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Sperone Speroni: Dialogo delle lingue, Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte prima)

Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte prima)

Interlocutori

BEMBO, LAZARO, CORTEGIANO, SCOLARE, LASCARI, PERETTO

BEM. Io odo dir, messer Lazaro, che la Signoria di Venezia v'ha condotto a legger greco e latino nello Studio di Padova: è vero questo?

LAZ. Monsignor sì. BEM. Che provisione è la vostra? LAZ. Trecento scudi d'oro.

BEM. Messer Lazaro, io me n'allegro con voi, con le buone lettere e con gli studiosi di quelle: con voi prima, peroché io non so uomo nessuno della vostra professione, che andasse presso a quel segno ove sete arrivato con le buone lettere poi, le quali da qui inanzi non mendicheranno la vita loro povere e nude, come sono ite per lo passato. M'allegro eziandio con lo Studio e gli studiosi di Padova, cui finalmente è tocco in sorte tale maestro quale lungo tempo hanno cercato e disiderato. Ma io v'aviso che egli vi bisognerà sodisfar non tanto all'immenso disiderio che hanno gli uomini d'imparare, quanto ad una infinita speranza che s'ha di voi e della vostra dottrina. Il che fare nuova cosa non vi sarà, così sete usato d'affaticarvi e con le vostre lodevoli fatiche operar gloria in voi e in altrui vertù.

LAZ. Monsignor, sempremai io n'ho pregato Domenedio che mi dia grazia e occasione una volta di far conoscere al mondo non quel poco ch'io so, ma il valore e l'eccellenzia di queste due lingue, le quali gran tempo sono state sprezzate da chi doveva adorarle; ora che Dio la mi ha conceduta, ho speranza di fare che molti uomini di qualunche età e nazione, lasciati gli altri studi da canto, tutti a questo uno si doneranno, come a quello che veramente pò loro far gloriosi.

BEM. Chiunque vi conosce porta cotale openione di voi. Ma per certo noi siamo giunti a tempo che pare che il male lungamente da noi sofferto voglia Iddio a qualche modo ricompensarci; peroché in iscambio delle molte possessioni e città della Italia, le quali occupano gli oltramontani, egli ci ha donato l'amore e la cognizione delle lingue in maniera che nessuno non è tenuto filosofo, che non sa greco e latino perfettamente. Onde egli è strana e bella cosa il vederci continuamente vivere e parlare con barbari e non aver del barbaro. Né solamente queste due nobilissime lingue, ma la toscana poco men che perduta, quasi pianta che rinovelle, è rifiorita di nuovo sì fattamente che di breve più d'un Petrarca e più d'un Boccaccio vi si potrà numerare. La ebrea similmente comincia ad essere in prezzo. Per che a me pare, quando vi guardo, che questo sia un certo influsso del cielo, sì fieramente ogn'uno si dà nello studio delle lingue: il quale solo fra tutti gl'altri ci fa immortali per fama.

LAZ. Degna cosa da credere che ‘l cielo abbia curato altre volte e curi ancora della greca e della latina, per la eccellenzia di queste lingue; ma di quelle altre né il cielo ne ha cura, né deeno averne i mortali: ai quali né onore né utile non può recare il parlar bene alla maniera del vulgo.

BEM. Egl'è ben vero che tanto più volentieri si doverebbe imparar la lingua greca e la latina che la toscana, quanto di questa quelle altre due sono più perfette e più care; ma che la tosca sia da sprezzare del tutto, per niente lo direi: parte per non dire bugia, parte per non parer d'aver perduto tutto quel tempo che spender volli in apprenderla. Della ebrea, io non ne so nulla; ma per quello che io n'oda dire, quanto la latina gl'Italiani altrotanto o poco meno istima lei la Germania.

LAZ. A me pare, quando vi guardo, che tale sia la volgar toscana per rispetto alla lingua latina quale la feccia al vino; peroché la volgare non è altro che la latina guasta e corrotta oggimai dalla lunghezza del tempo o dalla forza dè barbari o dalla nostra viltà. Per la qual cosa gl'Italiani, li quali allo studio della lingua latina la volgare antepongono, o sono senza giudicio, non discernendo tra quel ch'è buono e non buono, o privi in tutto d'ingegno non son possenti di possedere il migliore. Onde quello n'avviene che noi veggiamo avvenire d'alcuna umana complessione, la quale scema di vigor naturale, non avendo vertù di fare del cibo sangue, onde viva il suo corpo, quello in flemma converte, che rende lo uomo dapoco, e nelle proprie operazioni il fa essere conforme alla qualità dell'umore. Ma egli si vorrebbe dare per legge ad ogn'uno: a' volgari il non parlare latinamente, per non diminuir la riputazione di questa lingua divina; a' literati, che mai da loro, se non costretti d'alcuna necessità, non si parlasse volgare alla maniera degl'ignoranti: accioché ‘l vulgo arrogante, con l'essempio e auttorità dè grandi uomini, non prendesse argomento di far conserva delle sue proprie brutture e ad arte ridurre la sua ignoranzia. CORTEG. Messer Lazaro, qui tra noi ditene il male che voi volete di questa lingua toscana; solamente quello non fate che fece l'anno passato messer Romolo in questa città; il quale orando publicamente con tante e tali ragioni biasimò cotal lingua ch'ora fu che inanzi arei tolto d'esser morto famiglio di Cicerone, per aver bene latinamente parlato, che viver ora con questo Papa toscano.

LAZ. Se io credessi bisognarmi persuadere a' scolari di Padova che la lingua latina fosse cosa da seguitare e da fuggir la toscana, o io non v'anderei a legger latino o spererei che delle mie lezzioni poco frutto se ne dovesse pigliare; ché, da sé stessi nol conoscendo, giudicarei che essi mancassero d'intelletto, non sappiendo distinguere tra principii per sé noti e tra le conclusioni: il quale difetto non ha rimedio nissuno. Onde io vi dico che più tosto vorrei saper parlare come parlava Marco Tullio latino ch'esser Papa Clemente.

CORTEG. E io conosco di molti uomini che, per esser mediocri signori, si contentarebbono d'esser muti. Già non dico ch'io sia uno di questo numero; ma dico bene, e dicolo con vostra grazia, poi che il difetto è dal mio poco intelletto, io non vedo per qual ragione debba l'uomo apprezzare la lingua greca né la latina, che per saperle sprezze mitre e corone; ché se ciò fosse, stato sarebbe di maggior dignità il canevaio o ‘l cuoco di Demostene e di Cicerone, che non è ora l'imperio e il papato.

BEM. Non creggiate che messer Lazaro brami solamente la lingua latina di Cicerone, la quale era comune a lui e agl'altri Romani; ma insieme con le parole latine, egli disidera l'eloquenzia e la sapienzia di lui, che fu sua propria e non d'altri; la quale tanto più eccellente dee riputarsi d'ogni mondana grandezza, quanto all'altezza dè principati si sale per successione o per sorte, ove a quella delle scienzie monta l'anima nostra non con altre ali che con quelle del suo ingegno e della sua industria. Io so nulla per rispetto a' què gloriosi, ma quel poco che io ne so delle lingue, non lo cangerei al Marchesato di Mantova. LAZ. Io non credo, Monsignor mio, che voi creggiate che molti dè senatori e dè consulari di Roma non che tutta la plebe, così latino parlasse come facea Marco Tullio, alli cui studii più fu Roma obligata, che alle vittorie di Cesare. Onde io dissi, e ora dico di nuovo, che più istimo e ammiro la lingua latina di Cicerone che l'imperio d'Augusto. Delle laudi della qual lingua parlarei al presente, non tanto per sodisfare al disiderio di questo gentil'uomo da bene, quanto perché io sono obligato di farlo; ma ove voi sete, non si conviene che altri che voi ne ragione; e chi facesse altramente, farebbe ingiuria alla lingua, e egli sarebbe tenuto prosontuoso.

BEM. Questo officio di lodar la lingua latina per molte ragioni dee esser vostro: parte per esser già destinato ad insegnarla publicamente, parte per esserle più partigiano che io non sono io, il quale non l'istimo cotanto, sì che però io dispregi la volgare toscana; e anche io non la preposi se non ad un marchesato, ove voi l'avete messa disopra all'imperio di tutto ‘l mondo. Dunque a voi tocca il lodarla: ché lodandola sarete grato alla lingua, alla quale il nome vostro, e la fama vostra, è grandemente obligata; e con questo buon gentiluomo cortesemente operarete, il quale dianzi non si curò di confessare d'aver anzi dello scerno che no, per udir voi ragionar della sua eccellenza.

LAZ. E io, poi che volete così, volentieri la loderò, con patto di potere insiememente biasimar la volgare, se voglia me ne verrà, senza che voi l'abbiate per male.

BEM. Son contento; ma sia il patto comune, che, quando voi vituperarete, io possa difendere.

LAZ. Volentieri. Ma a voi, gentil'uomo, dico ch'io posso bene incominciare a lodare la buona lingua latina, rendendovi la ragione perché io la preponga alla signoria del mondo; ma finire non veramente, tanto ho da dire intorno a questa materia. Non per tanto mi rendo sicuro che quel poco ch'io ne dirò vi persuaderà ad esserle molto più amico che voi non siete al presente alla corte di Roma.

CORTEG. Questo voi farete dapoi. Ora io voglio per la mia parte che qualora cosa direte che io non intenda, interrompendo il ragionamento, possa pregarvi che la chiariate.

