo integrale e io no, allora ci sarebbe entrato l’amor proprio. Ma qui bisogna prima esser convinti di avere delle speciali attitudini a queste cose e, quel che più conta, esser convinti che queste cose siano molto importanti. — Eh, già!

Che forse tutto ciò non è importante? — disse Sergej Ivanovic, tocco nel vivo perché il fratello non trovava importante quel che interessava lui e perché, evidentemente, non lo ascoltava quasi. — Non mi sembra importante, non mi tocca, che vuoi mai?...

— rispose Levin mentre s’accorgeva che quel che vedeva era l’amministratore, e l’amministratore, probabilmente, aveva mandato via gli operai dall’aratura. Essi voltavano gli aratri. «Possibile che abbiano già arato?» pensò. — Su, ma ascolta — disse il fratello maggiore, corrugando il suo bel viso intelligente — vi sono dei limiti a tutto.

È molto bello essere un originale e un uomo schietto e spregiare ogni falsità, questo lo so; ma ecco, quello che tu dici, o non ha senso, o ha un senso tutt’altro che buono. Come puoi trovare poco importante che questa popolazione che tu ami, come mi assicuri.... «Io non l’ho mai assicurato» pensò Konstantin Levin.

— ... muoia senza aiuti?

Queste mammane fanno morir di fame i bambini e il popolo marcisce nell’ignoranza e rimane in potere di un qualsiasi scribacchino, mentre tu hai in mano i mezzi per riparare a questo, e non te ne dài pensiero perché, secondo te, la cosa non è importante. — E Sergej Ivanovic gli pose il dilemma: — O sei così poco evoluto da non riuscire a intravedere tutto quello che puoi fare, o non vuoi rinunciare alla tua tranquillità, alla tua vanità o che so io, per fare ciò. Konstantin Levin sentiva che non gli restava ormai che dichiararsi vinto e confessare la mancanza di interesse per una causa comune.

E questo lo offendeva e lo addolorava. — E l’uno e l’altro — disse reciso — non vedo proprio come si possa....

— Come?

Non si può, ripartendo bene il denaro, creare un’assistenza medica? — Non si può, a quanto pare.

Per le quattromila verste quadrate del nostro distretto, con le nostre zazory , con le tempeste di neve, con la stagione dei lavori, non vedo la possibilità di dare in ogni luogo un’assistenza medica. E poi, in genere, io non credo alla medicina. — Via, permettimi, questo è ingiusto.... Io ti porterò migliaia di esempi... via, e le scuole?

— Perché le scuole?

— Che dici?

Può esservi mai dubbio sull’utilità delle scuole? Se la scuola è buona per te, lo è anche per gli altri. Konstantin Levin si sentiva moralmente messo con le spalle al muro e perciò si accalorava dando prova, senza volerlo, della sua indifferenza al benessere collettivo.

— Può darsi che tutto questo vada bene; ma io, perché devo curarmi di istituire dei posti di assistenza medica di cui non farò mai uso, e delle scuole dove non manderò certo i miei figli, dove neanche i contadini vorranno mandare i loro e dove non credo ancora che proprio ci si debbano mandare?

— disse.

Questo modo inatteso di vedere la questione disorientò Sergej Ivanovic per un attimo; ma subito egli preparò un nuovo piano di attacco.

Stette un po' di tempo in silenzio, tirò fuori un amo, lo gettò in acqua e, sorridendo, si volse al fratello.

— Su, permettimi.... In primo luogo, il posto di assistenza medica è servito anche a te.

Ecco, noi per Agaf’ja Michajlovna abbiamo mandato a chiamare il medico condotto. — Già ma io penso che il braccio resterà storto.

— Questo è ancora da vedere.... Poi un contadino, un lavoratore istruito ti è più utile e più accetto.

— No, domanda a chi vuoi — rispose deciso Konstantin Levin — uno che sappia leggere e scrivere, come lavoratore, è peggiore degli altri.

