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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 19

Parte 19

In paese ci aspettava una straordinaria novità: era arrivata allora, su un carro tirato da un cavallo magro, una compagnia di attori. Si sarebbero fermati qualche giorno, avrebbero recitato, ci sarebbe stato il teatro! Il carro, coperto da un tendone cerato, era là sulla piazza, con le scene e il sipario arrotolati. Gli attori si affaccendavano lì attorno, e andavano cercando, nelle case dei contadini, ospitalità, per non dover spendere nell'albergo di Prisco. La compagnia era costituita di una famiglia: il padre, capocomico, la madre, prima attrice, due figlie di meno di vent'anni, con i loro mariti, e qualche altro parente. Erano siciliani. Il capocomico entrò subito da Prisco, per farsi dare qualcosa di caldo per sua moglie, che aveva la febbre. Non avrebbe potuto recitare quella sera; forse neppure l'indomani, ma si sarebbero fermati qualche giorno. Era un uomo di mezza età; già un po' grasso, con le guance cascanti, e una mimica accentuata, che ricordava l'imitazione di Zacconi. Quando seppe che io ero un pittore, mi disse che sarebbe stata per lui una grande fortuna se io avessi potuto dipingergli qualche scena di cui aveva bisogno. Le sue attrezzature erano ridotte ormai a quasi nulla, a forza di essere portate sul carretto, alle piogge e ai soli. Mi raccontò che egli era stato anche in buone compagnie, e che poi, per campare, si era dato a quella vita randagia, con la moglie e le figlie, tutte ottime attrici. Giravano per le città di Sicilia: qui in Lucania non c'erano ancora mai stati. Si fermavano nei paesi più grossi e più ricchi, più o meno tempo, a seconda degli incassi; ma si guadagnava poco, la vita era difficile, una delle sue figlie era incinta e presto non avrebbe potuto recitare. Gli dissi che avrei dipinto volentieri le scene; ma cercammo poi invano, in paese, la carta o la tela e i colori necessari, e non potei, con molto dispiacere, farne nulla. Mi invitò comunque alla rappresentazione, di lì a due giorni, e mi presentò la sua compagnia. Il padre era il solo della famiglia ad avere 1'aria comune del vecchio attore: le donne non erano delle attrici, ma delle dee. La madre e le due figlie si assomigliavano. Parevano uscite dalla terra o discese da una nuvola: i loro enormi occhi neri erano quelli opachi e vuoti delle statue. I loro visi marmorei, tagliati dalle sopracciglia folte e nere e dalle rosse bocche carnose, stavano impassibili sui bianchi colli robusti. La madre era grande e opulenta, con la pigra sensualità di una Giunone arcaica; le figlie, sottili e ondulanti, sembravano ninfe dei boschi, avvolte, per finzione bizzarra, in cenci colorati.

Mi affrettai ad andare dai carabinieri, per avere il permesso di uscire la sera, per assistere alla recita. Il dottor Zagarella, podestà di Grassano, non amava, a differenza di don Luigino, fare il poliziotto, e lasciava che dei confinati si occupassero i carabinieri. Era un medico serio e colto, e, grazie a lui e a un altro dottore, il dottor Garaguso, che aveva fama di particolare competenza, Grassano era l'unico paese della provincia dove si facesse qualcosa per la lotta antimalarica, e con qualche buon risultato. Questi due medici erano un caso eccezionale e fortunato, in questi paesi dove quasi tutti i loro colleghi assomigliavano, più o meno, ai due medicaciucci di Gagliano. Appunto perciò, mi ero proposto come uno degli scopi principali del mio viaggio, di visitarli per chiedere consigli alla loro specifica esperienza.

Sia l'uno che l'altro me ne dettero di preziosi, e mi mostrarono le loro statistiche. Da qualche anno si prendevano, a Grassano, misure sistematiche di profilassi; e anche di bonifica, pur senza avere, praticamente, alcun appoggio dalle autorità provinciali, né speciali sussidi. I casi di perniciosa erano quasi scomparsi; e, in questi ultimi due anni, erano enormemente diminuiti i nuovi malati. La malaria, quaggiù, è un flagello assai peggiore di quello che si possa pensare: colpisce tutti, e, mal curata, dura tutta la vita.

Il lavoro ne è impedito, la razza indebolita e fiaccata, i poveri risparmi vanno in fumo: ne derivano la miseria più nera, la schiavitù senza speranza. La malattia nasce dalla miseria delle argille diboscate, dei fiumi abbandonati, di una agricoltura senza risorse, e genera a sua volta la miseria, in un circolo mortale. Per sradicarla occorrerebbero grandi opere; si dovrebbero arginare i quattro grandi fiumi di Lucania, il Bradano, il Basento, 1'Agri e il Sinni, e i minori torrenti; si dovrebbero ricoprire d'alberi le pendici dei monti; ci dovrebbero essere dappertutto dei medici valenti, degli ospedali, dei mezzi di cura e di profilassi. Ma anche le misure più limitate avrebbero la loro efficacia, come mi dicevano Zagarella e Garaguso. Soltanto, nessuno se ne occupa, e i contadini continuano ad ammalarsi e a morire.

