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Uno, nessuno e centomila - Pirandello, LIBRO SETTIMO (1)

LIBRO SETTIMO (1)

I. Complicazione

Fui invitato la mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa, l'amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, cosí di passata. M'aspettavo che qualcuno cercasse di mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca, non direttamente da parte di mia moglie; già che l'unico ostacolo da rimuovere era la mia intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla. Bastava ch'io dicessi ad Anna Rosa d'esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione sarebbe avvenuta senz'altro. Che Anna Rosa si fosse preso l'incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile. Sapevo da Dida che la sua amichetta aveva rifiutato parecchi matrimonii cosí detti vantaggiosi per disprezzo del danaro, attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me (voglio dire il figlio d'un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio "vantaggioso". Per questo "vantaggio" da salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l'avvocato piú adatto. Era da ammettere piuttosto il contrario: che Dida avesse ricorso a lei per aiuto, cioè per farmi sapere che il padre, d'accordo con gli altri soci, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io non recedevo dall'intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi parve ammissiblle neppur questo.

Andai pertanto a quell'invito con una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.

II. Primo avvertimento

Conoscevo poco Anna Rosa. L'avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano, piú per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati cosí chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m'era mai sorto d'intrattenermi a parlare con lei. Non ero mai stato a casa sua.

Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badía Grande: mura d'antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s'affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch'essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, cosí le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un altro, mezze matte.

Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m'aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badía, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d'essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina. Tutto questo mistero mi stupí. E sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d'andare. Per quanto mi fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza di quel convegno lassu alla Badía in un parlatorietto di suora.

Ogni nesso tra la mia futile disavventura coniugale e quell'invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come per un'imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita. Come tutti sanno a Richieri, poco mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere cio che già dissi davanti ai giudici, perché per sempre sia cancellato dall'animo di tutti il sospetto che allora la mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d'ogni colpa Anna Rosa. Nessuna colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie tormentose considerazioni, se l'improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischio d'avere una tal fine. III. La rivoltella tra i fiori

Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai su alla Badía.

Quando si sia fatta l'abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un'angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo. Quella Badía, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall'altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse piú nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli badía.

La suora portinaja aprí uno di quegli usci nel corridojo e m'introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica già era stata sonata da basso, forte per chiamare Suor Celestina.

Il parlatorietto era bujo, tanto che in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca luce entrata dall'uscio nell'aprirlo. Rimasi in piedi in attesa; e chi sa quanto ci sarei rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m'avesse invitato ad accomodarmi che presto Anna Rosa sarebbe venuta su dall'orto. Non mi proverò a esprimere l'impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò in quel bujo il sole che doveva esserci in quell'orto della badia, che non sapevo dove fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d'improvviso mi silluminò in mezzo a quel verde la figura d'Anna Rosa come non l'avevo mai veduta tutta un fremito di grazia e di malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto non il bujo, perché ora potevo discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata, il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile. Non c'era piú nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d'una vecchia. Anna Rosa, quella voce, quel parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell'orto: mi prese come una vertigine. Poco dopo Anna Rosa aprí di furia l'uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. era tutta accesa in volto, coi capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio d'edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire, forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò invece cadere dall'altra la borsetta, e subito il fragore d'una detonazione seguito da un altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo. Feci appena in tempo a sorreggere Anna Rosa che mi si batteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno certe vecchie suore pigolanti spaventate, le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un'altra costernazione ch'io in prima non potei intendere tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per cui di gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano "Monsignore"; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi gridava tra le braccia: "La rivoltella! la rivoltella! ", cioè che rivoleva da me la rivoltella ch'era dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre. Che in quella borsetta caduta dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l'aveva ferita a un piede, m'era apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l'avesse portata per me. Piú che mai stordito, vedendo che nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa.

Mi toccò, poco dopo, risalire alla Badía per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi servire per me.

IV. La spiegazione

La notizia di quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole. Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.

Proprio cosí.

Perché Gengè, signori miei, quello stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch'io ne sapessi nulla, una bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l'era messo in testa Dida; Dida che se n'era accorta. Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua amichetta, per farle piacere e fors'anche per spiegarle che c'era il suo motivo, se Gengè la schivava, quand'ella veniva in visita; la paura d'innamorarsene. Non mi riconosco nessun diritto di smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m'ero mai curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell'amichetta di mia moglie. Mi pare d'aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel'aveva data. Se Dida dunque attribuiva quella segreta simpatia al suo Gengè, importa poco ch'essa non fosse vera per me: era tanto vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di piú, per cui io non ero quel carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato cosí dalla propria moglie. Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro.

