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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 21

Parte 21

Dicembre avanzava, era tornata la neve, i campi dormivano abbandonati, i contadini non uscivano dal paese, le strade erano insolitamente animate. Quando calava la sera, sotto il fumo grigio dei camini, mosso e stracciato dal vento, per le vie buie, si sentiva un sussurrare, un rumore di passi, uno scambio alterno di voci, e i ragazzi, correndo a frotte, lanciavano nell'aria nera i primi rauchi suoni dei cupi-cupi.

Il cupo-cupo è uno strumento rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l'apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo. In mezzo alla pelle è, infisso un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra, in su e in giù, il bastone, si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro, come un monotono brontolio. Tutti i ragazzi, nella quindicina che precede il Natale, si costruivano un cupo-cupo, e andavano, in gruppi, cantando su quell'unica nota di accompagnamento, delle specie di nenie, su un solo motivo. Cantavano delle lunghe filastrocche senza senso, non prive di una certa grazia; ma soprattutto portavano, davanti alle porte delle case dei signori, serenate e complimenti improvvisati. In compenso, le persone lodate nel canto devono regalare una strenna, dei fichi secchi, delle uova, delle focacce, o qualche moneta. Appena scendevano le ombre, cominciavano i ritornelli, sempre uguali. L'aria era piena di quei suoni lamentosi e strascicati, di quelle voci infantili, sull'accento ritmico e grottesco dei cupi-cupi.

Sentivo di lontano:

Aggio cantato alla lucente stella Donna Caterina è una donna bella Sona cupille si voi sunà.

Aggio cantato dal fondo del core Il dottor Milillo è 'nu professore Sona cupille si voi sunà.

Aggio cantato sovra 'na forcina E donna Maria è 'na regina Sona cupille si voi sunà.

E così via, dinanzi a tutti gli usci, con un frastuono melanconico. Vennero anche da me, e cantarono una interminabile canzoncina, che finiva:

Aggio cantato sovra 'nu varcone E don Carlo è 'nu varone Sona cupille si voi sunà. Questi poveri canti, e il suono del cupo-cupo, risonavano nelle strade oscure, come il rumore del mare dentro il cavo di una conchiglia; si alzavano sotto le fredde stelle invernali, e si spegnevano nell'aria natalizia, piena dell'odore delle frittelle e di una melanconica festività. - Una volta venivano in paese, in questi giorni, i pastori, - mi diceva la Giulia. - Suonavano in chiesa, per Natale, con le loro zampogne, «Gesù Bambino è nato». Ma da molti anni hanno cambiato strada, e non ci passano più, da queste parti -. Veramente, un pastore venne, poco prima di Natale, con un suo ragazzo, e la zampogna, ma si fermò un giorno solo, per salutare certi suoi compagni, e non andò in chiesa. Lo trovai in casa dei suoi amici, dalla vecchia Rosano, la contadina madre del muratore, quella che era venuta a trovarmi da sola. C'era conversazione da lei, quella sera, e io, che passavo per la strada, fui invitato a entrare, e a bere il vino e a mangiare le focacce. Avevano sgombrato la stanza, e una ventina di giovani contadini e contadine, nipoti e parenti della vecchia, ballavano al flebile suono della zampogna. Era una specie di tarantella, i danzatori non si toccavano che la punta delle dita, girandosi attorno, come in una specie di ruota, o di corteggiamento cadenzato. Poi tutti si fermarono, e si fecero in mezzo alla stanza, tenendosi per mano, un giovane contadino e la sua fidanzata, la figlia della vecchia, una ragazza alta e robusta, dal viso rosato, che vedevo spesso passare per le strade con degli enormi pesi in equilibrio sul capo, sacchi di cemento, secchi pieni di mattoni, e perfino dei lunghi e grossi travi da soffitto, che portava come fossero fuscelli, senza reggerli con le mani: lavorava per suo fratello, il muratore. Tutti tacquero, e restarono a guardare; e la zampogna intonò una nuova nasale, singhiozzante, belante, animalesca tarantella. I due fidanzati avevano un senso naturale della danza; come di una sacra rappresentazione; cominciarono con passi guardinghi avvicinandosi e volgendosi repentinamente le spalle, aggirandosi in cerchi senza incontrarsi, battendo il piede in cadenza, con occhiate e gesti di ritrosia e di rifiuto; poi andarono accelerando i passi, sfiorandosi al passaggio, prendendosi per le mani, e ruotando come trottole; poi, su un ritmo sempre più rapido, i cerchi si strinsero, finché cominciarono a urtarsi, nel loro piroettare, con gran colpi dei fianchi; e si trovarono infine uno di faccia all'altro, danzando con le mani alla vita, come se la pantomima della schermaglia amorosa e dei simulati rifiuti fosse finita, e dovesse ora cominciare una danza d'amore. Ma qui tutti batterono le mani, la zampogna tacque e i ballerini, col respiro grosso, i visi rossi e gli occhi lucenti si sedettero con la compagnia. I bicchieri di vino passarono in giro, si parlò ancora un poco, al lume oscillante del fuoco del camino; poi lo zampognaro parti. Fu questo, che io sappia, l'unico ballo a Gagliano in tutto l'anno che ci restai.

