3 (III)
Capitolo III
Piccolo ma angoscioso tragitto attraverso il corridoio; Carla guardava in terra pensando vagamente che quel passaggio quotidiano dovesse aver consumato la trama del vecchio tappeto che nascondeva il pavimento; e anche gli specchi ovali appesi alle pareti dovevano serbare la traccia delle loro facce e delle loro persone che più volte al giorno da molti anni vi si riflettevano, oh, appena per un istante, il tempo di esaminare, la madre e lei, il belletto, e Michele il nodo della cravatta; in quel corridoio l'abitudine e la noia stavano in agguato e trafiggevano l'anima di chi vi passava come se i muri stessi ne avessero esaltato i velenosi spiriti; tutto era immutabile, il tappeto, la luce, gli specchi, la porta a vetri del vestibolo a sinistra, l'atrio oscuro della scala a destra, tutto era ripetizione: Michele che si soffermava un istante ad accendere una sigaretta e soffiava sul fiammifero, la madre che compiacentemente domandava all'amante: "Non è vero, che ho la faccia stanca questa sera? "; Leo, con indifferenza, senza togliersi di bocca la sigaretta, rispondeva: "Ma no, al contrario, non l'ho mai vista così brillare," e lei stessa che ne soffriva; la vita non cambiava.
Entrarono nel freddo oscuro salone rettangolare che una specie di arco divideva in due parti disuguali e sedettero nell'angolo opposto alla porta; delle tende di velluto cupo nascondevano le finestre serrate, non c'era lampadario ma solamente dei lumi in forma di candelabri, infissi alle pareti a eguale distanza l'uno dall'altro; tre dei quali, accesi, diffusero una luce mediocre nella metà più piccola del salone; l'altra metà, oltre l'arco, rimase immersa in un'ombra nera in cui si distinguevano a malapena i riflessi degli specchi e la forma lunga del pianoforte.
Per un istante non parlarono; Leo fumava con compunzione, la madre considerava con una mesta dignità le sue mani dalle unghie smaltate, Carla quasi carponi tentava di accendere la lampada nell'angolo e Michele guardava Leo; poi la lampada si accese, Carla sedette e Michele parlò: "Sono stato dall'amministratore di Leo e mi ha fatto un monte di chiacchiere... il sugo della faccenda è poi questo: che a quel che pare tra una settimana scade l'ipoteca e perciò bisognerà andarsene e vendere la villa per pagare Merumeci..."
La madre spalancò gli occhi: "Quell'uomo non sa quello che dice... ha agito di testa sua... l'ho sempre detto io che aveva qualche cosa contro di noi..."
Silenzio: "Quell'uomo ha detto la verità" disse alfine Leo senza alzare gli occhi.
Tutti lo guardarono. "Ma vediamo, Merumeci," supplicò la madre giungendo le mani; "non vorrà mica mandarci via così sui due piedi?... ci conceda una proroga..."
"Ne ho già concesse due;" disse Leo "basta... tanto più che non servirebbe ad evitare la vendita..."
"Come a non evitare?" domandò la madre.
Leo alzò finalmente gli occhi e la guardò: "Mi spiego: a meno che non riusciate a mettere insieme ottocentomila lire, non vedo come potreste pagare se non vendendo la villa..."
La madre capì, una paura vasta le si aprì davanti agli occhi come una voragine; impallidì, guardò l'amante; ma Leo tutto assorto nella contemplazione del suo sigaro non la rassicurò: "Questo significa" disse Carla "che dovremo lasciare la villa e andare ad abitare in un appartamento di poche stanze?"
"Già," rispose Michele "proprio così."
Silenzio; la paura della madre ingigantiva; non aveva mai voluto sapere di poveri e neppure conoscerli di nome, non aveva mai voluto ammettere l'esistenza di gente dal lavoro faticoso e dalla vita squallida. "Vivono meglio di noi" aveva sempre detto; "noi abbiamo maggiore sensibilità e più grande intelligenza e perciò soffriamo più di loro..."; ed ora, ecco, improvvisamente, ella era costretta a mescolarsi, a ingrossare la turba dei miserabili; quello stesso senso di ripugnanza, di umiliazione, di paura che aveva provato passando un giorno in un'automobile assai bassa attraverso una folla minacciosa e lurida di scioperanti, l'opprimeva; non l'atterrivano i disagi e le privazioni a cui andava incontro, ma invece il bruciore, il pensiero di come l'avrebbero trattata, di quel che avrebbero detto le persone di sua conoscenza, tutta gente ricca, stimata ed elegante; ella si vedeva, ecco... povera, sola, con quei due figli, senza amicizie ché tutti l'avrebbero abbandonata, senza divertimenti, balli, lumi, feste, conversazioni: oscurità completa, ignuda oscurità.
