PARTE PRIMA - 1. Risotto e tartufi (parte 2)
La marchesa Orsola teneva in moto la sua solita grossa voce sonnolenta e la Carabelli si studiava, rispondendo, di rendere amabile la sua grossa voce imperiosa, ma non sfuggì agli occhi penetranti e al maligno ingegno di Pasotti che le due vecchie dame dissimulavano, la Maironi più e la Carabelli meno, un comune malcontento. Ciascuna volta che l'uscio si apriva, gli occhi spenti dell'una e gli occhi foschi dell'altra si volgevano là. Una volta entrò il prefetto del Santuario della Caravina col piccolo signor Paolo Sala detto «el Paolin» e col grosso signor Paolo Pozzi detto «el Paolon», compagni indivisibili. Un'altra volta entrò il marchese Bianchi, di Oria, antico ufficiale del regno d'Italia, con la sua figliuola, una nobile figura di vecchio cavalleresco soldato accanto a una seducente figura di fanciulla briosa. Sì la prima che la seconda volta un'ombra di corruccio passò sul viso della Carabelli. Anche la figlia di costei girava pronta gli occhi all'uscio, quando si apriva, ma poi chiacchierava e rideva più di prima. «E don Franco, marchesa? Come sta don Franco?», disse il maligno Pasotti, con voce melliflua, porgendo alla marchesa la tabacchiera aperta.
«Grazie tante», rispose la marchesa piegandosi un poco e ficcando due grosse dita nel tabacco: «Franco? a dirle la verità sono un poco in angustia. Stamattina non si sentiva bene e adesso non lo vedo. Non vorrei...» «Don Franco?», disse il marchese. «È in barca. L'abbiamo visto un momento fa che remava come un barcaiuolo.» Donna Eugenia spiegò il ventaglio.
«Bravo!», diss'ella facendosi vento in fretta e in furia. «È un bellissimo divertimento.» Chiuse il ventaglio d'un colpo e si mise a mordicchiarlo con le labbra. «Avrà avuto bisogno di prender aria», osservò la marchesa nel suo naso imperturbabile. «Avrà avuto bisogno di prender acqua», mormorò il prefetto della Caravina con gli occhi scintillanti di malizia. «Piove!»
«Don Franco viene adesso, signora marchesa», disse la nipote del fattore dopo aver dato un'occhiata al lago. «Va bene», rispose il naso sonnacchioso. «Spero che stia meglio, altrimenti non dirà due parole. Un ragazzo sanissimo ma apprensivo. Senta, Controllore; e il signor Giacomo? Perché non si vede?» «El sior Zacomo», incominciò Pasotti canzonando il signor Giacomo Puttini, un vecchio celibatario veneto che dimorava da trent'anni in Albogasio Superiore, presso la villa Pasotti. «El sior Zacomo...»
«Adagio», lo interruppe la dama. «Non le permetto di burlarsi dei veneti, e poi non è vero che nel Veneto si dica Zacomo .» Ella era nata a Padova, e benché abitasse a Brescia da quasi mezzo secolo, il suo dire lombardo era ancora infetto da certe croniche patavinità. Mentre Pasotti protestava, con cerimonioso orrore, di aver solamente inteso imitar la voce dell'ottimo suo vicino ed amico, l'uscio si aperse una terza volta. Donna Eugenia, sapendo bene chi entrava, non degnò voltarsi a guardare, ma gli occhi spenti della marchesa si posarono con tutta flemma su don Franco.
Don Franco, unico erede del nome Maironi, era figlio di un figlio della marchesa, morto a ventott'anni. Aveva perduto la madre nascendo ed era sempre vissuto nella potestà della nonna Maironi. Alto e smilzo, portava una zazzera di capelli fulvi, irti, che l'aveva fatto soprannominare el scovin d'i nivol , lo scopanuvoli. Aveva occhi parlanti, d'un ceruleo chiarissimo, una scarna faccia simpatica, mobile, pronta a colorarsi e a scolorarsi. Quella faccia accigliata diceva ora molto chiaramente: «Son qui, ma mi seccate assai».
