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Uno, nessuno e centomila - Pirandello, LIBRO QUINTO (1)

LIBRO QUINTO (1)

I.Con la coda fra le gambe

Mi valse, per fortuna, almeno lí per lí, la considerazione di Quantorzo, che anche mio padre ai suoi tempi s'era dati "lussi di bontà" come questo mio, commisti d'una certa allegra ferocia; e che, a lui Quantorzo, non era mai passato per il capo di poter proporre che mio padre fosse da chiudere in un manicomio o almeno almeno da interdire come ora Firbo sosteneva a spada tratta si dovesse fare per me, se si voleva salvare il credito della banca, seriamente compromesso da quel mio atto pazzesco. Oh mio Dio, ma non sapevano tutti in paese che negli affari della banca io non m'ero mai immischiato né punto né poco? Come e perché la minaccia di quel discredito ora? Che aveva da vedere con quel mio atto la banca?

Già. Ma allora cadeva la considerazione di Quantorzo, intesa a ripararmi dietro le spalle di mio padre. Che se pur di tanto in tanto aveva avuto di quegli estri, mio padre; poi nella trattazione degli affari aveva saputo dimostrare cosí bene d'aver la testa a segno, che certo a nessuno poteva venire in mente di chiuderlo in un manicomio o d'interdirlo; mentre la mia dichiarata insipienza e quel mio disinteressamento mi scoprivano invece pazzo da legare e nient'altro, buono soltanto a distruggere scandalosamene ciò che mio padre aveva con nascosta accortezza edificato. Ah, non c'è che dire, stava tutta dalla parte di Firbo la logica. Ma non stava meno, se vogliamo, dalla parte di Quantorzo, allorché questi (non ne ho il minimo dubbio) gli dovette far notare a quattr'occhi che, essendo io il padrone della banca, quel mio disinteressamento dagli affari e la mia insipienza non erano da assumere come armi contro di me, perché, grazie ad essi appunto, i veri padroni là dentro erano divenuti loro due; e che dunque, via, era meglio non toccare questo tasto e star zitti, almeno fin tanto ch'io non déssi altro segno di voler commettere nuove pazzie. Altro, segretamente, dal canto mio, avrei potuto far notare a Firbo, se - schiacciato com'ero in quel momento dalla prova or ora fatta - non mi fosse convenuto di starmi con la coda tra le gambe, mentre tra lui e Quantorzo pendeva quella lite, o meglio, mentre ancora rimaneva incerto se ai miei danni dovesse prevalere la brama dell'uno di vendicarsi dell'affronto che gli avevo fatto davanti ai commessi, o non piuttosto l'interessata indulgenza dell'altro. II. Il riso di Dida

M'ero, mogio mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perché apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di pazzia l'atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco. E intanto alle sgridate ch'ella gli dava, a quel suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l'aspetto che pur dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sí, l'aveva fatta un pò troppo grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all'improvviso, non piú contenuta, s'affacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in qualche orribile grido l'atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile. Ah, inconfessabile, inconfessabile, perché solo del mio spirito, quell'angoscia, fuori d'ogni forma che potessi fingermi e riconoscere per mia oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo piú dire chi fossi io allora, e di chi e dove, fuori di lui, quell'angoscia atroce che mi soffocava. E tanto ormai, fisso in questo tormento, m'ero alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell'uno che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a chiuderlo in un manicomio. «Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, cosí. Guardami bene negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi?»

Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani per costringerla a guardare nell'abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva essere guardata! Era lí davanti a me; m'acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo. Chi era?