Il suo pallore aumentava: "Bisognerebbe che gli parlassi da sola a solo," pensava attaccandosi all'idea della seduzione; "senza Michele e senza Carla... allora capirebbe."
Guardò l'amante. "Lei, Merumeci," propose vagamente "ci conceda ancora una proroga, e noi il denaro lo si troverà in qualche modo." "In che modo?" domandò l'uomo con un mezzo sorriso ironico.
"Le banche..." arrischiò la madre.
Leo rise: "Oh, le banche." Si chinò e fissò in volto l'amante: "Le banche" sillabò "non prestano denaro che contro sicure garanzie e ora poi con questa penuria di quattrini che c'è in giro non ne prestano affatto; ma ammettiamo che ne prestassero...: che specie di garanzia potrebbe lei dare, cara signora?"
"Il ragionamento non fa una grinza" osservò Michele; avrebbe voluto appassionarsi a questa loro questione vitale, protestare: "Vediamo" pensava "si tratta della nostra esistenza... potremmo da un momento all'altro non avere di che vivere materialmente"; ma per quanti sforzi facesse questa rovina gli restava estranea; era come vedere qualcheduno affogare, guardare e non muovere un dito.
Tutt'altra era invece la madre: "Lei ci dia questa proroga," ella disse con fierezza, ergendosi sul busto e staccando le parole; "e può star sicuro che alla data della scadenza lei avrà i suoi quattrini, non ne dubiti, fino all'ultimo centesimo."
Leo rise dolcemente chinando la testa: "Ne sono certo... ma allora a che serve la proroga?... Quei mezzi che lei adopererà tra un anno per ottenere denari perché non usarli ora e così pagarmi subito?"
Quella faccia china era così calma e sagace che la madre ne ebbe timore; da Leo i suoi occhi irresoluti passarono a Michele, poi a Carla: eccoli là i suoi due figli deboli che avrebbero provato le angustie della povertà; le venne un esaltato amor materno: "Senta Merumeci," incominciò con voce persuasiva "lei è un amico di famiglia, a lei posso dir tutto... non si tratta di me, non è per me che chiedo questa proroga, io sarei anche pronta ad andare a vivere in una soffitta..." Alzò gli occhi al cielo e: "Dio sa se penso a me... ma io ho Carla da maritare... ora lei conosce il mondo... il giorno stesso che io lasciassi la villa e andassi a vivere in qualche appartamentino, tutti ci volterebbero le spalle... la gente è fatta così... e allora, me lo saluta lei il matrimonio di mia figlia?" "Sua figlia" disse Leo con una falsa serietà, "ha una bellezza che troverà sempre pretendenti." Guardò Carla, e le ammiccò; ma una rabbia trattenuta e profonda possedeva la fanciulla: "Chi vuoi che mi sposi," avrebbe voluto gridare alla madre "con questo uomo per casa e te in quelle condizioni?" L'offendeva, l'umiliava la disinvoltura con la quale la madre, che abitualmente non si curava affatto di lei, la tirava in ballo come un argomento favorevole ai suoi scopi; bisognava finirla, ella si sarebbe data a Leo, e così nessuno più l'avrebbe desiderata per moglie; guardò la madre negli occhi: "Non pensare a me, mamma" disse con fermezza; "io non c'entro né ci voglio entrare in tutto questo."
Fu in questo momento che una risata agra, falsa da allegare i denti partì dall'angolo dove sedeva Michele; la madre si voltò: "Ma sai," egli le disse tentando con sforzo di dare alla sua voce indifferente un'intonazione sarcastica; "chi sarà il primo ad abbandonarci se lasciamo la villa? Indovina."
"Mah, non so."
"Leo" egli proruppe additando l'uomo; "il nostro Leo."