E le strade non si possono fare aggiustare; e i ponti, appena messi a posto, li portano via. — Del resto — disse, aggrottando le sopracciglia Sergej Ivanovic, che non amava le contraddizioni e particolarmente quelle che saltavano continuamente di palo in frasca e senza alcuna connessione introducevano nella discussione elementi nuovi, così che non si poteva sapere a quali di essi rispondere — del resto non si tratta di questo.

Permetti. Riconosci che l’istruzione è un bene per il popolo? — Lo riconosco — disse Levin senza riflettere, e subito pensò di non aver detto quello che pensava.

Sentiva che, riconoscendo ciò, gli sarebbe stato dimostrato che diceva delle sciocchezze che non avevano alcun senso. Come questo gli sarebbe stato dimostrato, non lo sapeva, ma sapeva che, senza dubbio, gli sarebbe stato dimostrato, a fil di logica, e aspettava questa dimostrazione. La dimostrazione fu più semplice di quella che Levin si aspettava.

— Se riconosci come un bene l’istruzione — disse Sergej Ivanovic — allora tu, come uomo onesto, non puoi non amare e non aderire a quest’opera e non desiderare di lavorare per essa.

— Ma io ancora non la riconosco buona — disse arrossendo Levin.

— Come?

O ora hai detto di sì.... — Cioè, non la riconosco né buona né possibile.

— Questo non lo puoi sapere, senza aver prima fatto tutti i tentativi.

— Su, ammettiamo — disse Levin, sebbene non lo ammettesse per nulla — ammettiamo pure che sia così; ma io tuttavia non vedo la necessità di dovermi affannare per questo.

— Sarebbe a dire?

— No, giacché abbiamo preso a parlarne, spiegamelo dal lato filosofico — disse Levin.

— Non capisco cosa c’entri qui la filosofia — disse Sergej Ivanovic, con un tono che a Levin parve tale da non volergli riconoscere il diritto di discutere di filosofia, e questo lo irritò.

— Ecco come — disse, accalorandosi.

— Io penso che il movente di tutte le nostre azioni sia l’interesse personale. Ora nelle istituzioni provinciali io, nella mia qualità di nobile, non ci vedo nulla che cooperi al mio benessere. Le strade non diventano migliori e, se pure rimangono quali sono, i miei cavalli mi portano anche per quelle cattive. Del dottore e del posto di assistenza medica non ho bisogno; il giudice conciliatore non mi occorre; io non mi rivolgo e non mi rivolgerò mai a lui. Le scuole non solo non mi occorrono, ma mi sono persino dannose, come ti ho detto. Per me le istituzioni distrettuali hanno il solo scopo di obbligarmi a pagare diciotto copeche per desjatina , e farmi andare in città a pernottare con le cimici e ascoltare ogni sorta di sciocchezze e brutture: ed in questo l’interesse personale non mi stimola affatto. — Permettimi — interruppe con un sorriso Sergej Ivanovic — l’interesse personale non ci stimolava a lavorare per la liberazione dei contadini, eppure noi abbiamo lavorato!

— No — interruppe, sempre più accalorandosi, Konstantin.

— La liberazione dei contadini era un’altra cosa. Lì c’era, sì, un interesse personale. Volevamo scrollar da noi questo giogo che opprimeva tutti noi uomini giusti. Ma essere delegato, discutere sulla quantità necessaria di cloache e sulla maniera di far passare le fogne in una città in cui non vivo; essere giurato e giudicare un contadino che ha rubato un prosciutto e ascoltare per sei ore di seguito tutte le sciocchezze che inventano i difensori e i procuratori e star lì a sentire come il presidente interroga il vecchio Alëška, lo scemo che sta da me: «Confessate, voi, signor imputato, il furto del prosciutto?». «Eh?». Konstantin Levin aveva già smarrito il filo del discorso e s’era messo a rifare il presidente e Alëška lo scemo, e gli pareva che tutto questo riguardasse la questione.