Il tempo si era fatto autunnale. Pioveva, in quei tre giorni prima della recita, e non potevo andare a dipingere in campagna. Passeggiavo per il paese, visitavo i miei conoscenti, e restavo a lavorare nella mia camera. Prisco era stato a caccia, era tornato con tre volpi, di quelle volpi rosse di qui, e un uccello di fiume. Io dipinsi l'uccello, e le volpi, e feci il ritratto del Capitano. Un giorno, mentre dipingevo le volpi, avevo interrotto un momento il lavoro, e guardavo, dalla finestra, nella strada. Era l'ora della siesta; nell'albergo tutti riposavano, e c'era un perfetto silenzio. Sentii un rumore affrettato di piedi nudi scendere di volo la scala, e vidi Prisco, scalzo e in maniche di camicia, uscire con un gran salto nella via, entrare come un fulmine nella porta di faccia, e uscirne, sempre in silenzio, con un coltello in mano. Apersi la finestra, e sentii un grande strepito di voci. Là in faccia c'era una rimessa, dove si fermavano i carrettieri di passaggio. Prisco, che era in camera sua a fare la siesta, ma che usava sempre dormire con un occhio solo, e con l'orecchio teso, s'era accorto di qualcosa che non andava bene là in faccia, dove i carrettieri giocavano alla passatella. Aveva visto qualcosa luccicare, e, svelto come un gatto, senza infilarsi le scarpe e senza parlare, era arrivato in tempo per strappare il coltello di mano a uno che l'aveva levato per ferire. La passatella è il gioco più comune quaggiù: è il gioco dei contadini. Nei giorni di festa, nelle lunghe sere d'inverno, essi si trovano nelle grotte del vino, a giocarla. Ma spesso finisce male; se non sempre a coltellate come quel giorno, in litigi e baruffe. La passatella, più che un gioco, è un torneo di oratoria contadina, dove si sfogano, in interminabili giri di parole, tutti i rancori, gli odi, le rivendicazioni represse. Con una partita breve di carte si determina un vincitore, che è il Re della passatella, e un suo aiutante. Il Re è il padrone della bottiglia, che tutti hanno pagato; e riempie i bicchieri a questo o a quello, secondo il suo arbitrio, lasciando a bocca asciutta chi gli pare. L'aiutante offre i bicchieri, e ha diritto di veto: può cioè impedire a chi si appresta a bere di portare il bicchiere alle labbra. Sia il Re che l'aiutante debbono giustificare il loro volere e il loro veto, e lo fanno, in contraddittorio, con lunghi discorsi, dove si alternano l'ironia e le passioni represse. Qualche volta il gioco è innocente e si limita allo scherzo di far bere tutto a uno solo, che sopporta male il vino, o di lasciare a secco proprio quello che si sa amarlo di più. Ma il più delle volte, nelle ragioni addotte dal Re e dall'aiutante, si rivelano gli odi e gli interessi, espressi con la lentezza, l'astuzia, la diffidenza e la profonda convinzione dei contadini. Le passatelle e le bottiglie si seguono una all'altra, per delle ore, finché i visi sono accesi per il vino, per il caldo, e per il destarsi delle passioni, aguzzate dall'ironia e appesantite dall'ubriachezza. Se ancora non scoppia la lite, è in tutti l'amarezza delle cose dette, degli affronti subíti. Prisco lo conosceva bene, quest'unico divertimento dei contadini, e stava attento. Quando, dopo l'intervallo del coltello, ebbi finito di dipingere le volpi, uscii per fare due passi. Aveva cessato di piovere, e l'aria del paese era piena dell'odore di carne bruciata dei gnemurielli che erano posti su dei bracieri, in mezzo alla strada, e che si vendevano a due soldi l'uno. Mi avviai per una scaletta, su verso l'alto, e raggiunsi la casa dove avevo abitato negli ultimi giorni prima della mia partenza per Gagliano, quando, lasciato l'albergo di Prisco, avevo pensato di sistemarmi definitivamente. La mia casa consisteva di una grande stanza con due finestre, al primo piano, che mi aveva affittato una vedova napoletana. Sotto, al pianterreno, c'era una bottega di falegname. La moglie del falegname, Margherita, mi faceva le faccende, e mi voleva molto bene. Anche ora, quando mi vide arrivare di lontano, mi corse incontro per festeggiarmi. - Sei tornato? Resti qui con noi? - Le dispiacque di sapere che avrei dovuto ripartire. Margherita era una vecchia, con un grande gozzo bitorzoluto che le deformava il collo, e un viso pieno di bontà. Era considerata una delle donne più intelligenti e più colte del paese, perché aveva fatto fino alla quinta elementare, e ricordava perfettamente tutto quello che aveva imparato. Quando veniva nella mia camera, mi ripeteva infatti le poesie di quei suoi vecchi tempi di scuola: la Spedizione di Sapri, 1a Morte di Ermengarda. Le ripeteva stando in mezzo alla stanza, ritta in piedi, con le braccia rigide e pendenti lungo il corpo, recitandole come cantilene. Ogni tanto si interrompeva per spiegarmi il significato di qualche parola difficile. Margherita era affettuosa e gentile. Mi diceva spesso: - Non essere triste se la tua mamma è lontana. Hai perduto una mamma ma ne hai trovata un'altra. Io sarò la mamma tua -. Malgrado il suo gozzo, era veramente materna. Aveva avuto due figli, che ora erano grandi, e avevano già famiglia: uno era in America. Dei figliuoli mi parlava sempre, e volentieri, e mi mostrava le fotografie dei nipotini. Ma quando un giorno le chiesi se non ne avesse avuti altri, si mise a piangere di tenerezza al ricordo del suo terzo bambino, il prediletto, che era morto, e mi raccontò, fra le lagrime, la sua storia. Questo figlio era il piú bello di tutti. Aveva poco più di un anno e mezzo, e parlava già bene, aveva dei bei riccioli neri e degli occhi vivaci: e capiva ogni cosa. Un giorno d'inverno, che c'era la neve sulla terra, Margherita l'aveva affidato a una sua comare e vicina, che l'aveva portato con sé in campagna, mentre andava a far legna. Alla sera la vicina tornò a casa sola, e disperata. Aveva lasciato il bambino, che camminava ben poco, per pochi minuti, mentre raccoglieva, nel sentiero del bosco, delle frasche: ma, tornata, il bambino non c'era più. Aveva girato là attorno dappertutto, del bambino nessuna traccia. Certo doveva averlo preso un lupo o un'altra bestia del bosco, e non si sarebbe trovato mai più. Margherita e suo marito, e tutti i contadini, e i carabinieri partirono subito, e per tutta la notte e nei giorni seguenti batterono tutta la campagna, metro per metro; ma il bambino non fu trovato, e la ricerca, dopo tre giorni, fu abbandonata. Il quarto giorno, alla mattina, Margherita, che girava sola e sconsolata per la campagna, incontrò, alla svolta di un sentiero, una donna grande e bella, col viso nero. Era la Madonna di Viggiano. Le disse: - Margherita, non piangere. Il tuo bambino è vivo. È laggiù nel bosco, in una fossa da lupi. Va' a casa, fatti accompagnare, e lo troverai -. Margherita corse, e, seguita dai contadini e dai carabinieri, giunse nel luogo indicato dalla Madonna. Nella fossa da lupi, in mezzo alla neve, giaceva il suo bambino, tranquillamente addormentato, tutto rosa e tiepido in mezzo a quel freddo. La madre lo abbracciò, lo svegliò. Tutti piangevano, anche i carabinieri. Il bambino raccontò che era venuta una donna col viso nero, e che per quattro giorni l'aveva tenuto con sé, e gli aveva dato il latte, lì in quella fossa, e l'aveva tenuto caldo. Quando furono tornati a casa, Margherita disse a suo marito: - Questo bambino non è come gli altri. La Madonna di Viggiano gli ha dato il latte, nella fossa da lupi. Chissà che cosa sarà di lui. Andiamo a Grottole, dall'indovinante. A Grottole, - diceva Margherita, - c'era allora un indovinante, che indovinava forte. Ci andammo, pagammo una lira, e quello disse tutto quel che era successo, come se l'avesse visto. Ma poi si scurì in viso, e disse che il bambino sarebbe morto all'età di sei anni, cadendo da una scala. E purtroppo così fu. A sei anni cadde da una scala, il mio povero bambino, e morì -. Margherita piangeva.