E venne la vigilia di Natale. La terra era piena di neve e di abbandono. Il vento portava il funebre suono della campana, che pareva scendere dal cielo. Gli auguri e le benedizioni piovevano, al mio passaggio, dagli usci delle case. I bambini giravano a gruppi, per l'ultima questua dei cupi-cupi. I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati. Anch'io dovetti ricevere, quel giorno, bottiglie di olio e di vino, e uova, e canestrelli di fichi secchi, e i donatori si meravigliavano che io non li accettassi come una decima obbligatoria, ma che me ne schermissi, e facessi, in cambio, come potevo, qualche dono. Che strano signore ero io dunque, se non valeva per me la tradizionale inversione della favola dei Re Magi, e si poteva entrare a casa mia a mani vuote? Che quei potenti fossero venuti dall'Oriente, seguendo la stella, per portare 1e loro ricchezze al figlio di un falegname, era un segno della prossima fine del mondo. Ma qui, dove Cristo non era venuto, non s'erano mai visti neppure i tre Re.

Don Luigino mandò generosamente ad avvertire che quella sera, in segno di festa, avremmo potuto restar fuori di casa fino a tardi, ed assistere, se volevamo, alla messa di mezzanotte. A mezzanotte precisa io ero davanti alla chiesa, nella folla di contadini, di donne e di signori; e battevamo i piedi nella neve frusciante. Il cielo si era rasserenato, brillava qualche stella, Gesù Bambino stava per nascere. Ma la campana non suonava, la porta della chiesa era chiusa col catenaccio, e di don Trajella non si vedeva traccia. Aspettammo una mezz'ora davanti a quella porta sbarrata, sempre più impazienti. Che cosa era successo? Il prete era malato, o forse, come strillava don Luigino, era ubriaco? Alla fine il podestà si decise a mandare un ragazzo a casa del parroco, a chiamarlo. Di lì a qualche minuto si vide scendere dal vicolo don Trajella, con dei grandi stivaloni da neve, e una grossa chiave in mano: si avvicinò all'uscio, mormorando qualche scusa per il ritardo, diede un giro di chiave, spalancò la porta, e corse ad accendere i ceri sull'altare. Entrammo allora tutti in chiesa, e la messa cominciò, una povera messa affrettata, senza musiche e senza canti. Quando la messa fu finita, all'Ite missa est, don Trajella scese dall'altare, e, traversando le panche dove eravamo seduti, salì sul pulpito per pronunziare la sua predica.