Nessun dubbio in lei ch'io lo sapessi, chi era. E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch'io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell'abbandono che mi faceva di sé, senza il piú lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo corpo, e che io, stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m'apparteneva totalmente, e non un'estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com'era, perché era per me qual'io appunto la vedevo e la toccavo questa – cosí - con questi capelli - e questi occhi - e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei la mia, nel suo fuoco cosí diverso dal mio, incommensurabilmente lontano, se tutto per lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata, tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti cosí - orrore - estranei, non solo l'uno per l'altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l'altro si stringeva. Voi non lo avete mai provato, quest'orrore, lo so; perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna vostra, senza il minimo avvertimento ch'ella intanto si stringe in voi il suo, che è un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest'orrore, che voi pensaste un momento, che so! a un'inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d'opinioni; che gli occhi di lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual'è per voi, come voi la toccate, non sono per lei che vede e tocca un'altra realtà nelle stesse cose e in voi stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può figurarsi che possa essere un'altra per voi. Mi costò molto dissimulare la freddezza d'un rancore che mi sinduriva nell'animo sempre piú, vedendo che Dida, in fondo, per quanto si sforzasse di far viso fermo, rideva di quello spasso brutale che il suo Gengè s'era preso, evidentemente senza riflettere che non tutti come lei avrebbero compreso ch'egli aveva voluto fare una burla e niente piú. «Ma guarda un pò, se sono scherzi da fare! Lo sfratto sotto la pioggia; e assistervi, provocando l'indignazione di tutti, scioccone! A momenti t'accoppavano!» Cosí mi diceva, e voltava la faccia per nascondere il riso che intanto le provocava la vista di quel mio rancore, il quale naturalmente nell'aspetto del suo Gengè, come se lo vedeva ora davanti e come s'immaginava che dovesse essere in quel momento dello sfratto tra l'indignazione di tutti, le appariva dispetto, nient'altro che un buffo dispetto di quel suo "scioccone" a causa della burla mancata e mal compresa. «Ma che ti figuravi? Ti figuravi che dovessero ridere delle furie di quel pazzo mentre tu gli facevi buttare in mezzo alla strada i suoi cenci sotto la pioggia? E intanto lui - guardàtelo là - si teneva in corpo la sorpresa della donazione! Oh bada che ha ragione il signor Firbo, sai! Cosa da manicomio, uno scherzo di cosí cattivo genere, pagarlo a un cosí caro prezzo. Và là, và là! Pigliati qua Bibí, e pòrtala un pò fuori.»

Mi vedevo mettere in mano il laccetto rosso della cagnolina; vedevo ch'ella si chinava, con la facilità con cui sulle loro anche si chinano le donne, per aggiustare al musetto di Bibí la museruola senza farle male, e restavo lí come un insensato. «Che fai? Non vai?»

«Vado...»

Chiusa la porta alle mie spalle, m'appoggiavo al muro del pianerottolo con una voglia di mettermi a sedere sul primo scalino, per non rialzarmene mai piú. III. Parlo con Bibì

E mi vedo, rasente ai muri, per via, che non so piú come né dove guardare, con quella cagnolina dietro, che pare me lo faccia apposta di dare a vedere che, com'io non vorrei andare, cosí non vorrebbe venire con me neanche lei, e si fa tirare pontando le zampine, finché stizzito non le do uno strattone, a rischio di spezzare quel laccetto rosso. Vado a nascondermi a pochi passi da casa, dentro il recinto d'un terreno venduto per una casa che vi doveva sorgere, grande e chi sa come brutta, a giudicare dalle altre vicine. Il terreno è scavato in parte per le fondamenta; ma i mucchi di terra non sono stati portati via; e qua e là sono sparse tra l'erba ricresciuta folta, le pietre per la fabbrica, come crollate e vecchie prima d'essere usate. Seggo su una di queste pietre; guardo il muro che para, alto, bianco, stagliato nell'azzurro, della casa accanto. Rimasto scoperto, senza una finestra, tutto cosí bianco e liscio, quel muro, col sole che ci batte sopra, acceca. Abbasso gli occhi qua nell'ombra di quest'erba vana, che respira grassa e calda nel silenzio immobile, tra un brusío d'insetti minuti; c'è un moscone fosco che mi dà addosso, ronzando, irritato dalla mia presenza; vedo Bibí che mi s'è acculata davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa, come per domandarmi perché siamo venuti qua, in un luogo che non s'aspettava, ove tra l'altro... ma sí, di notte, qualcuno, passando... «Sí, Bibí,» le dico. «Questo puzzo... Lo sento. Ma mi pare il meno, sai? che possa ormai venirmi dagli uomini. E di corpo. Peggio, quello che esala dai bisogni dell'anima, Bibí. E veramente sei da invidiare, tu che non puoi averne sentore.