Altri bambini erano stati rapiti per l'aria, e ritrovati per merito della Madonna nera. Uno di pochi mesi scomparve, e si trovò poi, sopra uno dei due alberi che stanno a lato della cappella di sant'Antonio, a una diecina di chilometri dal paese, a mezza strada fra Grassano e Grottole. Era stato un demonio a portarlo lassù, e sant'Antonio ad averne cura. Ma il solo di cui conoscessi anch'io la famiglia, era il bambino di Margherita. Venne finalmente la serata della recita. Aveva cessato di piovere, le stelle brillavano mentre mi avviavo verso il fondo del paese. Non esistevano sale o saloni che potessero servire di teatro: si era scelto una specie di cantina o di grotta seminterrata, e ci avevano portato delle panche, dalla scuola, sul pavimento di terra battuta. In fondo, avevano costruito un piccolo palco, chiuso da un vecchio sipario. Lo stanzone era pieno zeppo di contadini, che aspettavano con meraviglia l'inizio della rappresentazione. Si recitava La Fiaccola sotto il Moggio, di Gabriele d'Annunzio. Naturalmente, mi aspettavo una gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della serata soltanto dal suo carattere di distrazione e di novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano superbamente; e, su quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche. Tutta la retorica, il linguismo, la vuotaggine tronfia della tragedia svaniva, e rimaneva quello che avrebbe dovuto essere, e non era, l'opera di d'Annunzio, una feroce vicenda di passioni ferme, nel mondo senza tempo della terra. Per la prima volta, un lavoro del poeta abruzzese mi pareva bello, liberato da ogni estetismo. Mi accorsi subito che questa sorta di purificazione era dovuta, più ancora che alle attrici, al pubblico. I contadini partecipavano alla vicenda con interesse vivissimo. I paesi, i fiumi, i monti di cui si parlava, non erano lontani di qui. Così li conoscevano, erano delle terre come la loro e davano in esclamazioni di consenso sentendo quei nomi. Gli spiriti e i demoni che passano nella tragedia, e che si sentono dietro le vicende, erano gli stessi spiriti e demoni che abitano queste grotte e queste argille. Tutto diventava naturale, veniva riportato dal pubblico alla sua vera atmosfera, che è il mondo chiuso, disperato e senza espressione dei contadini. In quella serata, spogliata la tragedia, dagli attori e dal pubblico, di tutto il dannunzianesimo, restava soltanto un contenuto grezzo ed elementare, che i contadini sentivano proprio. Era un'illusione, ma mostrava la verità. D'Annunzio era uno dei loro: ma era un letterato italiano, e non poteva non tradirli. Egli era partito di qui, da un mondo senza espressione, e aveva voluto sovrapporgli la veste brillante della poesia contemporanea, che è tutta espressività, sensualità, senso del tempo. Aveva perciò degradato quel mondo a puro strumento retorico, quella poesia a vuoto formalismo linguistico. Il suo tentativo non poteva essere che un tradimento e un fallimento. Da quel connubio ibrido non poteva che nascere un mostro. Le attrici siciliane e i contadini di Grassano avevano, spontaneamente, fatta la strada opposta; avevano eliminata quella veste posticcia, e ritrovato a modo loro il nocciolo paesano; e di questo si commovevano ed entusiasmavano. I due mondi malamente fusi nella vuotezza estetizzante, tornavano a scindersi, poiché ogni loro contatto è impossibile, e sotto quell'onda di inutili parole riappariva, per i contadini, la Morte vera e il Destino. Il giorno dopo, ero invitato a colazione dal signor Orlando, fratello di un noto giornalista che abitava a New York. Era un uomo alto, serio e malinconico. Viveva ritirato in un suo palazzetto, in una parte isolata del paese, e, avversario degli attuali potenti, si teneva lontano il più possibile dalle questioni locali. Io avevo disegnato la copertina di un libro di suo fratello sull'America: questo era stato il pretesto della nostra conoscenza, ed egli mi aveva usato ogni sorta di cortesie. Aveva ancora gli antichi costumi lucani: sua moglie non mangiò a tavola con noi, e ci lasciò soli. Parlammo dei contadini, della malaria, dell'agricoltura, dei vari aspetti della questione meridionale. Io avevo visto quel giorno un confinato, un piccolo ragioniere torinese, già impiegato ai sindacati, e mandato qui, a quello che egli diceva, come capro espiatorio per degli scandalosi furti di fondi nelle casse sindacali ad opera dei gerarchi suoi superiori. Egli aveva trovato da lavorare tenendo i libri di conti di una delle più grosse proprietà di Grassano, e me li mostrò. In questa grande tenuta non si coltivava che grano, secondo le direttive del governo. Nelle annate buone, malgrado il concime e il lavoro, non si raggiungeva che un raccolto di nove volte il seme; nelle altre annate la messe era di molto inferiore, - a volte dava soltanto tre o quattro volte la semenza. Era dunque una follia economica questo insistere sul grano. Queste terre non consentirebbero che la coltura del mandorlo e dell'olivo; e soprattutto, dovrebbero tornare ad essere foreste e pascoli. I contadini erano pagati con salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena mietitura, le lunghe file di donne, che salivano dai campi in riva al Basento su per l'interminabile strada, fino in paese, con in testa un sacco di grano, come dei dannati dell'inferno, sotto il sole feroce. Per ogni sacco portato fino in paese ricevevano una lira. E giù, nei campi, c'era la malaria. Ma, dicevamo con Orlando, il luogo comune che l'unica causa dei mali di qui sia il latifondo, e che basti spezzare il latifondo per redimere, come suol dirsi, la terra, non ha fondamento. Le condizioni dei piccoli proprietari di Gagliano non sono migliori, anzi sono forse ancora peggiori di quelle dei contadini senza terra di qui. Che cosa fare dunque nelle presenti condizioni? - Niente, - diceva Orlando con la sua profonda tristezza meridionale, ripetendo la stessa sconsolata parola del migliore e più umano pensatore di questa terra, Giustino Fortunato, che amava chiamarsi «il politico del niente». Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. - Ninte, - come dicono a Gagliano. - Che cosa hai mangiato? - Niente. - Che cosa speri? - Niente. - Che cosa si può fare? - Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L'altra parola, che ritorna sempre nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai. Ma crai significa mai.

