Il Burlone - Massimo Gorki
II.
Un paio di giorni dopo la scena che abbiamo descritta, Gvosdef, vestito di un camiciotto bleu, stretto alla vita da un cinto di cuoio, colla testa coperta di un berretto bianco che gli cascava sulla nuca e con un grosso bastone nodoso in mano, se ne stava passeggiando lentamente sulla «Montagna». Così si chiamava un'altura che sormontava il fiume, al quale si poteva scendere per un leggero pendio. In tempi antichi, quella sponda era coperta di un bosco ceduo; ma poi era stato quasi tutto tagliato e non ne rimanevano che poche vecchie quercie e pochi faggi, piegati dal vento. Nuovi steli si avvolgevano intorno alle loro radici, cespugli circondavano i loro tronchi, e dovunque, in mezzo al verde, il pubblico, per passare, aveva formato sentieri che scendevano tutti verso il fiume. Un largo viale attraversava poi orizzontalmente «la Montagna» ed è più particolarmente lì che la gente veniva a passeggiare, formando due file che procedevano in senso inverso l'una dall'altra. Piaceva a Gvosdef di andare a zonzo per quel viale, di andare e di tornare insieme al pubblico, di sentirsi libero come tutti gli altri, di aspirare liberamente l'aria profumata dall'odore delle foglie, di muoversi a suo piacere, di far parte di qualche cosa di grande e di sentirsi l'eguale di tutti. Quel giorno, egli era un pochino brillo ed il suo volto butterato ed ardito aveva un'espressione benevola e socievole. Delle ciocche di capelli castagni si arricciavano sulla sua tempia sinistra e si rizzavano in alto: facevano graziosamente risaltare gli orecchi e si posavano elegantemente sull'orlo del berretto. Gvosdef aveva il suo aspetto spavaldo di robusto operaio, contento di sè stesso, pronto a cantare, a ballare, a fare a pugni, - secondo le circostanze - ed a bere qualche bicchierino di quello buono: sembrava che la natura, dandogli quelle ciocche ricciute, avesse voluto presentare al mondo Nicola Gvosdef come un giovanotto pieno di fuoco e conscio del proprio valore. Gettandosi attorno delle occhiate approvatrici, Gvosdef urtava in modo tutto pacifico i viandanti,i quali sopportavano quegli urti senza risentirsene; camminava sulle vesti delle signore, si scusava cortesemente, inghiottiva come tutti gli altri la sua porzione di densa polvere, e si sentiva felice e contento.
Attraverso il fogliame, si vedeva, all'altro lato del fiume, nei prati, tramontare il sole. Il cielo, da quel lato, era color porpora, caldo e mite: pareva invitare la gente verso quello che pareva essere il limite del verde scuro dei campi. Sotto i piedi dei viandanti si allungavano le ombre di tutti gli oggetti e la folla le calpestava senza saperne la bellezza.
La sigaretta, posta all'angolo sinistro delle sue labbra, dava a Gvosdef un'aria elegante ed alquanto fatua; lasciava sfuggire il fumo dall'angolo destro, esaminava il pubblico e aveva una voglia matta di conversare con qualcuno, bevendo un bicchiere di birra nel caffè al piede della «Montagna». Ma non incontrava alcun conoscente, e non trovava alcuna occasione propizia per attaccare discorso con uno sconosciuto. Malgrado il giorno festivo e la temperatura primaverile, i passanti parevano di cattivo umore, e benchè avesse già gettato parecchie occhiate in faccia alle persone che camminavano vicino a lui con un sorriso bonario e l'espressione di un uomo dispostissimo a far amicizia, nessuna rispondeva al suo umore socievole.... Ad un tratto, fra la quantità di nuche che si vedeva davanti, passò la nuca, a lui ben nota, del redattore-capo, Dmitri Pàvlovitsc Istomin. Gvosdef sorrise allegramento al ricordo del suo trionfo su quel signore, e si mise a guardare con piacere il cappello grigio di Dmitri Pavlovitsc.