«Come stai, Franco?», gli chiese la nonna, e soggiunse tosto senz'aspettare risposta: «Guarda che donna Carolina desidera udire quel pezzo di Kalkbrenner.» «Oh no, sa», disse la signorina volgendosi al giovine con aria svogliata. «L'ho detto, sì, ma poi non mi piace, Kalkbrenner. Preferisco chiacchierare con le signorine.»
Franco parve soddisfatto dell'accoglienza ricevuta e andò senza aspettar altro a discorrere col curatone d'un buon quadro antico che dovevano vedere insieme nella chiesa di Dasio. Donna Eugenia Carabelli fremeva. Ell'era venuta con la figliuola da Loveno dopo un'arcana azione diplomatica cui avevano preso parte altre potenze. Se questa visita si dovesse fare o no, se il decoro della famiglia Carabelli lo permettesse, se vi fosse quella probabilità di successo che donna Eugenia richiedeva, erano state le ultime questioni definite dalla diplomazia; perché malgrado la vecchia relazione della mamma Carabelli e della nonna Maironi i giovani non s'erano veduti che un paio di volte alla sfuggita ed erano i loro involucri di ricchezza e di nobiltà, di parentele e di amicizie, che si attraevano come si attraggono una goccia d'acqua marina e una goccia d'acqua dolce, benché le creature minuscole che vivono nell'una e nell'altra sieno condannate, se le due gocce si uniscono, a morirne. La marchesa aveva vinto il suo punto, apparentemente in grazia dell'età, sostanzialmente in grazia dei denari, era stato accettato che l'intervista seguisse a Cressogno, perché se Franco non aveva di proprio che la magra dote della madre, diciotto o ventimila lire austriache, la nonna sedeva, con quella sua flemmatica dignità, su qualche milione. Ora donna Eugenia, vedendo il contegno del giovine, fremeva contro la marchesa, contro chi aveva esposto lei e la sua ragazza a una umiliazione simile. Se avesse potuto soffiar via d'un colpo la vecchia, suo nipote, la casa tetra e la compagnia uggiosa, lo avrebbe fatto con gioia; ma conveniva dissimulare, parer indifferente, inghiottir lo smacco e il pranzo. La marchesa serbava la sua esterna placidità marmorea benché avesse il cuore pieno di dispetto e di maltalento contro suo nipote. Egli aveva osato chiederle, due anni prima, il permesso di sposare una signorina della Valsolda, civile, ma non ricca né nobile. Il reciso rifiuto della nonna aveva reso impossibile il matrimonio e persuasa la madre della ragazza a non più ricevere in casa don Franco; ma la marchesa tenne per fermo che quella gente non avesse levato l'occhio da' suoi milioni. Era quindi venuta nel proposito di dar moglie a Franco assai presto per toglierlo dal pericolo; e aveva cercato una ragazza ricca ma non troppo, nobile ma non troppo, intelligente ma non troppo. Trovatane una di questo stampo, la propose a Franco che si sdegnò fieramente e protestò di non voler prender moglie. La risposta era ben sospetta ed ella vigilò allora più che mai sui passi del nipote e di quella «madama Trappola», poiché chiamava graziosamente così la signorina Luisa Rigey.
La famiglia Rigey, composta di due sole signore, Luisa e sua madre, abitava in Valsolda, a Castello: non era difficile sorvegliarla. Pure la marchesa non poté venir a capo di nulla. Ma Pasotti le riferì una sera con molta ipocrisia d'esitazioni e d'inorriditi commenti che il prefetto della Caravina, stando a crocchio nella farmacia di S. Mamette con lui Pasotti, col signor Giacomo Puttini, col Paolin e col Paolon, aveva tenuto questo bel discorso: «Don Franco fa il morto da burla fino a che la vecchia lo farà sul serio». Udita questa fine arguzia, la marchesa rispose nel suo pacifico naso «grazie tante» e cambiò discorso. Seppe quindi che la signora Rigey, sempre infermiccia, si trovava a mal partito per una ipertrofia di cuore e le parve che l'umore di Franco se ne risentisse. Proprio allora le fu proposta la Carabelli. La Carabelli non era forse interamente di suo gusto, ma di fronte all'altro pericolo non c'era da esitare. Parlò a Franco. Stavolta Franco non si sdegnò, ascoltò distratto e disse che ci avrebbe pensato. Fu la sola ipocrisia, forse, della sua vita. La marchesa giuocò audacemente una carta grossa, fece venire la Carabelli.
Ora lo vedeva bene, il giuoco era perduto. Don Franco non s'era trovato all'arrivo delle signore e aveva poi fatto una sola apparizione di pochi minuti. I suoi modi, durante quei pochi minuti, erano stati cortesi, ma la sua faccia no; la sua faccia aveva parlato, secondo il solito, talmente chiaro, che la marchesa, affibbiandogli, come subito fece, una indisposizione, non poté ingannar nessuno. Però la vecchia dama non si persuase d'aver giuocato male. Già dall'età dei primi giudizi in poi, ella si era messa al punto di non riconoscersi mai un solo difetto né un solo torto, di non ferirsi mai, volontariamente, nel suo nobile e prediletto sé. Ora le piacque di supporre che dopo il suo sermone matrimoniale al nipote, gli fosse pervenuta nel mistero una parolina di miele, di vischio e di veleno. Se il suo disinganno aveva qualche lieve conforto era nel contegno della signorina Carabelli che mal celava la vivacità del proprio risentimento. ciò non piaceva alla marchesa. Il prefetto della Caravina non aveva torto se non forse un poco nella forma quando diceva sottovoce di lei: «L'è on' Aüstria p...». Come la vecchia Austria di quel tempo, la vecchia marchesa non amava nel suo impero gli spiriti vivaci. La sua volontà di ferro non ne tollerava altre vicino a sé. Le era già di troppo un indocile Lombardo-Veneto come il signor Franco, e la ragazza Carabelli, che aveva l'aria di sentire e volere per conto proprio, sarebbe probabilmente riuscita in casa Maironi una suddita incomoda, una torbida Ungheria. Si annunciò il pranzo. Nella faccia rasa e nell'abito grigio, mal tagliato, del domestico si riflettevano le idee aristocratiche della marchesa, temperate di abitudini econome. «E questo signor Giacomo, Controllore?», disse ella, senza muoversi. «Temo, marchesa», rispose Pasotti. «L'ho incontrato stamattina e gli ho detto: "Dunque, signor Giacomo, ci vediamo a pranzo?". È parso che gli mettessi una biscia in corpo. Ha cominciato a contorcersi e a soffiare: "Sì, credo, no so, forse, no digo, apff, ecco, propramente, Controllore gentilissimo, no so, insomma, e apff!". Non ne ho cavato altro.»
La marchesa chiamò a sé il domestico e gli disse qualche cosa sottovoce. Quegli fece un inchino e si ritirò. Il curato di Puria si dondolava in su e in giù accarezzandosi le ginocchia nel desiderio del risotto; ma la marchesa pareva petrificata sul canapè e perciò si petrificò anche lui. Gli altri si guardavano, muti.
La povera signora Barborin, avendo visto il domestico, meravigliata di quella immobilità, di quelle facce sbalordite, inarcò le sopracciglia, interrogò con gli occhi ora suo marito, ora il Puria, ora il prefetto, sino a che una fulminea occhiata di Pasotti petrificò lei pure. "Se fosse bruciato il pranzo! ", pensava componendosi un viso indifferente. "Se ci mandassero a casa! Che fortuna!". Dopo due minuti il domestico ritornò e fece un inchino. «Andiamo», disse la marchesa, alzandosi.
La comitiva trovò in sala da pranzo un personaggio nuovo, un vecchietto piccolo, curvo, con due occhietti buoni e un lungo naso spiovente sul mento. «Veramente, signora marchesa», disse costui tutto timido e umile, «io avrei già pranzato.» «Si accomodi, signor Viscontini», rispose la marchesa che sapeva praticare l'arte insolente della sordità come tutti coloro che assolutamente vogliono un mondo secondo il proprio comodo e il proprio gusto. L'ometto non osò replicare, ma neanche osava sedere. «Coraggio, signor Viscontini!», gli disse il Paolin che gli era vicino. «Cosa fa?» «Fa il quattordici di coppe», mormorò il prefetto. Infatti l'ottimo signor Viscontini, accordatore di pianoforti, venuto la mattina da Lugano per accordare il piano dei signori Zelbi di Cima e quello di don Franco, aveva pranzato al tocco a casa Zelbi, era quindi venuto a casa Maironi, e ora gli toccava di sostituire il signor Giacomo perché altrimenti i commensali sarebbero stati tredici. Un liquido bruno fumava nella zuppiera d'argento. «Risotto no», sussurrò Pasotti al Puria passandogli dietro. Il faccione dolce non diede segno di avere udito. I pranzi di casa Maironi erano sempre lugubri e questo accennava ad esserlo anche più del solito. Per compenso era pure molto più fino. Pasotti e il Puria si guardavano spesso, mangiando, per esprimere ammirazione e quasi per congratularsi a vicenda del godimento squisito, e se mai qualche occhiata di Pasotti sfuggiva al Puria, la signora Barborin, vicina di quest'ultimo, lo avvertiva con un timido tocco del gomito. Le voci che più si udivano erano quelle del marchese e di donna Eugenia. Il grande naso aristocratico del Bianchi, il suo fine sorriso di galante cavaliere si volgevano spesso alla bellezza, languente ma non ancora spenta, della dama. Milanesi ambedue del miglior sangue, si sentivano uniti in una certa superiorità non solamente rispetto ai piccoli borghesi della mensa, ma rispetto altresì ai padroni di casa, nobili provinciali. Il marchese era l'affabilità stessa e avrebbe conversato amabilmente anche col commensale più modesto; ma donna Eugenia, nell'amarezza dell'animo suo, nel suo disgusto del luogo e delle persone, s'attaccò a lui come al solo degno, marcatamente anche per far dispetto agli altri. Ella lo imbarazzò dicendogli forte che non capiva com'egli potesse essersi innamorato dell'orrida Valsolda. Il marchese, che vi si era ritirato da molti anni a vita quieta e vi aveva veduto nascere la sua unica figliuola, donna Ester, rimase sulle prime un poco sconcertato da quel discorso insolente verso parecchi dei convitati, ma poi fece una briosa difesa del paese. La marchesa non mostrò turbarsi; il Paolin, il Paolon e il prefetto, valsoldesi, tacevano con tanto di muso. Pasotti recitò solennemente un ampolloso elogio del «Niscioree», la villa Bianchi, presso Oria. Il Bianchi, leale uomo, che in passato non aveva avuto troppo a lodarsi del Pasotti, non parve gradir l'elogio. Egli invitò la Carabelli al Niscioree. «A piedi no, tu, Eugenia», disse la marchesa, sapendo che l'amica sua era tribolata dallo spavento d'ingrassare. «Bisogna vedere com'è stretta la strada, dalla Ricevitoria al Niscioree! Tu non ci passi di sicuro.» Donna Eugenia protestò con sdegno. «L'è minga el Cors de Porta Renza», disse il marchese, «ma l'è poeu nanca, disgraziatamente, le chemin du Paradis! » «Quell no! Propi no! Ghe l'assicuri mi!», esclamò il Viscontini riscaldato, per disgrazia, da troppi bicchieri di Ghemme. Tutti gli occhi si volsero a lui e il Paolin gli disse qualche cosa sottovoce. «Se son matto?», rispose l'ometto acceso in faccia. «Nient del tütt! Le dico che ona bolgira compagna non la mi è mai più toccata in vita mia.» E qui raccontò che la mattina, venendo da Lugano e avendo preso un po' di freddo in barca, era disceso al Niscioree per proseguire il viaggio a piedi; che tra quei due muri, dove non si potrebbe voltare un asino, aveva incontrato le guardie di finanza, le quali lo avevano insultato perché non era disceso allo sbarco della Ricevitoria; che l'avevano condotto alla maledetta Ricevitoria; che portava in mano un rotolo di musica manoscritta e che l'animale del Ricevitore, pigliando le crome e le biscrome per corrispondenze politiche segrete, gliel'aveva trattenuto. Silenzio profondo. Dopo qualche momento la marchesa sentenziò che il signor Viscontini aveva torto marcio. Non doveva sbarcare al Niscioree, ciò era proibito. Quanto al signor Ricevitore egli era una persona rispettabilissima. Pasotti confermò, con una faccia severa. «Ottimo funzionario», diss'egli. «Ottima canaglia», mormorò il prefetto fra i denti. Franco, che sulle prime pareva pensare a tutt'altro, si scosse e lanciò a Pasotti un'occhiata sprezzante. «Dopo tutto», disse la marchesa, «trovo che col pretesto della musica manoscritta si potrebbe benissimo...» «Certo!», disse il Paolin, austriacante per paura, mentre la padrona di casa lo era per convinzione. Il marchese, che nel 1815 aveva spezzata la spada per non servire gli Austriaci, sorrise e disse solo: « Là! C'est un peu fort! ».
«Ma se tutti sanno ch'è una bestia, quel Ricevitore!», esclamò Franco. «Scusi, don Franco...», fece Pasotti. «Ma che scusi!», interruppe l'altro. «È un bestione!» «È un uomo coscienzioso», disse la marchesa, «un impiegato che fa il proprio dovere.» «Allora le bestie saranno i suoi padroni!», ribatté Franco.
«Caro Franco», replicò la voce flemmatica, «questi discorsi in casa mia non si fanno. Grazie a Dio non siamo mica in Piemonte, qui.» Pasotti fece una sghignazzata d'approvazione. Allora Franco, preso furiosamente il proprio piatto a due mani lo spezzò d'un colpo sulla tavola. «Jesüsmaria!», esclamò il Viscontini, e il Paolon, interrotto nelle sue laboriose operazioni di mangiatore sdentato: «Euh!». «Sì, sì», disse Franco alzandosi con la faccia stravolta, «è meglio che me ne vada!» E uscì dal salotto. Subito donna Eugenia si sentì male, bisognò accompagnarla fuori. Tutte le signore, meno la Pasotti, le andaron dietro da una parte mentre il domestico entrava dall'altra portando un pasticcio di risotto. Il Puria guardò Pasotti con un riso trionfante, ma Pasotti finse di non avvedersene. Tutti erano in piedi. Il Viscontini, reo apparente, continuava a dire: «Mi capissi nagott, mi capissi nagott», e il Paolin, seccatissimo del pranzo guastato, gli brontolò: «Cossa l'ha mai de capì Lü?». Il marchese, molto scuro, taceva. Finalmente il Pasotti, reo di fatto, presa un'aria d'affettuosa tristezza, disse come tra sé: «Peccato! Povero don Franco! Un cuor d'oro, una buona testa, e un temperamento così! Proprio peccato!».
«Ma!», fece il Paolin. E il Puria, tutto contrito: «Sono gran dispiaceri!». Aspetta e aspetta, le signore non ritornavano. Allora qualcuno cominciò a muoversi. Il Paolin e il Puria si accostarono lentamente, con le mani dietro la schiena, alla credenza, contemplarono il pasticcio di risotto. Il Puria chiamò dolcemente Pasotti, ma Pasotti non si mosse. «Volevo solo dirle», fece il curatone, coprendo il suo trionfo in modo da lasciarlo e non lasciarlo vedere, «che ci sono i tartufi bianchi.» «Direi che qui non mancano neppure i tartufi neri», osservò il marchese pigiando un poco sulle due ultime parole.