- Fratelli carissimi! - cominciò. - Carissimi fratelli! Fratelli! - e qui subito si interruppe, e cominciò a frugare in tutte le tasche, balbettando fra i denti parole incomprensibili. Inforcò gli occhiali, se li tolse, li rimise sul naso, tirò fuori il fazzoletto, si asciugò il sudore, alzò gli occhi al cielo, li rivolse in basso all'uditorio, sospirò, si grattò la testa in segno di sommo imbarazzo, lanciò degli oh! e degli ah!, congiunse le mani, le disgiunse, mormorò un pater, e finalmente tacque, con l'aspetto di un uomo disperato. Un mormorio corse nella folla. Che cosa avveniva? Don Luigino si fece rosso in viso, e cominciò a stridere: - È ubriaco! La sera di Natale! - Fratelli carissimi! - ricominciò don Trajella dal pulpito, - ero venuto qui, con animo pastorale, per parlare un poco con voi, che siete il mio gregge dilettissimo, in occasione di questa Santa Festa; per portarvi la mia parola di Pastore amoroso, solliciti et benigni et studiosi pastoris. Avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l'avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L'avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo più, l'ho perduta; e non mi ricordo più di nulla. Come fare? Che cosa potrò dire a voi, miei fedeli, che aspettate da me la parola? Ahimè, le parole mi mancano! - E qui don Trajella tacque di nuovo, e rimase immobile, con gli occhi al soffitto, come assorto. In basso, tra le panche, i contadini aspettavano, incerti e incuriositi: ma don Luigino non si trattenne più, si alzò rabbioso: - È uno scandalo, e una profanazione della Casa di Dio. Fascisti, a me! - I contadini non sapevano chi guardare. Don Trajella, come scuotendosi dall'estasi, si era inginocchiato, rivolgendosi verso un crocifisso di legno, attaccato sul bordo del pulpito, e, con le mani unite in preghiera, diceva: - Gesù, Gesù mio, vedi in quale imbarazzo mi trovo, per i miei peccati. Aiutami tu, mio Signore! Fammi uscire da questo malo passo, Gesù! - Ed ecco, come toccato dalla grazia, il prete balzò in piedi; con una rapida mossa della mano afferrò un foglio di carta nascosto ai piedi del crocifisso, e gridò: - Miracolo! Miracolo! Gesù mi ha ascoltato! Gesù mi ha soccorso! Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio! Che cosa valevano le mie povere parole? Ascoltate, invece delle mie, le parole che vengono di lontano! - E cominciò a leggere il foglio del crocifisso. Ma don Luigino non l'ascoltava. Lanciato ormai in un freddo accesso d'ira e di sacra indignazione, continuava a gridare: - Fascisti, a me! È un sacrilegio! Ubriaco, in chiesa, la notte di Natale! A me! - E, facendo segno ai sette o otto balilla e avanguardisti della sua scuola perché lo seguissero, intonò «Faccetta nera, bella abissina». Il podestà e i ragazzi cantavano, ma don Trajella pareva non udirli, e continuava la sua lettura. Il foglio miracoloso era una lettera che veniva dall'Abissinia, di quel sergente gaglianese, allevato dai preti, che tutti conoscevano. - È la parola di uno di voi, di un figlio di questo paese, della più cara di tutte le mie pecorelle. La mia povera predica non valeva nulla, al confronto. Gesù, che me l'ha fatta trovare qui, ha fatto il miracolo. Sentite: «Si avvicina il Santo Natale, e il mio pensiero vola a Gagliano, e a tutti gli amici e i compagni di laggiù, che immagino radunati nella nostra piccola chiesetta ad ascoltare la Santa Messa. Qui noi combattiamo per portare la nostra Santa Religione a queste popolazioni infedeli, combattiamo per convertire alla vera Fede questi pagani, per portare la pace e la beatitudine eterna», ecc. ecc. - La lettera continuava per un pezzo su questo tono, e finiva con saluti per tutti, e particolarmente per molti del paese, che venivano chiamati a nome. I contadini ascoltavano compiaciuti l'ultraterreno messaggio africano. Don Trajella prese di qui lo spunto per la sua orazione, destreggiandosi tra i concetti di guerra e di pace. - Il Natale è la festa della pace, e noi siamo in guerra: ma, come dice così bene la lettera, questa guerra non è una guerra, ma un'azione di pace, per il trionfo della Croce che è la sola vera pace per gli uomini; - e così via. La predica si perdeva nel pandemonio: Don Luigino e i suoi ragazzi da «Faccetta nera» erano passati a «Giovinezza» e finita «Giovinezza» avevano riattaccato «Faccetta nera». Visto che i contadini non lo seguivano, e che il prete parlava, fingendo di non accorgersi del chiasso, il podestà si avviò alla porta, gridando: - Fuori dalla chiesa! Questo posto è profanato! Fascisti, a me! - e seguito dai suoi balilla e avanguardisti, e da qualcuno dei suoi amici, uscì, e si mise, col suo codazzo, a girare attorno alla chiesa, cantando alternativamente «Faccetta nera» e «Giovinezza», e così continuò per tutta la durata della predica. Don Trajella intanto tirava diritto, ed era il solo, nella chiesa, a non parere a disagio: aveva soltanto, contro il solito, due macchie rosse ai pomelli, nel viso pallidissimo. - Pax in terra bominibus bonae voluntatis, figli miei dilettissimi. Pax in terra, questo è il messaggio divino, che noi dobbiamo ascoltare con particolare compunzione e devozione in questo anno di guerra. Il divino Infante è nato proprio in quest'ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus, e perciò noi dobbiamo purificarci, per sentircene degni, dobbiamo fare un esame di coscienza, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il nostro dovere, per essere degni di ascoltare con purezza di cuore il Verbo di Dio. Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non battezzate i vostri figli, non vi confessate, non vi comunicate, non avete rispetto per i ministri del Signore, non date a Dio quello che è di Dio, e perciò la pace non è con voi. Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire? Pax in terra hominibus vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l'usanza, al vostro pastore. Invece non l'avete fatto, perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonae voluntatis, non avete la volontà buona, così non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensateci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagategli i debiti per i suoi terreni, che glieli dovete dall'anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, e ispiri la pace nei vostri cuori; se volete che la pace torni nel mondo, e finisca la guerra che vi fa trepidare per la sorte dei vostri cari e della nostra Patria diletta -. E così via di questo passo, con scherzi, rivendicazioni, e citazioni latine. «Faccetta nera» risonava dalla porta, sottolineando i passaggi dell'orazione, mentre il ragazzo campanaio, a un cenno del prete, si era attaccato alla campana, cercando di coprire, con quegli squilli da morto, i canti del podestà. In questo chiasso, fra la generale costernazione, la predica ebbe finalmente termine. Don Trajella scese dal pulpito, e senza voltarsi a destra né a sinistra uscì dalla chiesa, e noi tutti lo seguimmo. Fuori, don Luigino continuava a cantare. Un contadino col mantello nero aspettava davanti alla chiesa, tenendo per la cavezza un mulo sellato. Era venuto da Gaglianello per prendere il prete, che doveva dire anche là la messa di Natale. Don Trajella chiuse la porta della chiesa, si mise la chiave in tasca, e, aiutato dal contadino, si arrampicò sul mulo e partì. Doveva fare due ore di strada, sul sentiero tra i burroni, nella neve. A Gaglianello Gesù Bambino nacque, quell'anno, verso le quattro del mattino. Don Trajella ripeté là il suo miracolo, e poiché non c'era, in quella frazione sperduta, né podestà né signori, tutto andò benissimo, e i contadini furono entusiasti della predica, e, una volta tanto, il povero prete venne trattato con i dovuti onori, ebbe da bere quanto volle, si ubriacò, questa volta davvero, e non tornò a Gagliano che tre giorni dopo. Io, che ero rimasto con gli altri davanti alla chiesa, mi sottrassi in fretta alla compagnia, che commentava l'accaduto. Tutti i signori, tranne il dottor Milillo che scuoteva la testa, disgustato del nipote, davano ragione al podestà, e si intendevano per denunciare il prete alle autorità. - Finalmente ce ne sbarazzeremo! - strillava don Luigino, - questa è la volta buona! - Nessuno saprà mai se don Trajella avesse preparato il miracolo, con la stendhaliana messa in scena del ritardo, e della perdita della predica scritta, e dell'imbarazzo sul pulpito, soltanto per un pio fine di edificazione, per fare, con quella astuzia oratoria, maggior effetto sull'animo degli ascoltatori, o se non avesse anche, nello stesso tempo, voluto prendersi argutamente gioco dei suoi nemici, e magari anche di se stesso, e divertirsi alle spalle di quella gente che lo odiava e da cui si sentiva perseguitato. Certo, non era ubriaco, o, se anche aveva bevuto un po' più del solito, questo gli aveva aggiunto, anziché tolto, lucidezza e presenza di spirito. Ma don Luigino era convinto che il prete era ubriaco, che il discorso era stato veramente smarrito, e che tutto ciò era uno scandalo; e questa fu la rovina del povero vecchio prete. L'indomani mattina, per quanto fosse festa, e Natale, già partivano le denunzie: lettere al Prefetto, alla Questura e al Vescovo. Vennero poi, qualche tempo dopo, due preti di Tricarico mandati dal Vescovo per fare un'inchiesta. Credo che tutti coloro che essi interrogarono deposero contro il prete: io solo cercai di scusarlo, ma non avevo alcuna autorità. E il Vescovo si decise a imporre a don Trajella di andare ad abitare nella sua vera sede, a Gaglianello, e gli vietò di presentarsi al concorso per la parrocchia di Gagliano. Ma questo avvenne poi.