Talvolta quel cappello, di forma bassa, scompariva dietro ad altri cappelli e ciò inquietava - non si sa perchè - Gvosdef, il quale si alzava allora sulla punta dei piedi per rivederlo; e, quando l'aveva ritrovato, sorrideva di nuovo. Così mentre seguiva cogli occhi il redattore-capo, Gvosdef camminava e si ricordava dell'epoca in cui egli era il piccolo Nicolka, figlio del magnano, ed il redattore era Mitka, figlio della diaconessa. Avevano ancora un altro compagno che avevano sopranominato «lo zuccheraio», ed un altro ancora, Vaska Giukof, figlio di un impiegato governativo che abitava nell'ultima casa della strada. Era una buona vecchia casa, tutta coperta di muschio, alla quale erano appiccicate, da tutte le parti, altre casupole costruite dopo. Il padre di Vaska aveva un magnifico stormo di colombi. Si stava così bene nel cortile di quella casa per giuocare a mosca cieca, perchè il padre di Vaska, un avaraccio, vi conservava un ammasso di vecchie cose: carrette rotte, casse, barili sfondati... Adesso Vaska è il medico del distretto, e sul sito, occupato allora dalla vecchia casa, stanno ora i depositi della ferrovia.... E si ricordava pure degli altri compagni, tutti ragazzetti di otto a dieci anni. Tutti dimoravano allora all'estremità della città, nella strada Umida. Vivevano in ottima intelligenza fra di loro ed in perpetua ostilità con i monelli delle altre vie vicine. Saccheggiavano gli orti ed i giardini; giuocavano agli aliossi, ad altri giuochi infantili, andavano a scuola.... Un venticinque anni erano passati da quell'epoca. In quel tempo - ed era passato - c'erano monelli, birichini e sporcaccioni, come Nicolka, come il figlio del magnano, i quali sono oggi uomini importanti... Nicolka si è impaniato in quella strada Umida, mentre essi, terminata la scuola elementare, avevano continuato gli studi al ginnasio... Lui, invece, no... Se tentasse di conversare col redattore? Dirgli «buona sera» ed intavolare una conservazione? Per incominciare, domandargli scusa dello scandalo, e poi parlare, ma così, in generale, della vita?..
Il cappello del redattore appariva e scompariva sempre davanti agli occhi di Gvosdef, come se avesse voluto attirarlo, - e Gvosdef si decise: il redattore camminava, appunto in quel momento, solo, in uno spazio libero, lasciato per poco sgombro dalla folla. Camminava sulle sue gambe esili in un calzone chiaro, mentre girava la testa ora da un lato, ora dall'altro, guardando la gente coi suoi occhi da miope. Gvosdef gli si accostò e gli gettò un'occhiata amabile, spiando un momento favorevole per salutarlo, e, nello stesso tempo, era punto dall'acuto desiderio di sapere in qual modo il redattore lo avrebbe accolto. - Buona sera, Mitri Pàvlovitsc!
Il redattore si voltò, sollevò leggermente il cappello con una mano, si acconciò gli occhiali sul naso con l'altra, riconobbe Gvosdef e si fece serio, serio. Ma questa circostanza non sconcertò affatto Nicola Gvosdef, - al contrario, si chinò con un'aria ancora più amabile verso il redattore ed esalando l'odore dell'acquavite che aveva bevuto, gli domandò a bruciapelo: - State facendo la vostra passeggiatina?
Il redattore si fermò un istante; le labbra e le narici gli fremettero dal disgusto, e, con aria asciutta, gli buttò in faccia queste parole:
- Cosa desiderate?
- Io? Nulla! È così... Fa bel tempo oggi... Ed avrei piacere di parlare con voi di quell'affare. - Non desidero parlare con voi di alcun affare, dichiarò il redattore, affrettando il passo. Gvosdef lo imitò.
- Non desiderate?.. Comprendo perfettamente... Siete nel vostro dritto... Comprendo benissimo anche questo... Giacchè vi ho svergognato, è naturale che l'abbiate con me... - Siete ubbriaco... disse il redattore fermandosi. E se non mi lasciate in pace, vi farò arrestare dalla polizia.
Gvosdef si mise a ridere.
- E perchè mai?
Il redattore gli gettò di sbieco uno sguardo pieno d'angoscia come chi si trova in una posizione spiacevole e non sa come uscirne. Il pubblico li guardava già con curiosità. Parecchie persone porgevano l'orecchie, fiutando uno scandolo. Istomin si guardava intorno, confuso ed imbarazzato.
Gvosdef se ne accorse.
- Andiamo un po' in disparte... volete? diss'egli; e, senza aspettare il suo consenso, spinse con la spalla Istomin, fuori del viale principale, verso un sentiero che scendeva per il pendio, fra cespugli. Il redattore non protestò contro quest'abile manovra, forse perchè non ne ebbe il tempo, - forse perchè sperava, una volta fuori del pubblico, di potersi più facilmente liberare dell'importuno ex-compositore. Camminava lentamente, con precauzione, ponendo il bastone a terra, e Gvosdef lo seguiva, dicendo, come se parlasse al suo cappello, le parole seguenti:
- Ecco, a poca distanza da qui, c'è un albero caduto, sul quale potremo sederci... Voi, Mitri Pàvlovitsc, non dovete essere in collera con me. Scusatemi! L'ho fatto per dispetto. Talvolta, noialtri, siamo tormentati da una collera tale che non la si può neanche annegare nel vino... Ebbene! in un momento di quella specie, si va fino al punto di fare uno scherzo di cattivo genere ad una persona qualunque, di dare uno schiaffo ad un passante, o qualche cosa di simile... Non mi pento... Quel che è fatto, è fatto!.. Ma è possibilissimo ch'io abbia oltrepassato i limiti... ch'io sia andato troppo oltre... Sia che il redattore fosse commosso da quella franca spiegazione, sia che la persona di Gvosdef avesse svegliato la sua curiosità, sia infine che avesse capito che non c'era mezzo di sbarazzarsi da un uomo simile, fatto sta che gli chiese: - Di che volete parlare?