Leo ebbe un gesto di protesta. "Ah, Merumeci?" ripetè la madre incerta e impressionata guardando l'amante come se avesse voluto leggergli in faccia se fosse stato capace di un simile tradimento; poi ad un tratto, con occhi e sorriso infiammati di patetico sarcasmo: "Ma già... sicuro... e io stupida che non ci pensavo... sicuro Carla" soggiunse rivolgendosi alla figlia; "Michele ha ragione... il primo che fingerà di non averci mai conosciuto, dopo naturalmente che avrà intascato i quattrini, sarà Merumeci...: non protesti" ella continuò con un sorriso ingiurioso; "non è colpa sua, tutti gli uomini sono così... potrei giurarlo, passerà con una di quelle sue amiche tanto simpatiche e tanto eleganti e appena mi vedrà... volterà la testa dall'altra parte... sicuro... caro lei... ci metterei la mano sul fuoco..." Tacque per un istante. "E già," concluse con amarezza e rassegnazione; "già... anche Cristo è stato tradito dai suoi migliori amici."
Soverchiato da quel fiotto di accuse, Leo posò il sigaro: "Tu" disse voltandosi verso Michele "sei un ragazzo, e per questo non ti prendo in considerazione...; ma che lei signora" soggiunse voltandosi alla madre "possa credere che io per una vendita qualsiasi abbandoni i miei migliori amici, ecco, questo non me l'aspettavo... no, proprio non me l'aspettavo." Scosse la testa e riprese il sigaro.
"Quanto è falso," pensò Michele divertito; poi bruscamente si ricordò di essere l'uomo derubato, canzonato, oltraggiato, nel suo patrimonio, nella sua dignità, nella persona di sua madre: "Ingiuriarlo" pensò; "provocare una scena." Capì di aver lasciato passare in quella serata mille occasioni più favorevoli ad un alterco, per esempio quando Leo aveva rifiutato di concedere una proroga; ma ormai era troppo tardi: "Non te l'aspettavi eh?" disse rovesciandosi nella poltrona e accavalciando le gambe; esitò, poi senza muoversi: "mascalzone."
Tutti si voltarono, la madre con sorpresa, l'uomo lentamente, togliendosi di bocca il sigaro: "Cosa hai detto?"
"Voglio dire," spiegò Michele aggrappandosi con le mani ai bracciuoli della poltrona e non ritrovando nella sua indifferenza le ragioni che lo avevano spinto a quell'ingiuria veemente; "che Leo... ci ha rovinati... e ora finge di esserci amico... ma non lo è."
Silenzio; disapprovazione: "Senti Michele," disse Leo fissando sul ragazzo due occhi del tutto inespressivi; "mi sono già accorto da qualche minuto che tu questa sera vuoi attaccar briga, chi sa perché... mi dispiace ma ti dico subito che non attacca. Se tu fossi un uomo saprei come risponderti... ma sei un ragazzo senza responsabilità... per questo la migliore cosa che puoi fare è andare a letto e dormirci sopra." Tacque e riprese il sigaro: "E mi dici questo" soggiunse bruscamente "proprio quando stavo per proporvi le condizioni più favorevoli."
Silenzio: "Merumeci ha ragione" parlò a sua volta la madre "veramente, Michele, egli non ci ha rovinati e c'è stato sempre amico... perché ingiuriarlo in questo modo?..."
"Ah, ora lo difendi" pensò il ragazzo; un'irritazione forte contro se stesso e gli altri lo invase: "Se sapeste quanto tutto questo mi è indifferente," avrebbe voluto gridare loro: la madre eccitata e interessata, Leo falso, Carla stessa che attonita lo guardava, gli parvero in quel momento ridicoli eppure invidiabili appunto perché essi aderivano a questa realtà e consideravano veramente la parola "mascalzone" come una ingiuria mentre per lui, gesti, parole, sentimenti, tutto era un giuoco vano di finzioni.
Però volle andare fin al fondo della strada incominciata: "Quel che ho detto è la pura verità" proferì senza convinzione.
Leo alzò con disgusto e malcontento le spalle: "Ma fammi il piacere" interruppe scuotendo con violenza la cenere del suo sigaro; "fammi il santissimo piacere..." e già la madre stava per sostenere l'amante, con un "hai torto marcio Michele", quando laggiù, in quella poca luce che vi arrivava dal loro angolo, la porta si aprì a metà, e una testa bionda di donna si affacciò:
"Si può?" domandò la testa; tutti si voltarono: "Oh, Lisa!" esclamò la madre "entra, entra pure." La porta si aprì del tutto e Lisa entrò; un soprabito turchino avvolgeva il suo corpo grasso, e le arrivava fin quasi ai piedi minuscoli; la testa dal cappellino cilindrico, azzurro e argento, pareva ancor più piccola su quelle spalle piene che il panno invernale arrotondava; il soprabito era ampio, eppure il petto e i fianchi floridi vi si stampavano con abbondanza di linee curve e gonfie; invece le estremità di questo corpo meravigliavano per la loro esiguità e sotto la campana larga del mantello si distingueva con stupore la sottigliezza delle caviglie.
"Non disturbo?" domandò Lisa avvicinandosi "è tardi... lo so... ma ho cenato qui accanto e poiché passavo per la vostra strada non ho potuto resistere alla tentazione di farvi una visita e sono venuta..."
"Figurati", disse la madre; si alzò e andò incontro all'amica: "Non ti togli il soprabito?" le domandò.
"No," rispose l'altra "resto un poco e poi scappo..., lo aprirò, ecco... per non aver troppo caldo."
Disfece la cintura rivelando un vistoso e lucido vestito di seta nera ornato di grossi fiori azzurrastri; salutò Carla: "Buonasera Carla... Leo: ah c'è anche Merumeci... impossibile non trovarlo qui... Michele: come va Michele?" e sedette sul divano accanto alla madre.
"Che bel vestito hai" disse questa allargando il soprabito; "ebbene quali novità mi racconti?"
"Nessuna," rispose Lisa guardandosi intorno; "ma..." soggiunse "che facce stralunate avete... si direbbe che steste discutendo e io con la mia venuta abbia interrotto la vostra discussione."
"Ma no," protestò Leo posando su Lisa, tra il fumo del suo sigaro, uno sguardo mistificatore; "ma no... La massima allegria ha regnato finora."
"Si parlava del più e del meno... ecco tutto" disse la madre; prese una scatola e la porse all'amica: "Fumi?"
A questo punto Michele, con la consueta inopportunità, interloquì:
"È la pura verità" disse curvandosi e guardando attentamente Lisa; "noi stavamo accapigliandoci e tu hai interrotto la nostra discussione."
"Oh" fece Lisa senza alzarsi, con un riso forzato e malizioso; "allora me ne vado... non vorrei per tutto l'oro del mondo aver disturbato un consiglio di famiglia..."
"Neppure per sogno" protestò la madre; e con una smorfia di biasimo verso Michele: "Sciocco!"
"Io sciocco?" ripetè il ragazzo: "Ben mi sta" pensò "sciocco... sì..., sciocco a volermi per forza appassionare a queste tue questioni." Un orribile senso di futilità e di noia l'oppresse; girò gli occhi intorno, per l'ombra ostile del salotto; poi su quelle facce; Leo lo guardava, gli parve, ironicamente, un sorriso appena percettibile fioriva sulle sue labbra carnose; quel sorriso era ingiurioso; un uomo forte, un uomo normale se ne sarebbe offeso e avrebbe protestato; lui invece no... lui con un certo avvilente senso di superiorità e di compassionevole disprezzo restava indifferente... ma volle per la seconda volta andar contro la propria sincerità: "Protestare," pensò "ingiuriarlo daccapo."
Guardò Leo: "E... dico," profferì con voce incolore "che bisogno c'è di sorridere?"
"lo... parola d'onore..." incominciò Leo fingendo la più grande stupefazione:
"Dico" soggiunse Michele alzando con uno sforzo penoso la voce; era così che bisognava litigare; ricordava di aver assistito in tram, a un alterco tra due signori ugualmente grassi e importanti; ciascuno dei due dopo aver preso per testimoni i presenti e citato, con parole risentite, la propria onorabilità, la propria professione, le proprie ferite di guerra, e in generale tutti quegli elementi che potessero commuovere l'uditorio, aveva finito, pur di soverchiar l'avversario, per urlare francamente, e arrivare a un certo grado di collera sincera; così doveva fare anche lui: "Non credere che perché è venuta Lisa io non sia più capace di ripetere quello che ho detto prima... anzi guarda lo ripeto... mascalzone!"
Tutti lo guardarono: "Ma insomma..." esplose la madre indignata.
Lisa osservava curiosamente Michele: "Perché... cos'è successo?" domandava... Leo invece non si mosse né mostrò di essersi offeso: ebbe soltanto un riso falso, alto e sprezzante."Ah... bellissima questa," ripetè "bellissima... non si potrà più neppure sorridere..."; poi, bruscamente "finché si scherza, si scherza," soggiunse alzandosi dal fondo della poltrona, e battendo il pugno sulla tavola; "ma ora basta... o Michele mi fa delle scuse o io me ne vado."