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Memorie di Adriano - Yourcenar, 2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (5)

2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (5)

La diffidenza di Traiano, o l'impossibilità di trovare qualcuno che potesse svolgere i miei compiti nelle retrovie, mi avrebbero trattenuto ad Antiochia: e io contavo su di essi per tenermi informato di tutto ciò che non avrei appreso dai bollettini. Qualora fosse avvenuto un disastro, essi avrebbero saputo guadagnarmi la fedeltà di una buona parte dell'esercito; i miei avversari avrebbero dovuto fare i conti con la presenza di quel vegliardo gottoso, che partiva soltanto per essermi utile, e di quella donna, capace di esigere da se stessa la dura resistenza d'un soldato. Li vidi allontanarsi: l'imperatore a cavallo, sicuro, d'una placidità ammirevole, il gruppo paziente delle donne in lettiga, le guardie pretoriane confuse tra gli esploratori numidi del temibile Lusio Quieto. All'arrivo del capo, l'esercito, che aveva svernato in riva all'Eufrate, si mise in marcia: la campagna contro i Parti s'iniziava davvero. Le prime notizie furono lusinghiere: Babilonia conquistata, il Tigri traversato, Ctesifonte caduta. Come sempre, tutto cedeva alla maestria sorprendente dell'imperatore. Il principe dell'Arabia Saracena dichiarò la sua sottomissione aprendo così l'intero corso del Tigri alle flotte romane: l'imperatore s'imbarcò per il porto di Caraci, in fondo al Golfo Persico. Approdava ai lidi favolosi. Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Peggio ancora, dubitavo di me stesso: m'ero macchiato di quella bassa incredulità che ci impedisce di individuare la grandezza in quelli che conosciamo troppo da vicino. Avevo dimenticato che certi esseri spostano i limiti del destino, e mutano il corso della storia. Avevo bestemmiato contro il Genio dell'imperatore. Là, nel mio posto, mi rodevo: se per caso si fosse verificato l'impossibile, poteva darsi che io ne fossi escluso? Dato che tutto era sempre più agevole della saggezza, mi veniva voglia di tornare a indossare la cotta di maglia delle guerre sarmate, di utilizzare l'influenza di Plotina per farmi richiamare alle armi. Invidiavo al più umile soldato la polvere delle strade asiatiche, l'urto con le falangi corazzate persiane. Questa volta, il Senato decretò per l'imperatore il diritto di celebrare non già un trionfo, ma una serie intera di trionfi, che sarebbero durati quanto la sua vita. Feci io stesso quel che si doveva fare: ordinai feste, e salii sulla vetta del monte Cassio a compiere sacrifici.

Improvvisamente, l'incendio che covava in quella terra d'Oriente divampò dappertutto nello stesso istante. Qualche mercante ebreo si rifiutò di pagare l'imposta a Seleucia; immediatamente, Cirene si ribellò, e l'elemento orientale massacrò i Greci; le strade che portavano il grano egiziano fino alle nostre truppe furono interrotte da una banda di Zeloti di Gerusalemme; a Cipro, i residenti greci e romani furono catturati dalla plebaglia ebrea, che li costrinse a trucidarsi a vicenda combattendo da gladiatori. In Siria, riuscii a mantenere l'ordine, ma scorgevo una fiamma nell'occhio dei mendicanti accosciati alla soglia delle sinagoghe, un ghigno sommesso sulle labbra tumide dei cammellieri, un odio che in fin dei conti non meritavamo. Sin dall'inizio, Giudei e Arabi avevano fatto causa comune contro una guerra che minacciava di rovinare i loro traffici; ma Israele ne profittava per scagliarsi contro un mondo dal quale lo escludevano i suoi furori religiosi, la sua liturgia singolare, l'intransigenza del suo Dio. L'imperatore, rientrato in fretta a Babilonia, ordinò a Quieto di punire le città ribelli: Cirene, Edessa, Seleucia, le grandi metropoli elleniche dell'Oriente, furono abbandonate alle fiamme in punizione dei tradimenti meditati durante le soste delle carovane o macchinati nei quartieri ebrei. Più tardi, visitando città da riedificare, ho camminato sotto colonnati cadenti, tra lunghe file di statue infrante. L'imperatore Osroe, che aveva sobillato quelle rivolte, prese immediatamente l'offensiva: Abgar insorse e rientrò a Edessa, ormai in cenere; i nostri alleati armeni, sui quali Traiano aveva creduto di poter contare, prestarono man forte ai satrapi. L'imperatore si trovò bruscamente al centro d'un immenso campo di battaglia nel quale bisognava far fronte al nemico da ogni lato. Perdette l'inverno nell'assedio di Hatra, un nido d'aquile pressoché inespugnabile, situato in pieno deserto, che costò migliaia di morti al nostro esercito. La sua ostinazione assumeva sempre più la forma di coraggio personale: quell'uomo malato si rifiutava di lasciare la presa. Da Plotina sapevo che Traiano, benché avvertito da una leggera paralisi, si rifiutava