VII. DENTRO ROMA (2)
Faceva un caldo che non era scirocco e non era arsura, ma era soltanto caldo. Era come una mano di colore data sul venticello, sui muri gialletti della borgata, sui prati, sui carretti, sugli autobus coi grappoli agli sportelli. Una mano di colore ch'era tutta l'allegria e la miseria delle notti d'estate del presente e del passato. L'aria era tirata e ronzante come la pelle d'un tamburo; le pisciate anche appena fatte, che rigavano il marciapiede, erano secche; i mucchi d'immondezza si sfregolavano abbrustoliti e senza più odore. A fare odore erano solo le pietre e i bandoni ancora caldi del sole: magari con attorno distese di stracci bagnati e poi risecchiti dal caldo. Negli orti che ancora restavano qua e là, gonfi di legumi che crescevano soli belli grassi come nel paradiso terrestre, non c'era un goccio di guazza. E nei centri delle borgate, nei bivii, come lì al Tiburtino, la gente s'ammassava, correva, strillava, che pareva d'essere nei bassifondi di Shanghai: pure nei posti più solitari c'era della confusione, con file di maschi che andavano in cerca di qualche zoccoletta, fermandosi a far due chiacchiere alle bottegucce dei meccanici ancora aperte, col Rumi di fuori. E passato Tiburtino, ecco Tor dei Schiavi, il Borghetto Prenestino, l'Acqua Bullicante, la Maranella, il Mandrione, Porta Furba, il Quarticciolo, il Quadraro...
Altri centinaia di centri come quello lì al Tiburtino: con un mare di gente sotto il semaforo, che mano a mano andava sparpagliandosi nelle strade intorno, rumorose come androni, coi marciapiedi tutti rotti, e lungo ruderi colossali di mura con sotto file di tuguri. E bande di giovanotti che facevano a fugge coi loro motori, Lambrette, Ducati o Mondial, mezzi ubbriachi, con le tute unte aperte sul petto nero, oppure acchittati che parevano usciti da una vetrina di Piazza Vittorio. Tutto un gran accerchiamento intorno a Roma, tra Roma e le campagne intorno intorno, con centinaia di migliaia di vite umane che brulicavano tra i loro lotti, le loro casette di sfrattati o i loro grattacieli. E tutta quella vita, non c'era solo nelle borgate della periferia, ma pure dentro Roma, nel centro della città, magari sotto il Cupolone: sì, proprio sotto il Cupolone, che bastava mettere il naso fuori dal colonnato di Piazza San Pietro, verso Porta Cavalleggeri, e èccheli llì, a gridare, a prender d'aceto, a sfottere, in bande e in ghenghe intorno ai cinemetti, alle pizzerie, sparpagliati poco più in là, in via del Gelsomino, in via della Cava, sugli spiazzi di terra battuta delimitata dai mucchi di rifiuti dove i ragazzini di giorno giocano a palla, in coppie tra le fratte coperte di pezzi di giornale abbandonati tra via delle Fornaci e il Gianicolo... E sotto, passato il traforo gocciolante, ecco tutto uguale, a Piazza della Rovere, dove file di turisti passano a testa alta, tenendosi a braccetto, coi calzoni alla zuava e le scarpe pesanti, cantando canzoni alpine in coro, mentre i giovinastri addossati alla spalletta del Tevere, presso una latrina intasata, coi calzoni a tubbo e gli scarpini a punta, li guardano dicendogli dietro con un'espressione annoiata e sarcastica delle parole che se le capissero li farebbero morire di un colpo.