Nessuno piú di me ha potuto farne esperienza.

Io mi trovai dunque, senza che ne sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato nell'accidente di quello sparo nella Badía come non mi sarei mai e poi mai immaginato. Assistendo Anna Rosa, dopo averla trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per un'infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anch'io piú che possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida; la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto nell'intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali, tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa dell'accidente. Come rise di cuore immaginando che qualcuno potesse supporre ch'ella l'avesse portata per me nel darmi convegno alla Badía! La portava sempre con sé, nella borsetta, quella rivoltella, dacché l'aveva trovata nel taschino d'un panciotto del padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l'impugnatura di madreperla e tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto piú carino in quanto nel suo grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E piú d'una volta, mi confidò, in qualche non raro momento che il mondo tutt'intorno, per certi strani sgomenti dell'anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell'acciaio e della madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio - come si temeva - di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva d'essersela appropriata tanto, che non dovesse avere piú per sé quel potere. La vedeva cattiva, adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:

«Cattiva!»

Ma quel convegno su alla Badía, nel parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual Monsignore?

Ebbi la spiegazione anche di questo mistero.

Ella sapeva che quella mattina monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era come un'anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d'averla guastata da quell'accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto venire su alla Badía perché voleva ch'io parlassi subito, quella mattina stessa, col vescovo. «Io, col vescovo? E perché?»

Per ovviare a tempo ciò che si stava tramando contro di me.

Mi volevano proprio interdire, denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa, per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne testimonianza finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d'una casa. «Ma la perderà,» non potei tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. «Se sono dichiarato alterato di mente, l'atto della donazione diventerà nullo!» Anna Rosa scoppiò a ridermi in faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo coscienza, testimoniarlo.

Guardai sospeso Anna Rosa che rideva. Ella se n'accorse e si mise a gridare: «Ma sí, pazzie! tutte pazzie! tutte pazzie!»

Se non che, lei ne godeva, le approvava, e piú che piú se con esse volevo arrivare veramente a quella piú grande di tutte: cioè di buttare all'aria la banca e d'allontanare da me una donna che m'era stata sempre nemica. «Dida?»

«Non crede?»

«Nemica, sí, adesso.»

«No, sempre! sempre!»

E m'informò che da tempo cercava di fare intendere a mia moglie ch'io non ero quello sciocco che lei simmaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l'ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c'era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere. Strabiliai. D'un tratto, per quelle confidenze d'Anna Rosa vidi una Dida cosí diversa dalla mia e pur cosí ugualmente vera, che provai - in quel punto, piú che mai - tutto l'orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch'ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi cosí indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m'era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta m'avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi cosí nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie piú naturali aitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un'altra Dida; una Dida veramente nemica. Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un'altra: quell'altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per Anna Rosa. Ma di che mi maravigliavo? Non potevo io lasciarle intero il suo Gengè, cosí com'ella se l'era foggiato, ed essere poi un altro per conto mio? Cosí era di me, come di tutti.

Non dovevo rivelare il segreto della mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere, cosí improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la follia che commise.

Ma dirò prima della mia visita a Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse piú altro indugio.

V. Il Dio di dentro e il Dio di fuori

Al tempo che conducevo a spasso Bibí, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia disperazione.

Bibí a tutti i costi ci voleva entrare.

Alle mie sgridate, sacculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un'orecchia su e l'altra giu stava a guardarmi, proprio con l'aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno.

«Nessuno? Ma come nessuno, Bibí?» le dicevo io. «Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.»

A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibí di entrare in una chiesa; ma non c'entravo nemmeno io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.

Quel punto vivo che s'era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo piú mi si tenesse in conto d'usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio che s'era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d'usurajo. Ma se fossi andato a dire cosí a Quantorzo o a Firbo e agli altri soci della banca, avrei dato loro certamente un'altra prova della mia pazzia. Bisognava invece che il Dio di dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto piú contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere aiuto e protezione al saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per farsi amare e temere.

A questo Dio non c'era pericolo che Firbo o Quantorzo s'attentassero a dare del pazzo.