di nominare il suo erede. Se questo imitatore di Alessandro fosse morto a sua volta di febbri o di intemperanze in qualche angolo malsano dell'Asia, la guerra contro lo straniero si sarebbe aggravata d'una guerra civile; tra i miei partigiani e quelli di Celso o di Palma sarebbe scoppiata una lotta cruenta. Improvvisamente, le notizie cessarono quasi del tutto; la esile linea di comunicazione tra l'imperatore e me era tenuta soltanto dalle bande numide del mio nemico peggiore. Fu allora che incaricai il mio medico di segnarmi per la prima volta sul petto, con inchiostro rosso, il posto del cuore: se fosse avvenuto il peggio, non ci tenevo a cader vivo nelle mani di Lusio Quieto. Agli altri obblighi della mia carica si aggiungeva il difficile compito di pacificare le isole e le province limitrofe, ma il lavoro estenuante delle giornate non era nulla, in paragone delle lunghe notti insonni. Ero sopraffatto da tutti i problemi dell'impero ma il mio personale pesava di più. Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire.

Ero prossimo ai quarant'anni. Se fossi morto a quel momento, di me non sarebbe rimasto null'altro che un nome, tra una serie di alti funzionari, e un'iscrizione in greco in onore dell'arconte di Atene. In seguito, tutte le volte che ho visto sparire un uomo giunto a metà della sua vita, del quale il pubblico ritiene di poter valutare esattamente i successi e le sconfitte, mi sono ricordato che a quell'età io non esistevo ancora se non per me e per pochissimi amici, i quali certamente in qualche momento dubitavano di me come ne dubitavo io stesso. Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte.

Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti. Sembravano vani i compiti più urgenti, dal momento che mi era vietato assumere, da supremo moderatore, le decisioni riguardanti l'avvenire; avevo bisogno d'esser certo che avrei regnato per ritrovare il gusto d'esser utile. Quel palazzo d'Antiochia, dove pochi anni dopo avrei vissuto momenti di ebbrezza, non era che un carcere per me, forse il carcere d'un condannato a morte. Inviai messaggi segreti agli oracoli, a Giove Ammone, a Castalia, al Giove Dolicheno. Feci venire dei maghi; giunsi fino a far prelevare nelle celle di Antiochia un criminale destinato alla crocifissione, al quale uno stregone tagliò la gola in mia presenza, nella speranza che la sua anima, sospesa un istante tra la vita e la morte, mi avrebbe svelato l'avvenire. Quel miserabile ci guadagnò di sfuggire a un'agonia più lunga, ma le domande rimasero senza risposta. La notte, mi trascinavo da una finestra all'altra, da un balcone all'altro, attraverso le sale di quel palazzo dalle mura ancora screpolate dal terremoto, tracciando calcoli astrologici sulle lastre di marmo, interrogando le tremule stelle. Ma i segni dell'avvenire andavano cercati sulla terra. Finalmente l'imperatore tolse l'assedio ad Hatra, e si decise a ritraversare l'Eufrate, che non si sarebbe dovuto attraversare mai. Il caldo già torrido, e le scorrerie degli arcieri parti resero ancor più disastroso quell'amaro ritorno. Una torrida sera di maggio, andai fuori le porte della città, in riva all'Oronte, a incontrare quell'esiguo gruppo provato dalle febbri, dall'angoscia, dalla stanchezza: l'imperatore malato, Attiano e le donne. Traiano volle percorrere a cavallo il tragitto sino alla soglia del palazzo: si sosteneva appena. Quell'uomo così pieno di vita sembrava un altro, per l'approssimarsi della morte. Crito e Matidia lo sostennero su per le scale, lo condussero a distendersi, presero posto al suo capezzale. Attiano e Plotina mi raccontarono alcuni incidenti della guerra, di cui non avevano potuto farmi cenno nei loro brevi messaggi. Uno di questi racconti mi commosse tanto da iscriversi per sempre tra i miei ricordi più intimi, i miei simboli personali. Non appena giunto a Caraci, l'imperatore stremato era andato a sedersi sulla ghiaia, a contemplare le torbide acque del Golfo Persico. Si era ancora all'epoca in cui non dubitava della vittoria; eppure, per la prima volta, fu sopraffatto dall'immensità del mondo, dal terrore della vecchiaia, da quello dei limiti che ci rinserrano tutti. Grosse lacrime rigarono il volto di quell'uomo che si credeva incapace di piangere. L'imperatore, che aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno, comprese che non si sarebbe imbarcato mai su quel mare tanto vagheggiato: l'India, la Battriana, tutto l'Oriente oscuro di cui s'era inebriato a distanza sarebbe restato per lui un nome, una visione. L'indomani, notizie funeste lo costrinsero a ripartire. Tutte le volte che il destino mi ha detto no, ho ricordato quelle lacrime versate una sera, su una sponda lontana, da un vecchio che forse per la prima volta guardava in faccia la sua vita.