La sconsolatezza di Orlando, che era quella di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese, derivava, come in tutti, da un radicale complesso di inferiorità. Per questo può forse dirsi che è impossibile ad essi capire completamente la loro terra e i suoi problemi, poiché partono, senza avvedersene, da un confronto, che non dovrebbe essere fatto, tutt'al più, se non dopo. Se si considera la civiltà contadina una civiltà inferiore, tutto diventa sentimento di impotenza o spirito di rivendicazione: e impotenza e rivendicazione non hanno mai creato nulla di vivo.

I pochi giorni di Grassano passarono così, fra la pittura, il teatro e gli amici, in un lampo, e dovetti ripartire. Una mattina presto, con un tempo grigio e incerto, l'automobile mi aspettava davanti alla porta. Salutato rumorosamente da Prisco e dai suoi figli e da Antonino e Riccardo, dissi addio a quel paese, dove non sono tornato più.


Parte 19 Part 19

In paese ci aspettava una straordinaria novità: era arrivata allora, su un carro tirato da un cavallo magro, una compagnia di attori. Si sarebbero fermati qualche giorno, avrebbero recitato, ci sarebbe stato il teatro! Il carro, coperto da un tendone cerato, era là sulla piazza, con le scene e il sipario arrotolati. Gli attori si affaccendavano lì attorno, e andavano cercando, nelle case dei contadini, ospitalità, per non dover spendere nell'albergo di Prisco. La compagnia era costituita di una famiglia: il padre, capocomico, la madre, prima attrice, due figlie di meno di vent'anni, con i loro mariti, e qualche altro parente. Erano siciliani. Il capocomico entrò subito da Prisco, per farsi dare qualcosa di caldo per sua moglie, che aveva la febbre. Non avrebbe potuto recitare quella sera; forse neppure l'indomani, ma si sarebbero fermati qualche giorno. Era un uomo di mezza età; già un po' grasso, con le guance cascanti, e una mimica accentuata, che ricordava l'imitazione di Zacconi. Quando seppe che io ero un pittore, mi disse che sarebbe stata per lui una grande fortuna se io avessi potuto dipingergli qualche scena di cui aveva bisogno. Le sue attrezzature erano ridotte ormai a quasi nulla, a forza di essere portate sul carretto, alle piogge e ai soli. Mi raccontò che egli era stato anche in buone compagnie, e che poi, per campare, si era dato a quella vita randagia, con la moglie e le figlie, tutte ottime attrici. Giravano per le città di Sicilia: qui in Lucania non c'erano ancora mai stati. Si fermavano nei paesi più grossi e più ricchi, più o meno tempo, a seconda degli incassi; ma si guadagnava poco, la vita era difficile, una delle sue figlie era incinta e presto non avrebbe potuto recitare. Gli dissi che avrei dipinto volentieri le scene; ma cercammo poi invano, in paese, la carta o la tela e i colori necessari, e non potei, con molto dispiacere, farne nulla. Mi invitò comunque alla rappresentazione, di lì a due giorni, e mi presentò la sua compagnia. Il padre era il solo della famiglia ad avere 1'aria comune del vecchio attore: le donne non erano delle attrici, ma delle dee. La madre e le due figlie si assomigliavano. Parevano uscite dalla terra o discese da una nuvola: i loro enormi occhi neri erano quelli opachi e vuoti delle statue. I loro visi marmorei, tagliati dalle sopracciglia folte e nere e dalle rosse bocche carnose, stavano impassibili sui bianchi colli robusti. La madre era grande e opulenta, con la pigra sensualità di una Giunone arcaica; le figlie, sottili e ondulanti, sembravano ninfe dei boschi, avvolte, per finzione bizzarra, in cenci colorati.

Mi affrettai ad andare dai carabinieri, per avere il permesso di uscire la sera, per assistere alla recita. Il dottor Zagarella, podestà di Grassano, non amava, a differenza di don Luigino, fare il poliziotto, e lasciava che dei confinati si occupassero i carabinieri. Era un medico serio e colto, e, grazie a lui e a un altro dottore, il dottor Garaguso, che aveva fama di particolare competenza, Grassano era l'unico paese della provincia dove si facesse qualcosa per la lotta antimalarica, e con qualche buon risultato. Questi due medici erano un caso eccezionale e fortunato, in questi paesi dove quasi tutti i loro colleghi assomigliavano, più o meno, ai due medicaciucci di Gagliano. Appunto perciò, mi ero proposto come uno degli scopi principali del mio viaggio, di visitarli per chiedere consigli alla loro specifica esperienza.

Sia l'uno che l'altro me ne dettero di preziosi, e mi mostrarono le loro statistiche. Da qualche anno si prendevano, a Grassano, misure sistematiche di profilassi; e anche di bonifica, pur senza avere, praticamente, alcun appoggio dalle autorità provinciali, né speciali sussidi. I casi di perniciosa erano quasi scomparsi; e, in questi ultimi due anni, erano enormemente diminuiti i nuovi malati. La malaria, quaggiù, è un flagello assai peggiore di quello che si possa pensare: colpisce tutti, e, mal curata, dura tutta la vita.

Il lavoro ne è impedito, la razza indebolita e fiaccata, i poveri risparmi vanno in fumo: ne derivano la miseria più nera, la schiavitù senza speranza. Work is prevented, the race weakened and weakened, the poor savings go up in smoke: the worst misery and hopeless slavery ensue. La malattia nasce dalla miseria delle argille diboscate, dei fiumi abbandonati, di una agricoltura senza risorse, e genera a sua volta la miseria, in un circolo mortale. Per sradicarla occorrerebbero grandi opere; si dovrebbero arginare i quattro grandi fiumi di Lucania, il Bradano, il Basento, 1'Agri e il Sinni, e i minori torrenti; si dovrebbero ricoprire d'alberi le pendici dei monti; ci dovrebbero essere dappertutto dei medici valenti, degli ospedali, dei mezzi di cura e di profilassi. Ma anche le misure più limitate avrebbero la loro efficacia, come mi dicevano Zagarella e Garaguso. Soltanto, nessuno se ne occupa, e i contadini continuano ad ammalarsi e a morire.