Quella mattina, il cielo era grigio e freddo, e i contadini dormirono fino a tardi. I camini fumavano più del solito: forse qualche pezzo di carne di capretto cuoceva nelle pentole, fra gli alari. Era la più grande festa dell'anno, un giorno lieto di pace simulata e di supposta ricchezza. Era soprattutto il giorno nel quale si possono dire e fare cose impossibili in ogni altro tempo dell'anno. La Giulia arrivò a casa mia tutta ripulita, con lo scialle smacchiato, il velo stirato di fresco, e il bambino meno stracciato del solito, che trascinava i grossi scarponi di un altro ragazzo più vecchio di lui di qualche anno. Io la aspettavo con impazienza: c'era tutta una parte, e la più importante, della sua sapienza stregonesca, che avrebbe potuto comunicarmi soltanto quest'oggi. La Santarcangelese mi aveva insegnato ogni specie di sortilegi e di formule magiche, per fare innamorare e per guarire le malattie: ma aveva sempre rifiutato di farmi sapere gli incanti di morte, quelli che possono far ammalare e morire. - Soltanto a Natale si possono dire, e in grandissimo segreto, e con giuramento di non ripeterli a nessun altro, se non in quello stesso giorno, che è un giorno santo. In tutti gli altri giorni dell'anno, è peccato mortale -. Ma dovetti lo stesso pregarla e ripregarla, e insistere perché mi mettesse nel segreto: la Giulia si schermiva perché, in fondo, anche di Natale la cosa non è del tutto innocente. Dovetti solennemente giurarle che poteva fidarsi della mia discrezione, e che il diavolo non avrebbe riso di noi; finalmente si indusse a iniziarmi alle terribili formule che, per sola virtù di parola, attaccano un uomo, a poco a poco, in ogni sua parte viva, e lo colpiscono e lo disseccano e inaridiscono, fino a portarlo alla tomba. Riferirò qui qualcuno di quegli spaventosi esorcismi, che sarebbero forse di tanta utilità, in questi tempi, al lettore? Ahimè, no. Non è Natale, e sono legato da un giuramento. Arrivammo alla fine dell'anno. Volli attendere la mezzanotte, secondo l'usanza. Ero solo, nella mia cucina, davanti a un fuoco che sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa avrei potuto brindare? Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il tempo non scorre. Così finì, in un momento indeterminato, l'anno 1935, quest'anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole.


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Dicembre avanzava, era tornata la neve, i campi dormivano abbandonati, i contadini non uscivano dal paese, le strade erano insolitamente animate. Quando calava la sera, sotto il fumo grigio dei camini, mosso e stracciato dal vento, per le vie buie, si sentiva un sussurrare, un rumore di passi, uno scambio alterno di voci, e i ragazzi, correndo a frotte, lanciavano nell'aria nera i primi rauchi suoni dei cupi-cupi.

Il cupo-cupo è uno strumento rudimentale, fatto di una pentola o di una scatola di latta, con l'apertura superiore chiusa da una pelle tesa come un tamburo. In mezzo alla pelle è, infisso un bastoncello di legno. Soffregando con la mano destra, in su e in giù, il bastone, si ottiene un suono basso, tremolante, oscuro, come un monotono brontolio. Tutti i ragazzi, nella quindicina che precede il Natale, si costruivano un cupo-cupo, e andavano, in gruppi, cantando su quell'unica nota di accompagnamento, delle specie di nenie, su un solo motivo. Cantavano delle lunghe filastrocche senza senso, non prive di una certa grazia; ma soprattutto portavano, davanti alle porte delle case dei signori, serenate e complimenti improvvisati. In compenso, le persone lodate nel canto devono regalare una strenna, dei fichi secchi, delle uova, delle focacce, o qualche moneta. Appena scendevano le ombre, cominciavano i ritornelli, sempre uguali. L'aria era piena di quei suoni lamentosi e strascicati, di quelle voci infantili, sull'accento ritmico e grottesco dei cupi-cupi.