E giù per i lungoteveri per dove passano scassati i rari tram sotto le gallerie dei platani, lungo selciati sconnessi, e le lambrette che se la sbroccolano in curva con sopra un giovanotto o due in cerca di rogna; verso Castel Sant'Angelo con ai piedi, sul pelo del fiume, il Ciriola tutto illuminato; verso Piazza del Popolo elegante come un gran teatro, il Pincio, e Villa Borghese, col ronzio dei violini e le sordine alle mignotte, o ai frosci che passano in frotta cantando con le palpebre abbassate e le bocche cascanti «Sentimental», e sbirciando con la coda dell'occhio per vedere se per caso non stesse arrivando il carrettone. Oppure, dalla parte opposta, verso Ponte Sisto, dove, sotto il Funtanone sporco e tutto luccicante, due squadre di giovincelli trasteverini stanno facendo una partita al pallone, urlando di brutto, e correndo come un branco di pecore tra le ruote delle millenove dei ganzi che vanno con la zoccoletta di Cinecittà a cenare all'Antica Pesa: mentre da tutti i vicoletti di Trastevere, lì dietro, giunge il brusio delle mascelle maschili e femminili che masticano la pizza o il crostino, all'aperto, in Piazza Sant'Egidio o al Mattonato, coi ragazzini che fanno la lagna o intorno i pischelli che litigano correndo sui selciati, leggeri come le carte sporche che il venticello trascina qua e là.
- Scegnemo qqua, a Ardù! - fece il Begalone zompando, sderenato e agile che pareva una fattucchiera, giù dal respingente.
Alduccio s'alzò in piedi sul predellino, perché il fattorino se lo potesse smicciare meglio, e picchiando sul vetro strillò: - Te saluto a coso brutto!
Saltò giù dal tranve sul selciato, mentre che il fattorino si prendeva la soddisfazione di mettere la testa di fuori e gridare, col blocchetto stretto in pugno e la gente che aspettava di fare il biglietto: - A pappagalli!
- Tiè, - gridò il Bègalo, piegandosi sulle ginocchia a pancia in avanti e facendo con le dita la figura di due occhi belli gonfi, che si tenne, tutto schizzante d'energia e lenzaggine, all'altezza del petto.
A dritta c'era il Colosseo che ardeva come una fornace, e fuori dai buchi delle arcate fiatava a sbuffi e a colonne un fumo sanguigno, color granatina e carta di caramella, che saliva su su, tutt'intorno sul cielo, contro il Celio e l'Oppio, sopra via Labicana luccicante di macchine, sopra via dell'Impero, tra le sventagliate dei riflettori.
- E mo qqua che famo? - disse Alduccio.
- Fàmose na camminata a ppiedi, va! - disse il Begalone.
- Fàmose na camminata a piedi, - fece Alduccio: scesero giù sotto il Colosseo, gli girarono intorno, tagliarono sotto l'Arco di Costantino per il viale dei Trionfi, buio, caldo, affossato fra i ruderi e i pini della gobba verdognola del Palatino, che scorreva liscio, facendo una gran curva verso i Cerchi.
Se la facevano a pedagna, colle mani in saccoccia, tutti stramiciati e scavicchiati, stando discosti l'uno dall'altro e cantandosi com'era regolare na canzona ognuno per conto suo.
Zoccoletti, zoccoletti...
cantava il Begalone. - Ha' vvisto, - disse interrompendosi, - la faccia ch'ha fatto er Caciotta?
Zoccoletti, zoccoletti...
riprese, a voce più alta, facendo risuonare tutto un pezzo di viale deserto sotto le ombrelle dei pini verdi come biliardi, tra le pietre rotte dei ruderi. Ma Alduccio non lo pensò per niente, ch'era troppo occupato a cantare, con le mani ficcate in saccoccia, piegato in avanti e con la testa alta che si muoveva qua e là, gli occhi socchiusi e la nuca ritratta tra le spalle.
Sui Cerchi batteva una luna piccola piccola, impolverata, ma che faceva una luce che non finiva mai su tutto il prato, le fratte nere, i serci, i mucchi di brecole e d'immondezza. Tutti quelli che stavano lì la guardavano di traverso, infregnati, perchè l'unici posti in ombra erano quelli sotto i muraglioni intorno intorno all'immenso ovale del Circo Massimo. Sul muricciolo, subito lì dove Alduccio e il Bègalo erano arrivati, e dietro al quale si stendeva il Circo nel polverone della luna, con qua e là qualche torraccia smozzicata, se ne stavano già seduti degli uomini, dei giovanotti e pure qualche pischello, e più giù all'altezza della fermata della circolare, ma dentro il prato, si vedevano delle ombre che si muovevano radunandosi e disperdendosi.