Ma Sergej Ivanovic alzò le spalle.

— Ebbene, con questo che vuoi dire?

— Io voglio dire che quei diritti che mi... che toccano il mio interesse personale, io li difenderò sempre con tutte le mie forze; che quando eravamo studenti e i gendarmi facevano le perquisizioni e leggevano le nostre lettere, io ero pronto con tutte le mie forze a difendere i miei diritti, a difendere il mio diritto alla libertà e alla cultura.

Capisco il servizio militare perché interessa la sorte dei miei figli, dei miei fratelli e di me stesso; sono pronto a giudicare tutto quanto mi riguarda; ma giudicare se e come distribuire quarantamila rubli di denaro del distretto o giudicare Alëška lo scemo, io questo non lo capisco e non posso farlo. Konstantin Levin parlava come se si fosse rotta la diga che tratteneva la sua loquela; Sergej Ivanovic sorrideva.

— E domani potrai essere giudicato tu stesso: ti piacerebbe forse essere giudicato dalla vecchia Camera criminale?

— Io non sarò giudicato.

Io non sgozzerò nessuno, e non ne avrò bisogno. Su via! — continuò, passando di nuovo a cosa che non riguardava affatto la questione — le nostre istituzioni distrettuali e tutto il resto somigliano alle piccole betulle che noi ficchiamo in terra dovunque il giorno di Pentecoste, perché sembrino un bosco venuto su spontaneamente in Europa; ma io non posso innaffiare e credere in queste piccole betulle con tutta l’anima. Sergej Ivanovic alzò le spalle, esprimendo con questo gesto la sua meraviglia per queste betulle spuntate ora nella questione chi sa mai da quale parte; mentre aveva capito subito a cosa volesse alludere il fratello.

— Scusami, ma così non si può ragionare — osservò.

Ma Konstantin Levin voleva giustificare quella manchevolezza che riconosceva in se stesso, l’indifferenza cioè verso il bene comune e continuò.

— Io penso — disse che nessuna attività può essere salda se non ha le radici nell’interesse personale.

Questa è una verità d’ordine generale, filosofico — disse, ripetendo con intenzione la parola «filosofico», quasi desiderasse mostrare che anche lui aveva il diritto, come tutti, di parlare di filosofia. Sergej Ivanovic ancora una volta sorrise.

«E anche lui — pensò — ha una certa filosofia al servizio delle proprie tendenze». — Su via, la filosofia lasciala stare — disse.

— Il compito della filosofia di tutti i secoli consiste proprio nel trovare il legame indispensabile fra l’interesse personale e quello generale. Ma questo non riguarda la questione, mentre, per quel che la concerne, io devo soltanto correggere il tuo paragone. Le betulle non sono conficcate, ma alcune sono piantate e altre seminate; e a queste ultime ci si deve rivolgere con maggior cura. Soltanto i popoli che guardano all’avvenire, soltanto quelli si possono chiamare storici, quelli che sentono ciò che è importante e significativo nelle loro istituzioni, e ne hanno cura. E Sergej Ivanovic trasportò la questione sul terreno storico-filosofico inaccessibile a Konstantin Levin, dimostrandogli tutta l’infondatezza del suo punto di vista.

— Che questo poi non ti piaccia, questo, perdonami, fa parte della nostra pigrizia russa e del barstvo , e io sono sicuro che, quanto a te, si tratta di una deviazione momentanea che passerà.

Konstantin taceva.

Sentiva d’essere sconfitto da ogni lato, ma nello stesso tempo sentiva che quello che egli intendeva dire non era stato capito dal fratello, non sapeva bene perché: perché non aveva saputo esporlo lui chiaramente o perché il fratello non aveva voluto o non aveva potuto capirlo? Ma non stette a riflettere e, senza replicare, cominciò a pensare a una faccenda del tutto diversa, tutta sua personale. Sergej Ivanovic avvolse l’ultimo amo, slegò il cavallo e insieme si avviarono.