LIBRO SETTIMO (1) LIVRO SETE (1)

I. Complicazione

Fui invitato la mattina dopo con un bigliettino recato a mano ad andar subito in casa di Anna Rosa, l'amichetta di mia moglie che ho nominato una o due volte in principio, cosí di passata. M'aspettavo che qualcuno cercasse di mettersi di mezzo per tentare la riconciliazione tra me e Dida; ma questo qualcuno nelle mie supposizioni doveva venire da parte di mio suocero e degli altri socii della banca, non direttamente da parte di mia moglie; già che l'unico ostacolo da rimuovere era la mia intenzione di liquidare la banca. Tra me e mia moglie non era avvenuto quasi nulla. Bastava ch'io dicessi ad Anna Rosa d'esser pentito sinceramente dello sgarbo fatto a Dida scrollandola e buttandola a sedere sulla poltrona del salotto, e la riconciliazione sarebbe avvenuta senz'altro. Che Anna Rosa si fosse preso l'incarico di farmi recedere da quella intenzione, ponendolo come patto per il ritorno di mia moglie in casa, non mi parve in alcun modo ammissibile. Sapevo da Dida che la sua amichetta aveva rifiutato parecchi matrimonii cosí detti vantaggiosi per disprezzo del danaro, attirandosi la riprovazione della gente assennata e anche di Dida che certo, sposando me (voglio dire il figlio d'un usurajo), aveva dovuto lasciare intendere alle sue amiche che lo faceva perché alla fin fine era un matrimonio "vantaggioso". Per questo "vantaggio" da salvare Anna Rosa non poteva esser dunque l'avvocato piú adatto. Era da ammettere piuttosto il contrario: che Dida avesse ricorso a lei per aiuto, cioè per farmi sapere che il padre, d'accordo con gli altri soci, la tratteneva in casa e le impediva di ritornare a me se io non recedevo dall'intenzione di liquidare la banca. Ma conoscendo bene mia moglie, non mi parve ammissiblle neppur questo.

Andai pertanto a quell'invito con una grande curiosità. Non riuscivo a indovinarne la ragione.

II. Primo avvertimento

Conoscevo poco Anna Rosa. L'avevo veduta parecchie volte in casa mia, ma essendomi sempre tenuto lontano, piú per istinto che di proposito, dalle amiche di mia moglie, avevo scambiato con lei pochissime parole. Certi mezzi sorrisi, per caso sorpresi sulle sue labbra mentre mi guardava di sfuggita, mi erano sembrati cosí chiaramente rivolti a quella sciocca immagine di me che il Gengè di mia moglie Dida le aveva dovuto far nascere nella mente, che nessun desiderio m'era mai sorto d'intrattenermi a parlare con lei. Non ero mai stato a casa sua.

Orfana di padre e di madre, abitava con una vecchia zia in quella casa che pare schiacciata dalle mura altissime della Badía Grande: mura d'antico castello, dalle finestre con le grate inginocchiate da cui sul tramonto s'affacciano ancora le poche vecchie suore che vi sono rimaste. Una di quelle suore, la meno vecchia, era zia anch'essa di Anna Rosa, sorella del padre; ed era, dicono, mezza matta. Ma ci vuol poco a fare ammattire una donna, chiudendola in un monastero. Da mia moglie, che fu per tre anni educanda nel convento di San Vincenzo, so che tutte le suore, cosí le vecchie come le giovani, erano, chi per un verso chi per un altro, mezze matte.

Non trovai in casa Anna Rosa. La vecchia serva che m'aveva recato il bigliettino, parlandomi misteriosamente dalla spia della porta senza aprirla, mi disse che la padroncina era su alla Badía, dalla zia monaca, e che andassi pure a trovarla là, chiedendo alla suora portinaja d'essere introdotto nel parlatorietto di Suor Celestina. Tutto questo mistero mi stupí. E sul principio, anziché accrescere la mia curiosità, mi trattenne d'andare. Per quanto mi fosse possibile in quello stupore, avvertii il bisogno di riflettere prima sulla stranezza di quel convegno lassu alla Badía in un parlatorietto di suora.