Il tempo si era fatto autunnale. Pioveva, in quei tre giorni prima della recita, e non potevo andare a dipingere in campagna. Passeggiavo per il paese, visitavo i miei conoscenti, e restavo a lavorare nella mia camera. Prisco era stato a caccia, era tornato con tre volpi, di quelle volpi rosse di qui, e un uccello di fiume. Io dipinsi l'uccello, e le volpi, e feci il ritratto del Capitano. Un giorno, mentre dipingevo le volpi, avevo interrotto un momento il lavoro, e guardavo, dalla finestra, nella strada. Era l'ora della siesta; nell'albergo tutti riposavano, e c'era un perfetto silenzio. Sentii un rumore affrettato di piedi nudi scendere di volo la scala, e vidi Prisco, scalzo e in maniche di camicia, uscire con un gran salto nella via, entrare come un fulmine nella porta di faccia, e uscirne, sempre in silenzio, con un coltello in mano. Apersi la finestra, e sentii un grande strepito di voci. Là in faccia c'era una rimessa, dove si fermavano i carrettieri di passaggio. Prisco, che era in camera sua a fare la siesta, ma che usava sempre dormire con un occhio solo, e con l'orecchio teso, s'era accorto di qualcosa che non andava bene là in faccia, dove i carrettieri giocavano alla passatella. Aveva visto qualcosa luccicare, e, svelto come un gatto, senza infilarsi le scarpe e senza parlare, era arrivato in tempo per strappare il coltello di mano a uno che l'aveva levato per ferire. La passatella è il gioco più comune quaggiù: è il gioco dei contadini. Nei giorni di festa, nelle lunghe sere d'inverno, essi si trovano nelle grotte del vino, a giocarla. Ma spesso finisce male; se non sempre a coltellate come quel giorno, in litigi e baruffe. La passatella, più che un gioco, è un torneo di oratoria contadina, dove si sfogano, in interminabili giri di parole, tutti i rancori, gli odi, le rivendicazioni represse. Con una partita breve di carte si determina un vincitore, che è il Re della passatella, e un suo aiutante. Il Re è il padrone della bottiglia, che tutti hanno pagato; e riempie i bicchieri a questo o a quello, secondo il suo arbitrio, lasciando a bocca asciutta chi gli pare. L'aiutante offre i bicchieri, e ha diritto di veto: può cioè impedire a chi si appresta a bere di portare il bicchiere alle labbra. Sia il Re che l'aiutante debbono giustificare il loro volere e il loro veto, e lo fanno, in contraddittorio, con lunghi discorsi, dove si alternano l'ironia e le passioni represse. Qualche volta il gioco è innocente e si limita allo scherzo di far bere tutto a uno solo, che sopporta male il vino, o di lasciare a secco proprio quello che si sa amarlo di più. Ma il più delle volte, nelle ragioni addotte dal Re e dall'aiutante, si rivelano gli odi e gli interessi, espressi con la lentezza, l'astuzia, la diffidenza e la profonda convinzione dei contadini. Le passatelle e le bottiglie si seguono una all'altra, per delle ore, finché i visi sono accesi per il vino, per il caldo, e per il destarsi delle passioni, aguzzate dall'ironia e appesantite dall'ubriachezza. Se ancora non scoppia la lite, è in tutti l'amarezza delle cose dette, degli affronti subíti. Prisco lo conosceva bene, quest'unico divertimento dei contadini, e stava attento. Quando, dopo l'intervallo del coltello, ebbi finito di dipingere le volpi, uscii per fare due passi. Aveva cessato di piovere, e l'aria del paese era piena dell'odore di carne bruciata dei gnemurielli che erano posti su dei bracieri, in mezzo alla strada, e che si vendevano a due soldi l'uno. Mi avviai per una scaletta, su verso l'alto, e raggiunsi la casa dove avevo abitato negli ultimi giorni prima della mia partenza per Gagliano, quando, lasciato l'albergo di Prisco, avevo pensato di sistemarmi definitivamente. La mia casa consisteva di una grande stanza con due finestre, al primo piano, che mi aveva affittato una vedova napoletana. Sotto, al pianterreno, c'era una bottega di falegname. La moglie del falegname, Margherita, mi