Il giorno seguente, salii dall'imperatore. Mi sentivo filiale, fraterno verso di lui. Quell'uomo, che s'era sempre fatto una gloria di vivere e di pensare come un qualsiasi soldato del suo esercito, finiva i suoi giorni in solitudine completa: disteso sul letto, seguitava a congetturare piani grandiosi ai quali non s'interessava più nessuno. Come sempre, il suo linguaggio arido e tagliente deformava il suo pensiero: stentando enormemente a pronunciare le parole mi parlò del trionfo che gli si preparava a Roma. Negava la sconfitta così come negava la morte. Due giorni dopo, ebbe un secondo attacco. I miei conciliaboli ansiosi con Plotina, con Attiano ricominciarono. L'imperatrice, nella sua previdenza, aveva fatto elevare recentemente il mio vecchio amico alla posizione potentissima di prefetto del pretorio, ponendo così la guardia imperiale ai nostri ordini. Per fortuna, Matidia, che non lasciava la camera del malato, era tutta per noi: del resto, quella donna semplice e molle era come cera nelle mani di Plotina. Ma nessuno di noi osava rammentare all'imperatore che la questione della successione era tuttora insoluta. Forse, come Alessandro, aveva stabilito di non nominare da sé il proprio successore; forse, aveva assunto verso il partito di Quieto impegni noti a lui solo; o, più semplicemente, si rifiutava di prendere in considerazione la propria fine: allo stesso modo, in alcune famiglie si vedono vecchi ostinati morire senza aver fatto testamento. Non si tratta, per loro, di serbare fino all'ultimo i loro tesori, o il loro impero, dal quale le dita intorpidite si vanno già staccando, quanto piuttosto di non collocarsi troppo presto nella posizione di chi non ha più decisioni da prendere, sorprese da suscitare, minacce o promesse da fare ai vivi. Lo compiangevo: eravamo troppo diversi perché potesse trovare in me quel continuatore docile, vincolato in anticipo agli stessi metodi, persino agli stessi errori, che quasi sempre cerca disperatamente al letto di morte chi ha esercitato un'autorità assoluta. Ma il mondo, attorno a lui, era privo di uomini di Stato: io ero il solo che egli potesse prendere senza venir meno ai suoi doveri di buon funzionario e di grande sovrano; quel capo, abituato a esaminare attentamente lo stato di servizio dei suoi dipendenti, era quasi costretto ad accettarmi; e questa, del resto, era un'ottima ragione per odiarmi. Poco a poco, la sua salute si ristabilì quanto bastava per consentirgli di uscire dalla camera. Parlava d'intraprendere una nuova campagna; ma non ci credeva nemmeno lui. Crito, il medico, che temeva per lui il caldo eccessivo, riuscì finalmente a persuaderlo a imbarcarsi per Roma. La sera che precedette la sua partenza, mi fece chiamare a bordo della nave che doveva riportarlo in Italia, e mi nominò comandante in capo, in sua vece. Si impegnò fino a tanto: ma non era l'essenziale. Contrariamente agli ordini ricevuti, iniziai immediatamente, in tutta segretezza, trattative di pace con Osroe. Puntavo sul fatto che probabilmente non avrei avuto più da render conto all'imperatore. Non erano trascorsi dieci giorni, che fui destato nel cuore della notte da un messaggero: riconobbi subito un uomo di fiducia di Plotina. Mi recava due missive. Con una, ufficiale, mi s'informava che Traiano, non essendo in grado di sopportare il mare, era stato sbarcato a Selinunte, in Cilicia, dove giaceva gravemente infermo in casa d'un mercante. Una seconda lettera, segreta, m'annunciava la sua morte, che Plotina mi garantiva di tener nascosta il più a lungo possibile, offrendomi così il vantaggio di essere avvertito per primo. Partii immediatamente per Selinunte, dopo aver preso tutte le misure necessarie per essere sicuro delle guarnigioni siriache. Appena in cammino, un nuovo messo mi annunciò ufficialmente il decesso dell'imperatore. Il suo testamento, che mi designava a successore, era stato appena allora inviato a Roma, in mani sicure. Tutto quel che da dieci anni era stato febbrilmente bramato, vagheggiato, discusso o taciuto, si riduceva ormai