Ogni nesso tra la mia futile disavventura coniugale e quell'invito mi parve rotto, e subito rimasi apprensionito come per un'imprevista complicazione che avrebbe recato chi sa quali conseguenze alla mia vita. Come tutti sanno a Richieri, poco mancò non mi recasse la morte. Ma qui mi piace ripetere cio che già dissi davanti ai giudici, perché per sempre sia cancellato dall'animo di tutti il sospetto che allora la mia deposizione fosse fatta per salvare e mandare assolta d'ogni colpa Anna Rosa. Nessuna colpa da parte sua. Fui io, o piuttosto ciò che finora è stato materia di queste mie tormentose considerazioni, se l'improvvisa e inopinata avventura a cui quasi senza volerlo mi lasciai andare per un ultimo disperatissimo esperimento, rischio d'avere una tal fine. III. La rivoltella tra i fiori

Per una delle straducole a sdrucciolo della vecchia Richieri durante il giorno appestate dal lezzo della spazzatura marcita, andai su alla Badía.

Quando si sia fatta l'abitudine di vivere in un certo modo, andare in qualche luogo insolito e nel silenzio avvertire come un sospetto che ci sia qualcosa di misterioso a noi, da cui, pur lí presente, il nostro spirito è condannato a restar lontano, è un'angoscia indefinita, perché si pensa che, se potessimo entrarci, forse la nostra vita si aprirebbe in chi sa quali sensazioni nuove, tanto da parerci di vivere in un altro mondo. Quella Badía, già castello feudale dei Chiaramonte, con quel portone basso tutto tarlato, e la vasta corte con la cisterna in mezzo, e quello scalone consunto, cupo e rintronante, che aveva il rigido delle grotte, e quel largo e lungo corridojo con tanti usci da una parte e dall'altra e i mattoni rosi del pavimento avvallato che lustravano alla luce del finestrone in fondo aperto al silenzio del cielo, tante vicende di casi e aspetti di vita aveva accolto in sé e veduto passare, che ora, nella lenta agonia di quelle poche suore che vi vagavano dentro sperdute, pareva non sapesse piú nulla di sé. Tutto là dentro pareva ormai smemorato, nella lunghissima attesa della morte di quelle ultime suore, a una a una; perduta da gran tempo la ragione per cui, castello baronale, era stato dapprima costruito, divenuto poi per tanti secoli badía.

La suora portinaja aprí uno di quegli usci nel corridojo e m'introdusse nel parlatorietto. Una campanella malinconica già era stata sonata da basso, forte per chiamare Suor Celestina.

Il parlatorietto era bujo, tanto che in prima non potei discernervi altro che la grata in fondo, appena intravista alla poca luce entrata dall'uscio nell'aprirlo. Rimasi in piedi in attesa; e chi sa quanto ci sarei rimasto se alla fine una fievole voce dalla grata non m'avesse invitato ad accomodarmi che presto Anna Rosa sarebbe venuta su dall'orto. Non mi proverò a esprimere l'impressione che mi fece quella voce inattesa nel bujo, di là dalla grata. Mi folgorò in quel bujo il sole che doveva esserci in quell'orto della badia, che non sapevo dove fosse, ma che certo doveva essere verdissimo; e d'improvviso mi silluminò in mezzo a quel verde la figura d'Anna Rosa come non l'avevo mai veduta tutta un fremito di grazia e di malizia. Fu un baleno. Ritornò il bujo. O piuttosto non il bujo, perché ora potevo discernere la grata, e davanti a quella grata un tavolino e due seggiole. In quella grata, il silenzio. Vi cercai la voce che mi aveva parlato, fievole ma fresca, quasi giovanile. Non c'era piú nessuno. Eppure doveva essere stata la voce d'una vecchia. Anna Rosa, quella voce, quel parlatorietto, il sole in quel bujo, il verde dell'orto: mi prese come una vertigine. Poco dopo Anna Rosa aprí di furia l'uscio e mi chiamò fuori del parlatorietto nel corridojo. era tutta accesa in volto, coi capelli in disordine, gli occhi sfavillanti, la camicetta bianca di lana a maglia sbottonata sul petto come per caldo, e aveva tra le braccia tanti fiori e un tralcio d'edera che le passava sopra una spalla e le tentennava lungo, dietro. Corse, invitandomi a seguirla in fondo al corridojo, salí sullo scalino sotto al finestrone, ma nel salire, forse per riparare con una mano una parte dei fiori che stava per sfuggirle si lasciò invece cadere dall'altra la borsetta, e subito il fragore d'una detonazione seguito da un altissimo grido fece rintronare tutto il corridojo. Feci appena in tempo a sorreggere Anna Rosa che mi si batteva addosso. Nello sbalordimento, prima che riuscissi a rendermi conto di ciò che era avvenuto, mi vidi attorno certe vecchie suore pigolanti spaventate, le quali, pur essendo accorse per quello sparo nel corridojo e pur vedendomi tra le braccia Anna Rosa ferita, erano tuttavia in preda a un'altra costernazione ch'io in prima non potei intendere tanto mi pareva impossibile che non si dovesse aver quella per cui di gran voce io chiedevo loro un letto, dove adagiare la ferita; mi rispondevano "Monsignore"; che stava per arrivare Monsignore. A sua volta, Anna Rosa mi gridava tra le braccia: "La rivoltella! la rivoltella! ", cioè che rivoleva da me la rivoltella ch'era dentro la borsetta, perché era un ricordo del padre. Che in quella borsetta caduta dovesse esserci una rivoltella la quale, esplodendo, l'aveva ferita a un piede, m'era apparso subito evidente; ma non cosí la ragione per cui la portava con sé, e proprio quella mattina che mi aveva dato convegno alla Badía. Mi parve stranissimo; ma non mi passò neppur lontanamente per il capo in quel momento che l'avesse portata per me. Piú che mai stordito, vedendo che nessuno mi dava aiuto per soccorrere la ferita, me la tolsi di peso sulle braccia e la portai fuori della Badía, giú per la straducola, a casa.