Sentivo di lontano:

Aggio cantato alla lucente stella Donna Caterina è una donna bella Sona cupille si voi sunà.

Aggio cantato dal fondo del core Il dottor Milillo è 'nu professore Sona cupille si voi sunà.

Aggio cantato sovra 'na forcina E donna Maria è 'na regina Sona cupille si voi sunà.

E così via, dinanzi a tutti gli usci, con un frastuono melanconico. Vennero anche da me, e cantarono una interminabile canzoncina, che finiva:

Aggio cantato sovra 'nu varcone E don Carlo è 'nu varone Sona cupille si voi sunà. Questi poveri canti, e il suono del cupo-cupo, risonavano nelle strade oscure, come il rumore del mare dentro il cavo di una conchiglia; si alzavano sotto le fredde stelle invernali, e si spegnevano nell'aria natalizia, piena dell'odore delle frittelle e di una melanconica festività. - Una volta venivano in paese, in questi giorni, i pastori, - mi diceva la Giulia. - Suonavano in chiesa, per Natale, con le loro zampogne, «Gesù Bambino è nato». Ma da molti anni hanno cambiato strada, e non ci passano più, da queste parti -. Veramente, un pastore venne, poco prima di Natale, con un suo ragazzo, e la zampogna, ma si fermò un giorno solo, per salutare certi suoi compagni, e non andò in chiesa. Lo trovai in casa dei suoi amici, dalla vecchia Rosano, la contadina madre del muratore, quella che era venuta a trovarmi da sola. C'era conversazione da lei, quella sera, e io, che passavo per la strada, fui invitato a entrare, e a bere il vino e a mangiare le focacce. Avevano sgombrato la stanza, e una ventina di giovani contadini e contadine, nipoti e parenti della vecchia, ballavano al flebile suono della zampogna. Era una specie di tarantella, i danzatori non si toccavano che la punta delle dita, girandosi attorno, come in una specie di ruota, o di corteggiamento cadenzato. Poi tutti si fermarono, e si fecero in mezzo alla stanza, tenendosi per mano, un giovane contadino e la sua fidanzata, la figlia della vecchia, una ragazza alta e robusta, dal viso rosato, che vedevo spesso passare per le strade con degli enormi pesi in equilibrio sul capo, sacchi di cemento, secchi pieni di mattoni, e perfino dei lunghi e grossi travi da soffitto, che portava come fossero fuscelli, senza reggerli con le mani: lavorava per suo fratello, il muratore. Tutti tacquero, e restarono a guardare; e la zampogna intonò una nuova nasale, singhiozzante, belante, animalesca tarantella. I due fidanzati avevano un senso naturale della danza; come di una sacra rappresentazione; cominciarono con passi guardinghi avvicinandosi e volgendosi repentinamente le spalle, aggirandosi in cerchi senza incontrarsi, battendo il piede in cadenza, con occhiate e gesti di ritrosia e di rifiuto; poi andarono accelerando i passi, sfiorandosi al passaggio, prendendosi per le mani, e ruotando come trottole; poi, su un ritmo sempre più rapido, i cerchi si strinsero, finché cominciarono a urtarsi, nel loro piroettare, con gran colpi dei fianchi; e si trovarono infine uno di faccia all'altro, danzando con le mani alla vita, come se la pantomima della schermaglia amorosa e dei simulati rifiuti fosse finita, e dovesse ora cominciare una danza d'amore. Ma qui tutti batterono le mani, la zampogna tacque e i ballerini, col respiro grosso, i visi rossi e gli occhi lucenti si sedettero con la compagnia. I bicchieri di vino passarono in giro, si parlò ancora un poco, al lume oscillante del fuoco del camino; poi lo zampognaro parti. Fu questo, che io sappia, l'unico ballo a Gagliano in tutto l'anno che ci restai.

E venne la vigilia di Natale. La terra era piena di neve e di abbandono. Il vento portava il funebre suono della campana, che pareva scendere dal cielo. Gli auguri e le benedizioni piovevano, al mio passaggio, dagli usci delle case. I bambini giravano a gruppi, per l'ultima questua dei cupi-cupi. I contadini e le donne andavano attorno, portando i regali alle case dei signori; qui è uso antico che i poveri rendano omaggio ai ricchi, e rechino i doni, che vengono accolti come cosa dovuta, con sufficienza, e non ricambiati. Anch'io dovetti ricevere, quel giorno, bottiglie di olio e di vino, e uova, e canestrelli di fichi secchi, e i donatori si meravigliavano che io non li accettassi come una decima obbligatoria, ma che me ne schermissi, e facessi, in cambio, come potevo, qualche dono. Che strano signore ero io dunque, se non valeva per me la tradizionale inversione della favola dei Re Magi, e si poteva entrare a casa mia a mani vuote? Che quei potenti fossero venuti dall'Oriente, seguendo la stella, per portare 1e loro ricchezze al figlio di un falegname, era un segno della prossima fine del mondo. Ma qui, dove Cristo non era venuto, non s'erano mai visti neppure i tre Re.