a un messaggio di due righe, vergato in greco con mano ferma dalla scrittura minuta di una donna. Attiano, che era ad attendermi al molo di Selinunte, fu il primo ad apostrofarmi con il titolo d'imperatore. E qui, nell'intervallo tra lo sbarco del vecchio imperatore malato e la sua morte, s'inserisce una di quelle successioni di avvenimenti che mi sarà sempre impossibile ricostruire, e sulle quali tuttavia è fondato il mio destino. Quei pochi giorni trascorsi da Attiano e dalle donne in casa di quel mercante hanno deciso per sempre della mia esistenza, ma di essi ne sarà in eterno lo stesso che d'un certo pomeriggio sul Nilo: cioè non ne saprò mai nulla, precisamente perché mi sarebbe stato a cuore saperne tutto. L'ultimo dei pettegoli, a Roma, ha la SUA opinione su questi episodi della mia vita; e io, al riguardo, sono il meno informato degli uomini. I miei nemici hanno accusato Plotina di aver profittato dell'agonia dell'imperatore per far vergare dal morente le poche parole che mi lasciavano il potere. Denigratori ancor più grossolani hanno descritto un letto chiuso da cortine, alla luce incerta d'un lume, e il medico Crito che dettava le ultime volontà di Traiano con una voce che imitava quella del morto. Si è sottolineato il fatto che la sua ordinanza, Fedima, che mi odiava, e il cui silenzio i miei amici non avrebbero a nessun prezzo potuto comprare, molto opportunamente sia perito di febbri maligne l'indomani del decesso dell'imperatore. In questi aspetti di violenza e d'intrigo vi è qualcosa che colpisce l'immaginazione popolare; e persino la mia. Non mi dispiacerebbe affatto che pochi uomini onesti siano stati capaci di giungere sino al delitto per me, né che l'imperatrice sia stata trascinata a quel punto dalla sua dedizione. Ella conosceva i pericoli che comportava per lo Stato una decisione mancata: la onoro abbastanza per credere che abbia consentito davvero a perpetrare una frode necessaria, qualora ve l'abbiano spinta la saggezza, il buon senso, l'interesse pubblico e l'amicizia. In seguito, ho avuto tra le mani quel documento contestato dai miei avversari con tanto furore: non sono in grado di pronunciarmi pro o contro l'autenticità di quelle ultime parole d'un malato. Certo, preferisco supporre che Traiano in persona, sacrificando i propri pregiudizi personali prima di morire, abbia di sua volontà lasciato l'impero a colui che, dopotutto, giudicava il più degno. Ma bisogna pur confessare che, in questo caso, m'importava più il fine che i mezzi: l'essenziale è che l'uomo, giunto comunque al potere, in seguito abbia dimostrato che meritava di esercitarlo. Il corpo di Traiano fu cremato sulla spiaggia, poco dopo il mio arrivo, in attesa delle esequie trionfali che sarebbero state celebrate a Roma. Quasi nessuno presenziò a quella cerimonia estremamente semplice, che ebbe luogo all'alba, e fu solo l'estremo episodio delle lunghe cure domestiche rese dalle donne alla persona di Traiano. Matidia piangeva a calde lacrime; la vibrazione dell'aria attorno al rogo confondeva i tratti di Plotina. Calma, distante, leggermente consunta dalla febbre, ella restava come sempre visibilmente impenetrabile. Attiano e Crito vigilavano affinché tutto fosse consunto per bene. La piccola nube di fumo si dissolse nell'aria pallida di quel mattino senz'ombre. Nessuno dei miei amici riandò agli incidenti dei pochi giorni che avevano preceduto la morte dell'imperatore. Evidentemente, la loro parola d'ordine era di tacere; e la mia fu di non rivolgere domande pericolose. Quel giorno stesso, l'imperatrice vedova e i familiari s'imbarcarono per Roma. Io rientrai ad Antiochia, accompagnato lungo il cammino dalle acclamazioni delle mie legioni. Una calma straordinaria era scesa su di me: l'ambizione e la paura sembravano un incubo dileguato. Qualunque cosa avvenisse, ero stato sempre deciso a difendere fino all'ultimo le mie probabilità di diventare imperatore, ma l'adozione semplificava ogni cosa. La mia vita non mi preoccupava più: potevo nuovamente pensare al resto degli uomini.