Mi toccò, poco dopo, risalire alla Badía per riprendere dal corridojo sotto al finestrone quella rivoltella, che doveva poi servire per me.

IV. La spiegazione

La notizia di quello strano accidente alla Badía Grande e di me che ne uscivo a precipizio reggendo sulle braccia Anna Rosa ferita, si propagò per Richieri in un baleno, dando subito pretesto a malignazioni che per la loro assurdità mi parvero in prima perfino ridicole. Tanto ero lontano dal supporre che potessero non solo parer verosimili, ma addirittura essere tenute per vere; e non già da coloro a cui tornava conto metterle in giro e fomentarle, ma finanche da colei che reggevo ferita sulle braccia.

Proprio cosí.

Perché Gengè, signori miei, quello stupidissimo Gengè di mia moglie Dida, covava, senza ch'io ne sapessi nulla, una bruciante simpatia per Anna Rosa. Se l'era messo in testa Dida; Dida che se n'era accorta. Non ne aveva detto mai nulla a Gengè; ma lo aveva confidato, sorridendone, alla sua amichetta, per farle piacere e fors'anche per spiegarle che c'era il suo motivo, se Gengè la schivava, quand'ella veniva in visita; la paura d'innamorarsene. Non mi riconosco nessun diritto di smentire codesta simpatia di Gengè per Anna Rosa. Potrei al piú sostenere che non era vera per me; ma non sarebbe giusto neppure questo, perché effettivamente non m'ero mai curato di sapere se sentissi antipatia o simpatia per quell'amichetta di mia moglie. Mi pare d'aver dimostrato a sufficienza che la realtà di Gengè non apparteneva a me, ma a mia moglie Dida che gliel'aveva data. Se Dida dunque attribuiva quella segreta simpatia al suo Gengè, importa poco ch'essa non fosse vera per me: era tanto vera per Dida, che vi trovava la ragione per cui mi tenevo lontano da Anna Rosa; e tanto vera anche per Anna, che le occhiate che qualche volta io le avevo rivolte di sfuggita erano state anzi interpretate da lei come qualche cosa di piú, per cui io non ero quel carino sciocchino Gengè che mia moglie Dida si figurava, ma un infelicissimo Signor Gengè che doveva soffrire chi sa che strazii in corpo a essere stimato e amato cosí dalla propria moglie. Perché, se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci dànno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono. È vero per loro. Tanto vero, che può anche capitare che gli altri, se non vi tenete forte alla realtà che per vostro conto vi siete data, possono indurvi a riconoscere che piú vera della vostra stessa realtà è quella che vi dànno loro.

Nessuno piú di me ha potuto farne esperienza.