La tiro a me per le due zampine davanti, e seguito a parlare cosí.

«Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua? Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare. Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch'esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c'è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli altri, Bibí! Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi dànno e ch'io non so né potrò mai sapere. Cosicché, vedi? io - questo che ora ti parla - questo che ora ti tiene cosí sollevate da terra queste due zampine - le parole che ti dico, non so, non so proprio, Bibí, chi te le dica.»

Ebbe a questo punto un soprassalto improvviso, la povera bestiolina, e volle sguizzarmi dalle mani che le reggevano le due zampine. Senza indugiarmi a riflettere se quel soprassalto fosse per lo spavento di quel che le avevo detto, per non spezzargliele, gliele lasciai, e subito allora essa si sfogò abbaiando contro un gatto bianco intravisto tra l'erba in fondo al recinto: se non che il laccetto rosso trascinato tra i piedi in corsa a un tratto le s'impigliò in uno sterpo e le diede un tale strappo, che la fece arrovesciare all'indietro e rotolare come un batuffolo. Friggendo di rabbia si raddrizzò, ma restò puntata su le quattro zampe, non sapendo piú dove avventare la sua furia interrotta: guardò di qua, di là: il gatto non c'era piú. Starnutò.

Io potei ridere di quella sua corsa, prima, poi di quel capitombolo all'indietro, e ora di vederla restar cosí; tentennai il capo e la richiamai a me. Se ne venne leggera leggera, quasi ballando sulle esili zampine; quando mi fu davanti, levò da sé le due anteriori per appoggiarsi a un mio ginocchio, quasi volesse seguitare il discorso rimasto a mezzo, che invece le piaceva. Eh sí, perché, parlando, io le grattavo la testa dietro le orecchie.

«No no, basta, Bibí» le dissi. «Chiudiamo gli occhi piuttosto.»

E le presi tra le mani la testina. Ma la bestiola si scrollò, per liberarsi; e la lasciai.

Poco dopo, sdraiata ai miei piedi, col musino allungato sulle due zampette davanti, la udii sospirare forte, come se non ne potesse piú dalla stanchezza e dalla noia, che pesavano tanto anche sulla sua vita di povera cagnetta bellina e vezzeggiata.

IV. La vista degli altri

Perché, quand'uno pensa d'uccidersi, s'immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri? Tumido e livido, come il cadavere d'un annegato, rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú d'un'ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa all'invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell'imbecillità che molti altri m'attribuivano. E allora, tra le diverse immagini della mia morte violenta, come potevo supporre balzassero improvvise, tra la costernazione e lo sbalordimento, in mia moglie, in Quantorzo, in Firbo, in tanti e tanti altri miei conoscenti; costringendomi a rispondere a quella domanda, mi sentii piú che mai mancare, perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non c'era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri, per il mio stesso corpo e per ogni altra cosa come potevo figurarmi che dovessero vederli; e che dunque i miei occhi, per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbero piú saputo veramente quello che vedevano. Mi corse per la schiena il brivido d'un ricordo lontano: di quand'ero ragazzo, che andando sopra pensiero per la campagna m'ero visto a un tratto smarrito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e attonita; lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarirmi. Era questo: l'orrore di qualche cosa che da un momento all'altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri. Sempre che ci avvenga di scoprire qualcosa che gli altri supponiamo non abbiano mai veduta, non corriamo a chiamare qualcuno perché subito la veda con noi?

«Oh Dio, che è?

Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli.

Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l'orrore, davanti a me stesso, per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un'illusione a cui non potevo piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore negli occhi della cagnetta che s'era levata anche lei di scatto e mi guardava, per togliermela davanti, quell'orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando: «Impazzisco! impazzisco!»

Se non che, non so come, in quel gesto di disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi si mutò d'improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch'era mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch'io per burla, e tutto in preda a una gaia smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La bestiolina starnutiva, come per dirmi:

«Rifiuto! rifiuto!»

«Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?

E allora mi misi a starnutire anch'io per rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto: «Rifiuto! rifiuto!»