faceva le faccende, e mi voleva molto bene. Anche ora, quando mi vide arrivare di lontano, mi corse incontro per festeggiarmi. - Sei tornato? Resti qui con noi? - Le dispiacque di sapere che avrei dovuto ripartire. Margherita era una vecchia, con un grande gozzo bitorzoluto che le deformava il collo, e un viso pieno di bontà. Era considerata una delle donne più intelligenti e più colte del paese, perché aveva fatto fino alla quinta elementare, e ricordava perfettamente tutto quello che aveva imparato. Quando veniva nella mia camera, mi ripeteva infatti le poesie di quei suoi vecchi tempi di scuola: la Spedizione di Sapri, 1a Morte di Ermengarda. Le ripeteva stando in mezzo alla stanza, ritta in piedi, con le braccia rigide e pendenti lungo il corpo, recitandole come cantilene. Ogni tanto si interrompeva per spiegarmi il significato di qualche parola difficile. Margherita era affettuosa e gentile. Mi diceva spesso: - Non essere triste se la tua mamma è lontana. Hai perduto una mamma ma ne hai trovata un'altra. Io sarò la mamma tua -. Malgrado il suo gozzo, era veramente materna. Aveva avuto due figli, che ora erano grandi, e avevano già famiglia: uno era in America. Dei figliuoli mi parlava sempre, e volentieri, e mi mostrava le fotografie dei nipotini. Ma quando un giorno le chiesi se non ne avesse avuti altri, si mise a piangere di tenerezza al ricordo del suo terzo bambino, il prediletto, che era morto, e mi raccontò, fra le lagrime, la sua storia. Questo figlio era il piú bello di tutti. Aveva poco più di un anno e mezzo, e parlava già bene, aveva dei bei riccioli neri e degli occhi vivaci: e capiva ogni cosa. Un giorno d'inverno, che c'era la neve sulla terra, Margherita l'aveva affidato a una sua comare e vicina, che l'aveva portato con sé in campagna, mentre andava a far legna. Alla sera la vicina tornò a casa sola, e disperata. Aveva lasciato il bambino, che camminava ben poco, per pochi minuti, mentre raccoglieva, nel sentiero del bosco, delle frasche: ma, tornata, il bambino non c'era più. Aveva girato là attorno dappertutto, del bambino nessuna traccia. Certo doveva averlo preso un lupo o un'altra bestia del bosco, e non si sarebbe trovato mai più. Margherita e suo marito, e tutti i contadini, e i carabinieri partirono subito, e per tutta la notte e nei giorni seguenti batterono tutta la campagna, metro per metro; ma il bambino non fu trovato, e la ricerca, dopo tre giorni, fu abbandonata. Il quarto giorno, alla mattina, Margherita, che girava sola e sconsolata per la campagna, incontrò, alla svolta di un sentiero, una donna grande e bella, col viso nero. Era la Madonna di Viggiano. Le disse: - Margherita, non piangere. Il tuo bambino è vivo. È laggiù nel bosco, in una fossa da lupi. Va' a casa, fatti accompagnare, e lo troverai -. Margherita corse, e, seguita dai contadini e dai carabinieri, giunse nel luogo indicato dalla Madonna. Nella fossa da lupi, in mezzo alla neve, giaceva il suo bambino, tranquillamente addormentato, tutto rosa e tiepido in mezzo a quel freddo. La madre lo abbracciò, lo svegliò. Tutti piangevano, anche i carabinieri. Il bambino raccontò che era venuta una donna col viso nero, e che per quattro giorni l'aveva tenuto con sé, e gli aveva dato il latte, lì in quella fossa, e l'aveva tenuto caldo. Quando furono tornati a casa, Margherita disse a suo marito: - Questo bambino non è come gli altri. La Madonna di Viggiano gli ha dato il latte, nella fossa da lupi. Chissà che cosa sarà di lui. Andiamo a Grottole, dall'indovinante. A Grottole, - diceva Margherita, - c'era allora un indovinante, che indovinava forte. Ci andammo, pagammo una lira, e quello disse tutto quel che era successo, come se l'avesse visto. Ma poi si scurì in viso, e disse che il bambino sarebbe morto all'età di sei anni, cadendo da una scala. E purtroppo così fu. A sei anni cadde da una scala, il mio povero bambino, e morì -. Margherita piangeva.