Io mi trovai dunque, senza che ne sapessi nulla, innamoratissimo di Anna Rosa, e per questa ragione impigliato nell'accidente di quello sparo nella Badía come non mi sarei mai e poi mai immaginato. Assistendo Anna Rosa, dopo averla trasportata a casa sulle braccia e adagiata sul suo letto, corso per un medico, per un'infermiera, e prestato le prime cure del caso, sentii subito anch'io piú che possibile, vero, ciò che ella aveva immaginato di me in seguito alle confidenze di Dida; la mia simpatia per lei. E potei avere dalla sua bocca, stando a sedere a piè del letto nell'intimità color di rosa della sua cameretta offesa dal cattivo odore dei medicinali, tutte le spiegazioni. E, prima, quella della rivoltella nella borsetta, causa dell'accidente. Come rise di cuore immaginando che qualcuno potesse supporre ch'ella l'avesse portata per me nel darmi convegno alla Badía! La portava sempre con sé, nella borsetta, quella rivoltella, dacché l'aveva trovata nel taschino d'un panciotto del padre, morto improvvisamente da sei anni. Piccolissima, con l'impugnatura di madreperla e tutta lucida e viva, le era parsa un gingillo, tanto piú carino in quanto nel suo grazioso congegno racchiudeva il potere di dare la morte. E piú d'una volta, mi confidò, in qualche non raro momento che il mondo tutt'intorno, per certi strani sgomenti dell'anima, le si faceva come attonito e vano, aveva avuto la tentazione di farne la prova, giocando con essa, provando nelle dita sul liscio lucido dell'acciaio e della madreperla la delizia del tatto. Ora, che essa, invece che alla tempia o nel cuore per volontà di lei, avesse potuto per caso morderla a un piede, e anche col rischio - come si temeva - di farla restar zoppa, le cagionava uno stranissimo dispiacere. Credeva d'essersela appropriata tanto, che non dovesse avere piú per sé quel potere. La vedeva cattiva, adesso. La traeva dal cassetto del comodino accanto al letto, la mirava e le diceva:

«Cattiva!»

Ma quel convegno su alla Badía, nel parlatorietto della zia monaca, perché? E quelle sette suore che, invece di darsi pensiero di lei ferita, mi parlavano, quasi oppresse, della visita di non so qual Monsignore?

Ebbi la spiegazione anche di questo mistero.

Ella sapeva che quella mattina monsignor Partanna, vescovo di Richieri, sarebbe andato a far visita alle vecchie suore della Badía Grande, come soleva ogni mese. Per quelle vecchie suore quella visita era come un'anticipazione della beatitudine celeste: rischiare d'averla guastata da quell'accidente era stato perciò per loro la costernazione piú grave. Mi aveva fatto venire su alla Badía perché voleva ch'io parlassi subito, quella mattina stessa, col vescovo. «Io, col vescovo? E perché?»

Per ovviare a tempo ciò che si stava tramando contro di me.

Mi volevano proprio interdire, denunziandomi come alterato di mente. Dida le aveva annunziato che già erano state raccolte e ordinate tutte le prove, da Firbo, da Quantorzo, da suo padre e da lei stessa, per dimostrare la mia lampante alterazione mentale. Tanti erano pronti a farne testimonianza finanche quel Turolla che avevo difeso contro Firbo e tutti i commessi della banca; finanche Marco di Dio a cui avevo fatto donazione d'una casa. «Ma la perderà,» non potei tenermi dal fare osservare ad Anna Rosa. «Se sono dichiarato alterato di mente, l'atto della donazione diventerà nullo!» Anna Rosa scoppiò a ridermi in faccia per la mia ingenuità. A Marco di Dio dovevano aver promesso che, se testimoniava come volevano loro, non avrebbe perduto la casa. E del resto, poteva, anche secondo coscienza, testimoniarlo.

Guardai sospeso Anna Rosa che rideva. Ella se n'accorse e si mise a gridare: «Ma sí, pazzie! tutte pazzie! tutte pazzie!»

Se non che, lei ne godeva, le approvava, e piú che piú se con esse volevo arrivare veramente a quella piú grande di tutte: cioè di buttare all'aria la banca e d'allontanare da me una donna che m'era stata sempre nemica. «Dida?»

«Non crede?»

«Nemica, sí, adesso.»

«No, sempre! sempre!»

E m'informò che da tempo cercava di fare intendere a mia moglie ch'io non ero quello sciocco che lei simmaginava, in lunghe discussioni che le erano costate una fatica infinita per frenare il dispetto che le cagionava l'ostinazione di quella donna a voler vedere in tanti miei atti o parole una sciocchezza che non c'era o un male che soltanto un animo deliberatamente nemico vi poteva vedere. Strabiliai. D'un tratto, per quelle confidenze d'Anna Rosa vidi una Dida cosí diversa dalla mia e pur cosí ugualmente vera, che provai - in quel punto, piú che mai - tutto l'orrore della mia scoperta. Una Dida che parlava di me come assolutamente non mi sarei mai immaginato ch'ella ne potesse parlare, nemica anche della mia carne. Tutti i ricordi della nostra intimità comune, separati e traditi cosí indegnamente che, per riconoscerli, dovevo superarne con dispetto il ridicolo che prima non avevo avvertito, riparare una vergogna che prima, in segreto, non m'era parso di dover sentire. Come se a tradimento, dopo avermi indotto confidente a denudarmi, spalancata la porta m'avesse esposto alla derisione di chiunque avesse voluto entrare a vedermi cosí nudo e senza riparo. E apprezzamenti sulla mia famiglia e giudizii sulle mie piú naturali aitudini, che non mi sarei mai aspettati da lei. Insomma un'altra Dida; una Dida veramente nemica. Eppure, sono certo certissimo che col suo Gengè ella non fingeva: era col suo Gengè quale poteva essere per lui, perfettamente intera e sincera. Fuori poi della vita che poteva avere con lui, diventava un'altra: quell'altra che ora le conveniva o le piaceva o veramente sentiva di essere per Anna Rosa. Ma di che mi maravigliavo? Non potevo io lasciarle intero il suo Gengè, cosí com'ella se l'era foggiato, ed essere poi un altro per conto mio? Cosí era di me, come di tutti.

Non dovevo rivelare il segreto della mia scoperta ad Anna Rosa. Fui tentato da lei stessa, per ciò che ella mi fece sapere, cosí improvvisamente, di mia moglie. E non mi sarei mai immaginato che la rivelazione le avrebbe prodotto nello spirito il turbamento che le produsse, fino a farle commettere la follia che commise.

Ma dirò prima della mia visita a Monsignore, a cui ella stessa mi spinse con gran premura, come a cosa che non comportasse piú altro indugio.

V. Il Dio di dentro e il Dio di fuori

Al tempo che conducevo a spasso Bibí, la cagnolina di mia moglie, le chiese di Richieri erano la mia disperazione.

Bibí a tutti i costi ci voleva entrare.

Alle mie sgridate, sacculava, alzava e scoteva una delle due zampine davanti, sternutiva, poi con un'orecchia su e l'altra giu stava a guardarmi, proprio con l'aria di credere che non era possibile, non era possibile che a una cagnolina bellina come lei non fosse lecito entrare in una chiesa. Se non ci stava nessuno.

«Nessuno? Ma come nessuno, Bibí?» le dicevo io. «Ci sta il piú rispettabile dei sentimenti umani. Tu non puoi intendere queste cose, perché sei per tua fortuna una cagnolina e non un uomo. Gli uomini, vedi? hanno bisogno di fabbricare una casa anche ai loro sentimenti. Non basta loro averli dentro, nel cuore, i sentimenti: se li vogliono vedere anche fuori, toccarli; e costruiscono loro una casa.»

A me era sempre bastato finora averlo dentro, a mio modo, il sentimento di Dio. Per rispetto a quello che ne avevano gli altri, avevo sempre impedito a Bibí di entrare in una chiesa; ma non c'entravo nemmeno io. Mi tenevo il mio sentimento e cercavo di seguirlo stando in piedi, anziché andarmi a inginocchiare nella casa che gli altri gli avevano costruito.

Quel punto vivo che s'era sentito ferire in me quando mia moglie aveva riso nel sentirmi dire che non volevo piú mi si tenesse in conto d'usurajo a Richieri, era Dio senza alcun dubbio: Dio che s'era sentito ferire in me, Dio che in me non poteva piú tollerare che gli altri a Richieri mi tenessero in conto d'usurajo. Ma se fossi andato a dire cosí a Quantorzo o a Firbo e agli altri soci della banca, avrei dato loro certamente un'altra prova della mia pazzia. Bisognava invece che il Dio di dentro, questo Dio che in me sarebbe a tutti ormai apparso pazzo, andasse quanto piú contritamente gli fosse possibile a far visita e a chiedere aiuto e protezione al saggissimo Dio di fuori, a quello che aveva la casa e i suoi fedelissimi e zelantissimi servitori e tutti i suoi poteri sapientemente e magnificamente costituiti nel mondo per farsi amare e temere.

A questo Dio non c'era pericolo che Firbo o Quantorzo s'attentassero a dare del pazzo.