V. Il bel giuoco

Un calcio? io? a quella povera bestiolina.

Gliel'aveva appioppato in campagna un certo ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e di niente: d'un niente che poteva d'improvviso diventare qualche cosa che sarebbe toccato allora di vedere a lui solo. Qua in città, ora, per via, non c'era piú questo pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l'illusione dell'altro, da poter essere sicuri che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l'altro lo vedeva. E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:

«Ma sí! Eh eh! Giochiamo, giochiamo!»

E anche di farne segno a chi stava per caso a guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sí! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per buttarsi di sotto.

«Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese, caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori cosí d'ogni illusione per voi, poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell'illusione degli altri ancora vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh!»

Il guajo era che ancora da vivo stavo a vederlo io, questo giuoco, tra gli altri ancora vivi: benché non lo potessi penetrare E quest'impossibilità di penetrarlo, pur sapendo ch'era lí negli occhi di tutti, esasperava fino alla ferocia quella mia smania gaia. Il calcio poc'anzi sparato alla povera bestiolina perché mi guardava, Dio me lo perdoni, mi veniva di spararlo a tutti quanti.


LIBRO QUINTO (1) BOOK FIFTH (1) LIVRO CINCO (1)

I.Con la coda fra le gambe

Mi valse, per fortuna, almeno lí per lí, la considerazione di Quantorzo, che anche mio padre ai suoi tempi s'era dati "lussi di bontà" come questo mio, commisti d'una certa allegra ferocia; e che, a lui Quantorzo, non era mai passato per il capo di poter proporre che mio padre fosse da chiudere in un manicomio o almeno almeno da interdire come ora Firbo sosteneva a spada tratta si dovesse fare per me, se si voleva salvare il credito della banca, seriamente compromesso da quel mio atto pazzesco. Oh mio Dio, ma non sapevano tutti in paese che negli affari della banca io non m'ero mai immischiato né punto né poco? Come e perché la minaccia di quel discredito ora? Che aveva da vedere con quel mio atto la banca?

Già. Ma allora cadeva la considerazione di Quantorzo, intesa a ripararmi dietro le spalle di mio padre. Che se pur di tanto in tanto aveva avuto di quegli estri, mio padre; poi nella trattazione degli affari aveva saputo dimostrare cosí bene d'aver la testa a segno, che certo a nessuno poteva venire in mente di chiuderlo in un manicomio o d'interdirlo; mentre la mia dichiarata insipienza e quel mio disinteressamento mi scoprivano invece pazzo da legare e nient'altro, buono soltanto a distruggere scandalosamene ciò che mio padre aveva con nascosta accortezza edificato. Ah, non c'è che dire, stava tutta dalla parte di Firbo la logica. Ma non stava meno, se vogliamo, dalla parte di Quantorzo, allorché questi (non ne ho il minimo dubbio) gli dovette far notare a quattr'occhi che, essendo io il padrone della banca, quel mio disinteressamento dagli affari e la mia insipienza non erano da assumere come armi contro di me, perché, grazie ad essi appunto, i veri padroni là dentro erano divenuti loro due; e che dunque, via, era meglio non toccare questo tasto e star zitti, almeno fin tanto ch'io non déssi altro segno di voler commettere nuove pazzie. Altro, segretamente, dal canto mio, avrei potuto far notare a Firbo, se - schiacciato com'ero in quel momento dalla prova or ora fatta - non mi fosse convenuto di starmi con la coda tra le gambe, mentre tra lui e Quantorzo pendeva quella lite, o meglio, mentre ancora rimaneva incerto se ai miei danni dovesse prevalere la brama dell'uno di vendicarsi dell'affronto che gli avevo fatto davanti ai commessi, o non piuttosto l'interessata indulgenza dell'altro. II. Il riso di Dida