- Ma così... di tutto! La mia anima si rattrista perchè risente l'offesa che le si fa... Sediamoci qui. - Non ho tempo...
- Lo so... il giornale! Mangerà, divorerà la metà della vostra vita... ci consumerete la salute... Capisco perfettamente!.. Lui, l'amministratore, che cos'è?. Lui, ha il suo danaro nel giornale - voi, il vostro sangue!.. Ecco, gli avete di già sacrificato gli occhi a forza di scrivere... Sedetevi.
Davanti ad essi, lungo il sentiero, giaceva un grosso tronco d'albero, avanzo a metà imputridito di una vecchia quercia. I folti rami di un nocciuolo si abbassavano al di sopra di quel tronco, formando un tetto di verdura. Attraverso i rami si vedeva un po' di cielo, già invaso dai colori sbiaditi del tramonto; un forte odore di piante riempiva l'aria. Gvosdef si sedette sul tronco caduto, e rivolgendosi al redattore, che stava ancora in piedi, guardandosi intorno con aria indecisa, si rimise a parlare:
- Ho alzato un poco il gomito quest'oggi... Il vivere mi dà noia, Mitri Pàvlovitsc!.. I miei compagni, gli operai, non fanno più per me, - non so com'è avvenuto, ma me ne sono distaccato: ho in testa una direzione d'idee affatto differente... Vi ho veduto questa sera e mi sono ricordato che, anche voi, siete stato il mio compagno... Si mise a ridere perchè il redattore lo guardava con cambiamenti di fisonomia così rapidi che il suo volto assumeva infatti espressioni ridicole.
- Il vostro compagno?... E quando?
- Oh! molto tempo fa, Mitri Pàvlovitsc.... Dimoravamo nella strada Umida... ve ne ricordate? Alla distanza di una casa l'uno dall'altro; e, dirimpetto a noi, c'era Miscka il magnano, attualmente Mihàil Jefimovitsc Krulef, giudice istruttore - il quale viveva con suo padre... quell'uomo così severo. Vi ricordate di Jefimitsc, che ci ha così spesso tirato peri capelli?.. Ma sedetevi!
Il redattore fece un leggero cenno con la testa e si sedette accanto a Gvosdef. Lo guardava come chi vuol ricordarsi di qualche cosa dimenticata da lungo tempo, e si stroppicciava la fronte.
E Gvosdef continuava ad evocare i suoi ricordi.
- Che buona vita facevamo allora! E perchè mai l'uomo non rimane fanciullo tutta la sua vita? Si fa grande - perchè? Per poi scomparire nella terra!... Tutta la vita, non fa altro che subire ogni specie di sventure... Alla fine s'inasprisce, si abbrutisce... Che farsa!... Eccolo che vive... vive... ed alla fine di questa sua vita, niente altro che sciocchezze... Una bara, e poi nulla!.. Invece, in altri tempi, vivevamo senza l'ombra di un'idea triste... Tutto era gaio: eravamo veri uccelletti! Correvamo quà e là, scalavamo le siepi per andare a cogliere le frutta degli altri... Vi ricordate di quel giorno in cui, nell'orto della Petrovna, in una nostra escursione, vi ho gettato un cetriuolo in faccia? Vi siete messo a gridare ed a piangere ed io son fuggito a gambe levate... Poi siete venuto con vostra madre a casa mia per lagnarvi a mio padre, e che mio padre mi ha frustato di santa ragione?.. E Miscka, oggigiorno Mihàil Jefimovitsc...
Il redattore ascoltava e sorrideva senza volerlo. Avrebbe ben voluto restare serio e conservare la propria dignità davanti a quell'uomo che si mostrava propenso alla familiarità. Ma vi era qualche cosa di commovente in quei racconti dei giorni sereni dell'infanzia, e, nel modo in cui Gvosdef parlava, le intonazioni che potevano minacciare l'amor proprio di Dimitri Pàvlovitsc non suonavano ancora troppo penosamente offensive... E poi, si stava così bene in quel sito! Al di sopra di loro, la sabbia del viale superiore strideva sotto i passi della gente che vi passeggiava; talvolta si udiva una risata; le parole giungevano monche, ma il vento sospirava - e tutte le voci e tutti i rumori si fondevano nel melanconico mormorìo del fogliame. Ed allorchè quel mormorìo taceva, c'erano momenti di silenzio assoluto, come se, intorno ad essi, tutto il creato avesse teso un orecchio attento alle parole di Nicola Gvosdef, che continuava a narrare storielle della sua infanzia.