- 'A squadra mobbile! - gridò ironico il Bègalo con una mano a ventaglio contro la bocca, cominciando a sganassare.
Continuarono a sganassare per un po' pure quando le mignotte non li potevano più sentire, piegandosi sulle ginocchia, appoggiandosi al muretto o dandosi caracche: più che ridere facevano dei versacci con la bocca e sputavano. Ma gli passò presto, perchè magara quelle zozzette tutte panza gliel'avessero data, o almeno almeno glien'avessero fatta una alla vergognosa. Erano tutti e due ingrifati, che avrebbero fatto pure con una vecchia di settant'anni. Ecco perchè la fantasia di ridere gli passò subito, e camminavano anzi seri seri, quasi infregnati, esplorando con certe occhiate ruffiane giù oltre il muretto, nella gran distesa ovale coi ruderi e le fratte che nereggiavano nel polverone bianco della luna. C'erano file di militari, qualche giovincello sbandato, e le solite scaje che strillavano fra di loro come cagne facendo l'atto di pigliarsi a borsate.
- Se semo persi tutte le strade! - fece abbacchiato il Begalone, camminando. - A qqui ce conviè annasse a ripone a Santa Calla, porco d...! Quanto me sarebbe annato de famme na paccata, stasera, e invece muffa... Eh mannaggia la miseria mannaggia! - Tiè, smiccia quello, -aggiunse indicando uno che passava in una fuori serie, - come se la gode! Te pare bello che quello stasse co' quella bella s... tutto acchittato, pieno de ghinee, e noi niente? Sti forchettoni! Ma va da finì sta cuccagna! Cambierà sta bandiera! - E camminò per un pezzo zitto, con la bocca tirata in una smorfia di disgusto.
Ma come imboccarono via del Mare, sui giardinetti in salita davanti al tempio di Vesta, il Begalone fece: - An vedi -, e si fissò a guardare imbambolato dentro i giardinetti.
- Ch'hai fatto? - chiese Alduccio incerto se mandarlo al fascio o dargli retta.
Il Begalone si mise a fischiare piegato su se stesso.
- Che, chiami 'e pecore? - disse Alduccio.
- Quanto sso' bbone! - gridò il Bègalo.
Bòne erano due ragazze sedute sugli scalini del tempietto: due bionde gajarde su tutte le ròte, con delle sottane alla cercamarito che sfondavano, e con la scollatura che gli si vedevano mezze zinne di fuori.
Se ne stavano abbioccate in silenzio, una rivolta verso l'altra, ma come se nemmeno si vedessero, fissate sui giardini, con le aiuole che scendevano girando dal lungotevere, in alto, giù, a piazza di Bocca della Verità, all'Arco di Giano, alla vecchia chiesa, con la luce della luna che vi sbarbagliava; ci si vedeva come di giorno.
Il Bègalo e Alduccio, venendo giù dai Cerchi, verso Ponte Rotto, passarono alla malandrina, cantando sotto loro. Ma come furono un pochetto più in su, ci ripensarono e ritornarono piano piano indietro.
Le due bellezze non s'erano mosse, come se non avessero manco rifiatato: camminando stretti, come due cagnacci che dopo esser stati cacciati a bastonate rallentano, in qualche marciapiede zelloso, colla coda incollata sul didietro, riandarono un pezzetto su per la via del Mare, e poi sterzarono un'altra volta. Si vennero a mettere in mezzo ai giardinetti squadrandosi sempre le due rose de fuego. Ma sembrava che quelle non si fossero manco accorte di loro. Ridiscesero verso il tempietto, ma dalla parte contraria, che dava sul pendio, entrarono sotto il piccolo colonnato all'ombra, e si spinsero piano piano dalla parte fiammeggiante alla luna verso Bocca della Verità.