M'ero, mogio mogio, rinchioccito tra le gonnelle di Dida dentro la sorda tranquilla e oziosa stupidità del suo Gengè, perché apparisse chiaro non pure a lei ma a tutti che, se si voleva proprio tenere in conto di pazzia l'atto da me commesso, fosse ritenuto come una pazzia di quel Gengè là, vale a dire piuttosto un vaporoso e momentaneo capriccio da innocuo sciocco. E intanto alle sgridate ch'ella gli dava, a quel suo Gengè, io mi sentivo ora finir lo stomaco da un avvilimento che non so ridire, ora crepare in corpo da certe risate che non sapevo come trattenere, per l'aspetto che pur dovevo conservare a lui, non già compunto, Dio liberi! ma anzi da cocciuto che non si voleva dare al tutto per vinto, anche riconoscendo che, sí, l'aveva fatta un pò troppo grossa. E la paura, nello stesso tempo, che all'improvviso, non piú contenuta, s'affacciasse da quegli occhi a spiarla di traverso, o prorompesse da quella bocca in qualche orribile grido l'atroce disperazione della mia angoscia segreta e inconfessabile. Ah, inconfessabile, inconfessabile, perché solo del mio spirito, quell'angoscia, fuori d'ogni forma che potessi fingermi e riconoscere per mia oltre questa qua, per esempio, che mia moglie dava, vera e tangibile in me, a quel suo Gengè che le stava davanti e che non ero io; anche se non potevo piú dire chi fossi io allora, e di chi e dove, fuori di lui, quell'angoscia atroce che mi soffocava. E tanto ormai, fisso in questo tormento, m'ero alienato da me stesso, che come un cieco davo il mio corpo in mano agli altri, perché ciascuno si prendesse di tutti quegli estranei inseparabili che portavo in me quell'uno che ero per lui e, se voleva, lo bastonasse; se voleva, se lo baciasse; o anche andasse a chiuderlo in un manicomio. «Qua, Gengè. Siedi qua. Qua, cosí. Guardami bene negli occhi. Come no? Non vuoi guardarmi?»

Ah che tentazione di prenderle il viso tra le mani per costringerla a guardare nell'abisso di due occhi ben altri da quelli da cui voleva essere guardata! Era lí davanti a me; m'acciuffava con una mano i capelli; mi si metteva a sedere sulle ginocchia; sentivo il peso del suo corpo. Chi era?

Nessun dubbio in lei ch'io lo sapessi, chi era. E io avevo intanto orrore dei suoi occhi che mi guardavano ridenti e sicuri; orrore di quelle sue fresche mani che mi toccavano certe ch'io fossi come quei suoi occhi mi vedevano; orrore di tutto quel suo corpo che mi pesava sulle ginocchia, fiducioso nell'abbandono che mi faceva di sé, senza il piú lontano sospetto che non si désse realmente a me, quel suo corpo, e che io, stringendomelo tra le braccia, non mi stringessi con quel suo corpo una che m'apparteneva totalmente, e non un'estranea, alla quale non potevo dire in alcun modo com'era, perché era per me qual'io appunto la vedevo e la toccavo questa – cosí - con questi capelli - e questi occhi - e questa bocca, come nel fuoco del mio amore gliela baciavo; mentre lei la mia, nel suo fuoco cosí diverso dal mio, incommensurabilmente lontano, se tutto per lei, sesso, natura, immagine e senso delle cose, pensieri e affetti che le componevano lo spirito, ricordi, gusti e il contatto stesso della mia ruvida guancia sulla sua delicata, tutto, tutto era diverso; due estranei, stretti cosí - orrore - estranei, non solo l'uno per l'altra, ma ciascuno a se stesso, in quel corpo che l'altro si stringeva. Voi non lo avete mai provato, quest'orrore, lo so; perché avete sempre e soltanto stretto fra le braccia tutto il vostro mondo nella donna vostra, senza il minimo avvertimento ch'ella intanto si stringe in voi il suo, che è un altro, impenetrabile. Eppure basterebbe, per sentirlo, quest'orrore, che voi pensaste un momento, che so! a un'inezia qualunque, a una cosa che a voi piace e a lei no: un colore, un sapore, un giudizio su una tal cosa; che non vi facessero soltanto pensare superficialmente a una diversità di gusti, di sensazioni o d'opinioni; che gli occhi di lei, mentre voi la guardate, non vedono in voi, e come i vostri, le cose quali voi le vedete, e che il mondo, la vita, la realtà delle cose qual'è per voi, come voi la toccate, non sono per lei che vede e tocca un'altra realtà nelle stesse cose e in voi stesso e in sé, senza che vi possa dire come sia, perché per lei è quella e non può figurarsi che possa essere un'altra per voi. Mi costò molto dissimulare la freddezza d'un rancore che mi sinduriva nell'animo sempre piú, vedendo che Dida, in fondo, per quanto si sforzasse di far viso fermo, rideva di quello spasso brutale che il suo Gengè s'era preso, evidentemente senza riflettere che non tutti come lei avrebbero compreso ch'egli aveva voluto fare una burla e niente piú. «Ma guarda un pò, se sono scherzi da fare! Lo sfratto sotto la pioggia; e assistervi, provocando l'indignazione di tutti, scioccone! A momenti t'accoppavano!» Cosí mi diceva, e voltava la faccia per nascondere il riso che intanto le provocava la vista di quel mio rancore, il quale naturalmente nell'aspetto del suo Gengè, come se lo vedeva ora davanti e come s'immaginava che dovesse essere in quel momento dello sfratto tra l'indignazione di tutti, le appariva dispetto, nient'altro che un buffo dispetto di quel suo "scioccone" a causa della burla mancata e mal compresa. «Ma che ti figuravi? Ti figuravi che dovessero ridere delle furie di quel pazzo mentre tu gli facevi buttare in mezzo alla strada i suoi cenci sotto la pioggia? E intanto lui - guardàtelo là - si teneva in corpo la sorpresa della donazione! Oh bada che ha ragione il signor Firbo, sai! Cosa da manicomio, uno scherzo di cosí cattivo genere, pagarlo a un cosí caro prezzo. Và là, và là! Pigliati qua Bibí, e pòrtala un pò fuori.»

Mi vedevo mettere in mano il laccetto rosso della cagnolina; vedevo ch'ella si chinava, con la facilità con cui sulle loro anche si chinano le donne, per aggiustare al musetto di Bibí la museruola senza farle male, e restavo lí come un insensato. «Che fai? Non vai?»

«Vado...»

Chiusa la porta alle mie spalle, m'appoggiavo al muro del pianerottolo con una voglia di mettermi a sedere sul primo scalino, per non rialzarmene mai piú. III. Parlo con Bibì

E mi vedo, rasente ai muri, per via, che non so piú come né dove guardare, con quella cagnolina dietro, che pare me lo faccia apposta di dare a vedere che, com'io non vorrei andare, cosí non vorrebbe venire con me neanche lei, e si fa tirare pontando le zampine, finché stizzito non le do uno strattone, a rischio di spezzare quel laccetto rosso. Vado a nascondermi a pochi passi da casa, dentro il recinto d'un terreno venduto per una casa che vi doveva sorgere, grande e chi sa come brutta, a giudicare dalle altre vicine. Il terreno è scavato in parte per le fondamenta; ma i mucchi di terra non sono stati portati via; e qua e là sono sparse tra l'erba ricresciuta folta, le pietre per la fabbrica, come crollate e vecchie prima d'essere usate. Seggo su una di queste pietre; guardo il muro che para, alto, bianco, stagliato nell'azzurro, della casa accanto. Rimasto scoperto, senza una finestra, tutto cosí bianco e liscio, quel muro, col sole che ci batte sopra, acceca. Abbasso gli occhi qua nell'ombra di quest'erba vana, che respira grassa e calda nel silenzio immobile, tra un brusío d'insetti minuti; c'è un moscone fosco che mi dà addosso, ronzando, irritato dalla mia presenza; vedo Bibí che mi s'è acculata davanti con le orecchie ritte, delusa e sorpresa, come per domandarmi perché siamo venuti qua, in un luogo che non s'aspettava, ove tra l'altro... ma sí, di notte, qualcuno, passando... «Sí, Bibí,» le dico. «Questo puzzo... Lo sento. Ma mi pare il meno, sai? che possa ormai venirmi dagli uomini. E di corpo. Peggio, quello che esala dai bisogni dell'anima, Bibí. E veramente sei da invidiare, tu che non puoi averne sentore.

La tiro a me per le due zampine davanti, e seguito a parlare cosí.

«Vuoi sapere perché sia venuto a nascondermi qua? Eh, Bibí, perché la gente mi guarda. Ha questo vizio, la gente, e non se lo può levare. Ci dovremmo allora levare tutti quelli di portarci per via, a spasso, un corpo soggetto a essere guardato. Ah, Bibí, Bibí, come faccio? Io non posso piú vedermi guardato neanche da te. Nessuno dubita di quel che vede, e va ciascuno tra le cose, sicuro ch'esse appaiano agli altri quali sono per lui; figuriamoci poi se c'è chi pensa che ci siete anche voi bestie che guardate uomini e cose con codesti occhi silenziosi e chi sa come li vedete, e che ve ne pare. Io ho perduto, perduto per sempre la realtà mia e quella di tutte le cose negli occhi degli altri, Bibí! Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi dànno e ch'io non so né potrò mai sapere. Cosicché, vedi? io - questo che ora ti parla - questo che ora ti tiene cosí sollevate da terra queste due zampine - le parole che ti dico, non so, non so proprio, Bibí, chi te le dica.»

Ebbe a questo punto un soprassalto improvviso, la povera bestiolina, e volle sguizzarmi dalle mani che le reggevano le due zampine. Senza indugiarmi a riflettere se quel soprassalto fosse per lo spavento di quel che le avevo detto, per non spezzargliele, gliele lasciai, e subito allora essa si sfogò abbaiando contro un gatto bianco intravisto tra l'erba in fondo al recinto: se non che il laccetto rosso trascinato tra i piedi in corsa a un tratto le s'impigliò in uno sterpo e le diede un tale strappo, che la fece arrovesciare all'indietro e rotolare come un batuffolo. Friggendo di rabbia si raddrizzò, ma restò puntata su le quattro zampe, non sapendo piú dove avventare la sua furia interrotta: guardò di qua, di là: il gatto non c'era piú. Starnutò.

Io potei ridere di quella sua corsa, prima, poi di quel capitombolo all'indietro, e ora di vederla restar cosí; tentennai il capo e la richiamai a me. Se ne venne leggera leggera, quasi ballando sulle esili zampine; quando mi fu davanti, levò da sé le due anteriori per appoggiarsi a un mio ginocchio, quasi volesse seguitare il discorso rimasto a mezzo, che invece le piaceva. Eh sí, perché, parlando, io le grattavo la testa dietro le orecchie.

«No no, basta, Bibí» le dissi. «Chiudiamo gli occhi piuttosto.»

E le presi tra le mani la testina. Ma la bestiola si scrollò, per liberarsi; e la lasciai.

Poco dopo, sdraiata ai miei piedi, col musino allungato sulle due zampette davanti, la udii sospirare forte, come se non ne potesse piú dalla stanchezza e dalla noia, che pesavano tanto anche sulla sua vita di povera cagnetta bellina e vezzeggiata.

IV. La vista degli altri

Perché, quand'uno pensa d'uccidersi, s'immagina morto, non piú per sé, ma per gli altri? Tumido e livido, come il cadavere d'un annegato, rivenne a galla il mio tormento con questa domanda, dopo essermi sprofondato per piú d'un'ora nella meditazione, là in quel recinto, se non sarebbe stato quello il momento di farla finita, non tanto per liberarmi di esso tormento, quanto per fare una bella sorpresa all'invidia che molti mi portavano o anche per dare una prova dell'imbecillità che molti altri m'attribuivano. E allora, tra le diverse immagini della mia morte violenta, come potevo supporre balzassero improvvise, tra la costernazione e lo sbalordimento, in mia moglie, in Quantorzo, in Firbo, in tanti e tanti altri miei conoscenti; costringendomi a rispondere a quella domanda, mi sentii piú che mai mancare, perché dovetti riconoscere che nei miei occhi non c'era veramente una vista per me, da poter dire in qualche modo come mi vedevo senza la vista degli altri, per il mio stesso corpo e per ogni altra cosa come potevo figurarmi che dovessero vederli; e che dunque i miei occhi, per sé, fuori di questa vista degli altri, non avrebbero piú saputo veramente quello che vedevano. Mi corse per la schiena il brivido d'un ricordo lontano: di quand'ero ragazzo, che andando sopra pensiero per la campagna m'ero visto a un tratto smarrito, fuori di ogni traccia, in una remota solitudine tetra di sole e attonita; lo sgomento che ne avevo avuto e che allora non avevo saputo chiarirmi. Era questo: l'orrore di qualche cosa che da un momento all'altro potesse scoprirsi a me solo, fuori della vista degli altri. Sempre che ci avvenga di scoprire qualcosa che gli altri supponiamo non abbiano mai veduta, non corriamo a chiamare qualcuno perché subito la veda con noi?