LAZ. Son contento. Dunque, senza altro proemio fare, io dico incominciando che, quantunque in molte cose siamo differenti dalli bruti animali, in quest'una principalmente ci discostiamo da loro, che ragionando e scrivendo comunichiamo l'un l'altro il cor nostro: la qual cosa non possono fare le bestie. Dunque, se così è, quegli più diverso sarà dalla natura dè bruti, il quale parlerà e scriverà meglio. Per la qual cosa chiunque ama d'esser uomo perfettamente, con ogni studio dee cercare di parlare e scrivere perfettamente; e chi ha vertù di poterlo fare, ben si può dire a ragione lui esser tale fra gl'altri uomini, quali sono gl'uomini istessi per rispetto alle bestie. La qual vertù di parlare e di scrivere i Greci e Latini quasi ugualmente s'appropriarono. Onde le loro lingue vengono ad esser quelle che, sole tra tutte l'altre del mondo, ci fanno diversi per eccellenzia dalle barbare e dalle irrazionali creature. E è ben dritto; conciosia cosa che tra' poeti volgari niuno ve n'abbia il quale a giudicio di Fiorentini possa agguagliarsi a Virgilio né ad Omero, né tra gli oratori a Demostene o a Marco Tullio. Lodate quanto volete il Petrarca e il Boccaccio, voi non sarete sì arditi che né eguali però né inferiori troppo vicini gli facciate agli antichi; anzi da loro tanto lontani li troverete che tra quelli non sarete osi d'annoverargli. Ora non voglio nominar d'uno in uno i scrittori greci e latini di grande eccellenza, ch'io non ne verrei a capo in un mese; ma son contento di queste due coppie. Troverassi a costoro in altra lingua alcun pare? Dirò di me: mai non sono di sì rea voglia e sì tristo che, leggendo i lor versi e l'orazioni, non mi rallegri. Tutti gl'altri piaceri, tutti gl'altri diletti, feste, giochi, suoni, canti vanno dietro a quest'uno. Né dee uomo meravigliarsene, peroché gl'altri solazzi sono del corpo e questo è dell'animo. Onde quanto è più nobile cosa l'intelletto del senso tanto è maggiore e più grato questo diletto di tutti gli altri.

CORTEG. Ben vi credo ciò che dicete; peroché qualunche volta io leggo alcune novelle del nostro Boccaccio, uomo certamente di minor fama che Cicerone non è, io mi sento tutto cangiare, massimamente leggendo quella di Rustico e d'Alibech, d'Alatiel, di Peronella e altre cotali le quali governano i sentimenti di chi le legge e fanno fargli a lor modo. Per tutto ciò io non direi dover uomo arguire l'eccellenzia d'alcuna lingua; più tosto credo la natura delle cose descritte avere vertù d'immutare il corpo e la mente di chi legge.

BEM. Questo no, ma la facondia è sola o principale cagione di far in noi così mirabili effetti. E ch'egli sia il vero, leggete Virgilio volgare, latino Omero e il Boccaccio non toscano e non faranno questi miracoli. Dunque messer Lazaro dice il vero, quando di tali effetti pone la cagion nelle lingue; non prova per questo la sua ragione non si dover imparar altra lingua che latina e greca. Peroché se la nostra volgare oggidì non è dotata di così nobili auttori, già non è cosa impossibile che ella n'abbia, quando che sia, poco meno eccellenti di Virgilio e d'Omero, ciò è che tali siano nella lingua volgare, quali sono costoro nella greca e nella latina.

LAZ. Quando egli avverrà che la lingua volgare abbia i suoi Ciceroni, i suoi Virgilii, i suoi Omeri e i suoi Demosteni, allora consiglierò che ella sia cosa da imparare come è ora la latina e la greca. Ma questo mai non sarà; conciosia cosa che la lingua non lo patisce per esser barbara, sì come ella è, e non capace né di numero né di ornamento. Ché se què quattro, non che altri, rinascessero un'altra volta e con l'ingegno e con la industria medesima, con la quale latinamente poetarono e orarono, parlassero e scrivessero volgarmente, essi non sarebbero degni del nome loro. Non vedete voi questa povera lingua avere i nomi non declinabili, i verbi senza coniugazione e senza participio, e tutta finalmente senza nissuna bontà? E meritamente per certo; conciosia cosa che, per quello che io n'oda dire da' suoi seguaci, la sua propria perfezzione consiste nel dilungarsi dalla latina, nella quale tutte le parti dell'orazione sono intere e perfette. Ché se ragione mancasse di biasmarla, questo suo primo principio, ciò è scostarsi dalla latina, è ragione dimostrativa della sua pravità. Ma che? ella mostra nella sua fronte d'aver avuto la origine e l'accrescimento da' barbari, e da quelli principalmente che più odiarono li Romani, cioè da' Francesi e da' Provenzali, da' quali non pur i nomi, i verbi e gli adverbi di lei, ma l'arte ancora dell'orare e del poetare sì si derivò. Oh glorioso linguaggio! Nominatelo come vi piace, solo che italiano non lo chiamate, essendo venuto tra noi d'oltre il mare e di là dall'Alpi, onde è chiusa l'Italia: ché già non è propria di Francesi la gloria che stati ne siano inventori e accrescitori; ma dall'inclinazione dell'imperio di Roma in qua, mai non venne in Italia nazione nissuna sì barbara e così priva d'umanità, Unni, Gotti, Vandali, Longobardi ch'a guisa di trofeo non vi lasciasse alcun nome o alcun verbo d'i più eleganti ch'ella abbia. E noi diremo che volgarmente parlando possa nascere Cicerone o Virgilio? Veramente se questa lingua fosse colonia della latina, non oserei confessarlo; molto meno il dirò, essendo lei una indistinta confusione di tutte le barbarie del mondo. Nel quale caos prego Dio che mandi ancora la sua discordia; la quale, separando una parola dall'altra e ogn'una di loro mandando alla propria sua regione, finalmente rimanga a questa povera Italia il suo primo idioma, per lo quale non meno fu riverita dalle altre provincie, che temuta per le armi. Io veramente poco ho letto di queste cose volgari, e guadagnato parmi d'avere assai in perdere di studiarle, che egli è meglio non le sapere che saperle; ma quante volte per mia disgrazia n'ho alcuna veduta, altretante meco medesimo ho lagrimato la nostra miseria, pensando fra me quale fu già e quale è ora la lingua onde parliamo e scriviamo. E noi vedremo giamai Cicerone o Virgilio toscano? Più tosto rinasceranno Schiavoni che Italiani volgari; salvo se per gioco non si dirà in quel modo che i servi fanno il lor re e i prigionieri lor podestà. Ma tal Virgilio e tal Cicerone, Mori e Turchi possono aver nelle lor lingue; però parlando una volta con un mio amico che molto ben s'intendea della lingua arabesca, mi ricordo udir dire che Avicenna avea composte di molte opere, le quali si conoscevano esser sue non tanto all'invenzione delle cose quanto allo stile, nel quale di gran lunga avanzava tutti gl'altri scrittori di quella lingua, eccetto quello de l'Alcorano. Dunque come proporzionevolmente Avicenna si direbbe Marco Tullio fra gli Arabi, così confesso dover nascere, anzi esser già nato e forse morto il Virgilio volgare: ma dico bene che tal Virgilio è un Virgilio dipinto Ma il buono e il vero Virgilio, il quale, lasciando l'ombre da canto, doverebbe l'uomo abbracciare, ha la lingua latina, come la greca ha Omero; e facendo altramente siamo a peggior condizione che non sono gli oltramontani, li quali essaltano e riveriscono sommamente la nostra lingua latina e tanto ne apprendono quanto possono adoprar l'ingegno; il quale, se pare in loro fosse al disio, mi rendo certo che di breve la Germania e la Gallia produrrebbe di molti veri Virgilii. Ma noi altri suoi cittadini, colpa e vergogna del nostro poco giudizio, non solamente non l'onoriamo, ma a guisa di persone sediziose tuttavia procuriamo di cacciarla della sua patria e in suo luoco far sedere quest'altra, della quale (per non dir peggio) non si sa né patria né nome.

CORTEG. A me pare, messer Lazaro, che le vostre ragioni persuadano altrui a non parlar mai volgarmente; la qual cosa non si può fare, salvo se non si fabricasse una nuova città, la quale abitassero i litterati, ove non si parlasse se non latino. Ma qui in Bologna chi non parlasse volgare, non arebbe chi l'intendesse e parrebbe un pedante, il quale con gli artigiani facesse il Tullio fuor di proposito

LAZ. Anzi, voglio che così come per li granari di questi ricchi sono grani d'ogni maniera, orzo, miglio, frumento e altre biade sì fatte, delle quali altre mangiano gl'uomini, altre le bestie di quella casa; così si parli diversamente or latino, or volgare, ove e quando è mestieri. Onde se l'uomo è in piazza, in villa o in casa, col vulgo, co' contadini, co' servi, parli volgare e non altramente; ma nelle scole delle dottrine e tra i dotti, ove possiamo e debbiamo esser uomini, sia umano, cioè latino, il ragionamento. E altrettanto sia detto della scrittura, la quale farà volgar la necessità, ma la elezzione latina, massimamente quando alcuna cosa scrivemo per disiderio di gloria, la quale mal ci pò dar quella lingua che nacque e crebbe con la nostra calamità, e tuttavia si conserva con la ruina di noi.