Don Luigino mandò generosamente ad avvertire che quella sera, in segno di festa, avremmo potuto restar fuori di casa fino a tardi, ed assistere, se volevamo, alla messa di mezzanotte. A mezzanotte precisa io ero davanti alla chiesa, nella folla di contadini, di donne e di signori; e battevamo i piedi nella neve frusciante. Il cielo si era rasserenato, brillava qualche stella, Gesù Bambino stava per nascere. Ma la campana non suonava, la porta della chiesa era chiusa col catenaccio, e di don Trajella non si vedeva traccia. Aspettammo una mezz'ora davanti a quella porta sbarrata, sempre più impazienti. Che cosa era successo? Il prete era malato, o forse, come strillava don Luigino, era ubriaco? Alla fine il podestà si decise a mandare un ragazzo a casa del parroco, a chiamarlo. Di lì a qualche minuto si vide scendere dal vicolo don Trajella, con dei grandi stivaloni da neve, e una grossa chiave in mano: si avvicinò all'uscio, mormorando qualche scusa per il ritardo, diede un giro di chiave, spalancò la porta, e corse ad accendere i ceri sull'altare. Entrammo allora tutti in chiesa, e la messa cominciò, una povera messa affrettata, senza musiche e senza canti. Quando la messa fu finita, all'Ite missa est, don Trajella scese dall'altare, e, traversando le panche dove eravamo seduti, salì sul pulpito per pronunziare la sua predica.