Le due gioiose neppure stavolta li avevano filati per niente, e se ne stavano là ferme come prima. Tutti smandrappati i cagnacci, mezzi all'ombra e mezzi in luce, si misero a sedere con la schiena contro la parete gialla e scrostata del tempio.
- Quale te manneresti pell'ossa, - chiese il Begalone, 'a bionda o 'a roscia?
- Tutt'e ddue, - fece l'altro.
- Eh, quante ne voi allora! - disse il Begalone.
- O tutt'e ddue o nissuna, - spiegò scherzoso Alduccio, - pecché si no l'altra pija d'aceto.
- Sì, queste staranno a aspettà er gaggio paghino! - borbottò il Bègalo.
- Mbè, che je fa? che nun semo boni de castrallo pure noi? - fece ottimista Alduccio.
- Se volemo buttà? - disse dopo un po' il Bègalo.
- E buttàmise! - disse Alduccio.
Invece se ne stavano lì; a parlare non tanto forte, ridacchiando con le ginocchia strette contro il petto, il sedere sulla polvere, la chioma e la punta delle scarpe sfiorate dalla luce; quando però pure le due donne scambiarono finalmente qualche parola fra di loro, allora presero coraggio e cominciarono a alzare polvere a voce più alta.
- E famme fumà, daje, - gridò il Bègalo.
- Quanno che se semo spippata questa, avemo chiuso, - fece Alduccio accendendo la sigaretta.
- Che poi nun ne rimediamo n'antra?
- See, ma si nun pagamo manco li ciechi!
- An senti che caldo, - gridò il Bègalo soffiando, - spacca er dedietro alle tartarughe!
- Aòh, - fece dopo un po', - ma io me sto a morì de callo, sa'...
- Embè? - fece Alduccio.
- Fàmose un bagno dentro 'a funtana, - propose il Begalone.
- Che se' matto? - fece divertito Alduccio.
- Mica sto a scherzà sa'! - fece disgustato il Begalone.
- Ma vaffan..., va! - disse Alduccio ridendo.
Le due ragazze si fecero una risatina fra di loro.
- Daje, a Ardù! - gridò il Begalone.
S'alzarono all'impiedi nella penombra, e scherzando cominciarono a sbottonarsi in fretta i bottoni della camicetta; se la sfilarono e la buttarono per terra, un po' in dentro nell'ombra più fitta. Restati in canottiera con quelle chiome alla ghigo che parevano Sansone e Assalonne, per non perdere l'equilibrio nello sfilarsi i calzoni a tubbo si misero di nuovo a sedere.
- Famme levà prima 'e zcarpe, - disse Alduccio, piano, intenerito sulle sue scarpine nòve, con l'aria d'uno che gli va di sfottersi un po' da solo. Se le tolse e le gettò lontano. Per ultimo si levarono le canottiere dai petti negri e sudati, e restarono in mutandine.
- Guarda che fusto che so', - fece il Begalone gonfiando il petto.
- Hu, sei lo sciassi de na machina, - fece l'altro.
- Zoccoletti, zoccoletti, - cantò poi il Bègalo, raccogliendo li panni ch'avevano sparso qua e là per fare i malandri: li legarono in un mucchio colle cinte e se li misero sotto il braccio. Sortirono a quel modo dall'ombra, si fermarono un po' sugli scalini al bagliore della luna, e poi si misero a correre schiamazzando attraverso le aiuole. I panni li gettarono sull'erba, sotto le catene che penzolavano intorno alla fontana, vi si arrampicarono perché il conchiglione era più d'un metro alto da terra, e si misero all'impiedi sull'orlo.
- Già me sto a tremà, li mortacci sua, - fece il Bègalo stirando la bocca e rannicchiandosi.
- Daje, a Bègalo, ch'è calla, - fece Alduccio.
- Si, come un brodo, - disse il Bègalo tenendosi in equilibrio colle dita dei piedi intorcinate come uno scimmione. Alduccio gli diede una botta e l'altro cadde come un sacco di patate nell'acqua.
- Ammazzete che panzata, - fece il Bègalo riuscendo con la capoccia gocciolante.
- Mo te fo vede io, - gridò Alduccio, si buttò a pennello e l'acqua schizzò fuori dalla vasca, schioccando sulla base di marmo sotto la fontana. Il Bègalo cantava a squarciagola, colla testa e le spalle di fuori.
- Statte zitto, a ssonato, - fece Alduccio, - che si te sente un gessetto so' c... nostra so'!
- Guarda er morto a galla eh! - disse il Begalone; fece il morto, andò sotto col naso e rivenne fuori mezzo affogato, asciugandosi come un disperato la faccia, coi capelli che gliela ricoprivano duri come spinaci e più lunghi di quelli della Maddalena. - Vòi fà er grande e nun c'hai le possibilità! - fece Alduccio ridendo. In tre minuti ch'erano là dentro avevano lavato il selciato attorno per dieci metri di diametro, con tutti i fittoni e le aiuole.
- Io sorto ssa, - fece il Bègalo.
- Pure io, - gridò Alduccio, - mica c'ho intenzione de pijamme na pormonite, sa.
Risalirono in piedi sull'orlo, con le mutandine appiccicate e trasparenti, si fecero un altro caposotto, poi zomparono fuori dalla fontana.
- A li mortè, - diceva il Bègalo battendo i denti.
Raccolsero tutti gocciolanti i panni e con quelli sotto braccio si misero a correre attraverso il prato falciato, saltando tra le piccole siepi. Facevano a fugge ridendo per riscaldarsi Poi con due salti risalirono gli scalini del tempietto, entrarono sotto il colonnato e, passando dietro alle due ragazze, andarono a rintrufolarsi dentro l'ombra. Lì si misero a fare a schiaffetti: le ragazze li guardavano appena, indifferenti o con un sorrisetto un po' smorfioso.
- Viè qqua, - disse il Begalone, - che se strizzamo 'e mutandine. -Ridendo e suonando la comparcita si tirarono ancora un po' più indietro, oltre la curva del tempietto si sfilarono le mutandine e le intorcigliarono uno da una parte e uno dall'altra. Come ogni volta che si stava a rivestire dopo il bagno, il Bègalo fu preso da un'ondata di sentimentalismo: - Mai e poi mai - t'ho amata così tanto in vita mia.. - cantava, con le mutandine zuppe al collo, infilandosi i pedalini. Ma mentre piano piano, sbragati, quelli si stavano a rivestire, le due colombe tagliarono. Se ne andarono su verso il lungotevere, con un libro in mano e le grandi sottane pieghettate che ondeggiavano alla luce cocente. Il Begalone venne a mettersi sugli scalini dov'erano state sedute, ancora mezzo ignudo e reggendosi i calzoni con una mano.
- Quanto ssiete bbòne! - gridò.
Pure Alduccio, svestito com'era, s'accostò con le mani a imbuto intorno alla bocca e disse la sua: - An vedi che du' belle bucione!
- Daje, - aggiunse, - vestìmose che l'annamo a prenne de petto!
Quelle erano già a Monte Savello, quando Alduccio e il Begalone, coi panni sulla pelle ancora bagnata, le ripresero.
- Famme un po' vede come fermi na donna, - disse il Begalone, mentre camminavano frettolosi verso le due mecche che se ne andavano con passo calmo e veloce.
- Ammazzele, quanto còrono, - disse Alduccio, che camminava sempre come se gli dolessero le fette. - Perché nun le abbordi te? - fece poi soffiando.
- See, co sta debbolezza, - disse il Bègalo ancora più allaccato.
- Sei tanto rimorchione sei, vaffan..., e dije quarcosa, no.
- Li me cojoni, - fece il Begalone con disgusto.
Intanto però quelle due, come imboccarono l'altro lungotevere, arrivarono davanti a una macchina lunga dieci metri, vi salirono, una la mise in moto e te saluto Gesucri.