BEM. Troppo aspramente accusate questa innocente lingua, la quale pare che molto più vi sia in odio che non amate la latina e la greca. Peroché ove ci avevate promesso di lodar quelle principalmente e la toscana alcuna volta, venendo il caso, vituperare, ora avete fatto in contrario: quelle non avete lodato e questa una fieramente ci biasimate, e per certo a gran torto, peroché ella non è punto sì barbara né sì priva di numero e d'armonia, come la ci avete dipinta. Ché se la origine di lei fu barbara da principio, non volete voi che in ispazio di quattrocento o cinquecento anni sia divenuta cittadina d'Italia? Per certo sì; altramente li Romani medesimi, li quali di Frigia cacciati vennero ad abitare in Italia, sarebbero barbari; le persone, i costumi e la lingua loro sarebbe barbara; l'Italia, la Grecia e ogni altra provincia, quantunque mansueta e umana, si potrebbe dir barbara, se l'origine delle cose fosse bastante di recar loro questa infame denominazione. Confesso adunque la lingua nostra materna essere una certa adunanza non confusa ma regolata di molte e diverse voci, nomi, verbi e altre parti d'orazione; le quali primieramente da strane e varie nazioni in Italia disseminate, pia e artificiosa cura dè nostri progenitori insieme raccolse, e ad un suono, ad una norma, ad un ordine sì fattamente compose che essi ne formarono quella lingua, la quale ora è propria nostra, e non d'altri; imitando in questo la madre nostra natura, la quale di quattro elementi diversi molto fra loro per qualità e per sito ci ha formati noi altri più perfetti e più nobili che gli elementi non sono. Imaginatevi, messer Lazaro, di vedere l'imperio, la degnità, le ricchezze, le dottrine e finalmente le persone e la lingua d'Italia in forza dè barbari in maniera che il trarla lor de le mani sia cosa quasi impossibile: voi non vorrete vivere al mondo? mercantare? studiare? parlare voi e vostri figliuoli? Ma lasciando da parte l'altre cose, parlarete latino, cioè in guisa che non v'intendano i Bolognesi, o parlarete in maniera che altri intenda e risponda? Dunque una volta il parlar volgarmente era forza in Italia, ma in processo di tempo fece l'uomo (come si dice) di quella forza e necessità l'arte e l'industria della sua lingua. E così come nel principio del mondo gli uomini dalle fere si difendevano fuggendo e uccidendo senza altro, or passando più oltre a benefizio e ornamento della persona ci vestiamo delle lor pelli; così da prima, a fine solamente d'essere intesi da chi regnava, parlavamo volgare, ora a diletto e a memoria del nostro nome parliamo e scriviamo volgare. Oh, egli sarebbe meglio che si ragionasse latino, non lo nego; ma meglio sarebbe ancora che i barbari mai non avessero presa né distrutta l'Italia e che l'imperio di Roma fosse durato in eterno. Dunque sendo altramente, che si dee fare? Vogliam morir di dolore? Restar mutoli? E non parlar mai, fin che torni a rinascere Cicerone e Virgilio? Le case, i tempii e finalmente ogni artificio moderno, i disegni, i ritratti di metallo e di marmo non sono da esser pareggiati agli antichi: dovemo però abitare tra' boschi? Non dipingere, non fundere, non isculpire, non sacrificare, non adorar Dio? Basta a l'uomo, messer Lazaro mio caro, che egli faccia ciò che egli sa e può fare, e si contenti delle sue forze. Consiglio adunque e ammonisco ciascuno che egli impare la lingua greca e latina, quelle abbracce, quelle abbia care, e con l'aiuto di quelle studie a farsi immortale. Ma a tutti quanti non ha partito ugualmente Domenedio né l'ingegno né ‘l tempo. Più vi vo' dire: sarà alcuno per aventura, cui né natura né industria non mancherà; nulladimeno egli serà quasi che dalle stelle inclinato a parlare e scriver meglio volgare che non latino in un soggetto e in una materia medesma. Che dee fare egli? Che ciò sia il vero, vedete le cose latine del Petrarca e del Boccaccio, e agguagliatele alle loro volgari: di quelle niuna peggiore, di queste niuna migliore giudicarete. Dunque, da capo consiglio e ammonisco voi, messer Lazaro, scrivere e parlare latino, come quello che assai meglio scrivete e parlate latino che non volgare; ma voi gentiluomo, il quale o la prattica della corte o l'inclinazione del vostro nascimento stringe a far altramente, altramente consiglio; e facendo altramente non solamente non viverete inonorato, ma tanto più glorioso quanto scrivendo e parlando bene volgare, almeno a' volgari sarete caro; ove malamente scrivendo e parlando latino, vile sareste a' dotti parimente e indotti. Né vi persuada l'eloquenzia di messer Lazaro più tosto a divenir mutolo che componere volgarmente, peroché così la prosa come il verso della lingua moderna è in alcune materie poco meno numerosa e di ornamenti capace della greca e della latina. I versi hanno lor piedi, lor armonia, lor numeri; le prose il lor flusso di orazione, le lor figure e le loro eleganzie di parlare; repetizioni, conversioni, complessioni e altre tai cose; per le quali non è forse, come credete, diversa una lingua dall'altra, ché se le parole sono diverse, l'arte del comporle e dell'adunarle è una cosa medesma nella latina e nella toscana. Se messer Lazaro ci negasse questo, io li domanderei: onde è adunque che le cento novelle non sono belle egualmente, né i sonetti del Petrarca tutti parimente perfetti? Certo bisognarebbe che egli dicesse niuna orazione, niun verso toscano non esser né più brutto, né più bello dell'altro e per conseguente il Serafino esser eguale al Petrarca, o veramente confessarebbe fra le molte composizionì volgari alcuna più, alcuna meno elegante e ornata dell'altra trovarsi: la qual cosa non sarebbe così quando elle fossero del tutto prive dell'arte de l'orare e del poetare.

LAZ. Monsignore, io negai la lingua moderna aver in sé numero, né ornamento, né consonanzia, e lo nego di nuovo, non per esperienzia ch'io n'abbia ma per ragione; ché se l'uomo, senza punto saper sonare né tamburo né tromba, solo che è gli oda una volta, per la loro spiacevolezza può giudicare quelli non essere strumenti atti a fare armonia né ballo; così udendo e formando per me medesimo queste parole volgari, al suono di ciascuna di loro separata dall'altre, senza ch'io le compona altramente, assai bene comprendo che diletto possano recare agl'orecchi degli ascoltanti le prose e i versi che se ne fanno: vero è che questo giudicio non l'ha ogn'uno, ma coloro solamente i quali sono usati a ballare al suono dei leuti e dei violoni. È mi ricorda, essendo una volta in Venezia, ove erano giunte alcune navi dè Turchi, udire in quelle un rumore di molti strumenti; del quale né ‘l più spiacevole né ‘l più noioso non udi' mai alla vita mia; nondimeno a coloro che non sono usi alle delizie d'Italia parea quella una dolce musica. Altrotanto si può dire della numerosità dell'orazione e del verso di questa lingua. Alcuna volta qualche consonanzia vi si ritrova che meno ingrata e men brutta fa l'una dell'altra; ma quella in sé è armonia e musica di tamburi, anzi d'archibusi e di falconetti, che introna altrui l'intelletto e fere e stroppia sì fattamente che egli non è più atto a ricevere impressione di più delicato strumento, né secondo quello operare. Per la qual cosa chi non ha tempo o vertù di sonare i leuti e i violoni della latina, più tosto si dè stare ozioso che por mano ai tamburi e alle campane della volgare, imitando l'essempio di Pallade, la quale, per non si distorcere nella faccia sonando, gittò via la piva, di che era stata inventrice, e fu a lei più gloria il partirla da sé e non degnar d'appressarlasi alla sua bocca che non fu utile a Marsia il ricoglierla e sonarla; onde ne perdette la pelle. Vero diceste, Monsignore, què primi antichi Toscani essere stati sforzati a parlare in questa maniera, non volendo con silenzio trapassar la lor vita, e che noi altri posteriori abbiamo fatto dell'altrui forza nostra virtù. Questo è vero, ma maggior laude dà altrui quella violenzia che a noi non reca questa vertù. Gloria fu a loro l'esser solerti nelle miserie, ma biasmo e scorno è a noi altri, ora che liberi semo, il dar ricetto e conservare lungamente un perpetuo testimonio della nostra vergogna, e quello non solamente nudrire ma ornare; altro non essendo questa lingua volgare che uno indizio dimostrativo della servitù degl'Italiani. Guerreggiando una volta la vostra Republica, e non le bastando l'oro e l'argento a pagare i soldati, fece (come si dice) stampare gran quantità di denari di cuoio cotto col conio di San Marco; e con quelli sostentò e vinse la guerra: e fu sapienzia veneziana questa. Ma se a tempo di pace avessero continuato a spendere questa moneta e a farla di giorno in giorno più bella e di miglior corame, già sarebbe convertita in avarizia la sapienzia. Ora, se alcuno ci avesse il quale, sprezzato l'oro e l'argento, facesse del cuoio tesoro, non sarebbe egli pazzo costui? sì, veramente. Ma noi altri cui, mancando il tesoro latino, la nostra calamità fece provedere di moneta volgare, quella non ci basta di spendere tuttavia col volgo, che altra non ne conosce né tocca, ma, venutone fatto di ricovrar le perdute ricchezze, lei tuttavia conserviamo e nei secreti dell'anima nostra, ove solevamo serrar l'oro e l'argento di Roma, diamo ricetto alle reliquie di tutta la barbarie del mondo.

CORTEG. A me pare, messer Lazaro, che questo non sia né lodar la lingua latina, né vituperar la volgare, ma più tosto un certo lamentarsi della ruina d'Italia; la qual cosa come è poco fruttuosa, così è molto discosta dal nostro proponimento; onde non vi vedo partir volentieri.

LAZ. Parvi che ‘l biasmo sia poco, quando io congiungo il nascimento di lei alla destruzzione dell'imperio e del nome latino? e l'accrescimento di lei al mancamento del nostro intelletto? Già me non laudarete in questa maniera, per farmi piacere.

CORTEG. Ciò non giudico biasimo ma meraviglia più tosto, ché gran cosa dee esser quella, di cui non può l'uomo parlare, tacendo la roina di Roma che fu capo del mondo! E che questo sia vero, poniamo che non i barbari ma i Greci l'avessero disfatta e che da indi in qua parlassero ateniese gl'Italiani, voi biasimareste la lingua attica, peroché l'uso di lei fosse congiunto alla servitù nostra?

LAZ. Se ciò stato fosse, non sarebbe suta guasta ma riformata l'Italia, per che non solamente non biasimerei il disfacimento di questo imperio, ma lodarei Dio, che lui avesse voluto ornare di linguaggio convenevole alla sua dignità.

CORTEG. Dunque, maggiore è il danno d'aver perduta la lingua che la libertà?

LAZ. Sì, senza dubio, peroché in qualunche stato sia l'uomo, o franco o soggetto, sempremai è uomo, né dura più d'uomo; ma la lingua latina ha vertù di fare d'uomini dèi e di morti, non che di mortali che siamo, immortali per fama. E che ciò sia vero, l'imperio romano, che si distese per tutto, è già guasto, ma la memoria della grandezza di lui, conservata nell'istorie di Salustio e di Livio, dura ancora e durerà fin che ‘l cielo si moverà; e altrotanto si può dire dell'imperio e della lingua dè Greci.

CORTEG. Questa vertù di far le persone famose per molti seculi non l'ha, che io creda, la istoria greca e latina come greca e latina, ma come istoria che ella è; la quale, in qualunche idioma sia scritta da alcuno, è sempremai (come alcun dice) testimonio del tempo, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita d'altrui e rinovellamento dell'antichità.

LAZ. Voi dite il vero, non esser propria questa vertù dell'istorie grece e latine, non che altra lingua ne sia partecipe; ma percioché tutte l'istorie grece e latine non hanno avuto tal privilegio, ma quelle solamente le quali artificiosamente compose alcuno uomo eloquente, sendo perfette quelle due lingue. Onde gli annali di Roma, li quali senza alcuno ornamento, con semplici e ancora rozze parole, narravano gl'avenimenti di lei, non durarono molti anni; né di loro si parlarebbe, se altro scrittore, quasi da compassione mosso, non ne facesse parola. Dunque, se quelli il tempo ha fatto divenir nulla, li quali assai dovevano aver d'eleganzia, essendo scritti latinamente, or che fia dell'istorie volgari, cui né naturale dolcezza di lingua né artificiosa eloquenzia di scrittori non può far care né graziose giamai?

CORTEG. Non intendo ancora ben bene in che cosa consista la soavità della lingua e delle parole latine, e la barbarica spiacevolezza delle volgari; anzi, confessandovi liberamente la mia ignoranzia, grandissimo numero dè nomi e participii latini con loro strana prononziazione le più volte mi suonano non so che bergamasco nel capo; altrotanto sogliono fare alcuni modi e tempi dè verbi; alle quali parole una simile delle volgari la nostra Corte Romana non degnerebbe di proferire.

LAZ. Io vi ricordo, gentil'uomo, che l'auttorità concistoriale non è giudice competente del suono e degl'accenti delle parole latine, onde se alcuna volta la lingua latina le pare tener della bergamasca, ella non è però bergamasca; né perché tale sia giudicata più vi dovete meravigliare che già vi siate meravigliato, avendo letto in Ovidio Mida Re più solere lodare lo stridere delle cannucce di Pan che la soavità della cetra d'Apollo.

CORTEG. Ecco, io son contento di confessarvi che le mie orecchie in tal caso non siano umane ma d'asino, se voi mi dite per qual cagione la numerosità e consonanzia dell'orazioni e dè versi di questa lingua chiamaste musica d'archibusi, conciosia cosa che i gran maestri di canto, cui è propria professione l'armonia, rade volte o non mai fanno canto o mottetto che le parole di lui non siano sonetti o canzoni volgari. Questo è pur segno che i nostri versi son da sé pieni di melodia.

LAZ. Già non è, gentil'uomo (come forse pensate), l'armonia del canto e quella delle prose e dè versi una cosa medesima, ma molte sono e diverse; onde non solamente delle cose volgari ma dè chirie ancora e dei santus si fanno canti e mottetti, della cui armonia generalmente s'intende ogni orecchia; peroché quali sono i sapori alla lingua, e agl'occhi e al naso i colori e gl'odori, tale è il suono agl'orecchi degl'uomini, li quali per lor natura e senza studio veruno facilmente discernono tra ‘l piacevole e ‘l dispiace vole. Ma il numero e l'armonia dell'orazione e del verso latino non è altro che artificiosa disposizione di parole, dalle cui sillabe, secondo la brevità e la lunghezza di quelle, nascono alcuni numeri, che noi altri chiamiamo piedi; onde misuratamente camina dal principio alla fine il verso e l'orazione. E sono di diverse maniere questi tai piedi, facendo i lor passi lunghi e corti, tardi e veloci, ciascheduno al suo modo, e è bell'arte quelli insieme adunare sì fattamente che non discordino fra sé stessi, ma l'uno all'altro e tutti insieme siano conformi al soggetto; peroché d'alcune materie alcuni piedi sono quasi peculiari, e fra lor piedi quali meglio, quali peggio s'accompagnano al loro viaggio, e qualunche persona quelli a caso congiugne, non avendo riguardo né alla natura di quelli né alle cose di che intende di ragionare, i versi e l'orazioni sue nascono zoppe, e non dovrebbe nutrirgli. E di questa cotal melodia non ne sono capaci gl'orecchi del vulgo, né lei altresì possono formare le voci della lingua volgare, la cui prosa io non so dire per qual ragione sia numerosa chiamata, se l'uomo in lei o non s'accorge o non cura né di spondei né di dattili né di trochei né d'anapesti e finalmente di niuna maniera di piedi, onde si move l'orazione ben regolata. Veramente questa nuova bestia di prosa volgare o è senza piedi e sdrucciola a guisa di biscia o ha quelli di specie diversa molto dalla greca e dalla latina; e per conseguente di così fatto animale, come di mostro a caso creato oltra il costume e l'intenzione d'ogni buono intelletto, non si dovrebbe fare né arte né scienzia. I versi veramente, in quanto son fatti d'undici sillabe, non paiono in tutto privi di piedi, ché le sillabe in loro hanno luogo e officio di piedi; ma in quanto quelle cotali possono esser lunghe e brevi a lor voglia, mai non dirò che sia diritto il lor calle, salvo se Monsignor non dicesse le rime esser l'appoggio dè versi, che gli sostengono e fanno andare dirittamente. La qual cosa non mi par vera, peroché, per quello ch'io n'oda dire, le rime sono più tosto come catena al sonetto e alla canzone che piedi o mani di versi loro. E tanto voglio che ne sia detto da me, brevemente certo per rispetto a quello che se ne può ragionare, ma a bastanza, se alla vostra richiesta, e troppo forse, se alla presenza di Monsignore si riguarderà, il quale meglio di me conosce e può numerare i difetti di questa lingua.


Sperone Speroni: Dialogo delle lingue (parte prima) Sperone Speroni: Dialogue of Languages (part one) Sperone Speroni: Diálogo de línguas (primeira parte)

Interlocutori

BEMBO, LAZARO, CORTEGIANO, SCOLARE, LASCARI, PERETTO BEMBO, LAZARO, CORTEGIANO, SCHOOL CHILD, LASCARI, PERETTO

BEM. Io odo dir, messer Lazaro, che la Signoria di Venezia v’ha condotto a legger greco e latino nello Studio di Padova: è vero questo? I hear Messer Lazaro saying that the Lordship of Venice led you to read Greek and Latin in the Padua Study: is this true? Jeg hører, Messer Lazaro, at Signoria i Venezia har fått deg til å lese gresk og latin i studiet av Padua: er dette sant?

LAZ. LAZ. Monsignor sì. BEM. BEM. Che provisione è la vostra? What provision is yours? Hvilken bestemmelse er din? LAZ. Trecento scudi d’oro.

BEM. Messer Lazaro, io me n’allegro con voi, con le buone lettere e con gli studiosi di quelle: con voi prima, peroché io non so uomo nessuno della vostra professione, che andasse presso a quel segno ove sete arrivato con le buone lettere poi, le quali da qui inanzi non mendicheranno la vita loro povere e nude, come sono ite per lo passato. Messer Lazaro, I am delighted with you, with the good letters and the scholars of those: with you before, because I do not know any man of your profession, who went near that sign where thirst arrived with the good letters then , who from now on will not beg their poor and naked life, as they are for the past. M’allegro eziandio con lo Studio e gli studiosi di Padova, cui finalmente è tocco in sorte tale maestro quale lungo tempo hanno cercato e disiderato. I am also delighted with the study and scholars of Padua, to whom this master has finally touched which long and sought after. Ma io v’aviso che egli vi bisognerà sodisfar non tanto all’immenso disiderio che hanno gli uomini d’imparare, quanto ad una infinita speranza che s’ha di voi e della vostra dottrina. But I warn you that he will have to satisfy you not so much with the immense desire that men have of learning, but with an infinite hope that he has of you and of your doctrine. Il che fare nuova cosa non vi sarà, così sete usato d’affaticarvi e con le vostre lodevoli fatiche operar gloria in voi e in altrui vertù. There will be no new thing to do, so thirst used to labor you and with your praiseworthy labors to work glory in you and in others.

LAZ. Monsignor, sempremai io n’ho pregato Domenedio che mi dia grazia e occasione una volta di far conoscere al mondo non quel poco ch’io so, ma il valore e l’eccellenzia di queste due lingue, le quali gran tempo sono state sprezzate da chi doveva adorarle; ora che Dio la mi ha conceduta, ho speranza di fare che molti uomini di qualunche età e nazione, lasciati gli altri studi da canto, tutti a questo uno si doneranno, come a quello che veramente pò loro far gloriosi. Monsignor, I have always begged Domenedio to give me the grace and opportunity once to make known to the world not what little I know, but the value and excellence of these two languages, which have long been despised by who was to worship them; now that God has granted it to me, I hope to make that many men of any age and nation, leaving aside other studies, all will give themselves to this one, as to what they can truly make glorious.

BEM. BEM. Chiunque vi conosce porta cotale openione di voi. Anyone who knows you brings such openness to you. Ma per certo noi siamo giunti a tempo che pare che il male lungamente da noi sofferto voglia Iddio a qualche modo ricompensarci; peroché in iscambio delle molte possessioni e città della Italia, le quali occupano gli oltramontani, egli ci ha donato l’amore e la cognizione delle lingue in maniera che nessuno non è tenuto filosofo, che non sa greco e latino perfettamente. But for sure we have reached the time that it seems that the evil we have suffered for a long time will God in some way reward us; because in exchange for the many possessions and cities of Italy, which the overseas occupies, he has given us the love and knowledge of languages in a way that no one is not a philosopher, who does not know Greek and Latin perfectly. Onde egli è strana e bella cosa il vederci continuamente vivere e parlare con barbari e non aver del barbaro. Therefore it is a strange and beautiful thing to see us continually living and talking with barbarians and not having barbarians. Né solamente queste due nobilissime lingue, ma la toscana poco men che perduta, quasi pianta che rinovelle, è rifiorita di nuovo sì fattamente che di breve più d’un Petrarca e più d’un Boccaccio vi si potrà numerare. Nor are these two noble tongues, but the Tuscan less than lost, almost a plant that is reborn, has flourished again so earnestly that more than one Petrarch and more than one Boccaccio can be numbered. La ebrea similmente comincia ad essere in prezzo. The Jewess likewise begins to be priced. Per che a me pare, quando vi guardo, che questo sia un certo influsso del cielo, sì fieramente ogn’uno si dà nello studio delle lingue: il quale solo fra tutti gl’altri ci fa immortali per fama. Therefore it seems to me, when I look at you, that this is a certain influence of heaven, so proudly everyone gives himself in the study of languages: which alone among all the others makes us immortal for fame.

LAZ. LAZ. Degna cosa da credere che ‘l cielo abbia curato altre volte e curi ancora della greca e della latina, per la eccellenzia di queste lingue; ma di quelle altre né il cielo ne ha cura, né deeno averne i mortali: ai quali né onore né utile non può recare il parlar bene alla maniera del vulgo. Worthy of all to believe that heaven has taken care of other times and still looks for the Greek and Latin, for the excellence of these languages; but of the other ones, neither heaven has taken care of it, nor does it have mortals: to whom neither honor nor profit can not bring good talk in the manner of the vulga.

BEM. BEM. Egl’è ben vero che tanto più volentieri si doverebbe imparar la lingua greca e la latina che la toscana, quanto di questa quelle altre due sono più perfette e più care; ma che la tosca sia da sprezzare del tutto, per niente lo direi: parte per non dire bugia, parte per non parer d’aver perduto tutto quel tempo che spender volli in apprenderla. It is true that one should learn Greek and Latin much more willingly than Tuscan, as the other two are more perfect and more expensive than Tuscany; but that the tosca is to be despised at all, I would say it not at all: part so as not to tell a lie, part so as not to seem to have lost all that time I wanted to spend in learning it. Della ebrea, io non ne so nulla; ma per quello che io n’oda dire, quanto la latina gl’Italiani altrotanto o poco meno istima lei la Germania. I know nothing about the Jewess; but as far as I can tell, as much as the Latin thinks about Germany as much or a little less.

LAZ. A me pare, quando vi guardo, che tale sia la volgar toscana per rispetto alla lingua latina quale la feccia al vino; peroché la volgare non è altro che la latina guasta e corrotta oggimai dalla lunghezza del tempo o dalla forza dè barbari o dalla nostra viltà. It seems to me, when I look at you, that such is the Tuscan vulgar out of respect for the Latin language such as lees in wine; because the vulgar is nothing but the Latin spoiled and corrupted today by the length of time or by the strength of the barbarians or by our cowardice. Per la qual cosa gl’Italiani, li quali allo studio della lingua latina la volgare antepongono, o sono senza giudicio, non discernendo tra quel ch’è buono e non buono, o privi in tutto d’ingegno non son possenti di possedere il migliore. For this reason the Italians, who put the vernacular before the study of the Latin language, either are without judgment, not discerning between what is good and not good, or lacking in all ingenuity are not powerful to possess the best . Onde quello n’avviene che noi veggiamo avvenire d’alcuna umana complessione, la quale scema di vigor naturale, non avendo vertù di fare del cibo sangue, onde viva il suo corpo, quello in flemma converte, che rende lo uomo dapoco, e nelle proprie operazioni il fa essere conforme alla qualità dell’umore. Thus it happens that we see the occurrence of some human complexion, which is foolish of natural vigor, not having the power to make food blood, so that its body lives, that in phlegm converts, which makes man short, and in the own operations the does conform to the quality of the mood. Ma egli si vorrebbe dare per legge ad ogn’uno: a' volgari il non parlare latinamente, per non diminuir la riputazione di questa lingua divina; a' literati, che mai da loro, se non costretti d’alcuna necessità, non si parlasse volgare alla maniera degl’ignoranti: accioché ‘l vulgo arrogante, con l’essempio e auttorità dè grandi uomini, non prendesse argomento di far conserva delle sue proprie brutture e ad arte ridurre la sua ignoranzia. CORTEG. Messer Lazaro, qui tra noi ditene il male che voi volete di questa lingua toscana; solamente quello non fate che fece l’anno passato messer Romolo in questa città; il quale orando publicamente con tante e tali ragioni biasimò cotal lingua ch’ora fu che inanzi arei tolto d’esser morto famiglio di Cicerone, per aver bene latinamente parlato, che viver ora con questo Papa toscano. Messer Lazaro, here among us tell the evil you want of this Tuscan language; only do not do what Messer Romolo did last year in this city; who, praying publicly with so many and such reasons, blamed this language that it was now that before I was removed from being dead familiar of Cicero, for having spoken well in Latin, that I will now live with this Tuscan Pope.

LAZ. Se io credessi bisognarmi persuadere a' scolari di Padova che la lingua latina fosse cosa da seguitare e da fuggir la toscana, o io non v’anderei a legger latino o spererei che delle mie lezzioni poco frutto se ne dovesse pigliare; ché, da sé stessi nol conoscendo, giudicarei che essi mancassero d’intelletto, non sappiendo distinguere tra principii per sé noti e tra le conclusioni: il quale difetto non ha rimedio nissuno. If I thought it necessary to persuade the pupils of Padua that the Latin language was something to be followed and to flee from Tuscany, either I would not go to read Latin or I would hope that little fruit would be drawn from my lessons; because, not knowing themselves, I would judge that they lacked understanding, not knowing how to distinguish between principles known per se and between conclusions: which defect has no remedy at all. Onde io vi dico che più tosto vorrei saper parlare come parlava Marco Tullio latino ch’esser Papa Clemente.

CORTEG. E io conosco di molti uomini che, per esser mediocri signori, si contentarebbono d’esser muti. Già non dico ch’io sia uno di questo numero; ma dico bene, e dicolo con vostra grazia, poi che il difetto è dal mio poco intelletto, io non vedo per qual ragione debba l’uomo apprezzare la lingua greca né la latina, che per saperle sprezze mitre e corone; ché se ciò fosse, stato sarebbe di maggior dignità il canevaio o ‘l cuoco di Demostene e di Cicerone, che non è ora l’imperio e il papato.

BEM. Non creggiate che messer Lazaro brami solamente la lingua latina di Cicerone, la quale era comune a lui e agl’altri Romani; ma insieme con le parole latine, egli disidera l’eloquenzia e la sapienzia di lui, che fu sua propria e non d’altri; la quale tanto più eccellente dee riputarsi d’ogni mondana grandezza, quanto all’altezza dè principati si sale per successione o per sorte, ove a quella delle scienzie monta l’anima nostra non con altre ali che con quelle del suo ingegno e della sua industria. Io so nulla per rispetto a' què gloriosi, ma quel poco che io ne so delle lingue, non lo cangerei al Marchesato di Mantova. LAZ. Io non credo, Monsignor mio, che voi creggiate che molti dè senatori e dè consulari di Roma non che tutta la plebe, così latino parlasse come facea Marco Tullio, alli cui studii più fu Roma obligata, che alle vittorie di Cesare. Onde io dissi, e ora dico di nuovo, che più istimo e ammiro la lingua latina di Cicerone che l’imperio d’Augusto. Delle laudi della qual lingua parlarei al presente, non tanto per sodisfare al disiderio di questo gentil’uomo da bene, quanto perché io sono obligato di farlo; ma ove voi sete, non si conviene che altri che voi ne ragione; e chi facesse altramente, farebbe ingiuria alla lingua, e egli sarebbe tenuto prosontuoso.