- Fratelli carissimi! - cominciò. - Carissimi fratelli! Fratelli! - e qui subito si interruppe, e cominciò a frugare in tutte le tasche, balbettando fra i denti parole incomprensibili. Inforcò gli occhiali, se li tolse, li rimise sul naso, tirò fuori il fazzoletto, si asciugò il sudore, alzò gli occhi al cielo, li rivolse in basso all'uditorio, sospirò, si grattò la testa in segno di sommo imbarazzo, lanciò degli oh! e degli ah!, congiunse le mani, le disgiunse, mormorò un pater, e finalmente tacque, con l'aspetto di un uomo disperato. Un mormorio corse nella folla. Che cosa avveniva? Don Luigino si fece rosso in viso, e cominciò a stridere: - È ubriaco! La sera di Natale! - Fratelli carissimi! - ricominciò don Trajella dal pulpito, - ero venuto qui, con animo pastorale, per parlare un poco con voi, che siete il mio gregge dilettissimo, in occasione di questa Santa Festa; per portarvi la mia parola di Pastore amoroso, solliciti et benigni et studiosi pastoris. Avevo preparato una predica veramente, mi sia concesso di dirlo con ogni umiltà, bellissima: l'avevo scritta, per leggerla, perché non ho molta memoria. L'avevo messa in tasca. E ora, ahimè, non la trovo più, l'ho perduta; e non mi ricordo più di nulla. Come fare? Che cosa potrò dire a voi, miei fedeli, che aspettate da me la parola? Ahimè, le parole mi mancano! - E qui don Trajella tacque di nuovo, e rimase immobile, con gli occhi al soffitto, come assorto. In basso, tra le panche, i contadini aspettavano, incerti e incuriositi: ma don Luigino non si trattenne più, si alzò rabbioso: - È uno scandalo, e una profanazione della Casa di Dio. Fascisti, a me! - I contadini non sapevano chi guardare. Don Trajella, come scuotendosi dall'estasi, si era inginocchiato, rivolgendosi verso un crocifisso di legno, attaccato sul bordo del pulpito, e, con le mani unite in preghiera, diceva: - Gesù, Gesù mio, vedi in quale imbarazzo mi trovo, per i miei peccati. Aiutami tu, mio Signore! Fammi uscire da questo malo passo, Gesù! - Ed ecco, come toccato dalla grazia, il prete balzò in piedi; con una rapida mossa della mano afferrò un foglio di carta nascosto ai piedi del crocifisso, e gridò: - Miracolo! Miracolo! Gesù mi ha ascoltato! Gesù mi ha soccorso! Avevo perduto la mia predica, e mi ha fatto trovare di meglio! Che cosa valevano le mie povere parole? Ascoltate, invece delle mie, le parole che vengono di lontano! - E cominciò a leggere il foglio del crocifisso. Ma don Luigino non l'ascoltava. Lanciato ormai in un freddo accesso d'ira e di sacra indignazione, continuava a gridare: - Fascisti, a me! È un sacrilegio! Ubriaco, in chiesa, la notte di Natale! A me! - E, facendo segno ai sette o otto balilla e avanguardisti della sua scuola perché lo seguissero, intonò «Faccetta nera, bella abissina». Il podestà e i ragazzi cantavano, ma don Trajella pareva non udirli, e continuava la sua lettura. Il foglio miracoloso era una lettera che veniva dall'Abissinia, di quel sergente gaglianese, allevato dai preti, che tutti conoscevano. - È la parola di uno di voi, di un figlio di questo paese, della più cara di tutte le mie pecorelle. La mia povera predica non valeva nulla, al confronto. Gesù, che me l'ha fatta trovare qui, ha fatto il miracolo. Sentite: «Si avvicina il Santo Natale, e il mio pensiero vola a Gagliano, e a tutti gli amici e i compagni di laggiù, che immagino radunati nella nostra piccola chiesetta ad ascoltare la Santa Messa. Qui noi combattiamo per portare la nostra Santa Religione a queste popolazioni infedeli, combattiamo per convertire alla vera Fede questi pagani, per portare la pace e la beatitudine eterna», ecc. ecc. - La lettera continuava per un pezzo su questo tono, e finiva con saluti per tutti, e particolarmente per molti del paese, che venivano chiamati a nome. I contadini ascoltavano compiaciuti l'ultraterreno messaggio africano. Don Trajella prese di qui lo spunto per la sua orazione, destreggiandosi tra i concetti di guerra e di pace. - Il Natale è la festa della pace, e noi siamo in guerra: ma, come dice così bene la lettera, questa guerra non è una guerra, ma un'azione di pace, per il trionfo della Croce che è la sola vera pace per gli uomini; - e così via. La predica si perdeva nel pandemonio: Don Luigino e i suoi ragazzi da «Faccetta nera» erano passati a «Giovinezza» e finita «Giovinezza» avevano riattaccato «Faccetta nera». Visto che i contadini non lo seguivano, e che il prete parlava, fingendo di non accorgersi del chiasso, il podestà si avviò alla porta, gridando: - Fuori dalla chiesa! Questo posto è profanato! Fascisti, a me! - e seguito dai suoi balilla e avanguardisti, e da qualcuno dei suoi amici, uscì, e si mise, col suo codazzo, a girare attorno alla chiesa, cantando alternativamente «Faccetta nera» e «Giovinezza», e così continuò per tutta la durata della predica. Don Trajella intanto tirava diritto, ed era il solo, nella chiesa, a non parere a disagio: aveva soltanto, contro il solito, due macchie rosse ai pomelli, nel viso pallidissimo. - Pax in terra bominibus bonae voluntatis, figli miei dilettissimi. Pax in terra, questo è il messaggio divino, che noi dobbiamo ascoltare con particolare compunzione e devozione in questo anno di guerra. Il divino Infante è nato proprio in quest'ora per portare questa parola di pace. Pax in terra hominibus, e perciò noi dobbiamo purificarci, per sentircene degni, dobbiamo fare un esame di coscienza, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto il nostro dovere, per essere degni di ascoltare con purezza di cuore il Verbo di Dio. Ma voi siete malvagi, siete peccatori, voi non venite mai in chiesa, non fate le devozioni, cantate canzonacce, bestemmiate, non battezzate i vostri figli, non vi confessate, non vi comunicate, non avete rispetto per i ministri del Signore, non date a Dio quello che è di Dio, e perciò la pace non è con voi. Pax in terra hominibus: voi non sapete il latino. Che cosa vuol dire? Pax in terra hominibus vuol dire che oggi, la vigilia di Natale, voi avreste dovuto portare un capretto in dono, secondo l'usanza, al vostro pastore. Invece non l'avete fatto, perché siete dei miscredenti; e poiché non siete bonae voluntatis, non avete la volontà buona, così non avete la pace, e la benedizione del Signore. Pensateci dunque, portate al vostro parroco il capretto, pagategli i debiti per i suoi terreni, che glieli dovete dall'anno passato, se volete che Dio vi guardi con misericordia, vi tenga la sua mano sul capo, e ispiri la pace nei vostri cuori; se volete che la pace torni nel mondo, e finisca la guerra che vi fa trepidare per la sorte dei vostri cari e della nostra Patria diletta -. E così via di questo passo, con scherzi, rivendicazioni, e citazioni latine. «Faccetta nera» risonava dalla porta, sottolineando i passaggi dell'orazione, mentre il ragazzo campanaio, a un cenno del prete, si era attaccato alla campana, cercando di coprire, con quegli squilli da morto, i canti del podestà. In questo chiasso, fra la generale costernazione, la predica ebbe finalmente termine. Don Trajella scese dal pulpito, e senza voltarsi a destra né a sinistra uscì dalla chiesa, e noi tutti lo seguimmo. Fuori, don Luigino continuava a cantare. Un contadino col mantello nero aspettava davanti alla chiesa, tenendo per la cavezza un mulo sellato. Era venuto da Gaglianello per prendere il prete, che doveva dire anche là la messa di Natale. Don Trajella chiuse la porta della chiesa, si mise la chiave in tasca, e, aiutato dal contadino, si arrampicò sul mulo e partì. Doveva fare due ore di strada, sul sentiero tra i burroni, nella neve. A Gaglianello Gesù Bambino nacque, quell'anno, verso le quattro del mattino. Don Trajella ripeté là il suo miracolo, e poiché non c'era, in quella frazione sperduta, né podestà né signori, tutto andò benissimo, e i contadini furono entusiasti della predica, e, una volta tanto, il povero prete venne trattato con i dovuti onori, ebbe da bere quanto volle, si ubriacò, questa volta davvero, e non tornò a Gagliano che tre giorni dopo. Io, che ero rimasto con gli altri davanti alla chiesa, mi sottrassi in fretta alla compagnia, che commentava l'accaduto. I, who had remained with the others in front of the church, hurriedly slipped away from the company, which was commenting on what had happened. Tutti i signori, tranne il dottor Milillo che scuoteva la testa, disgustato del nipote, davano ragione al podestà, e si intendevano per denunciare il prete alle autorità. - Finalmente ce ne sbarazzeremo! - strillava don Luigino, - questa è la volta buona! - Nessuno saprà mai se don Trajella avesse preparato il miracolo, con la stendhaliana messa in scena del ritardo, e della perdita della predica scritta, e dell'imbarazzo sul pulpito, soltanto per un pio fine di edificazione, per fare, con quella astuzia oratoria, maggior effetto sull'animo degli ascoltatori, o se non avesse anche, nello stesso tempo, voluto prendersi argutamente gioco dei suoi nemici, e magari anche di se stesso, e divertirsi alle spalle di quella gente che lo odiava e da cui si sentiva perseguitato. - No one will ever know if Don Trajella had prepared the miracle, with the Stendhalian staging of the delay, and the loss of the written sermon, and the embarrassment in the pulpit, only for a pious edification purpose, to make, with that oratorical shrewdness , greater effect on the soul of the listeners, or if he hadn't also, at the same time, wanted to wittily make fun of his enemies, and perhaps even of himself, and amuse himself at the expense of those people who hated him and by whom he felt persecuted . Certo, non era ubriaco, o, se anche aveva bevuto un po' più del solito, questo gli aveva aggiunto, anziché tolto, lucidezza e presenza di spirito. Ma don Luigino era convinto che il prete era ubriaco, che il discorso era stato veramente smarrito, e che tutto ciò era uno scandalo; e questa fu la rovina del povero vecchio prete. L'indomani mattina, per quanto fosse festa, e Natale, già partivano le denunzie: lettere al Prefetto, alla Questura e al Vescovo. Vennero poi, qualche tempo dopo, due preti di Tricarico mandati dal Vescovo per fare un'inchiesta. Credo che tutti coloro che essi interrogarono deposero contro il prete: io solo cercai di scusarlo, ma non avevo alcuna autorità. E il Vescovo si decise a imporre a don Trajella di andare ad abitare nella sua vera sede, a Gaglianello, e gli vietò di presentarsi al concorso per la parrocchia di Gagliano. Ma questo avvenne poi.