Altri bambini erano stati rapiti per l'aria, e ritrovati per merito della Madonna nera. Uno di pochi mesi scomparve, e si trovò poi, sopra uno dei due alberi che stanno a lato della cappella di sant'Antonio, a una diecina di chilometri dal paese, a mezza strada fra Grassano e Grottole. One after a few months he disappeared, and then found himself, on one of the two trees beside the chapel of Sant'Antonio, about ten kilometers from the town, halfway between Grassano and Grottole. Era stato un demonio a portarlo lassù, e sant'Antonio ad averne cura. Ma il solo di cui conoscessi anch'io la famiglia, era il bambino di Margherita. But the only one whose family I too knew was Margherita's child. Venne finalmente la serata della recita. Aveva cessato di piovere, le stelle brillavano mentre mi avviavo verso il fondo del paese. Non esistevano sale o saloni che potessero servire di teatro: si era scelto una specie di cantina o di grotta seminterrata, e ci avevano portato delle panche, dalla scuola, sul pavimento di terra battuta. In fondo, avevano costruito un piccolo palco, chiuso da un vecchio sipario. Lo stanzone era pieno zeppo di contadini, che aspettavano con meraviglia l'inizio della rappresentazione. Si recitava La Fiaccola sotto il Moggio, di Gabriele d'Annunzio. Naturalmente, mi aspettavo una gran noia da questo dramma retorico, recitato da attori inesperti, e aspettavo il piacere della serata soltanto dal suo carattere di distrazione e di novità. Ma le cose andarono diversamente. Quelle donne divine, dai grandi occhi vuoti e dai gesti pieni di una passione fissata e immobile, come le statue, recitavano superbamente; e, su quel palco largo quattro passi, sembravano gigantesche. Tutta la retorica, il linguismo, la vuotaggine tronfia della tragedia svaniva, e rimaneva quello che avrebbe dovuto essere, e non era, l'opera di d'Annunzio, una feroce vicenda di passioni ferme, nel mondo senza tempo della terra. Per la prima volta, un lavoro del poeta abruzzese mi pareva bello, liberato da ogni estetismo. Mi accorsi subito che questa sorta di purificazione era dovuta, più ancora che alle attrici, al pubblico. I contadini partecipavano alla vicenda con interesse vivissimo. I paesi, i fiumi, i monti di cui si parlava, non erano lontani di qui. Così li conoscevano, erano delle terre come la loro e davano in esclamazioni di consenso sentendo quei nomi. Gli spiriti e i demoni che passano nella tragedia, e che si sentono dietro le vicende, erano gli stessi spiriti e demoni che abitano queste grotte e queste argille. Tutto diventava naturale, veniva riportato dal pubblico alla sua vera atmosfera, che è il mondo chiuso, disperato e senza espressione dei contadini. In quella serata, spogliata la tragedia, dagli attori e dal pubblico, di tutto il dannunzianesimo, restava soltanto un contenuto grezzo ed elementare, che i contadini sentivano proprio. Era un'illusione, ma mostrava la verità. D'Annunzio era uno dei loro: ma era un letterato italiano, e non poteva non tradirli. Egli era partito di qui, da un mondo senza espressione, e aveva voluto sovrapporgli la veste brillante della poesia contemporanea, che è tutta espressività, sensualità, senso del tempo. Aveva perciò degradato quel mondo a puro strumento retorico, quella poesia a vuoto formalismo linguistico. Il suo tentativo non poteva essere che un tradimento e un fallimento. Da quel connubio ibrido non poteva che nascere un mostro. Le attrici siciliane e i contadini di Grassano avevano, spontaneamente, fatta la strada opposta; avevano eliminata quella veste posticcia, e ritrovato a modo loro il nocciolo paesano; e di questo si commovevano ed entusiasmavano. I due mondi malamente fusi nella vuotezza estetizzante, tornavano a scindersi, poiché ogni loro contatto è impossibile, e sotto quell'onda di inutili parole riappariva, per i contadini, la Morte vera e il Destino. Il giorno dopo, ero invitato a colazione dal signor Orlando, fratello di un noto giornalista che abitava a New York. Era un uomo alto, serio e malinconico. Viveva ritirato in un suo palazzetto, in una parte isolata del paese, e, avversario degli attuali potenti, si teneva lontano il più possibile dalle questioni locali. Io avevo disegnato la copertina di un libro di suo fratello sull'America: questo era stato il pretesto della nostra conoscenza, ed egli mi aveva usato ogni sorta di cortesie. Aveva ancora gli antichi costumi lucani: sua moglie non mangiò a tavola con noi, e ci lasciò soli. Parlammo dei contadini, della malaria, dell'agricoltura, dei vari aspetti della questione meridionale. Io avevo visto quel giorno un confinato, un piccolo ragioniere torinese, già impiegato ai sindacati, e mandato qui, a quello che egli diceva, come capro espiatorio per degli scandalosi furti di fondi nelle casse sindacali ad opera dei gerarchi suoi superiori. That day I had seen a prisoner, a small accountant from Turin, formerly employed by the trade unions, and sent here, according to what he said, as a scapegoat for the scandalous thefts of funds from the union coffers by his superiors. Egli aveva trovato da lavorare tenendo i libri di conti di una delle più grosse proprietà di Grassano, e me li mostrò. In questa grande tenuta non si coltivava che grano, secondo le direttive del governo. Nelle annate buone, malgrado il concime e il lavoro, non si raggiungeva che un raccolto di nove volte il seme; nelle altre annate la messe era di molto inferiore, - a volte dava soltanto tre o quattro volte la semenza. Era dunque una follia economica questo insistere sul grano. Queste terre non consentirebbero che la coltura del mandorlo e dell'olivo; e soprattutto, dovrebbero tornare ad essere foreste e pascoli. I contadini erano pagati con salari di fame. Ricordavo, nel giorno del mio arrivo, in piena mietitura, le lunghe file di donne, che salivano dai campi in riva al Basento su per l'interminabile strada, fino in paese, con in testa un sacco di grano, come dei dannati dell'inferno, sotto il sole feroce. Per ogni sacco portato fino in paese ricevevano una lira. E giù, nei campi, c'era la malaria. Ma, dicevamo con Orlando, il luogo comune che l'unica causa dei mali di qui sia il latifondo, e che basti spezzare il latifondo per redimere, come suol dirsi, la terra, non ha fondamento. But, we said with Orlando, the commonplace that the only cause of the evils here is the large estate, and that it is enough to break up the large estate to redeem, as they say, the land, has no foundation. Le condizioni dei piccoli proprietari di Gagliano non sono migliori, anzi sono forse ancora peggiori di quelle dei contadini senza terra di qui. Che cosa fare dunque nelle presenti condizioni? - Niente, - diceva Orlando con la sua profonda tristezza meridionale, ripetendo la stessa sconsolata parola del migliore e più umano pensatore di questa terra, Giustino Fortunato, che amava chiamarsi «il politico del niente». Io pensavo a quante volte, ogni giorno, usavo sentire questa continua parola, in tutti i discorsi dei contadini. - Ninte, - come dicono a Gagliano. - Che cosa hai mangiato? - Niente. - Che cosa speri? - Niente. - Che cosa si può fare? - Niente -. La stessa, e gli occhi si alzano, nel gesto della negazione, verso il cielo. L'altra parola, che ritorna sempre nei discorsi è crai, il cras latino, domani. Tutto quello che si aspetta, che deve arrivare, che deve essere fatto o mutato, è crai. Ma crai significa mai.

La sconsolatezza di Orlando, che era quella di tutti i meridionali che pensano con serietà ai problemi del loro paese, derivava, come in tutti, da un radicale complesso di inferiorità. Per questo può forse dirsi che è impossibile ad essi capire completamente la loro terra e i suoi problemi, poiché partono, senza avvedersene, da un confronto, che non dovrebbe essere fatto, tutt'al più, se non dopo. Se si considera la civiltà contadina una civiltà inferiore, tutto diventa sentimento di impotenza o spirito di rivendicazione: e impotenza e rivendicazione non hanno mai creato nulla di vivo.

I pochi giorni di Grassano passarono così, fra la pittura, il teatro e gli amici, in un lampo, e dovetti ripartire. Una mattina presto, con un tempo grigio e incerto, l'automobile mi aspettava davanti alla porta. Salutato rumorosamente da Prisco e dai suoi figli e da Antonino e Riccardo, dissi addio a quel paese, dove non sono tornato più.