«Oh Dio, che è?

Ove la vista degli altri non ci soccorra a costituire comunque in noi la realtà di ciò che vediamo, i nostri occhi non sanno più quello che vedono; la nostra coscienza si smarrisce, perché questa che crediamo la cosa più intima nostra, la coscienza, vuol dire gli altri in noi; e non possiamo sentirci soli.

Balzai in piedi, esterrefatto. Sapevo, sapevo la mia solitudine; ma ora soltanto ne sentivo e toccavo veramente l'orrore, davanti a me stesso, per ogni cosa che vedevo, se alzavo una mano e me la guardavo. Perché la vista degli altri non è e non può essere nei nostri occhi se non per un'illusione a cui non potevo piú credere; e, in un totale smarrimento, parendomi di vedere quel mio stesso orrore negli occhi della cagnetta che s'era levata anche lei di scatto e mi guardava, per togliermela davanti, quell'orrore, le allungai un calcio; ma subito ai guaiti laceranti della bestiola, mi presi disperatamente la testa tra le mani, gridando: «Impazzisco! impazzisco!»

Se non che, non so come, in quel gesto di disperazione tornai a vedermi, e allora il pianto che stava per prorompermi dal petto mi si mutò d'improvviso in uno scoppio di riso, e chiamai quella povera Bibí ch'era mezza azzoppata, mi misi a zoppicare anch'io per burla, e tutto in preda a una gaia smania feroce, le dissi che avevo giocato, giocato, e che volevo seguitare a giocare. La bestiolina starnutiva, come per dirmi:

«Rifiuto! rifiuto!»

«Ah sí? Rifiuti, Bibí, rifiuti?

E allora mi misi a starnutire anch'io per rifarle il verso, ripetendo a ogni starnuto: «Rifiuto! rifiuto!»

V. Il bel giuoco

Un calcio? io? a quella povera bestiolina.

Gliel'aveva appioppato in campagna un certo ragazzaccio smarrito, per non so che strano sgomento da cui era stato invaso, di tutto e di niente: d'un niente che poteva d'improvviso diventare qualche cosa che sarebbe toccato allora di vedere a lui solo. Qua in città, ora, per via, non c'era piú questo pericolo. Diamine! Ognuno, bello, dentro l'illusione dell'altro, da poter essere sicuri che tutti gli altri sbagliavano se dicevano di no, che cioè ciascuno non era come l'altro lo vedeva. E mi veniva di gridarlo a tutti quanti:

«Ma sí! Eh eh! Giochiamo, giochiamo!»

E anche di farne segno a chi stava per caso a guardare dai vetri di qualche finestra. Ma sí! Eh eh! Anche aprendo quella finestra per buttarsi di sotto.

«Bel giuoco! E chi sa poi che graziose sorprese, caro signore, cara signora, se, dopo esservi buttati fuori cosí d'ogni illusione per voi, poteste ritornare per un momentino, da morti, a vedere nell'illusione degli altri ancora vivi quel mondo in cui vi figuraste di vivere! Eh eh!»

Il guajo era che ancora da vivo stavo a vederlo io, questo giuoco, tra gli altri ancora vivi: benché non lo potessi penetrare E quest'impossibilità di penetrarlo, pur sapendo ch'era lí negli occhi di tutti, esasperava fino alla ferocia quella mia smania gaia. Il calcio poc'anzi sparato alla povera bestiolina perché mi guardava, Dio me lo perdoni, mi veniva di spararlo a tutti quanti.