Quella mattina, il cielo era grigio e freddo, e i contadini dormirono fino a tardi. I camini fumavano più del solito: forse qualche pezzo di carne di capretto cuoceva nelle pentole, fra gli alari. Era la più grande festa dell'anno, un giorno lieto di pace simulata e di supposta ricchezza. Era soprattutto il giorno nel quale si possono dire e fare cose impossibili in ogni altro tempo dell'anno. La Giulia arrivò a casa mia tutta ripulita, con lo scialle smacchiato, il velo stirato di fresco, e il bambino meno stracciato del solito, che trascinava i grossi scarponi di un altro ragazzo più vecchio di lui di qualche anno. Io la aspettavo con impazienza: c'era tutta una parte, e la più importante, della sua sapienza stregonesca, che avrebbe potuto comunicarmi soltanto quest'oggi. I waited for her impatiently: there was a whole part, and the most important, of her witchcraft knowledge, which she could only communicate to me today. La Santarcangelese mi aveva insegnato ogni specie di sortilegi e di formule magiche, per fare innamorare e per guarire le malattie: ma aveva sempre rifiutato di farmi sapere gli incanti di morte, quelli che possono far ammalare e morire. - Soltanto a Natale si possono dire, e in grandissimo segreto, e con giuramento di non ripeterli a nessun altro, se non in quello stesso giorno, che è un giorno santo. In tutti gli altri giorni dell'anno, è peccato mortale -. Ma dovetti lo stesso pregarla e ripregarla, e insistere perché mi mettesse nel segreto: la Giulia si schermiva perché, in fondo, anche di Natale la cosa non è del tutto innocente. Dovetti solennemente giurarle che poteva fidarsi della mia discrezione, e che il diavolo non avrebbe riso di noi; finalmente si indusse a iniziarmi alle terribili formule che, per sola virtù di parola, attaccano un uomo, a poco a poco, in ogni sua parte viva, e lo colpiscono e lo disseccano e inaridiscono, fino a portarlo alla tomba. Riferirò qui qualcuno di quegli spaventosi esorcismi, che sarebbero forse di tanta utilità, in questi tempi, al lettore? Ahimè, no. Non è Natale, e sono legato da un giuramento. Arrivammo alla fine dell'anno. Volli attendere la mezzanotte, secondo l'usanza. Ero solo, nella mia cucina, davanti a un fuoco che sfriggeva e soffiava e cigolava, mentre fuori urlava la tempesta di vento e di neve. Avevo un bicchiere di vino, ma a che cosa avrei potuto brindare? Il mio orologio si era fermato, e nessun rintocco di fuori poteva giungermi e indicarmi il passare del tempo, dove il tempo non scorre. Così finì, in un momento indeterminato, l'anno 1935, quest'anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole.