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Sperone Speroni: Dialogo delle lingue, Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte seconda)

Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte seconda)

BEM. Questa cosa di numeri come si stia e se così la prosa come il verso toscano n'ha la sua parte e in che modo la si abbia, per essere assai facile da vedere ma lontana dal nostro proponimento, ora con esso voi non intendo di disputarla; anzi confessando quello esser vero, che ne diceste, non tanto perché sia vero quanto perché si veda ciò che ne segue, io vi dico questa lingua moderna, tutto che sia attempatetta che no, esser però ancora assai picciola e sottile verga, la quale non ha appieno fiorito, non che frutti produtti che ella può fare: certo non per difetto della natura di lei, essendo così atta a generar come le altre, ma per colpa di loro che l'ebbero in guardia, che non la coltivorno a bastanza,. ma a guisa di pianta selvaggia, in quel medesimo deserto ove per sé a nascere cominciò, senza mai né adacquarla né potarla né difenderla dai pruni che le fanno ombra, l'hanno lasciata invecchiare e quasi morire. E se què primi antichi Romani fossero stati sì negligenti in coltivare la latina quando a pullular cominciò, per certo in sì poco tempo non sarebbe divenuta sì grande; ma essi, a guisa di ottimi agricoltori, lei primieramente tramutarono da luogo selvaggio a domestico; poi, perché e più tosto e più belli e maggior frutti facesse, levandole via d'attorno le inutili frasche, in loro scambio l'innestarono d'alcuni ramuscelli maestrevolmente detratti dalla greca; li quali subitamente in guisa le s'appiccarono e in guisa si ferno simili al tronco, che oggimai non paiono rami adottivi ma naturali. Quindi nacquero in lei què fiori e què frutti sì coloriti dell'eloquenzia, con quel numero e con quell'ordine istesso il quale tanto essaltate; li quali, non tanto per sua natura quanto d'altrui artificio aiutata, suol produrre ogni lingua. Peroché ‘l numero, nato per magistero di Trasimaco, di Gorgia, di Teodoro, Isocrate finalmente fece perfetto. Dunque se greci e latini uomini, più solleciti alla coltura della lor lingua che noi non semo alla nostra, non trovarono in quelle, se non dopo alcun tempo e dopo molta fatica, né leggiadria né numero, già non dè parer meraviglia, se noi ancora non n'avemo tanto che basti nella volgare; né quindi dè prender uomo argumento a sprezzarla come vil cosa e da poco. Oh, la latina è migliore d'assai! Oh, quanto sarebbe meglio dir fu e non è, ma sia stata per lo passato e sia ancor tuttavia sì gentil cosa! Tempo forse verrà che d'altra tanta eccellenzia fia la volgare dotata; ché, se per essere a' nostri giorni di niuno stato e men gradita, non si dovesse apprezzare, la greca, la quale era già grande sul nascimento della latina, nè nostri animi non dovea lasciar fermare le radici d'un'altra lingua novella; e altrettanto direi della greca, per rispetto alla ebrea: concluderebbesi finalmente dalle vostre premisse dover essere al mondo sola una lingua, e non più, onde scrivessero e parlassero li mortali; e avverrebbe che ove voi credereste d'argumentar solamente contra la lingua toscana, e quella con vostre ragioni estirpare del mondo, voi parlareste eziandio contra la latina e la greca. Benché questa pugna si estenderebbe non solamente contra i linguaggi del mondo, ma contra Dio, il quale ab eterno diede per legge immutabile ad ogni cosa criata non durare eternamente, ma di continuo d'uno in altro stato mutarsi, ora avanzando e ora diminuendo, finché finisca una volta, per mai più poscia non rinovarsi. Voi mi direte: troppo indugia oggimai la perfezzione della lingua materna; e io vi dico che così è come dite; ma tale indugio non dee far credere altrui esser cosa impossibile che ella divenga perfetta; anzi vi può far certo lei doversi lungo tempo godere la sua perfezzione, qualora egli avverrà ch'ella se l'abbia acquistata. Ché così vuol la natura, la quale ha diliberato che qual arbor tosto nasce, fiorisce e fa frutto, tale tosto invecchie e si muoia; e in contrario che quello duri per molti anni, il quale lunga stagione arà penato a far fronde. Sarà adunque la nostra lingua, in conservarsi la sua dovuta perfezzione lungamente disiderata e cercata, simile forse ad alcuni ingegni, li quali, quanto men facilmente apprendono le dottrine, tanto difficilmente le si lasciano uscire della memoria. Oh, ella è testimonio della nostra vergogna, essendo venuta in Italia insieme con la roina di lei! Più tosto ella è testimonio della nostra solerzia e del nostro buono ardimento; ché, così come, venendo Enea da Troia in Italia, ad onor si recò lasciare scritto in un certo trofeo drizzato da lui, quelle essere state l'armi dè vincitori della sua patria; così vergogna non ci può essere l'aver cosa in Italia tolta di mano a coloro che noi tolsero di libertà. Direi, finalmente, quando esser volessi maligno, più tosto doversi adorar dalle genti il sole oriente che l'occidente. La lingua greca e latina già esser giunte all'occaso, né quelle esser più lingue, ma carta solamente e inchiostro, ove quanto sia difficile cosa l'imparare a parlare, ditelo voi per me, che non osate dir cosa latinamente con altre parole che con quelle di Cicerone. Onde, quanto parlate e scrivete latino non è altro che Cicerone trasposto più tosto da carta a carta che da materia a materia; benché questo non è sì vostro peccato che egli non sia anche mio e d'altri assai e maggiori e migliori di me; peccato però non indegno di scusa, non possendo farsi altramente. Ma queste poche parole dette da me contra la lingua latina per la volgare non dissi per vero dire; solo volsi mostrare quanto bene difenderebbe questa lingua novella, chi per lei far volesse difesa, quando a lei non manca né core né armi d'offendere l'altrui. CORTEG. Parmi, Monsignor, che così temiate di dir male della lingua latina, come se ella fosse la lingua del vostro Santo da Padova; alla quale è di tanto conforme che, come quella fu di persona già viva, la cui santità è cagione che ora, posta in un tabernacolo di cristallo, sia dalle genti adorata, così questa degna reliquia del capo del mondo Roma, guasto e corrotto già molto tempo, quantunque oggimai fredda e secca si taccia, nondimeno fatta idolo d'alcune poche e superstiziose persone, colui da loro non è cristiano tenuto, che non l'adora per dio. Ma adoratela a vostro senno, solo che non parliate con esso lei; e volendo tenerla in bocca, così morta come è, siavi lecito di poterlo fare; ma parlate tra voi dotti le vostre morte latine parole, e a noi idioti le nostre vive volgari, con la lingua che Dio ci diede, lasciate in pace parlare.

BEM. Dovevate, per agguagliarla compitamente alla lingua di qualche santo, soggiungere qualmente l'orazioni di Cicerone e i versi di Virgilio le sono degni e preziosissimi tabernacoli; onde lei come cosa beata riveriamo e inchiniamo. Ma per certo né l'una né l'altra non meritava che la teneste per morta, operando tutt'ora nè corpi nostri e nell'anime quella salute, questa virtute. Con tutto ciò lodo sommamente la nostra lingua volgare, cioè toscana; accioche non sia alcuno che intenda della volgare di tutta Italia: toscana dico, non la moderna che usa il vulgo oggidì, ma l'antica, onde sì dolcemente parlorno il Petrarca e il Boccaccio; ché la lingua di Dante sente bene e spesso più del lombardo che del toscano; e ove è toscano, è più tosto toscano di contado che di città. Dunque di quella parlo, quella lodo, quella vi persuado apparare; quantunque ella non sia giunta alla sua vera perfezzione, ella nondimeno le è già venuta sì presso che poco tempo vi è a volgere: ove poi che arrivata sarà, non dubito punto che, quale è nella greca e nella latina, tale fia in lei virtù di far vivere altrui mirabilmente dopo la morte. E allora sì le vedremo noi fare di molti, non tabernacoli, ma tempii e altari, alla cui visitazione concorrerà da tutte le parti del mondo brigata di spiriti pellegrini, che le faranno lor voti e saranno esauditi da lei.

CORTEG. Dunque, se io vorrò bene scrivere volgarmente, converrami tornare a nascer toscano?

BEM. Nascer no, ma studiar toscano; ché egli è meglio per aventura nascer lombardo che fiorentino, peroché l'uso del parlar tosco oggidì è tanto contrario alle regole della buona toscana, che più noce altrui l'esser natio di quella provincia, che non gli giova. CORTEG. Dunque, una persona medesma non può esser tosca per natura e per arte?

BEM. Difficilmente per certo; essendo l'usanza, che per lunghezza di tempo è quasi convertita in natura, diversa in tutto dall'arte. Onde, come chi è giudeo o eretico, rade volte diviene buon cristiano, e più crede in Cristo chi nulla credeva quando fu battezzato; così qualunche non è nato toscano può meglio imparare la buona lingua toscana, che colui non fa, il quale da fanciullo in su sempremai parlò perversamente toscano.

CORTEG. Io, che mai non nacqui né studiai toscano, male posso rispondere alle vostre parole; nondimeno a me pare che più si convenga col vostro Boccaccio il parlar fiorentino moderno, che non fa il bergamasco. Onde egli potrebbe esser molto bene che uomo nato in Melano, senza aver mai parlato alla maniera lombarda, meglio apprendesse le regole della buona lingua toscana, che non farebbe il fiorentino per patria; ma che egli nasca e parle lombardo oggidì e diman da mattina parle e scriva regolatamente toscano meglio e più facilmente del toscano medesimo, non mi può entrare nel capo; altramente al tempo antico, per bene parlare greco e latino, sarebbe stato meglio nascere spagnolo che romano, e macedone che ateniese.

BEM. Questo no, perché la lingua greca e latina a lor tempo erano egualmente in ogni persona pure e non contaminate dalla barbarie dell'altre lingue, e così bene si parlava dal popolo per le piazze come tra' dotti nelle lor scole si ragionava. Onde egli si legge di Teofrasto, che fu l'un dè lumi della greca eloquenzia, essendo in Atene, alle parole essere stato giudicato forestiere da una povera feminetta di contado. CORTEG. Io per me non so come si stia questa cosa; ma sì vi dico che, dovendo studiare in apprendere alcuna lingua, più tosto voglio imparar la latina e la greca che la volgar; la quale mi con tento d'aver portato con esso meco dalla cuna e dalle fasce, senza cercarla altramente, quando tra le prose, quando tra' versi degli auttori toscani. BEM. Così facendo, voi scriverete e parlarete a caso, non per ragione; peroché niuna altra lingua ben regolata ha l'Italia, se non quell'una di cui vi parlo. CORTEG. Almeno dirò quello che io averò in core; e lo studio che io porrei in infilzar parolette di questo e di quello, sì lo porrò in trovare e disporre i concetti dell'animo mio, onde si deriva la vita della scrittura; ché male giudico potersi usare da noi altri a significare i nostri concetti quella lingua, tosca o latina che ella si sia, la quale impariamo e essercitiamo non ragionando tra noi i nostri accidenti, ma leggendo gli altrui. Questo a' dì nostri chiaramente si vede in un giovane padovano di nobilissimo ingegno, il quale, benché talora con molto studio che egli vi mette, alcuna cosa componga alla maniera del Petrarca e sia lodato dalle persone, nondimeno non sono da pareggiare i sonetti e le canzon di lui alle sue comedie, le quali nella sua lingua natia naturalmente e da niuna arte aiutate par che è gli eschino della bocca. Non dico però che uomo scriva né padovano né bergamasco, ma voglio bene che di tutte le lingue d'Italia possiamo accogliere parole e alcun modo di dire, quello usando come a noi piace, sì fattamente che ‘l nome non si discordi dal verbo, né l'adiettivo dal sostantivo: la qual regola di parlare si può imparare in tre giorni, non tra' grammatici nelle scole ma nelle corti co' gentiluomini, non istudiando ma giuocando e ridendo senza alcuna fatica, e con diletto dè discepoli e dè precettori. BEM. Bene starebbe, se questa guisa di studio bastasse altrui a far cosa degna di laude e di meraviglia; ma egli sarebbe troppo leggera cosa il farsi eterno per fama, e il numero dè buoni e lodati scrittori in piccol tempo diventerebbe molto maggiore, che egli non è. Bisogna, gentiluomo mio caro, volendo andar per le mani e per le bocche delle persone del mondo, lungo tempo sedersi nella sua camera; e chi, morto in sé stesso, disia di viver nella memoria degli uomini, sudare e agghiacciar più volte, e quando altri mangia e dorme a suo agio, patir fame e vegghiare.

CORTEG. Con tutto ciò non sarebbe facil cosa il divenir glorioso, ove altro bisogna che saper favellare. Che ne dite voi, messer Lazaro? Io per me son contento, contentandosi Monsignore, che la vostra sentenza ponga fine alle nostre liti.

LAZ. Cotesto non farò io, ché io vorrei che i difensori di questa lingua volgare fossero discordi tra loro, acciò che quella, a guisa di regno partito, più agevolmente rovinassero le dissensioni civili.

CORTEG. Dunque, aiutatemi contra all'oppenion di Monsignore, mosso non solamente dall'amor della verità, la quale dovete amare e riverire sopra ogni cosa, ma dall'odio che voi portate a questa lingua volgare, ché, vincendolo, vincerete il miglior difensore della lingua volgare, che abbia oggidì la sua dignità; dal giudicio del quale prende il mondo argumento d'impararla e usarla. LAZ. Combattete pur tra voi due, acciò che con quelle armi medesme, che voi oprate contra la latina e la greca, la vostra lingua volgare si ferisca e si estingua.

CORTEG. Monsignore, né a voi sarebbe gloria vincer me, debole combattitore e già stanco nella battaglia dianzi avuta con messer Lazaro, né a me fia vergogna l'essere aiutato d'altrui incontra all'auttorità e dottrina vostra, le quali ambedue insieme mi danno guerra sì fattamente ch'io non conosco qual più. Per che, non volendo messer Lazaro congiurar con esso meco a difendermi, prego voi, signore Scolare, che con sì lungo silenzio e sì attentamente ci avete ascoltati, che, avendo alcuna arme con la quale voi mi possiate aiutare, siate contento di trarla fuori per me; ché, poi che questa pugna non è mortale, potete entrarvi senza paura, aecostandovi a quella parte che più vi piace, benché più tosto vi dovete accostare alla mia, ove sete richiesto e ove è gloria l'esser vinto da così degno avversario. SCOL. Gentiluomo, io non parlai fin ora, peroché io non sapea che mi dire, non essendo mia professione lo studio delle lingue; ma volentieri ascoltai bramando e sperando pur d'imparare. Dunque, avendo a combattere in difesa d'alcuna vostra sentenza, non vi possendo aiutare, io vi consiglio che senza me combattiate; ché egl' è meglio per voi il combatter solo, che da persona accompagnato, la quale come inesperta dell'armi, cedendo in sul principio della battaglia, vi dia cagione di temere e farvi dare al fuggire. CORTEG. Con tutto ciò, se mi potete aiutare, che appena credo che sia altramente, sendo stato sì attento al nostro contrasto, aiutatemi, ché io ve ne prego; salvo se non sprezzate tal quistione come vil cosa e di sì poco valore che non degniate di entrare in campo con esso noi.

SCOL. Come non degnarei di parlar di materia, di che il Bembo al presente e altra volta il Peretto, mio precettore, insieme con messer Lascari con non minor sapienzia che eleganzia ne ragionò? Troppo mi degnarei, se io sapessi, ma d'ogni cosa io so poco e delle lingue niente; come quello che della greca conosco appena le lettere e della lingua latina tanto solamente imparai quanto bastasse per farmi intendere i libri di filosofia d'Aristotele; li quali, per quello che io n'oda dire da messer Lazaro, non sono latini ma barbari; della volgare non parlo, ché di sì fatti linguaggi mai non seppi, né mai curai di sapere, salvo il mio padovano, del quale, dopo il latte della nutrice, mi fu il vulgo maestro. CORTEG. Pur a voi converrà di parlar, se non altro quello almeno che n'apparaste dal Peretto e dal Lascari, li quali così saviamente (come voi dite) parlarono intorno a questa materia. SCOL. Poche cose, delle infinite che a tal materia partengono, pò imparare in un giorno chi non le ascolta per imparare, pensando che non bisogni impararle.

BEM. Ditene almeno quel poco che vi rimase nella memoria, ché a me fie caro l'intenderlo. LAZ. Volentieri in tal caso udirò recitare l'oppenione del mio maestro Peretto; il quale, avvegna che niuna lingua sapesse dalla mantovana infuori, nondimeno come uomo giudizioso e uso rade volte a ingannarsi, ne può aver detto alcuna cosa col Lascari, che l'ascoltarla mi piacerà. Pregovi adunque che, se niente ve ne ricorda, alcuna cosa del suo passato ragionamento non vi sia grave di riferirne.

SCOL. Così si faccia, poi che vi piace; ché anzi voglio esser tenuto ignorante, cosa dicendo non conosciuta da me, che discortese, rifiutando què prieghi che deono essermi commandamenti. Ma ciò si faccia con patto che, come a me non è onore il riferirvi gli altrui dotti ragionamentí, così il tacerne alcuna parola, la quale d'allora in qua mi sia uscita della memoria, non mi sia scritto a vergogna. CORTEG. Ad ogni patto mi sottoscrivo, pur che diciate.

SCOL. L'ultima volta che messer Lascari venne di Francia in Italia, stando in Bologna, ove volentieri abitava, e visitandolo il Peretto, come era uso di fare, un dì tra gli altri, poi che alquanto fu dimorato con esso lui, lo dimandò messer Lascari: LASC. Vostra eccellenza, maestro Piero mio caro, che legge quest'anno? PER. Signor mio, io leggo i quattro libri della Meteora d'Aristotile. LASC. Per certo bella lettura è la vostra; ma come fate d'espositori? PER. Dè latini non troppo bene, ma alcun mio amico m'ha servito d'uno Alessandro. LASC. Buona elezzione faceste, peroché Alessandro è Aristotile dopo Aristotile. Ma io non credeva che voi sapeste lettere grece.

PER. Io l'ho latino, non greco. LASC. Poco frutto dovete prenderne.

PER. Perché?

LASC. Perché io giudico Alessandro Afrodiseo greco, come è tanto diverso da sé medesmo, poi che latino è ridotto, quanto vivo da morto.

PER. Questo potrebbe esser che vero fosse; ma io non vi faceva differenzia, anzi pensava che tanto mi dovesse giovare la lezzione latina e volgare (se volgare si ritrovasse Alessandro) quanto a' Greci la greca, e con questa speranza incominciai a studiarlo. LASC. Vero è che egl'è meglio che voi l'abbiate latino, che non l'abbiate del tutto. Ma per certo la vostra dottrina sarebbe il doppio e maggiore e migliore, che ella non è, se Aristotile e Alessandro fosse letto da voi in quella lingua nella quale l'uno scrisse e l'altro l'espose. PER. Per qual cagione?

LASC. Percioché più facilmente e con maggiore eleganzia di parole sono espressi da lui i suoi concetti nella sua lingua che nell'altrui. PER. Vero forse direste se io fossi greco, sì come nacque Aristotile; ma che omo lombardo studie greco per dover farsi più facilmente filosofo, mi par cosa non ragionevole, anzi disconvenevole, non iscemandosi punto ma raddoppiandosi la fatica dell'imparare; percioché meglio e più tosto può studiar lo scolare loica sola o solamente filosofia, che non farebbe dando opera alla grammatica, spezialmente alla greca. LASC. Per questa istessa ragione non dovevate imparar né latino né greco, ma solamente il volgare mantovano, e con quello filosofare.

PER. Dio volesse, in servigio di chi verrà dopo me, che tutti i libri di ogni scienzia, quanti ne sono greci e latini e ebrei, alcuna dotta e pietosa persona si desse a fare volgari: forse i buoni filosofanti sarebbero in numero assai più spessi che a' dì nostri non sono, e la loro eccellenzia diventarebbe più rara. LASC. O non v'intendo o voi parlate con ironia. PER. Anzi parlo per dire il vero, e come uomo tenero dell'onor degl'Italiani; ché se l'ingiuria dè nostri tempi, così presenti come passati, volle privarmi di questa grazia, Dio mi guardi che io sia sì pieno né così arso d'invidia che io disideri di privarne chi nascerà dopo me. LASC. Volentieri v'ascolterò, se vi dà il cor di provarmi questa nuova conclusione, ché io non la intendo, né la giudico intelligibile. PER. Ditemi prima: onde è che gli uomini di questa età generalmente in ogni scienza son men dotti e di minor prezzo che già non furon gli antichi? Il che è contra il dovere, conciosia cosa che molto meglio e più facilmente si possa aggiugnere alcuna cosa alla dottrina trovata che trovarla da sé medesimo.

LASC. Che si può dire altro, se non che andiamo di male in peggio?

PER. Questo è vero, ma le cagioni son molte, tra le quali una ve n'ha, e oso dire la principale: che noi altri moderni viviamo indarno gran tempo, consumando la miglior parte dè nostri anni, la qual cosa non avveniva agli antichi. E per distinguere il mio parlare, porto ferma oppenione che lo studio della lingua greca e latina sia cagione dell'ignoranzia, ché se ‘l tempo, che intorno ad esse perdiamo, si spendesse da noi imparando filosofia, per avventura l'età moderna generarebbe quei Platoni e quegli Aristotili, che produceva l'antica. Ma noi vani più che le canne, pentiti quasi d'aver lasciato la cuna e esser uomini divenuti, tornati un'altra volta fanciulli, altro non facciamo diece e venti anni di questa vita che imparare a parlare chi latino, chi greco e alcuno (come Dio vuole) toscano; li quali anni finiti, e finito con esso loro quel vigore e quella prontezza, la quale naturalmente suol recare all'intelletto la gioventù, allora procuriamo di farci filosofi, quando non siamo atti alla speculazione delle cose. Onde, seguendo l'altrui giudicio, altra cosa non viene ad essere questa moderna filosofia che ritratto di quell'antica; però così come il ritratto, quantunque fatto d'artificiosissimo dipintore, non può essere del tutto simile alla idea, così noi, benché forse per altezza d'ingegno non siamo punto inferiori agli antichi, nondimeno in dottrina tanto siamo minori quanto lungo tempo stati sviati dietro alle favole delle parole, coloro finalmente imitiamo filosofando, alli quali alcuna cosa aggiugnendo dee avanzare la nostra industria. LASC. Dunque, se lo studio delle due lingue nuoce altrui sì malamente come voi dite, che si dee fare? Lasciarlo?

PER. Ora no, che non si potrebbe; percioché l'arti e le scienzie degl'uomini sono al presente nelle mani dè latini e dè greci; ma sì fare debbiamo per l'avenire, che d'ogni cosa per tutto ‘l mondo possa parlare ogni lingua. LASC. Come, maestro Piero, che è ciò che voi dite? Dunque darebbevi il core di filosofare volgarmente? e senza aver cognizione della lingua greca e latina?

PER. Monsignor sì, pur che gli auttori greci e latini si riducessero italiani.

LASC. Tanto sarebbe trasferir Aristotile di lingua greca in lombarda, quanto traspiantare un narancio o una oliva da un ben colto orticello in un bosco di pruni; oltra che le cose di filosofia sono peso d'altre spalle che da quelle di questa lingua volgare. PER. Io ho per fermo che le lingue d'ogni paese, così l'arabica e l'indiana come la romana e l'ateniese, siano d'un medesmo valore e da' mortali ad un fine con un giudicio formate; che io non vorrei che voi ne parlaste come di cosa dalla natura prodotta, essendo fatte e regolate dallo artificio delle persone a bene placito loro, non piantate né seminate: le quali usiamo sì come testimoni del nostro animo, significando tra noi i concetti dell'intelletto. Onde tutto che le cose dalla natura criate e le scienzie di quelle siano in tutte quattro le parti del mondo una cosa medesma, nondimeno, perciò che diversi uomini sono di diverso volere, però scrivono e parlano diversamente; la quale diversità e confusione delle voglie mortali degnamente è nominata torre di Babel. Dunque, non nascono le lingue per sé medesme, a guisa di alberi o d'erbe, quale debole e inferma nella sua specie, quale sana e robusta e atta meglio a portar la soma di nostri umani concetti; ma ogni loro vertù nasce al mondo dal voler dè mortali. Per la qual cosa, così come senza mutarsi di costume o di nazione il francioso e l'inglese, non pur il greco e il romano si può dare a filosofare; così credo che la sua lingua natia possa altrui compitamente comunicare la sua dottrina. Dunque, traducendosi a' nostri giorni la filosofia, seminata dal nostro Aristotile nè buoni campi d'Atene, di lingua greca in volgare, ciò sarebbe non gittarla tra' sassi, in mezo a' boschi, ove sterile divenisse, ma farebbesi di lontana propinqua e di forestiera, che ella è, cittadina d'ogni provincia; forse in quel modo che le speziarie e l'altre cose orientali a nostro utile porta alcun mercatante d'India in Italia, ove meglio per avventura son conosciute e trattate che da coloro non sono, che oltra il mare le seminorno e ricolsero. Similmente le speculazioni del nostro Aristotile ci diverrebbono più famigliari che non sono ora, e più facilmente sarebbero intese da noi, se di greco in volgare alcun dotto omo le riducesse.

LASC. Diverse lingue sono atte a significare diversi concetti, alcune i concetti d'i dotti, alcune altre degl'indotti. La greca veramente tanto si conviene con le dottrine che a dover quelle significare natura istessa, non umano provedimento, pare che l'abbia formata; e se creder non mi volete, credete almeno a Platone, mentre ne parla nel suo Cratillo . Onde ei si può dir di tal lingua che, quale è il lume a' colori, tale ella sia alle discipline: senza il cui lume nulla vedrebbe il nostro umano intelletto, ma in continua notte d'ignoranzia si dormirebbe. PER. Più tosto vo' credere ad Aristotile e alla verità, che lingua alcuna del mondo (sia qual si voglia) non possa aver da sé stessa privilegio di significare i concetti del nostro animo, ma tutto consista nello arbitrio delle persone. Onde chi vorrà parlar di filosofia con parole mantovane o milanesi, non gli può esser disdetto a ragione, più che disdetto gli sia il filosofare e l'intender la cagion delle cose. Vero è che, perché il mondo non ha in costume di parlar di filosofia se non greco o latino, già crediamo che far non possa altramente; e quindi viene che solamente di cose vili e volgari volgarmente parla e scrive la nostra età. Ma come i corpi e le reliquie di santi, non con le mani, ma con alcuna verghetta per riverenza tocchiamo; così i sacri misteri della divina filosofia più tosto con le lettere dell'altrui lingue che con la viva voce di questa nostra moderna ci moviamo a significare: il quale errore, conosciuto da molti, niuno ardisce di ripigliarlo. Ma tempo forse, pochi anni appresso, verrà che alcuna buona persona non meno ardita che ingeniosa porrà mano a così fatta mercatantia; e per giovare alla gente, non curando dell'odio né della invidia dè litterati, condurrà d'altrui lingua alla nostra le gioie e i frutti delle scienzie: le quali ora perfettamente non gustiamo né conosciamo. LASC. Veramente né di fama né di gloria si curerà chi vorrà prender la impresa di portar la filosofia dalla lingua d'Atene nella lombarda, ché tal fatica noia e biasimo gli recarà. PER. Noia confesso, per la novità della cosa, ma non biasimo, come credete; ché per uno che da prima ne dica male, poco da poi mille e mille altri loderanno e benediranno il suo studio; quello avvenendogli che avvenne di Gesù Cristo, il quale, togliendo di morir per la salute degli uomini, schernito primieramente, biasimato e crucifisso d'alcuni ippocriti, ora alla fine da chi ‘l conosce come Iddio e Salvator nostro si riverisce e adora. LASC. Tanto diceste di questo vostro buon uomo che di piccolo mercatante l'avete fatto messia; il quale Dio voglia che sia simile a quello che ancora aspettano li Giudei, acciò che eresia così vile mai non guasti per alcun tempo la filosofia d'Aristotile. Ma se voi siete in effetto di così strano parere, ché non vi fate a' dì nostri il redentore di questa lingua volgare? PER. Perché tardi conobbi la verità, e a tempo quando la forza dell'intelletto non è eguale al volere. LASC. Così Dio m'aiuti come io credo motteggiate; salvo se, come fanno i maliziosi, quello meco non biasimate che non potete ottenere. PER. Monsignor, le ragioni dianzi addotte da me non sono lievi, che io debba dirle per ischerzare; e non è cosa così difficile la cognizion delle lingue che uomo di meno che di mediocre memoria e senza ingegno veruno non le possa imparare, quando non pur a' dotti, ma a' forsennati Ateniesi e Romani solea parlare eloquentemente Cicerone e Demostene, e era inteso da loro. Certo anni e lustri miseramente poniamo in apprender quelle due lingue, non per grandezza d'oggetto ma solamente perché allo studio delle parole contra la naturale inclinazione del nostro umano intelletto ci rivolgiamo; il quale, disideroso di fermarsi nella cognizione delle cose onde si diventa perfetto, non contenta d'essere altrove piegato, ove, ornando la lingua di parolette e di ciance, resti vana la nostra mente. Dunque, dal contrasto che è tuttavia tra la natura dell'anima e tra ‘l costume del nostro studio dipende la difficultà della cognizion delle lingue, degna veramente non d'invidia ma d'odio, non di fatica ma di fastidio, e degna finalmente di dovere essere non appresa ma ripresa dalle persone, sì come cosa la quale non è cibo ma sogno e ombra del vero cibo dell'intelletto. LASC. Mentre voi parlavate così, io imaginava di vedere scritta la filosofia d'Aristotile in lingua lombarda, e udirne parlare tra loro ogni vile maniera di gente, facchini, contadini, barcaroli e altre tali persone con certi suoni e con certi accenti, i più noiosi e i più strani che mai udissi alla vita mia. In questo mezo mi si parava dinanzi essa madre filosofia, vestita assai poveramente di romagnolo, piangendo e lamentandosi d'Aristotile che disprezzando la sua eccellenza l'avesse a tale condotta e minacciando di non volere star più in terra, sì bello onore ne le era fatto dalle sue opere; il quale, iscusandosi con esso lei, negava d'averla offesa giamai, sempremai averla amata e lodata, né meno che orrevolmente averne scritto o parlato mentre egli visse, lui esser nato e morto greco, non bresciano né bergamasco, e mentire chi dir volesse altramente; alla qual visione disiderava che voi vi foste presente. PER. E io, se stato vi fossi, arei detto non doversi la filosofia dolere, perché ogni uomo, per ogni luogo, con ogni lingua il suo valore essaltasse; questo farsi anzi a gloria che a vergogna di lei, la quale, se non si sdegna d'albergare negl'intelletti lombardi, non si dee anche sdegnare d'esser trattata dalla lor lingua. L'India, la Scitia e l'Egitto, ove abitava sì volentieri, produsse genti e parole molto più strane e più barbare che non sono ora le mantovane e le bolognesi; lei lo studio della lingua greca e latina aver quasi del nostro mondo cacciata, mentre l'uomo, non curando di saper che si dica, vanamente suole imparare a parlare e, lasciando l'intelletto dormire, sveglia e opra la lingua. Natura in ogni età, in ogni provincia e in ogni abito esser sempremai una cosa medesima, la quale, così come volentieri fa sue arti per tutto ‘l mondo, non meno in terra che in cielo, e per esser intenta alla produzzione delle creature razionali, non si scorda delle irrazionali, ma con eguale artificio genera noi e i bruti animali, così da ricchi parimente e poveri uomini, da nobili e vili persone con ogni lingua, greca, latina, ebrea e lombarda, degna d'essere e conosciuta e lodata. Gli augelli, i pesci e l'altre bestie terrene d'ogni maniera, ora con un suono, ora con altro, senza distinzione di parole, i loro affetti significare; molto meglio dover ciò fare noi uomini, ciascuno con la sua lingua, senza ricorrere all'altrui. Le scritture e i linguaggi essere stati trovati non a salute di lei, la quale (come divina che ella è) non ha mestieri del nostro aiuto, ma solamente a utilità e commodità nostra, accioché absenti, presenti, vivi e rnorti, manifestando l'un l'altro i secreti del core, più facilmente conseguiamo la nostra propria felicità, la quale è posta nell'intelletto delle dottrine, non nel suono delle parole; e per conseguente quella lingua e quella scrittura doversi usare da' mortali, la quale con più agio apprendemo; e come meglio sarebbe stato (se fosse stato possibile) l'avere un sol linguaggio, il quale naturalmente fosse usato dagli uomini, così ora esser meglio che l'uomo scriva e ragioni nella maniera che men si scosta dalla natura; la qual maniera di ragionare appena nati impariamo e a tempo quando altra cosa non semo atti ad apprendere. E altrotanto arei detto al mio maestro Aristotile, della cui eleganzia d'orazione poco mi curarei, quando senza ragione fossero da lui scritti i suoi libri; natura aver lui adottato per figliuolo, non per esser nato in Atene ma per aver bene in alto inteso, bene parlato e bene scritto di lei; la verità trovata da lui, la disposizione e l'ordine delle cose, la gravità e brevità del parlare esser sua propria e non d'altri, né quella potersi mutare per mutamento di voce; il nome solo di lui discompagnato dalla ragione (quanto a me) essere di assai piccola auttorità; a lui stare, se (essendo lombardo ridotto) esser volesse Aristotile; noi mortali di questa età, così aver cari i suoi libri trammutati nell'altrui lingua, come gli ebbero i Greci, mentre greci li studiavano. Li quai libri con ogni industria procuriamo d'intendere per divenire una volta non ateniesi ma filosofi. E con questa risposta mi sarei partito da lui.

LASC. Dite pure e disiderate ciò che volete; ma io spero che a' dì vostri non vedrete Aristotile fatto volgare. PER. Perciò mi doglio della misera condizione di questi tempi moderni, nè quali si studia non ad esser ma a parer savio: che ove sola una via di ragione in qualunche linguaggio può condurne alla cognizione della verità, quella da canto lasciata, ci mettiamo per strada, la quale in effetto tanto ci dilunga dal nostro fine quanto altrui pare che vi ci meni vicini; che assai credemo d'alcuna cosa sapere, quando, senza cognoscere la natura di lei, possiamo dire in che modo la nominava Cicerone, Plinio, Lucrezio e Virgilio tra' latini scrittori, e tra' greci Platone, Aristotile, Demostene e Eschine; delle cui semplici parolette fanno gl'uomini di questa età le loro arti e scienzie in guisa che dir lingua greca e latina par dire lingua divina, e che sola la lingua volgare sia una lingua inumana, priva al tutto del discorso dell'intelletto; forse non per altra ragione, salvo perché questa una da fanciulli e senza studio impariamo, ove a quell'altre con molta cura ci convertiamo come a lingue, le quali giudichiamo più convenirsi con le dottrine, che non fanno le parole dell'eucaristia e del battesmo con ambidue tai sacramenti: la quale sciocca oppenione è sì fissa negli animi d'i mortali che molti si fanno a credere che a dover farsi filosofi basti loro sapere scrivere e leggere greco senza più, non altramente che se lo spirito d'Aristotile, a guisa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell'alfabeto di Grecia, e con lui insieme fosse costretto d'entrar loro nell'intelletto a fargli profeti; onde molti n'ho già veduti a' miei giorni sì arroganti che, privi in tutto d'ogni scienza, confidandosi solamente nella cognizion della lingua, hanno avuto ardimento di por mano a' suoi libri, quelli a guisa degli altri libri d'umanità publicamente esponendo. Dunque, a costoro il far volgari le dottrine di Grecia parrebbe opra perduta, sì per la indegnità della lingua come per l'angustia d'i termini dentro a' quali col suo linguaggio è rinchiusa l'Italia, vana istimando la impresa dello scrivere e del parlare in maniera che non l'intendano gli studiosi di tutto ‘l mondo. Ma quello che non è stato veduto da me, spero dover vedere (quando che sia) chi nascerà dopo me, e a tempo che le persone certo più dotte, ma meno ambiziose delle presenti, degneranno d'esser lodate nella lor patria, senza curarsi che la Magna o altro strano paese riverisca i lor nomi; ché se la forma delle parole, onde i futuri filosofi ragioneranno e scriveranno delle scienzie, sarà comune alla plebe, l'intelletto e il sentimento di quelle sarà proprio degli amatori e studiosi delle dottrine, le quali hanno ricetto non nelle lingue ma negli animi d'i mortali. SCOL. Già s'apparecchiava messer Lascari alla risposta, quando sopravenne brigata di gentiluomini che venivano a visitarlo, da' quali fu interrotto l'incominciato ragionamento; per che, salutati l'un l'altro con promessa di tornare altra volta, il Peretto e io con lui ci partiamo. CORTEG. Così bene mi difendeste con l'armi del maestro Peretto che il por mano alle vostre sarebbe cosa superflua; per la qual cosa, avvegna che il parlare intorno a questa materia fosse vostra professione, nondimeno io mi contento che vi tacciate. Ma del soccorso prestatomi, parte da l'auttorità di così degno filosofo, parte da le ragioni antedette, io ve ne rendo infinite grazie; e vi prometto, che per fuggire il fastidio dello imparare a parlare con le lingue dè morti, seguitando il consiglio del maestro Peretto, come son nato così voglio vivere romano, parlare romano e scrivere romano. E a voi, messer Lazaro, come a persona d'altro parere, predico che indarno tentate di ridurre dal suo lungo esilio in Italia la vostra lingua latina e, dopo la totale ruina di lei, sollevarla da terra; ché, se quando ella cominciava a cadere, non fu uomo che sostenere ve la potesse e chiunque alla rovina s'oppose a guisa di Polidamante fu oppresso dal peso, ora che ella giace del tutto, rotta parimente dal precipizio e dal tempo, qual atleta o qual gigante potrà vantarsi di rilevarla? Né a me pare, se ai vostri scritti riguardo, che ne vogliate far pruova, considerando che ‘l vostro scrivere latino non è altro che uno andar ricogliendo per questo auttore e per quello ora un nome, ora un verbo, ora un adverbio della sua lingua; il che facendo, se voi sperate (quasi nuovo Esculapio) che il porre insieme cotai fragmenti possa farla risuscitare, voi v'ingannate, non vi accorgendo che nel cadere di sì superbo edificio una parte divenne polvere e un'altra dee esser rotta in più pezzi; li quali volere in uno ridurre, sarebbe cosa impossibile, senza che molte sono l'altre parti le quali, rimase in fondo del mucchio o involate dal tempo non son trovate da alcuno. Onde minore e men ferma rifarete la fabrica, che ella non era da prima, e venendovi fatto di ridur lei alla sua prima grandezza, mai non fia vero che voi le diate la forma che anticamente le dierono què primi buoni architetti, quando nova la fabricarono; anzi ove soleva esser la sala, farete le camere, confonderete le porte, e delle finestre di lei questa alta, quell'altra bassa riformarete; ivi sode tutte e intere risurgeranno le sue muraglie, onde primieramente s'illuminava il palazzo, e altronde dentro di lei con la luce del sole alcun fiato di tristo vento entrerà che farà inferma la stanza. Finalmente sarà miracolo, più che umano provedimento, il rifarla mai più eguale o simile a quell'antica, essendo mancata l'idea, onde il mondo tolse l'essempio di edificarla. Per che io vi conforto a lasciar l'impresa di voler farvi singulare da gl'altri uomini affaticandovi vanamente senza pro vostro e d'altrui. LAZ. Perdonatemi, gentiluomo, voi non poneste ben mente alle parole del mio maestro Peretto, il quale non solamente non ricusava, come voi fate, d'imparar greco e latino; anzi si lamentava d'essere a farlo sforzato, disiderando una età, nella quale senza l'aiuto di quelle lingue potesse il popolo studiare e farsi perfetto in ogni scienzia. La quale oppenione io non laudo, né vitupero, perché quello non posso, questo non voglio; dico solamente non essere stata bene intesa da voi, onde la diliberazione vostra non avrà origine né dall'autorità né dalle ragioni, ma dal vostro appetito, lo quale seguite quanto v'aggrada, che altrettanto io farò del mio; ché se ‘l viaggio che io tengo è più lungo e più faticoso del vostro, per avventura non fia sì vano, e al fine della mia giornata a buono albergo sano, quantunque stanco, mi condurrà. BEM. Messer Lazaro dice il vero e v'aggiungo che ‘l Peretto in quell'ora (come a me pare) disputò delle lingue, avendo rispetto alla filosofia e altre simili scienzie. Per che, posto che vera sia la sua oppenione, e così bene potesse filosofare il contadino come il gentiluomo e il Lombardo come il Romano, non è però che in ogni lingua egualmente si possa poetare e orare; conciosiacosa che fra loro l'una sia più e meno dotata degli ornamenti della prosa e del verso che l'altra non è. La qual cosa fu tra noi disputata da prima, senza far parola delle dottrine, e come allora vi dissi così vi dico di nuovo che, se voglia vi verrà mai di comporre o canzoni o novelle al modo vostro, cioè in lingua che sia diversa dalla toscana e senza imitare il Petrarca o il Boccaccio, per aventura voi sarete buon cortigiano, ma poeta o oratore non mai. Onde tanto di voi si ragionerà e sarete conosciuto dal mondo quanto la vita vi durerà, e non più, conciosia che la vostra lingua romana abbia vertù in farvi più tosto grazioso che glorioso.

Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte seconda) Sperone Speroni: Dialogue of languages (part two) Sperone Speroni: Diálogo de línguas (segunda parte)

BEM. BEM. Questa cosa di numeri come si stia e se così la prosa come il verso toscano n'ha la sua parte e in che modo la si abbia, per essere assai facile da vedere ma lontana dal nostro proponimento, ora con esso voi non intendo di disputarla; anzi confessando quello esser vero, che ne diceste, non tanto perché sia vero quanto perché si veda ciò che ne segue, io vi dico questa lingua moderna, tutto che sia attempatetta che no, esser però ancora assai picciola e sottile verga, la quale non ha appieno fiorito, non che frutti produtti che ella può fare: certo non per difetto della natura di lei, essendo così atta a generar come le altre, ma per colpa di loro che l'ebbero in guardia, che non la coltivorno a bastanza,. This thing of numbers as it is and if so the prose as the Tuscan verse has its part and how it is had, to be very easy to see but far from our purpose, now with it you do not intend to dispute it ; indeed, confessing that it is true, that you say it, not so much because it is true but because you see what follows from it, I tell you this modern language, everything that is old or not, but it is still very small and thin rod, which is not has fully blossomed, nothing but fruit that she can produce: certainly not by defect of her nature, being so capable of generating as the others, but because of them who had warned her, that I do not cultivate her enough, . ma a guisa di pianta selvaggia, in quel medesimo deserto ove per sé a nascere cominciò, senza mai né adacquarla né potarla né difenderla dai pruni che le fanno ombra, l'hanno lasciata invecchiare e quasi morire. E se què primi antichi Romani fossero stati sì negligenti in coltivare la latina quando a pullular cominciò, per certo in sì poco tempo non sarebbe divenuta sì grande; ma essi, a guisa di ottimi agricoltori, lei primieramente tramutarono da luogo selvaggio a domestico; poi, perché e più tosto e più belli e maggior frutti facesse, levandole via d'attorno le inutili frasche, in loro scambio l'innestarono d'alcuni ramuscelli maestrevolmente detratti dalla greca; li quali subitamente in guisa le s'appiccarono e in guisa si ferno simili al tronco, che oggimai non paiono rami adottivi ma naturali. Quindi nacquero in lei què fiori e què frutti sì coloriti dell'eloquenzia, con quel numero e con quell'ordine istesso il quale tanto essaltate; li quali, non tanto per sua natura quanto d'altrui artificio aiutata, suol produrre ogni lingua. Peroché ‘l numero, nato per magistero di Trasimaco, di Gorgia, di Teodoro, Isocrate finalmente fece perfetto. Dunque se greci e latini uomini, più solleciti alla coltura della lor lingua che noi non semo alla nostra, non trovarono in quelle, se non dopo alcun tempo e dopo molta fatica, né leggiadria né numero, già non dè parer meraviglia, se noi ancora non n'avemo tanto che basti nella volgare; né quindi dè prender uomo argumento a sprezzarla come vil cosa e da poco. Oh, la latina è migliore d'assai! Oh, quanto sarebbe meglio dir fu e non è, ma sia stata per lo passato e sia ancor tuttavia sì gentil cosa! Tempo forse verrà che d'altra tanta eccellenzia fia la volgare dotata; ché, se per essere a' nostri giorni di niuno stato e men gradita, non si dovesse apprezzare, la greca, la quale era già grande sul nascimento della latina, nè nostri animi non dovea lasciar fermare le radici d'un'altra lingua novella; e altrettanto direi della greca, per rispetto alla ebrea: concluderebbesi finalmente dalle vostre premisse dover essere al mondo sola una lingua, e non più, onde scrivessero e parlassero li mortali; e avverrebbe che ove voi credereste d'argumentar solamente contra la lingua toscana, e quella con vostre ragioni estirpare del mondo, voi parlareste eziandio contra la latina e la greca. Benché questa pugna si estenderebbe non solamente contra i linguaggi del mondo, ma contra Dio, il quale ab eterno diede per legge immutabile ad ogni cosa criata non durare eternamente, ma di continuo d'uno in altro stato mutarsi, ora avanzando e ora diminuendo, finché finisca una volta, per mai più poscia non rinovarsi. Voi mi direte: troppo indugia oggimai la perfezzione della lingua materna; e io vi dico che così è come dite; ma tale indugio non dee far credere altrui esser cosa impossibile che ella divenga perfetta; anzi vi può far certo lei doversi lungo tempo godere la sua perfezzione, qualora egli avverrà ch'ella se l'abbia acquistata. Ché così vuol la natura, la quale ha diliberato che qual arbor tosto nasce, fiorisce e fa frutto, tale tosto invecchie e si muoia; e in contrario che quello duri per molti anni, il quale lunga stagione arà penato a far fronde. Sarà adunque la nostra lingua, in conservarsi la sua dovuta perfezzione lungamente disiderata e cercata, simile forse ad alcuni ingegni, li quali, quanto men facilmente apprendono le dottrine, tanto difficilmente le si lasciano uscire della memoria. Oh, ella è testimonio della nostra vergogna, essendo venuta in Italia insieme con la roina di lei! Più tosto ella è testimonio della nostra solerzia e del nostro buono ardimento; ché, così come, venendo Enea da Troia in Italia, ad onor si recò lasciare scritto in un certo trofeo drizzato da lui, quelle essere state l'armi dè vincitori della sua patria; così vergogna non ci può essere l'aver cosa in Italia tolta di mano a coloro che noi tolsero di libertà. Direi, finalmente, quando esser volessi maligno, più tosto doversi adorar dalle genti il sole oriente che l'occidente. La lingua greca e latina già esser giunte all'occaso, né quelle esser più lingue, ma carta solamente e inchiostro, ove quanto sia difficile cosa l'imparare a parlare, ditelo voi per me, che non osate dir cosa latinamente con altre parole che con quelle di Cicerone. Onde, quanto parlate e scrivete latino non è altro che Cicerone trasposto più tosto da carta a carta che da materia a materia; benché questo non è sì vostro peccato che egli non sia anche mio e d'altri assai e maggiori e migliori di me; peccato però non indegno di scusa, non possendo farsi altramente. Ma queste poche parole dette da me contra la lingua latina per la volgare non dissi per vero dire; solo volsi mostrare quanto bene difenderebbe questa lingua novella, chi per lei far volesse difesa, quando a lei non manca né core né armi d'offendere l'altrui. CORTEG. Parmi, Monsignor, che così temiate di dir male della lingua latina, come se ella fosse la lingua del vostro Santo da Padova; alla quale è di tanto conforme che, come quella fu di persona già viva, la cui santità è cagione che ora, posta in un tabernacolo di cristallo, sia dalle genti adorata, così questa degna reliquia del capo del mondo Roma, guasto e corrotto già molto tempo, quantunque oggimai fredda e secca si taccia, nondimeno fatta idolo d'alcune poche e superstiziose persone, colui da loro non è cristiano tenuto, che non l'adora per dio. Ma adoratela a vostro senno, solo che non parliate con esso lei; e volendo tenerla in bocca, così morta come è, siavi lecito di poterlo fare; ma parlate tra voi dotti le vostre morte latine parole, e a noi idioti le nostre vive volgari, con la lingua che Dio ci diede, lasciate in pace parlare.

BEM. Dovevate, per agguagliarla compitamente alla lingua di qualche santo, soggiungere qualmente l'orazioni di Cicerone e i versi di Virgilio le sono degni e preziosissimi tabernacoli; onde lei come cosa beata riveriamo e inchiniamo. Ma per certo né l'una né l'altra non meritava che la teneste per morta, operando tutt'ora nè corpi nostri e nell'anime quella salute, questa virtute. Con tutto ciò lodo sommamente la nostra lingua volgare, cioè toscana; accioche non sia alcuno che intenda della volgare di tutta Italia: toscana dico, non la moderna che usa il vulgo oggidì, ma l'antica, onde sì dolcemente parlorno il Petrarca e il Boccaccio; ché la lingua di Dante sente bene e spesso più del lombardo che del toscano; e ove è toscano, è più tosto toscano di contado che di città. Dunque di quella parlo, quella lodo, quella vi persuado apparare; quantunque ella non sia giunta alla sua vera perfezzione, ella nondimeno le è già venuta sì presso che poco tempo vi è a volgere: ove poi che arrivata sarà, non dubito punto che, quale è nella greca e nella latina, tale fia in lei virtù di far vivere altrui mirabilmente dopo la morte. E allora sì le vedremo noi fare di molti, non tabernacoli, ma tempii e altari, alla cui visitazione concorrerà da tutte le parti del mondo brigata di spiriti pellegrini, che le faranno lor voti e saranno esauditi da lei.

CORTEG. Dunque, se io vorrò bene scrivere volgarmente, converrami tornare a nascer toscano?

BEM. Nascer no, ma studiar toscano; ché egli è meglio per aventura nascer lombardo che fiorentino, peroché l'uso del parlar tosco oggidì è tanto contrario alle regole della buona toscana, che più noce altrui l'esser natio di quella provincia, che non gli giova. CORTEG. Dunque, una persona medesma non può esser tosca per natura e per arte?

BEM. Difficilmente per certo; essendo l'usanza, che per lunghezza di tempo è quasi convertita in natura, diversa in tutto dall'arte. Onde, come chi è giudeo o eretico, rade volte diviene buon cristiano, e più crede in Cristo chi nulla credeva quando fu battezzato; così qualunche non è nato toscano può meglio imparare la buona lingua toscana, che colui non fa, il quale da fanciullo in su sempremai parlò perversamente toscano.

CORTEG. Io, che mai non nacqui né studiai toscano, male posso rispondere alle vostre parole; nondimeno a me pare che più si convenga col vostro Boccaccio il parlar fiorentino moderno, che non fa il bergamasco. Onde egli potrebbe esser molto bene che uomo nato in Melano, senza aver mai parlato alla maniera lombarda, meglio apprendesse le regole della buona lingua toscana, che non farebbe il fiorentino per patria; ma che egli nasca e parle lombardo oggidì e diman da mattina parle e scriva regolatamente toscano meglio e più facilmente del toscano medesimo, non mi può entrare nel capo; altramente al tempo antico, per bene parlare greco e latino, sarebbe stato meglio nascere spagnolo che romano, e macedone che ateniese.

BEM. Questo no, perché la lingua greca e latina a lor tempo erano egualmente in ogni persona pure e non contaminate dalla barbarie dell'altre lingue, e così bene si parlava dal popolo per le piazze come tra' dotti nelle lor scole si ragionava. Onde egli si legge di Teofrasto, che fu l'un dè lumi della greca eloquenzia, essendo in Atene, alle parole essere stato giudicato forestiere da una povera feminetta di contado. CORTEG. Io per me non so come si stia questa cosa; ma sì vi dico che, dovendo studiare in apprendere alcuna lingua, più tosto voglio imparar la latina e la greca che la volgar; la quale mi con tento d'aver portato con esso meco dalla cuna e dalle fasce, senza cercarla altramente, quando tra le prose, quando tra' versi degli auttori toscani. BEM. Così facendo, voi scriverete e parlarete a caso, non per ragione; peroché niuna altra lingua ben regolata ha l'Italia, se non quell'una di cui vi parlo. CORTEG. Almeno dirò quello che io averò in core; e lo studio che io porrei in infilzar parolette di questo e di quello, sì lo porrò in trovare e disporre i concetti dell'animo mio, onde si deriva la vita della scrittura; ché male giudico potersi usare da noi altri a significare i nostri concetti quella lingua, tosca o latina che ella si sia, la quale impariamo e essercitiamo non ragionando  tra noi i nostri accidenti, ma leggendo gli altrui. Questo a' dì nostri chiaramente si vede in un giovane padovano di nobilissimo ingegno, il quale, benché talora con molto studio che egli vi mette, alcuna cosa componga alla maniera del Petrarca e sia lodato dalle persone, nondimeno non sono da pareggiare i sonetti e le canzon di lui alle sue comedie, le quali nella sua lingua natia naturalmente e da niuna arte aiutate par che è gli eschino della bocca. Non dico però che uomo scriva né padovano né bergamasco, ma voglio bene che di tutte le lingue d'Italia possiamo accogliere parole e alcun modo di dire, quello usando come a noi piace, sì fattamente che ‘l nome non si discordi dal verbo, né l'adiettivo dal sostantivo: la qual regola di parlare si può imparare in tre giorni, non tra' grammatici nelle scole ma nelle corti co' gentiluomini, non istudiando ma giuocando e ridendo senza alcuna fatica, e con diletto dè discepoli e dè precettori. BEM. Bene starebbe, se questa guisa di studio bastasse altrui a far cosa degna di laude e di meraviglia; ma egli sarebbe troppo leggera cosa il farsi eterno per fama, e il numero dè buoni e lodati scrittori in piccol tempo diventerebbe molto maggiore, che egli non è. Bisogna, gentiluomo mio caro, volendo andar per le mani e per le bocche delle persone del mondo, lungo tempo sedersi nella sua camera; e chi, morto in sé stesso, disia di viver nella memoria degli uomini, sudare e agghiacciar più volte, e quando altri mangia e dorme a suo agio, patir fame e vegghiare.

CORTEG. Con tutto ciò non sarebbe facil cosa il divenir glorioso, ove altro bisogna che saper favellare. Che ne dite voi, messer Lazaro? Io per me son contento, contentandosi Monsignore, che la vostra sentenza ponga fine alle nostre liti.

LAZ. Cotesto non farò io, ché io vorrei che i difensori di questa lingua volgare fossero discordi tra loro, acciò che quella, a guisa di regno partito, più agevolmente rovinassero le dissensioni civili.

CORTEG. Dunque, aiutatemi contra all'oppenion di Monsignore, mosso non solamente dall'amor della verità, la quale dovete amare e riverire sopra ogni cosa, ma dall'odio che voi portate a questa lingua volgare, ché, vincendolo, vincerete il miglior difensore della lingua volgare, che abbia oggidì la sua dignità; dal giudicio del quale prende il mondo argumento d'impararla e usarla. LAZ. Combattete pur tra voi due, acciò che con quelle armi medesme, che voi oprate contra la latina e la greca, la vostra lingua volgare si ferisca e si estingua.

CORTEG. Monsignore, né a voi sarebbe gloria vincer me, debole combattitore e già stanco nella battaglia dianzi avuta con messer Lazaro, né a me fia vergogna l'essere aiutato d'altrui incontra all'auttorità e dottrina vostra, le quali ambedue insieme mi danno guerra sì fattamente ch'io non conosco qual più. Per che, non volendo messer Lazaro congiurar con esso meco a difendermi, prego voi, signore Scolare, che con sì lungo silenzio e sì attentamente ci avete ascoltati, che, avendo alcuna arme con la quale voi mi possiate aiutare, siate contento di trarla fuori per me; ché, poi che questa pugna non è mortale, potete entrarvi senza paura, aecostandovi a quella parte che più vi piace, benché più tosto vi dovete accostare alla mia, ove sete richiesto e ove è gloria l'esser vinto da così degno avversario. SCOL. Gentiluomo, io non parlai fin ora, peroché io non sapea che mi dire, non essendo mia professione lo studio delle lingue; ma volentieri ascoltai bramando e sperando pur d'imparare. Dunque, avendo a combattere in difesa d'alcuna vostra sentenza, non vi possendo aiutare, io vi consiglio che senza me combattiate; ché egl' è meglio per voi il combatter solo, che da persona accompagnato, la quale come inesperta dell'armi, cedendo in sul principio della battaglia, vi dia cagione di temere e farvi dare al fuggire. CORTEG. Con tutto ciò, se mi potete aiutare, che appena credo che sia altramente, sendo stato sì attento al nostro contrasto, aiutatemi, ché io ve ne prego; salvo se non sprezzate tal quistione come vil cosa e di sì poco valore che non degniate di entrare in campo con esso noi.

SCOL. Come non degnarei di parlar di materia, di che il Bembo al presente e altra volta il Peretto, mio precettore, insieme con messer Lascari con non minor sapienzia che eleganzia ne ragionò? Troppo mi degnarei, se io sapessi, ma d'ogni cosa io so poco e delle lingue niente; come quello che della greca conosco appena le lettere e della lingua latina tanto solamente imparai quanto bastasse per farmi intendere i libri di filosofia d'Aristotele; li quali, per quello che io n'oda dire da messer Lazaro, non sono latini ma barbari; della volgare non parlo, ché di sì fatti linguaggi mai non seppi, né mai curai di sapere, salvo il mio padovano, del quale, dopo il latte della nutrice, mi fu il vulgo maestro. CORTEG. Pur a voi converrà di parlar, se non altro quello almeno che n'apparaste dal Peretto e dal Lascari, li quali così saviamente (come voi dite) parlarono intorno a questa materia. SCOL. Poche cose, delle infinite che a tal materia partengono, pò imparare in un giorno chi non le ascolta per imparare, pensando che non bisogni impararle.

BEM. Ditene almeno quel poco che vi rimase nella memoria, ché a me fie caro l'intenderlo. LAZ. Volentieri in tal caso udirò recitare l'oppenione del mio maestro Peretto; il quale, avvegna che niuna lingua sapesse dalla mantovana infuori, nondimeno come uomo giudizioso e uso rade volte a ingannarsi, ne può aver detto alcuna cosa col Lascari, che l'ascoltarla mi piacerà. Pregovi adunque che, se niente ve ne ricorda, alcuna cosa del suo passato ragionamento non vi sia grave di riferirne.

SCOL. Così si faccia, poi che vi piace; ché anzi voglio esser tenuto ignorante, cosa dicendo non conosciuta da me, che discortese, rifiutando què prieghi che deono essermi commandamenti. Ma ciò si faccia con patto che, come a me non è onore il riferirvi gli altrui dotti ragionamentí, così il tacerne alcuna parola, la quale d'allora in qua mi sia uscita della memoria, non mi sia scritto a vergogna. CORTEG. Ad ogni patto mi sottoscrivo, pur che diciate.

SCOL. L'ultima volta che messer Lascari venne di Francia in Italia, stando in Bologna, ove volentieri abitava, e visitandolo il Peretto, come era uso di fare, un dì tra gli altri, poi che alquanto fu dimorato con esso lui, lo dimandò messer Lascari: LASC. Vostra eccellenza, maestro Piero mio caro, che legge quest'anno? PER. Signor mio, io leggo i quattro libri della Meteora d'Aristotile. LASC. Per certo bella lettura è la vostra; ma come fate d'espositori? PER. Dè latini non troppo bene, ma alcun mio amico m'ha servito d'uno Alessandro. LASC. Buona elezzione faceste, peroché Alessandro è Aristotile dopo Aristotile. Ma io non credeva che voi sapeste lettere grece.

PER. Io l'ho latino, non greco. LASC. Poco frutto dovete prenderne.

PER. Perché?

LASC. Perché io giudico Alessandro Afrodiseo greco, come è tanto diverso da sé medesmo, poi che latino è ridotto, quanto vivo da morto.

PER. Questo potrebbe esser che vero fosse; ma io non vi faceva differenzia, anzi pensava che tanto mi dovesse giovare la lezzione latina e volgare (se volgare si ritrovasse Alessandro) quanto a' Greci la greca, e con questa speranza incominciai a studiarlo. LASC. Vero è che egl'è meglio che voi l'abbiate latino, che non l'abbiate del tutto. Ma per certo la vostra dottrina sarebbe il doppio e maggiore e migliore, che ella non è, se Aristotile e Alessandro fosse letto da voi in quella lingua nella quale l'uno scrisse e l'altro l'espose. PER. Per qual cagione?

LASC. Percioché più facilmente e con maggiore eleganzia di parole sono espressi da lui i suoi concetti nella sua lingua che nell'altrui. PER. Vero forse direste se io fossi greco, sì come nacque Aristotile; ma che omo lombardo studie greco per dover farsi più facilmente filosofo, mi par cosa non ragionevole, anzi disconvenevole, non iscemandosi punto ma raddoppiandosi la fatica dell'imparare; percioché meglio e più tosto può studiar lo scolare loica sola o solamente filosofia, che non farebbe dando opera alla grammatica, spezialmente alla greca. LASC. Per questa istessa ragione non dovevate imparar né latino né greco, ma solamente il volgare mantovano, e con quello filosofare.

PER. Dio volesse, in servigio di chi verrà dopo me, che tutti i libri di ogni scienzia, quanti ne sono greci e latini e ebrei, alcuna dotta e pietosa persona si desse a fare volgari: forse i buoni filosofanti sarebbero in numero assai più spessi che a' dì nostri non sono, e la loro eccellenzia diventarebbe più rara. LASC. O non v'intendo o voi parlate con ironia. PER. Anzi parlo per dire il vero, e come uomo tenero dell'onor degl'Italiani; ché se l'ingiuria dè nostri tempi, così presenti come passati, volle privarmi di questa grazia, Dio mi guardi che io sia sì pieno né così arso d'invidia che io disideri di privarne chi nascerà dopo me. LASC. Volentieri v'ascolterò, se vi dà il cor di provarmi questa nuova conclusione, ché io non la intendo, né la giudico intelligibile. PER. Ditemi prima: onde è che gli uomini di questa età generalmente in ogni scienza son men dotti e di minor prezzo che già non furon gli antichi? Il che è contra il dovere, conciosia cosa che molto meglio e più facilmente si possa aggiugnere alcuna cosa alla dottrina trovata che trovarla da sé medesimo.

LASC. Che si può dire altro, se non che andiamo di male in peggio?

PER. Questo è vero, ma le cagioni son molte, tra le quali una ve n'ha, e oso dire la principale: che noi altri moderni viviamo indarno gran tempo, consumando la miglior parte dè nostri anni, la qual cosa non avveniva agli antichi. E per distinguere il mio parlare, porto ferma oppenione che lo studio della lingua greca e latina sia cagione dell'ignoranzia, ché se ‘l tempo, che intorno ad esse perdiamo, si spendesse da noi imparando filosofia, per avventura l'età moderna generarebbe quei Platoni e quegli Aristotili, che produceva l'antica. Ma noi vani più che le canne, pentiti quasi d'aver lasciato la cuna e esser uomini divenuti, tornati un'altra volta fanciulli, altro non facciamo diece e venti anni di questa vita che imparare a parlare chi latino, chi greco e alcuno (come Dio vuole) toscano; li quali anni finiti, e finito con esso loro quel vigore e quella prontezza, la quale naturalmente suol recare all'intelletto la gioventù, allora procuriamo di farci filosofi, quando non siamo atti alla speculazione delle cose. Onde, seguendo l'altrui giudicio, altra cosa non viene ad essere questa moderna filosofia che ritratto di quell'antica; però così come il ritratto, quantunque fatto d'artificiosissimo dipintore, non può essere del tutto simile alla idea, così noi, benché forse per altezza d'ingegno non siamo punto inferiori agli antichi, nondimeno in dottrina tanto siamo minori quanto lungo tempo stati sviati dietro alle favole delle parole, coloro finalmente imitiamo filosofando, alli quali alcuna cosa aggiugnendo dee avanzare la nostra industria. LASC. Dunque, se lo studio delle due lingue nuoce altrui sì malamente come voi dite, che si dee fare? Lasciarlo?

PER. Ora no, che non si potrebbe; percioché l'arti e le scienzie degl'uomini sono al presente nelle mani dè latini e dè greci; ma sì fare debbiamo per l'avenire, che d'ogni cosa per tutto ‘l mondo possa parlare ogni lingua. LASC. Come, maestro Piero, che è ciò che voi dite? Dunque darebbevi il core di filosofare volgarmente? e senza aver cognizione della lingua greca e latina?

PER. Monsignor sì, pur che gli auttori greci e latini si riducessero italiani.

LASC. Tanto sarebbe trasferir Aristotile di lingua greca in lombarda, quanto traspiantare un narancio o una oliva da un ben colto orticello in un bosco di pruni; oltra che le cose di filosofia sono peso d'altre spalle che da quelle di questa lingua volgare. PER. Io ho per fermo che le lingue d'ogni paese, così l'arabica e l'indiana come la romana e l'ateniese, siano d'un medesmo valore e da' mortali ad un fine con un giudicio formate; che io non vorrei che voi ne parlaste come di cosa dalla natura prodotta, essendo fatte e regolate dallo artificio delle persone a bene placito loro, non piantate né seminate: le quali usiamo sì come testimoni del nostro animo, significando tra noi i concetti dell'intelletto. Onde tutto che le cose dalla natura criate e le scienzie di quelle siano in tutte quattro le parti del mondo una cosa medesma, nondimeno, perciò che diversi uomini sono di diverso volere, però scrivono e parlano diversamente; la quale diversità e confusione delle voglie mortali degnamente è nominata torre di Babel. Dunque, non nascono le lingue per sé medesme, a guisa di alberi o d'erbe, quale debole e inferma nella sua specie, quale sana e robusta e atta meglio a portar la soma di nostri umani concetti; ma ogni loro vertù nasce al mondo dal voler dè mortali. Per la qual cosa, così come senza mutarsi di costume o di nazione il francioso e l'inglese, non pur il greco e il romano si può dare a filosofare; così credo che la sua lingua natia possa altrui compitamente comunicare la sua dottrina. Dunque, traducendosi a' nostri giorni la filosofia, seminata dal nostro Aristotile nè buoni campi d'Atene, di lingua greca in volgare, ciò sarebbe non gittarla tra' sassi, in mezo a' boschi, ove sterile divenisse, ma farebbesi di lontana propinqua e di forestiera, che ella è, cittadina d'ogni provincia; forse in quel modo che le speziarie e l'altre cose orientali a nostro utile porta alcun mercatante d'India in Italia, ove meglio per avventura son conosciute e trattate che da coloro non sono, che oltra il mare le seminorno e ricolsero. Similmente le speculazioni del nostro Aristotile ci diverrebbono più famigliari che non sono ora, e più facilmente sarebbero intese da noi, se di greco in volgare alcun dotto omo le riducesse.

LASC. Diverse lingue sono atte a significare diversi concetti, alcune i concetti d'i dotti, alcune altre degl'indotti. La greca veramente tanto si conviene con le dottrine che a dover quelle significare natura istessa, non umano provedimento, pare che l'abbia formata; e se creder non mi volete, credete almeno a Platone, mentre ne parla nel suo Cratillo . Onde ei si può dir di tal lingua che, quale è il lume a' colori, tale ella sia alle discipline: senza il cui lume nulla vedrebbe il nostro umano intelletto, ma in continua notte d'ignoranzia si dormirebbe. PER. Più tosto vo' credere ad Aristotile e alla verità, che lingua alcuna del mondo (sia qual si voglia) non possa aver da sé stessa privilegio di significare i concetti del nostro animo, ma tutto consista nello arbitrio delle persone. Onde chi vorrà parlar di filosofia con parole mantovane o milanesi, non gli può esser disdetto a ragione, più che disdetto gli sia il filosofare e l'intender la cagion delle cose. Vero è che, perché il mondo non ha in costume di parlar di filosofia se non greco o latino, già crediamo che far non possa altramente; e quindi viene che solamente di cose vili e volgari volgarmente parla e scrive la nostra età. Ma come i corpi e le reliquie di santi, non con le mani, ma con alcuna verghetta per riverenza tocchiamo; così i sacri misteri della divina filosofia più tosto con le lettere dell'altrui lingue che con la viva voce di questa nostra moderna ci moviamo a significare: il quale errore, conosciuto da molti, niuno ardisce di ripigliarlo. Ma tempo forse, pochi anni appresso, verrà che alcuna buona persona non meno ardita che ingeniosa porrà mano a così fatta mercatantia; e per giovare alla gente, non curando dell'odio né della invidia dè litterati, condurrà d'altrui lingua alla nostra le gioie e i frutti delle scienzie: le quali ora perfettamente non gustiamo né conosciamo. LASC. Veramente né di fama né di gloria si curerà chi vorrà prender la impresa di portar la filosofia dalla lingua d'Atene nella lombarda, ché tal fatica noia e biasimo gli recarà. PER. Noia confesso, per la novità della cosa, ma non biasimo, come credete; ché per uno che da prima ne dica male, poco da poi mille e mille altri loderanno e benediranno il suo studio; quello avvenendogli che avvenne di Gesù Cristo, il quale, togliendo di morir per la salute degli uomini, schernito primieramente, biasimato e crucifisso d'alcuni ippocriti, ora alla fine da chi ‘l conosce come Iddio e Salvator nostro si riverisce e adora. LASC. Tanto diceste di questo vostro buon uomo che di piccolo mercatante l'avete fatto messia; il quale Dio voglia che sia simile a quello che ancora aspettano li Giudei, acciò che eresia così vile mai non guasti per alcun tempo la filosofia d'Aristotile. Ma se voi siete in effetto di così strano parere, ché non vi fate a' dì nostri il redentore di questa lingua volgare? PER. Perché tardi conobbi la verità, e a tempo quando la forza dell'intelletto non è eguale al volere. LASC. Così Dio m'aiuti come io credo motteggiate; salvo se, come fanno i maliziosi, quello meco non biasimate che non potete ottenere. PER. Monsignor, le ragioni dianzi addotte da me non sono lievi, che io debba dirle per ischerzare; e non è cosa così difficile la cognizion delle lingue che uomo di meno che di mediocre memoria e senza ingegno veruno non le possa imparare, quando non pur a' dotti, ma a' forsennati Ateniesi e Romani solea parlare eloquentemente Cicerone e Demostene, e era inteso da loro. Certo anni e lustri miseramente poniamo in apprender quelle due lingue, non per grandezza d'oggetto ma solamente perché allo studio delle parole contra la naturale inclinazione del nostro umano intelletto ci rivolgiamo; il quale, disideroso di fermarsi nella cognizione delle cose onde si diventa perfetto, non contenta d'essere altrove piegato, ove, ornando la lingua di parolette e di ciance, resti vana la nostra mente. Dunque, dal contrasto che è tuttavia tra la natura dell'anima e tra ‘l costume del nostro studio dipende la difficultà della cognizion delle lingue, degna veramente non d'invidia ma d'odio, non di fatica ma di fastidio, e degna finalmente di dovere essere non appresa ma ripresa dalle persone, sì come cosa la quale non è cibo ma sogno e ombra del vero cibo dell'intelletto. LASC. Mentre voi parlavate così, io imaginava di vedere scritta la filosofia d'Aristotile in lingua lombarda, e udirne parlare tra loro ogni vile maniera di gente, facchini, contadini, barcaroli e altre tali persone con certi suoni e con certi accenti, i più noiosi e i più strani che mai udissi alla vita mia. In questo mezo mi si parava dinanzi essa madre filosofia, vestita assai poveramente di romagnolo, piangendo e lamentandosi d'Aristotile che disprezzando la sua eccellenza l'avesse a tale condotta e minacciando di non volere star più in terra, sì bello onore ne le era fatto dalle sue opere; il quale, iscusandosi con esso lei, negava d'averla offesa giamai, sempremai averla amata e lodata, né meno che orrevolmente averne scritto o parlato mentre egli visse, lui esser nato e morto greco, non bresciano né bergamasco, e mentire chi dir volesse altramente; alla qual visione disiderava che voi vi foste presente. PER. E io, se stato vi fossi, arei detto non doversi la filosofia dolere, perché ogni uomo, per ogni luogo, con ogni lingua il suo valore essaltasse; questo farsi anzi a gloria che a vergogna di lei, la quale, se non si sdegna d'albergare negl'intelletti lombardi, non si dee anche sdegnare d'esser trattata dalla lor lingua. L'India, la Scitia e l'Egitto, ove abitava sì volentieri, produsse genti e parole molto più strane e più barbare che non sono ora le mantovane e le bolognesi; lei lo studio della lingua greca e latina aver quasi del nostro mondo cacciata, mentre l'uomo, non curando di saper che si dica, vanamente suole imparare a parlare e, lasciando l'intelletto dormire, sveglia e opra la lingua. Natura in ogni età, in ogni provincia e in ogni abito esser sempremai una cosa medesima, la quale, così come volentieri fa sue arti per tutto ‘l mondo, non meno in terra che in cielo, e per esser intenta alla produzzione delle creature razionali, non si scorda delle irrazionali, ma con eguale artificio genera noi e i bruti animali, così da ricchi parimente e poveri uomini, da nobili e vili persone con ogni lingua, greca, latina, ebrea e lombarda, degna d'essere e conosciuta e lodata. Gli augelli, i pesci e l'altre bestie terrene d'ogni maniera, ora con un suono, ora con altro, senza distinzione di parole, i loro affetti significare; molto meglio dover ciò fare noi uomini, ciascuno con la sua lingua, senza ricorrere all'altrui. Le scritture e i linguaggi essere stati trovati non a salute di lei, la quale (come divina che ella è) non ha mestieri del nostro aiuto, ma solamente a utilità e commodità nostra, accioché absenti, presenti, vivi e rnorti, manifestando l'un l'altro i secreti del core, più facilmente conseguiamo la nostra propria felicità, la quale è posta nell'intelletto delle dottrine, non nel suono delle parole; e per conseguente quella lingua e quella scrittura doversi usare da' mortali, la quale con più agio apprendemo; e come meglio sarebbe stato (se fosse stato possibile) l'avere un sol linguaggio, il quale naturalmente fosse usato dagli uomini, così ora esser meglio che l'uomo scriva e ragioni nella maniera che men si scosta dalla natura; la qual maniera di ragionare appena nati impariamo e a tempo quando altra cosa non semo atti ad apprendere. E altrotanto arei detto al mio maestro Aristotile, della cui eleganzia d'orazione poco mi curarei, quando senza ragione fossero da lui scritti i suoi libri; natura aver lui adottato per figliuolo, non per esser nato in Atene ma per aver bene in alto inteso, bene parlato e bene scritto di lei; la verità trovata da lui, la disposizione e l'ordine delle cose, la gravità e brevità del parlare esser sua propria e non d'altri, né quella potersi mutare per mutamento di voce; il nome solo di lui discompagnato dalla ragione (quanto a me) essere di assai piccola auttorità; a lui stare, se (essendo lombardo ridotto) esser volesse Aristotile; noi mortali di questa età, così aver cari i suoi libri trammutati nell'altrui lingua, come gli ebbero i Greci, mentre greci li studiavano. Li quai libri con ogni industria procuriamo d'intendere per divenire una volta non ateniesi ma filosofi. E con questa risposta mi sarei partito da lui.

LASC. Dite pure e disiderate ciò che volete; ma io spero che a' dì vostri non vedrete Aristotile fatto volgare. PER. Perciò mi doglio della misera condizione di questi tempi moderni, nè quali si studia non ad esser ma a parer savio: che ove sola una via di ragione in qualunche linguaggio può condurne alla cognizione della verità, quella da canto lasciata, ci mettiamo per strada, la quale in effetto tanto ci dilunga dal nostro fine quanto altrui pare che vi ci meni vicini; che assai credemo d'alcuna cosa sapere, quando, senza cognoscere la natura di lei, possiamo dire in che modo la nominava Cicerone, Plinio, Lucrezio e Virgilio tra' latini scrittori, e tra' greci Platone, Aristotile, Demostene e Eschine; delle cui semplici parolette fanno gl'uomini di questa età le loro arti e scienzie in guisa che dir lingua greca e latina par dire lingua divina, e che sola la lingua volgare sia una lingua inumana, priva al tutto del discorso dell'intelletto; forse non per altra ragione, salvo perché questa una da fanciulli e senza studio impariamo, ove a quell'altre con molta cura ci convertiamo come a lingue, le quali giudichiamo più convenirsi con le dottrine, che non fanno le parole dell'eucaristia e del battesmo con ambidue tai sacramenti: la quale sciocca oppenione è sì fissa negli animi d'i mortali che molti si fanno a credere che a dover farsi filosofi basti loro sapere scrivere e leggere greco senza più, non altramente che se lo spirito d'Aristotile, a guisa di folletto in cristallo, stesse rinchiuso nell'alfabeto di Grecia, e con lui insieme fosse costretto d'entrar loro nell'intelletto a fargli profeti; onde molti n'ho già veduti a' miei giorni sì arroganti che, privi in tutto d'ogni scienza, confidandosi solamente nella cognizion della lingua, hanno avuto ardimento di por mano a' suoi libri, quelli a guisa degli altri libri d'umanità publicamente esponendo. Dunque, a costoro il far volgari le dottrine di Grecia parrebbe opra perduta, sì per la indegnità della lingua come per l'angustia d'i termini dentro a' quali col suo linguaggio è rinchiusa l'Italia, vana istimando la impresa dello scrivere e del parlare in maniera che non l'intendano gli studiosi di tutto ‘l mondo. Ma quello che non è stato veduto da me, spero dover vedere (quando che sia) chi nascerà dopo me, e a tempo che le persone certo più dotte, ma meno ambiziose delle presenti, degneranno d'esser lodate nella lor patria, senza curarsi che la Magna o altro strano paese riverisca i lor nomi; ché se la forma delle parole, onde i futuri filosofi ragioneranno e scriveranno delle scienzie, sarà comune alla plebe, l'intelletto e il sentimento di quelle sarà proprio degli amatori e studiosi delle dottrine, le quali hanno ricetto non nelle lingue ma negli animi d'i mortali. SCOL. Già s'apparecchiava messer Lascari alla risposta, quando sopravenne brigata di gentiluomini che venivano a visitarlo, da' quali fu interrotto l'incominciato ragionamento; per che, salutati l'un l'altro con promessa di tornare altra volta, il Peretto e io con lui ci partiamo. CORTEG. Così bene mi difendeste con l'armi del maestro Peretto che il por mano alle vostre sarebbe cosa superflua; per la qual cosa, avvegna che il parlare intorno a questa materia fosse vostra professione, nondimeno io mi contento che vi tacciate. Ma del soccorso prestatomi, parte da l'auttorità di così degno filosofo, parte da le ragioni antedette, io ve ne rendo infinite grazie; e vi prometto, che per fuggire il fastidio dello imparare a parlare con le lingue dè morti, seguitando il consiglio del maestro Peretto, come son nato così voglio vivere romano, parlare romano e scrivere romano. E a voi, messer Lazaro, come a persona d'altro parere, predico che indarno tentate di ridurre dal suo lungo esilio in Italia la vostra lingua latina e, dopo la totale ruina di lei, sollevarla da terra; ché, se quando ella cominciava a cadere, non fu uomo che sostenere ve la potesse e chiunque alla rovina s'oppose a guisa di Polidamante fu oppresso dal peso, ora che ella giace del tutto, rotta parimente dal precipizio e dal tempo, qual atleta o qual gigante potrà vantarsi di rilevarla? Né a me pare, se ai vostri scritti riguardo, che ne vogliate far pruova, considerando che ‘l vostro scrivere latino non è altro che uno andar ricogliendo per questo auttore e per quello ora un nome, ora un verbo, ora un adverbio della sua lingua; il che facendo, se voi sperate (quasi nuovo Esculapio) che il porre insieme cotai fragmenti possa farla risuscitare, voi v'ingannate, non vi accorgendo che nel cadere di sì superbo edificio una parte divenne polvere e un'altra dee esser rotta in più pezzi; li quali volere in uno ridurre, sarebbe cosa impossibile, senza che molte sono l'altre parti le quali, rimase in fondo del mucchio o involate dal tempo non son trovate da alcuno. Onde minore e men ferma rifarete la fabrica, che ella non era da prima, e venendovi fatto di ridur lei alla sua prima grandezza, mai non fia vero che voi le diate la forma che anticamente le dierono què primi buoni architetti, quando nova la fabricarono; anzi ove soleva esser la sala, farete le camere, confonderete le porte, e delle finestre di lei questa alta, quell'altra bassa riformarete; ivi sode tutte e intere risurgeranno le sue muraglie, onde primieramente s'illuminava il palazzo, e altronde dentro di lei con la luce del sole alcun fiato di tristo vento entrerà che farà inferma la stanza. Finalmente sarà miracolo, più che umano provedimento, il rifarla mai più eguale o simile a quell'antica, essendo mancata l'idea, onde il mondo tolse l'essempio di edificarla. Per che io vi conforto a lasciar l'impresa di voler farvi singulare da gl'altri uomini affaticandovi vanamente senza pro vostro e d'altrui. LAZ. Perdonatemi, gentiluomo, voi non poneste ben mente alle parole del mio maestro Peretto, il quale non solamente non ricusava, come voi fate, d'imparar greco e latino; anzi si lamentava d'essere a farlo sforzato, disiderando una età, nella quale senza l'aiuto di quelle lingue potesse il popolo studiare e farsi perfetto in ogni scienzia. La quale oppenione io non laudo, né vitupero, perché quello non posso, questo non voglio; dico solamente non essere stata bene intesa da voi, onde la diliberazione vostra non avrà origine né dall'autorità né dalle ragioni, ma dal vostro appetito, lo quale seguite quanto v'aggrada, che altrettanto io farò del mio; ché se ‘l viaggio che io tengo è più lungo e più faticoso del vostro, per avventura non fia sì vano, e al fine della mia giornata a buono albergo sano, quantunque stanco, mi condurrà. BEM. Messer Lazaro dice il vero e v'aggiungo che ‘l Peretto in quell'ora (come a me pare) disputò delle lingue, avendo rispetto alla filosofia e altre simili scienzie. Per che, posto che vera sia la sua oppenione, e così bene potesse filosofare il contadino come il gentiluomo e il Lombardo come il Romano, non è però che in ogni lingua egualmente si possa poetare e orare; conciosiacosa che fra loro l'una sia più e meno dotata degli ornamenti della prosa e del verso che l'altra non è. La qual cosa fu tra noi disputata da prima, senza far parola delle dottrine, e come allora vi dissi così vi dico di nuovo che, se voglia vi verrà mai di comporre o canzoni o novelle al modo vostro, cioè in lingua che sia diversa dalla toscana e senza imitare il Petrarca o il Boccaccio, per aventura voi sarete buon cortigiano, ma poeta o oratore non mai. Onde tanto di voi si ragionerà e sarete conosciuto dal mondo quanto la vita vi durerà, e non più, conciosia che la vostra lingua romana abbia vertù in farvi più tosto grazioso che glorioso.