2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (5) 2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (5)

La diffidenza di Traiano, o l'impossibilità di trovare qualcuno che potesse svolgere i miei compiti nelle retrovie, mi avrebbero trattenuto ad Antiochia: e io contavo su di essi per tenermi informato di tutto ciò che non avrei appreso dai bollettini. Qualora fosse avvenuto un disastro, essi avrebbero saputo guadagnarmi la fedeltà di una buona parte dell'esercito; i miei avversari avrebbero dovuto fare i conti con la presenza di quel vegliardo gottoso, che partiva soltanto per essermi utile, e di quella donna, capace di esigere da se stessa la dura resistenza d'un soldato. Li vidi allontanarsi: l'imperatore a cavallo, sicuro, d'una placidità ammirevole, il gruppo paziente delle donne in lettiga, le guardie pretoriane confuse tra gli esploratori numidi del temibile Lusio Quieto. All'arrivo del capo, l'esercito, che aveva svernato in riva all'Eufrate, si mise in marcia: **la campagna contro i Parti s'iniziava davvero. Le prime notizie furono lusinghiere: Babilonia conquistata, il Tigri traversato, Ctesifonte caduta. Come sempre, tutto cedeva alla maestria sorprendente dell'imperatore. Il principe dell'Arabia Saracena dichiarò la sua sottomissione aprendo così l'intero corso del Tigri alle flotte romane: l'imperatore s'imbarcò per il porto di Caraci, in fondo al Golfo Persico. Approdava ai lidi favolosi. Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Peggio ancora, dubitavo di me stesso: m'ero macchiato di quella bassa incredulità che ci impedisce di individuare la grandezza in quelli che conosciamo troppo da vicino. Avevo dimenticato che certi esseri spostano i limiti del destino, e mutano il corso della storia. Avevo bestemmiato contro il Genio dell'imperatore. Là, nel mio posto, mi rodevo: se per caso si fosse verificato l'impossibile, poteva darsi che io ne fossi escluso? Dato che tutto era sempre più agevole della saggezza, mi veniva voglia di tornare a indossare la cotta di maglia delle guerre sarmate, di utilizzare l'influenza di Plotina per farmi richiamare alle armi. Invidiavo al più umile soldato la polvere delle strade asiatiche, l'urto con le falangi corazzate persiane. Questa volta, il Senato decretò per l'imperatore il diritto di celebrare non già un trionfo, ma una serie intera di trionfi, che sarebbero durati quanto la sua vita. Feci io stesso quel che si doveva fare: ordinai feste, e salii sulla vetta del monte Cassio a compiere sacrifici.

Improvvisamente, l'incendio che covava in quella terra d'Oriente divampò dappertutto nello stesso istante. Qualche mercante ebreo si rifiutò di pagare l'imposta a Seleucia; immediatamente, Cirene si ribellò, e l'elemento orientale massacrò i Greci; le strade che portavano il grano egiziano fino alle nostre truppe furono interrotte da una banda di Zeloti di Gerusalemme; a Cipro, i residenti greci e romani furono catturati dalla plebaglia ebrea, che li costrinse a trucidarsi a vicenda combattendo da gladiatori. In Siria, riuscii a mantenere l'ordine, ma scorgevo una fiamma nell'occhio dei mendicanti accosciati alla soglia delle sinagoghe, un ghigno sommesso sulle labbra tumide dei cammellieri, un odio che in fin dei conti non meritavamo. Sin dall'inizio, Giudei e Arabi avevano fatto causa comune contro una guerra che minacciava di rovinare i loro traffici; ma Israele ne profittava per scagliarsi contro un mondo dal quale lo escludevano i suoi furori religiosi, la sua liturgia singolare, l'intransigenza del suo Dio. L'imperatore, rientrato in fretta a Babilonia, ordinò a Quieto di punire le città ribelli: Cirene, Edessa, Seleucia, le grandi metropoli elleniche dell'Oriente, furono abbandonate alle fiamme in punizione dei tradimenti meditati durante le soste delle carovane o macchinati nei quartieri ebrei. Più tardi, visitando città da riedificare, ho camminato sotto colonnati cadenti, tra lunghe file di statue infrante. L'imperatore Osroe, che aveva sobillato quelle rivolte, prese immediatamente l'offensiva: Abgar insorse e rientrò a Edessa, ormai in cenere; i nostri alleati armeni, sui quali Traiano aveva creduto di poter contare, prestarono man forte ai satrapi. L'imperatore si trovò bruscamente al centro d'un immenso campo di battaglia nel quale bisognava far fronte al nemico da ogni lato. Perdette l'inverno nell'assedio di Hatra, un nido d'aquile pressoché inespugnabile, situato in pieno deserto, che costò migliaia di morti al nostro esercito. La sua ostinazione assumeva sempre più la forma di coraggio personale: quell'uomo malato si rifiutava di lasciare la presa. Da Plotina sapevo che Traiano, benché avvertito da una leggera paralisi, si rifiutava di nominare il suo erede. Se questo imitatore di Alessandro fosse morto a sua volta di febbri o di intemperanze in qualche angolo malsano dell'Asia, la guerra contro lo straniero si sarebbe aggravata d'una guerra civile; tra i miei partigiani e quelli di Celso o di Palma sarebbe scoppiata una lotta cruenta. Improvvisamente, le notizie cessarono quasi del tutto;** la esile linea di comunicazione tra l'imperatore e me era tenuta soltanto dalle bande numide del mio nemico peggiore. Fu allora che incaricai il mio medico di segnarmi per la prima volta sul petto, con inchiostro rosso, il posto del cuore: se fosse avvenuto il peggio, non ci tenevo a cader vivo nelle mani di Lusio Quieto. Agli altri obblighi della mia carica si aggiungeva il difficile compito di pacificare le isole e le province limitrofe, ma il lavoro estenuante delle giornate non era nulla, in paragone delle lunghe notti insonni. Ero sopraffatto da tutti i problemi dell'impero ma il mio personale pesava di più. Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire. **

Ero prossimo ai quarant'anni. Se fossi morto a quel momento, di me non sarebbe rimasto null'altro che un nome, tra una serie di alti funzionari, e un'iscrizione in greco in onore dell'arconte di Atene. In seguito, tutte le volte che ho visto sparire un uomo giunto a metà della sua vita, del quale il pubblico ritiene di poter valutare esattamente i successi e le sconfitte, mi sono ricordato che a quell'età io non esistevo ancora se non per me e per pochissimi amici, i quali certamente in qualche momento dubitavano di me come ne dubitavo io stesso. Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte.

Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti. Sembravano vani i compiti più urgenti, dal momento che mi era vietato assumere, da supremo moderatore, le decisioni riguardanti l'avvenire; avevo bisogno d'esser certo che avrei regnato per ritrovare il gusto d'esser utile. Quel palazzo d'Antiochia, dove pochi anni dopo avrei vissuto momenti di ebbrezza, non era che un carcere per me, forse il carcere d'un condannato a morte. Inviai messaggi segreti agli oracoli, a Giove Ammone, a Castalia, al Giove Dolicheno. Feci venire dei maghi; giunsi fino a far prelevare nelle celle di Antiochia un criminale destinato alla crocifissione, al quale uno stregone tagliò la gola in mia presenza, nella speranza che la sua anima, sospesa un istante tra la vita e la morte, mi avrebbe svelato l'avvenire. Quel miserabile ci guadagnò di sfuggire a un'agonia più lunga, ma le domande rimasero senza risposta. La notte, mi trascinavo da una finestra all'altra, da un balcone all'altro, attraverso le sale di quel palazzo dalle mura ancora screpolate dal terremoto, tracciando calcoli astrologici sulle lastre di marmo, interrogando le tremule stelle. Ma i segni dell'avvenire andavano cercati sulla terra. Finalmente l'imperatore tolse l'assedio ad Hatra, e si decise a ritraversare l'Eufrate, che non si sarebbe dovuto attraversare mai. Il caldo già torrido, e le scorrerie degli arcieri parti resero ancor più disastroso quell'amaro ritorno. Una torrida sera di maggio, andai fuori le porte della città, in riva all'Oronte, a incontrare quell'esiguo gruppo provato dalle febbri, dall'angoscia, dalla stanchezza: l'imperatore malato, Attiano e le donne. Traiano volle percorrere a cavallo il tragitto sino alla soglia del palazzo: si sosteneva appena. Quell'uomo così pieno di vita sembrava un altro, per l'approssimarsi della morte. Crito e Matidia lo sostennero su per le scale, lo condussero a distendersi, presero posto al suo capezzale. Attiano e Plotina mi raccontarono alcuni incidenti della guerra, di cui non avevano potuto farmi cenno nei loro brevi messaggi. Uno di questi racconti mi commosse tanto da iscriversi per sempre tra i miei ricordi più intimi, i miei simboli personali. Non appena giunto a Caraci, l'imperatore stremato era andato a sedersi sulla ghiaia, a contemplare le torbide acque del Golfo Persico. Si era ancora all'epoca in cui non dubitava della vittoria; eppure, per la prima volta, fu sopraffatto dall'immensità del mondo, dal terrore della vecchiaia, da quello dei limiti che ci rinserrano tutti. Grosse lacrime rigarono il volto di quell'uomo che si credeva incapace di piangere. L'imperatore, che aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno, comprese che non si sarebbe imbarcato mai su quel mare tanto vagheggiato: l'India, la Battriana, tutto l'Oriente oscuro di cui s'era inebriato a distanza sarebbe restato per lui un nome, una visione. L'indomani, notizie funeste lo costrinsero a ripartire. Tutte le volte che il destino mi ha detto no, ho ricordato quelle lacrime versate una sera, su una sponda lontana, da un vecchio che forse per la prima volta guardava in faccia la sua vita.