BEM. Questo officio di lodar la lingua latina per molte ragioni dee esser vostro: parte per esser già destinato ad insegnarla publicamente, parte per esserle più partigiano che io non sono io, il quale non l’istimo cotanto, sì che però io dispregi la volgare toscana; e anche io non la preposi se non ad un marchesato, ove voi l’avete messa disopra all’imperio di tutto ‘l mondo. Dunque a voi tocca il lodarla: ché lodandola sarete grato alla lingua, alla quale il nome vostro, e la fama vostra, è grandemente obligata; e con questo buon gentiluomo cortesemente operarete, il quale dianzi non si curò di confessare d’aver anzi dello scerno che no, per udir voi ragionar della sua eccellenza.

LAZ. E io, poi che volete così, volentieri la loderò, con patto di potere insiememente biasimar la volgare, se voglia me ne verrà, senza che voi l’abbiate per male.

BEM. Son contento; ma sia il patto comune, che, quando voi vituperarete, io possa difendere.

LAZ. Volentieri. Ma a voi, gentil’uomo, dico ch’io posso bene incominciare a lodare la buona lingua latina, rendendovi la ragione perché io la preponga alla signoria del mondo; ma finire non veramente, tanto ho da dire intorno a questa materia. Non per tanto mi rendo sicuro che quel poco ch’io ne dirò vi persuaderà ad esserle molto più amico che voi non siete al presente alla corte di Roma.

CORTEG. Questo voi farete dapoi. Ora io voglio per la mia parte che qualora cosa direte che io non intenda, interrompendo il ragionamento, possa pregarvi che la chiariate.

LAZ. Son contento. Dunque, senza altro proemio fare, io dico incominciando che, quantunque in molte cose siamo differenti dalli bruti animali, in quest’una principalmente ci discostiamo da loro, che ragionando e scrivendo comunichiamo l’un l’altro il cor nostro: la qual cosa non possono fare le bestie. Dunque, se così è, quegli più diverso sarà dalla natura dè bruti, il quale parlerà e scriverà meglio. Per la qual cosa chiunque ama d’esser uomo perfettamente, con ogni studio dee cercare di parlare e scrivere perfettamente; e chi ha vertù di poterlo fare, ben si può dire a ragione lui esser tale fra gl’altri uomini, quali sono gl’uomini istessi per rispetto alle bestie. La qual vertù di parlare e di scrivere i Greci e Latini quasi ugualmente s’appropriarono. Onde le loro lingue vengono ad esser quelle che, sole tra tutte l’altre del mondo, ci fanno diversi per eccellenzia dalle barbare e dalle irrazionali creature. E è ben dritto; conciosia cosa che tra' poeti volgari niuno ve n’abbia il quale a giudicio di Fiorentini possa agguagliarsi a Virgilio né ad Omero, né tra gli oratori a Demostene o a Marco Tullio. Lodate quanto volete il Petrarca e il Boccaccio, voi non sarete sì arditi che né eguali però né inferiori troppo vicini gli facciate agli antichi; anzi da loro tanto lontani li troverete che tra quelli non sarete osi d’annoverargli. Ora non voglio nominar d’uno in uno i scrittori greci e latini di grande eccellenza, ch’io non ne verrei a capo in un mese; ma son contento di queste due coppie. Troverassi a costoro in altra lingua alcun pare? Dirò di me: mai non sono di sì rea voglia e sì tristo che, leggendo i lor versi e l’orazioni, non mi rallegri. Tutti gl’altri piaceri, tutti gl’altri diletti, feste, giochi, suoni, canti vanno dietro a quest’uno. Né dee uomo meravigliarsene, peroché gl’altri solazzi sono del corpo e questo è dell’animo. Onde quanto è più nobile cosa l’intelletto del senso tanto è maggiore e più grato questo diletto di tutti gli altri.

CORTEG. Ben vi credo ciò che dicete; peroché qualunche volta io leggo alcune novelle del nostro Boccaccio, uomo certamente di minor fama che Cicerone non è, io mi sento tutto cangiare, massimamente leggendo quella di Rustico e d’Alibech, d’Alatiel, di Peronella e altre cotali le quali governano i sentimenti di chi le legge e fanno fargli a lor modo. Per tutto ciò io non direi dover uomo arguire l’eccellenzia d’alcuna lingua; più tosto credo la natura delle cose descritte avere vertù d’immutare il corpo e la mente di chi legge.

BEM. Questo no, ma la facondia è sola o principale cagione di far in noi così mirabili effetti. E ch’egli sia il vero, leggete Virgilio volgare, latino Omero e il Boccaccio non toscano e non faranno questi miracoli. Dunque messer Lazaro dice il vero, quando di tali effetti pone la cagion nelle lingue; non prova per questo la sua ragione non si dover imparar altra lingua che latina e greca. Peroché se la nostra volgare oggidì non è dotata di così nobili auttori, già non è cosa impossibile che ella n’abbia, quando che sia, poco meno eccellenti di Virgilio e d’Omero, ciò è che tali siano nella lingua volgare, quali sono costoro nella greca e nella latina.

LAZ. Quando egli avverrà che la lingua volgare abbia i suoi Ciceroni, i suoi Virgilii, i suoi Omeri e i suoi Demosteni, allora consiglierò che ella sia cosa da imparare come è ora la latina e la greca. Ma questo mai non sarà; conciosia cosa che la lingua non lo patisce per esser barbara, sì come ella è, e non capace né di numero né di ornamento. Ché se què quattro, non che altri, rinascessero un’altra volta e con l’ingegno e con la industria medesima, con la quale latinamente poetarono e orarono, parlassero e scrivessero volgarmente, essi non sarebbero degni del nome loro. Non vedete voi questa povera lingua avere i nomi non declinabili, i verbi senza coniugazione e senza participio, e tutta finalmente senza nissuna bontà? E meritamente per certo; conciosia cosa che, per quello che io n’oda dire da' suoi seguaci, la sua propria perfezzione consiste nel dilungarsi dalla latina, nella quale tutte le parti dell’orazione sono intere e perfette. Ché se ragione mancasse di biasmarla, questo suo primo principio, ciò è scostarsi dalla latina, è ragione dimostrativa della sua pravità. Ma che? ella mostra nella sua fronte d’aver avuto la origine e l’accrescimento da' barbari, e da quelli principalmente che più odiarono li Romani, cioè da' Francesi e da' Provenzali, da' quali non pur i nomi, i verbi e gli adverbi di lei, ma l’arte ancora dell’orare e del poetare sì si derivò. Oh glorioso linguaggio! Nominatelo come vi piace, solo che italiano non lo chiamate, essendo venuto tra noi d’oltre il mare e di là dall’Alpi, onde è chiusa l’Italia: ché già non è propria di Francesi la gloria che stati ne siano inventori e accrescitori; ma dall’inclinazione dell’imperio di Roma in qua, mai non venne in Italia nazione nissuna sì barbara e così priva d’umanità, Unni, Gotti, Vandali, Longobardi ch’a guisa di trofeo non vi lasciasse alcun nome o alcun verbo d’i più eleganti ch’ella abbia. E noi diremo che volgarmente parlando possa nascere Cicerone o Virgilio? Veramente se questa lingua fosse colonia della latina, non oserei confessarlo; molto meno il dirò, essendo lei una indistinta confusione di tutte le barbarie del mondo. Nel quale caos prego Dio che mandi ancora la sua discordia; la quale, separando una parola dall’altra e ogn’una di loro mandando alla propria sua regione, finalmente rimanga a questa povera Italia il suo primo idioma, per lo quale non meno fu riverita dalle altre provincie, che temuta per le armi. Io veramente poco ho letto di queste cose volgari, e guadagnato parmi d’avere assai in perdere di studiarle, che egli è meglio non le sapere che saperle; ma quante volte per mia disgrazia n’ho alcuna veduta, altretante meco medesimo ho lagrimato la nostra miseria, pensando fra me quale fu già e quale è ora la lingua onde parliamo e scriviamo. E noi vedremo giamai Cicerone o Virgilio toscano? Più tosto rinasceranno Schiavoni che Italiani volgari; salvo se per gioco non si dirà in quel modo che i servi fanno il lor re e i prigionieri lor podestà. Ma tal Virgilio e tal Cicerone, Mori e Turchi possono aver nelle lor lingue; però parlando una volta con un mio amico che molto ben s’intendea della lingua arabesca, mi ricordo udir dire che Avicenna avea composte di molte opere, le quali si conoscevano esser sue non tanto all’invenzione delle cose quanto allo stile, nel quale di gran lunga avanzava tutti gl’altri scrittori di quella lingua, eccetto quello de l’Alcorano. Dunque come proporzionevolmente Avicenna si direbbe Marco Tullio fra gli Arabi, così confesso dover nascere, anzi esser già nato e forse morto il Virgilio volgare: ma dico bene che tal Virgilio è un Virgilio dipinto Ma il buono e il vero Virgilio, il quale, lasciando l’ombre da canto, doverebbe l’uomo abbracciare, ha la lingua latina, come la greca ha Omero; e facendo altramente siamo a peggior condizione che non sono gli oltramontani, li quali essaltano e riveriscono sommamente la nostra lingua latina e tanto ne apprendono quanto possono adoprar l’ingegno; il quale, se pare in loro fosse al disio, mi rendo certo che di breve la Germania e la Gallia produrrebbe di molti veri Virgilii. Ma noi altri suoi cittadini, colpa e vergogna del nostro poco giudizio, non solamente non l’onoriamo, ma a guisa di persone sediziose tuttavia procuriamo di cacciarla della sua patria e in suo luoco far sedere quest’altra, della quale (per non dir peggio) non si sa né patria né nome.

CORTEG. A me pare, messer Lazaro, che le vostre ragioni persuadano altrui a non parlar mai volgarmente; la qual cosa non si può fare, salvo se non si fabricasse una nuova città, la quale abitassero i litterati, ove non si parlasse se non latino. Ma qui in Bologna chi non parlasse volgare, non arebbe chi l’intendesse e parrebbe un pedante, il quale con gli artigiani facesse il Tullio fuor di proposito

LAZ. Anzi, voglio che così come per li granari di questi ricchi sono grani d’ogni maniera, orzo, miglio, frumento e altre biade sì fatte, delle quali altre mangiano gl’uomini, altre le bestie di quella casa; così si parli diversamente or latino, or volgare, ove e quando è mestieri. Onde se l’uomo è in piazza, in villa o in casa, col vulgo, co' contadini, co' servi, parli volgare e non altramente; ma nelle scole delle dottrine e tra i dotti, ove possiamo e debbiamo esser uomini, sia umano, cioè latino, il ragionamento. E altrettanto sia detto della scrittura, la quale farà volgar la necessità, ma la elezzione latina, massimamente quando alcuna cosa scrivemo per disiderio di gloria, la quale mal ci pò dar quella lingua che nacque e crebbe con la nostra calamità, e tuttavia si conserva con la ruina di noi.

BEM. Troppo aspramente accusate questa innocente lingua, la quale pare che molto più vi sia in odio che non amate la latina e la greca. Peroché ove ci avevate promesso di lodar quelle principalmente e la toscana alcuna volta, venendo il caso, vituperare, ora avete fatto in contrario: quelle non avete lodato e questa una fieramente ci biasimate, e per certo a gran torto, peroché ella non è punto sì barbara né sì priva di numero e d’armonia, come la ci avete dipinta. Ché se la origine di lei fu barbara da principio, non volete voi che in ispazio di quattrocento o cinquecento anni sia divenuta cittadina d’Italia? Per certo sì; altramente li Romani medesimi, li quali di Frigia cacciati vennero ad abitare in Italia, sarebbero barbari; le persone, i costumi e la lingua loro sarebbe barbara; l’Italia, la Grecia e ogni altra provincia, quantunque mansueta e umana, si potrebbe dir barbara, se l’origine delle cose fosse bastante di recar loro questa infame denominazione. Confesso adunque la lingua nostra materna essere una certa adunanza non confusa ma regolata di molte e diverse voci, nomi, verbi e altre parti d’orazione; le quali primieramente da strane e varie nazioni in Italia disseminate, pia e artificiosa cura dè nostri progenitori insieme raccolse, e ad un suono, ad una norma, ad un ordine sì fattamente compose che essi ne formarono quella lingua, la quale ora è propria nostra, e non d’altri; imitando in questo la madre nostra natura, la quale di quattro elementi diversi molto fra loro per qualità e per sito ci ha formati noi altri più perfetti e più nobili che gli elementi non sono. Imaginatevi, messer Lazaro, di vedere l’imperio, la degnità, le ricchezze, le dottrine e finalmente le persone e la lingua d’Italia in forza dè barbari in maniera che il trarla lor de le mani sia cosa quasi impossibile: voi non vorrete vivere al mondo? mercantare? studiare? parlare voi e vostri figliuoli? Ma lasciando da parte l’altre cose, parlarete latino, cioè in guisa che non v’intendano i Bolognesi, o parlarete in maniera che altri intenda e risponda? Dunque una volta il parlar volgarmente era forza in Italia, ma in processo di tempo fece l’uomo (come si dice) di quella forza e necessità l’arte e l’industria della sua lingua. E così come nel principio del mondo gli uomini dalle fere si difendevano fuggendo e uccidendo senza altro, or passando più oltre a benefizio e ornamento della persona ci vestiamo delle lor pelli; così da prima, a fine solamente d’essere intesi da chi regnava, parlavamo volgare, ora a diletto e a memoria del nostro nome parliamo e scriviamo volgare. Oh, egli sarebbe meglio che si ragionasse latino, non lo nego; ma meglio sarebbe ancora che i barbari mai non avessero presa né distrutta l’Italia e che l’imperio di Roma fosse durato in eterno. Dunque sendo altramente, che si dee fare? Vogliam morir di dolore? Restar mutoli? E non parlar mai, fin che torni a rinascere Cicerone e Virgilio? Le case, i tempii e finalmente ogni artificio moderno, i disegni, i ritratti di metallo e di marmo non sono da esser pareggiati agli antichi: dovemo però abitare tra' boschi? Non dipingere, non fundere, non isculpire, non sacrificare, non adorar Dio? Basta a l’uomo, messer Lazaro mio caro, che egli faccia ciò che egli sa e può fare, e si contenti delle sue forze. Consiglio adunque e ammonisco ciascuno che egli impare la lingua greca e latina, quelle abbracce, quelle abbia care, e con l’aiuto di quelle studie a farsi immortale. Ma a tutti quanti non ha partito ugualmente Domenedio né l’ingegno né ‘l tempo. Più vi vo' dire: sarà alcuno per aventura, cui né natura né industria non mancherà; nulladimeno egli serà quasi che dalle stelle inclinato a parlare e scriver meglio volgare che non latino in un soggetto e in una materia medesma. Che dee fare egli? Che ciò sia il vero, vedete le cose latine del Petrarca e del Boccaccio, e agguagliatele alle loro volgari: di quelle niuna peggiore, di queste niuna migliore giudicarete. Dunque, da capo consiglio e ammonisco voi, messer Lazaro, scrivere e parlare latino, come quello che assai meglio scrivete e parlate latino che non volgare; ma voi gentiluomo, il quale o la prattica della corte o l’inclinazione del vostro nascimento stringe a far altramente, altramente consiglio; e facendo altramente non solamente non viverete inonorato, ma tanto più glorioso quanto scrivendo e parlando bene volgare, almeno a' volgari sarete caro; ove malamente scrivendo e parlando latino, vile sareste a' dotti parimente e indotti. Né vi persuada l’eloquenzia di messer Lazaro più tosto a divenir mutolo che componere volgarmente, peroché così la prosa come il verso della lingua moderna è in alcune materie poco meno numerosa e di ornamenti capace della greca e della latina. I versi hanno lor piedi, lor armonia, lor numeri; le prose il lor flusso di orazione, le lor figure e le loro eleganzie di parlare; repetizioni, conversioni, complessioni e altre tai cose; per le quali non è forse, come credete, diversa una lingua dall’altra, ché se le parole sono diverse, l’arte del comporle e dell’adunarle è una cosa medesma nella latina e nella toscana. Se messer Lazaro ci negasse questo, io li domanderei: onde è adunque che le cento novelle non sono belle egualmente, né i sonetti del Petrarca tutti parimente perfetti? Certo bisognarebbe che egli dicesse niuna orazione, niun verso toscano non esser né più brutto, né più bello dell’altro e per conseguente il Serafino esser eguale al Petrarca, o veramente confessarebbe fra le molte composizionì volgari alcuna più, alcuna meno elegante e ornata dell’altra trovarsi: la qual cosa non sarebbe così quando elle fossero del tutto prive dell’arte de l’orare e del poetare.

LAZ. Monsignore, io negai la lingua moderna aver in sé numero, né ornamento, né consonanzia, e lo nego di nuovo, non per esperienzia ch’io n’abbia ma per ragione; ché se l’uomo, senza punto saper sonare né tamburo né tromba, solo che è gli oda una volta, per la loro spiacevolezza può giudicare quelli non essere strumenti atti a fare armonia né ballo; così udendo e formando per me medesimo queste parole volgari, al suono di ciascuna di loro separata dall’altre, senza ch’io le compona altramente, assai bene comprendo che diletto possano recare agl’orecchi degli ascoltanti le prose e i versi che se ne fanno: vero è che questo giudicio non l’ha ogn’uno, ma coloro solamente i quali sono usati a ballare al suono dei leuti e dei violoni. È mi ricorda, essendo una volta in Venezia, ove erano giunte alcune navi dè Turchi, udire in quelle un rumore di molti strumenti; del quale né ‘l più spiacevole né ‘l più noioso non udi' mai alla vita mia; nondimeno a coloro che non sono usi alle delizie d’Italia parea quella una dolce musica. Altrotanto si può dire della numerosità dell’orazione e del verso di questa lingua. Alcuna volta qualche consonanzia vi si ritrova che meno ingrata e men brutta fa l’una dell’altra; ma quella in sé è armonia e musica di tamburi, anzi d’archibusi e di falconetti, che introna altrui l’intelletto e fere e stroppia sì fattamente che egli non è più atto a ricevere impressione di più delicato strumento, né secondo quello operare. Per la qual cosa chi non ha tempo o vertù di sonare i leuti e i violoni della latina, più tosto si dè stare ozioso che por mano ai tamburi e alle campane della volgare, imitando l’essempio di Pallade, la quale, per non si distorcere nella faccia sonando, gittò via la piva, di che era stata inventrice, e fu a lei più gloria il partirla da sé e non degnar d’appressarlasi alla sua bocca che non fu utile a Marsia il ricoglierla e sonarla; onde ne perdette la pelle. Vero diceste, Monsignore, què primi antichi Toscani essere stati sforzati a parlare in questa maniera, non volendo con silenzio trapassar la lor vita, e che noi altri posteriori abbiamo fatto dell’altrui forza nostra virtù. Questo è vero, ma maggior laude dà altrui quella violenzia che a noi non reca questa vertù. Gloria fu a loro l’esser solerti nelle miserie, ma biasmo e scorno è a noi altri, ora che liberi semo, il dar ricetto e conservare lungamente un perpetuo testimonio della nostra vergogna, e quello non solamente nudrire ma ornare; altro non essendo questa lingua volgare che uno indizio dimostrativo della servitù degl’Italiani. Guerreggiando una volta la vostra Republica, e non le bastando l’oro e l’argento a pagare i soldati, fece (come si dice) stampare gran quantità di denari di cuoio cotto col conio di San Marco; e con quelli sostentò e vinse la guerra: e fu sapienzia veneziana questa. Ma se a tempo di pace avessero continuato a spendere questa moneta e a farla di giorno in giorno più bella e di miglior corame, già sarebbe convertita in avarizia la sapienzia. Ora, se alcuno ci avesse il quale, sprezzato l’oro e l’argento, facesse del cuoio tesoro, non sarebbe egli pazzo costui? sì, veramente. Ma noi altri cui, mancando il tesoro latino, la nostra calamità fece provedere di moneta volgare, quella non ci basta di spendere tuttavia col volgo, che altra non ne conosce né tocca, ma, venutone fatto di ricovrar le perdute ricchezze, lei tuttavia conserviamo e nei secreti dell’anima nostra, ove solevamo serrar l’oro e l’argento di Roma, diamo ricetto alle reliquie di tutta la barbarie del mondo.

CORTEG. A me pare, messer Lazaro, che questo non sia né lodar la lingua latina, né vituperar la volgare, ma più tosto un certo lamentarsi della ruina d’Italia; la qual cosa come è poco fruttuosa, così è molto discosta dal nostro proponimento; onde non vi vedo partir volentieri.

LAZ. Parvi che ‘l biasmo sia poco, quando io congiungo il nascimento di lei alla destruzzione dell’imperio e del nome latino? e l’accrescimento di lei al mancamento del nostro intelletto? Già me non laudarete in questa maniera, per farmi piacere.

CORTEG. Ciò non giudico biasimo ma meraviglia più tosto, ché gran cosa dee esser quella, di cui non può l’uomo parlare, tacendo la roina di Roma che fu capo del mondo! E che questo sia vero, poniamo che non i barbari ma i Greci l’avessero disfatta e che da indi in qua parlassero ateniese gl’Italiani, voi biasimareste la lingua attica, peroché l’uso di lei fosse congiunto alla servitù nostra?

LAZ. Se ciò stato fosse, non sarebbe suta guasta ma riformata l’Italia, per che non solamente non biasimerei il disfacimento di questo imperio, ma lodarei Dio, che lui avesse voluto ornare di linguaggio convenevole alla sua dignità.

CORTEG. Dunque, maggiore è il danno d’aver perduta la lingua che la libertà?

LAZ. Sì, senza dubio, peroché in qualunche stato sia l’uomo, o franco o soggetto, sempremai è uomo, né dura più d’uomo; ma la lingua latina ha vertù di fare d’uomini dèi e di morti, non che di mortali che siamo, immortali per fama. E che ciò sia vero, l’imperio romano, che si distese per tutto, è già guasto, ma la memoria della grandezza di lui, conservata nell’istorie di Salustio e di Livio, dura ancora e durerà fin che ‘l cielo si moverà; e altrotanto si può dire dell’imperio e della lingua dè Greci.

CORTEG. Questa vertù di far le persone famose per molti seculi non l’ha, che io creda, la istoria greca e latina come greca e latina, ma come istoria che ella è; la quale, in qualunche idioma sia scritta da alcuno, è sempremai (come alcun dice) testimonio del tempo, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita d’altrui e rinovellamento dell’antichità.

LAZ. Voi dite il vero, non esser propria questa vertù dell’istorie grece e latine, non che altra lingua ne sia partecipe; ma percioché tutte l’istorie grece e latine non hanno avuto tal privilegio, ma quelle solamente le quali artificiosamente compose alcuno uomo eloquente, sendo perfette quelle due lingue. Onde gli annali di Roma, li quali senza alcuno ornamento, con semplici e ancora rozze parole, narravano gl’avenimenti di lei, non durarono molti anni; né di loro si parlarebbe, se altro scrittore, quasi da compassione mosso, non ne facesse parola. Dunque, se quelli il tempo ha fatto divenir nulla, li quali assai dovevano aver d’eleganzia, essendo scritti latinamente, or che fia dell’istorie volgari, cui né naturale dolcezza di lingua né artificiosa eloquenzia di scrittori non può far care né graziose giamai?

CORTEG. Non intendo ancora ben bene in che cosa consista la soavità della lingua e delle parole latine, e la barbarica spiacevolezza delle volgari; anzi, confessandovi liberamente la mia ignoranzia, grandissimo numero dè nomi e participii latini con loro strana prononziazione le più volte mi suonano non so che bergamasco nel capo; altrotanto sogliono fare alcuni modi e tempi dè verbi; alle quali parole una simile delle volgari la nostra Corte Romana non degnerebbe di proferire.

LAZ. Io vi ricordo, gentil’uomo, che l’auttorità concistoriale non è giudice competente del suono e degl’accenti delle parole latine, onde se alcuna volta la lingua latina le pare tener della bergamasca, ella non è però bergamasca; né perché tale sia giudicata più vi dovete meravigliare che già vi siate meravigliato, avendo letto in Ovidio Mida Re più solere lodare lo stridere delle cannucce di Pan che la soavità della cetra d’Apollo.

CORTEG. Ecco, io son contento di confessarvi che le mie orecchie in tal caso non siano umane ma d’asino, se voi mi dite per qual cagione la numerosità e consonanzia dell’orazioni e dè versi di questa lingua chiamaste musica d’archibusi, conciosia cosa che i gran maestri di canto, cui è propria professione l’armonia, rade volte o non mai fanno canto o mottetto che le parole di lui non siano sonetti o canzoni volgari. Questo è pur segno che i nostri versi son da sé pieni di melodia.

LAZ. Già non è, gentil’uomo (come forse pensate), l’armonia del canto e quella delle prose e dè versi una cosa medesima, ma molte sono e diverse; onde non solamente delle cose volgari ma dè chirie ancora e dei santus si fanno canti e mottetti, della cui armonia generalmente s’intende ogni orecchia; peroché quali sono i sapori alla lingua, e agl’occhi e al naso i colori e gl’odori, tale è il suono agl’orecchi degl’uomini, li quali per lor natura e senza studio veruno facilmente discernono tra ‘l piacevole e ‘l dispiace vole. Ma il numero e l’armonia dell’orazione e del verso latino non è altro che artificiosa disposizione di parole, dalle cui sillabe, secondo la brevità e la lunghezza di quelle, nascono alcuni numeri, che noi altri chiamiamo piedi; onde misuratamente camina dal principio alla fine il verso e l’orazione. E sono di diverse maniere questi tai piedi, facendo i lor passi lunghi e corti, tardi e veloci, ciascheduno al suo modo, e è bell’arte quelli insieme adunare sì fattamente che non discordino fra sé stessi, ma l’uno all’altro e tutti insieme siano conformi al soggetto; peroché d’alcune materie alcuni piedi sono quasi peculiari, e fra lor piedi quali meglio, quali peggio s’accompagnano al loro viaggio, e qualunche persona quelli a caso congiugne, non avendo riguardo né alla natura di quelli né alle cose di che intende di ragionare, i versi e l’orazioni sue nascono zoppe, e non dovrebbe nutrirgli. E di questa cotal melodia non ne sono capaci gl’orecchi del vulgo, né lei altresì possono formare le voci della lingua volgare, la cui prosa io non so dire per qual ragione sia numerosa chiamata, se l’uomo in lei o non s’accorge o non cura né di spondei né di dattili né di trochei né d’anapesti e finalmente di niuna maniera di piedi, onde si move l’orazione ben regolata. Veramente questa nuova bestia di prosa volgare o è senza piedi e sdrucciola a guisa di biscia o ha quelli di specie diversa molto dalla greca e dalla latina; e per conseguente di così fatto animale, come di mostro a caso creato oltra il costume e l’intenzione d’ogni buono intelletto, non si dovrebbe fare né arte né scienzia. I versi veramente, in quanto son fatti d’undici sillabe, non paiono in tutto privi di piedi, ché le sillabe in loro hanno luogo e officio di piedi; ma in quanto quelle cotali possono esser lunghe e brevi a lor voglia, mai non dirò che sia diritto il lor calle, salvo se Monsignor non dicesse le rime esser l’appoggio dè versi, che gli sostengono e fanno andare dirittamente. La qual cosa non mi par vera, peroché, per quello ch’io n’oda dire, le rime sono più tosto come catena al sonetto e alla canzone che piedi o mani di versi loro. E tanto voglio che ne sia detto da me, brevemente certo per rispetto a quello che se ne può ragionare, ma a bastanza, se alla vostra richiesta, e troppo forse, se alla presenza di Monsignore si riguarderà, il quale meglio di me conosce e può numerare i difetti di questa lingua.