Il giorno seguente, salii dall'imperatore. Mi sentivo filiale, fraterno verso di lui. Quell'uomo, che s'era sempre fatto una gloria di vivere e di pensare come un qualsiasi soldato del suo esercito, finiva i suoi giorni in solitudine completa: disteso sul letto, seguitava a congetturare piani grandiosi ai quali non s'interessava più nessuno. Come sempre, il suo linguaggio arido e tagliente deformava il suo pensiero: stentando enormemente a pronunciare le parole mi parlò del trionfo che gli si preparava a Roma. Negava la sconfitta così come negava la morte. Due giorni dopo, ebbe un secondo attacco. I miei conciliaboli ansiosi con Plotina, con Attiano ricominciarono. L'imperatrice, nella sua previdenza, aveva fatto elevare recentemente il mio vecchio amico alla posizione potentissima di prefetto del pretorio, ponendo così la guardia imperiale ai nostri ordini. Per fortuna, Matidia, che non lasciava la camera del malato, era tutta per noi: del resto, quella donna semplice e molle era come cera nelle mani di Plotina. Ma nessuno di noi osava rammentare all'imperatore che la questione della successione era tuttora insoluta. Forse, come Alessandro, aveva stabilito di non nominare da sé il proprio successore; forse, aveva assunto verso il partito di Quieto impegni noti a lui solo; o, più semplicemente, si rifiutava di prendere in considerazione la propria fine: allo stesso modo, in alcune famiglie si vedono vecchi ostinati morire senza aver fatto testamento. Non si tratta, per loro, di serbare fino all'ultimo i loro tesori, o il loro impero, dal quale le dita intorpidite si vanno già staccando, quanto piuttosto di non collocarsi troppo presto nella posizione di chi non ha più decisioni da prendere, sorprese da suscitare, minacce o promesse da fare ai vivi. Lo compiangevo: eravamo troppo diversi perché potesse trovare in me quel continuatore docile, vincolato in anticipo agli stessi metodi, persino agli stessi errori, che quasi sempre cerca disperatamente al letto di morte chi ha esercitato un'autorità assoluta. Ma il mondo, attorno a lui, era privo di uomini di Stato: io ero il solo che egli potesse prendere senza venir meno ai suoi doveri di buon funzionario e di grande sovrano; quel capo, abituato a esaminare attentamente lo stato di servizio dei suoi dipendenti, era quasi costretto ad accettarmi; e questa, del resto, era un'ottima ragione per odiarmi. Poco a poco, la sua salute si ristabilì quanto bastava per consentirgli di uscire dalla camera. Parlava d'intraprendere una nuova campagna; ma non ci credeva nemmeno lui. Crito, il medico, che temeva per lui il caldo eccessivo, riuscì finalmente a persuaderlo a imbarcarsi per Roma. La sera che precedette la sua partenza, mi fece chiamare a bordo della nave che doveva riportarlo in Italia, e mi nominò comandante in capo, in sua vece. Si impegnò fino a tanto: ma non era l'essenziale. Contrariamente agli ordini ricevuti, iniziai immediatamente, in tutta segretezza, trattative di pace con Osroe. Puntavo sul fatto che probabilmente non avrei avuto più da render conto all'imperatore. Non erano trascorsi dieci giorni, che fui destato nel cuore della notte da un messaggero: riconobbi subito un uomo di fiducia di Plotina. Mi recava due missive. Con una, ufficiale, mi s'informava che Traiano, non essendo in grado di sopportare il mare, era stato sbarcato a Selinunte, in Cilicia, dove giaceva gravemente infermo in casa d'un mercante. Una seconda lettera, segreta, m'annunciava la sua morte, che Plotina mi garantiva di tener nascosta il più a lungo possibile, offrendomi così il vantaggio di essere avvertito per primo. Partii immediatamente per Selinunte, dopo aver preso tutte le misure necessarie per essere sicuro delle guarnigioni siriache. Appena in cammino, un nuovo messo mi annunciò ufficialmente il decesso dell'imperatore. Il suo testamento, che mi designava a successore, era stato appena allora inviato a Roma, in mani sicure. Tutto quel che da dieci anni era stato febbrilmente bramato, vagheggiato, discusso o taciuto, si riduceva ormai a un messaggio di due righe, vergato in greco con mano ferma dalla scrittura minuta di una donna. Todo lo que durante diez años había sido febrilmente codiciado, acariciado, discutido o silenciado, ahora se reducía a un mensaje de dos líneas, escrito en griego con mano firme y minuciosa letra de mujer. Attiano, che era ad attendermi al molo di Selinunte, fu il primo ad apostrofarmi con il titolo d'imperatore. E qui, nell'intervallo tra lo sbarco del vecchio imperatore malato e la sua morte, s'inserisce una di quelle successioni di avvenimenti che mi sarà sempre impossibile ricostruire, e sulle quali tuttavia è fondato il mio destino. Quei pochi giorni trascorsi da Attiano e dalle donne in casa di quel mercante hanno deciso per sempre della mia esistenza, ma di essi ne sarà in eterno lo stesso che d'un certo pomeriggio sul Nilo: cioè non ne saprò mai nulla, precisamente perché mi sarebbe stato a cuore saperne tutto. L'ultimo dei pettegoli, a Roma, ha la SUA opinione su questi episodi della mia vita; e io, al riguardo, sono il meno informato degli uomini. I miei nemici hanno accusato Plotina di aver profittato dell'agonia dell'imperatore per far vergare dal morente le poche parole che mi lasciavano il potere. Denigratori ancor più grossolani hanno descritto un letto chiuso da cortine, alla luce incerta d'un lume, e il medico Crito che dettava le ultime volontà di Traiano con una voce che imitava quella del morto. Si è sottolineato il fatto che la sua ordinanza, Fedima, che mi odiava, e il cui silenzio i miei amici non avrebbero a nessun prezzo potuto comprare, molto opportunamente sia perito di febbri maligne l'indomani del decesso dell'imperatore. In questi aspetti di violenza e d'intrigo vi è qualcosa che colpisce l'immaginazione popolare; e persino la mia. Non mi dispiacerebbe affatto che pochi uomini onesti siano stati capaci di giungere sino al delitto per me, né che l'imperatrice sia stata trascinata a quel punto dalla sua dedizione. Ella conosceva i pericoli che comportava per lo Stato una decisione mancata: la onoro abbastanza per credere che abbia consentito davvero a perpetrare una frode necessaria, qualora ve l'abbiano spinta la saggezza, il buon senso, l'interesse pubblico e l'amicizia. In seguito, ho avuto tra le mani quel documento contestato dai miei avversari con tanto furore: non sono in grado di pronunciarmi pro o contro l'autenticità di quelle ultime parole d'un malato. Certo, preferisco supporre che Traiano in persona, sacrificando i propri pregiudizi personali prima di morire, abbia di sua volontà lasciato l'impero a colui che, dopotutto, giudicava il più degno. Ma bisogna pur confessare che, in questo caso, m'importava più il fine che i mezzi: l'essenziale è che l'uomo, giunto comunque al potere, in seguito abbia dimostrato che meritava di esercitarlo. Il corpo di Traiano fu cremato sulla spiaggia, poco dopo il mio arrivo, in attesa delle esequie trionfali che sarebbero state celebrate a Roma. Quasi nessuno presenziò a quella cerimonia estremamente semplice, che ebbe luogo all'alba, e fu solo l'estremo episodio delle lunghe cure domestiche rese dalle donne alla persona di Traiano. Matidia piangeva a calde lacrime; la vibrazione dell'aria attorno al rogo confondeva i tratti di Plotina. Calma, distante, leggermente consunta dalla febbre, ella restava come sempre visibilmente impenetrabile. Attiano e Crito vigilavano affinché tutto fosse consunto per bene. La piccola nube di fumo si dissolse nell'aria pallida di quel mattino senz'ombre. Nessuno dei miei amici riandò agli incidenti dei pochi giorni che avevano preceduto la morte dell'imperatore. Evidentemente, la loro parola d'ordine era di tacere; e la mia fu di non rivolgere domande pericolose. Quel giorno stesso, l'imperatrice vedova e i familiari s'imbarcarono per Roma. Io rientrai ad Antiochia, accompagnato lungo il cammino dalle acclamazioni delle mie legioni. Una calma straordinaria era scesa su di me: l'ambizione e la paura sembravano un incubo dileguato. Qualunque cosa avvenisse, ero stato sempre deciso a difendere fino all'ultimo le mie probabilità di diventare imperatore, ma l'adozione semplificava ogni cosa. La mia vita non mi preoccupava più: potevo nuovamente pensare al resto degli uomini.