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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.4 La Moglie e l'Amante

4.4 La Moglie e l'Amante

Prima di mettermi a dormire, come m'avviene di spesso, guardai lungamente mia moglie che già dormiva raccolta nella sua lieve respirazione. Anche dormendo essa era tutta ordinata, con le coperte fino al mento e i capelli non abbondanti riuniti in una breve treccia annodata alla nuca. Pensai: «Non voglio procurarle dei dolori. Mai!». Mi addormentai tranquillo. Il giorno seguente avrei chiarita la mia relazione con Carla e avrei trovato il modo di rassicurare la povera fanciulla del suo avvenire, senza perciò essere obbligato di darle dei baci.

Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo. Era però un collo fatto in modo che le ferite ch'io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata. Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi. Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa. Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te».

Il sogno ebbe l'aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m'aveva levato il sentimento di soddisfazione ch'esso mi procurava.

Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch'esso rappresentava per Augusta e anche per me. Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s'iniziava un'altra vita di cui sarei stato responsabile. Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l'utile lavanderia, l'altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa. Rividi Carla mentre dal pianerottolo mi salutava ridendo dopo di essere stata baciata. Essa già sapeva ch'io sarei stato la sua preda. N'ebbi spavento e là, solo e nell'oscurità, non seppi trattenere un gemito.

Mia moglie, subito desta, mi domandò che cosa avessi ed io risposi con una breve parola, la prima che mi si fosse affacciata alla mente quando seppi rimettermi dallo spavento di vedermi interrogato in un momento in cui mi pareva di aver gridata una confessione:

— Penso alla vecchiaia incombente!

Ella rise e cercò di consolarmi senza perciò tagliare il sonno cui s'aggrappava. M'inviò la frase stessa che sempre mi diceva quando mi vedeva spaventato del tempo che andava via:

— Non pensarci, ora che siamo giovani... il sonno è tanto buono!

L'esortazione giovò: non ci pensai più e mi riaddormentai. La parola nella notte è come un raggio di luce. Illumina un tratto di realtà in confronto al quale sbiadiscono le costruzioni della fantasia. Perché avevo tanto da temere della povera Carla di cui ancora non ero l'amante? Era evidente che avevo fatto di tutto per spaventarmi della mia situazione. Infine, il bébé che avevo evocato nel grembo di Augusta finora non aveva dato altro segno di vita che la costruzione della lavanderia.

Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi. Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio abbandono. Però mi sarei dichiarato pronto di mandarle per posta dell'altro denaro ogni qualvolta essa me ne avesse domandato scrivendomi ad un indirizzo che le avrei fatto sapere. Proprio quando m'accingevo ad uscire, Augusta m'invitò con un dolce sorriso ad accompagnarla in casa del padre. Era arrivato da Buenos Aires il padre di Guido per assistere alle nozze, e bisognava andare a farne la conoscenza. Essa certamente si curava meno del padre di Guido che di me. Voleva rinnovare la dolcezza del giorno prima. Ma la cosa non era più la stessa: a me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione. Intanto che noi camminavamo sulla via uno accanto all'altro e, all'apparenza, sicuri del nostro affetto, l'altra si riteneva già amata da me. Ciò era male. Sentii quella passeggiata come una vera e propria constrizione.

Trovammo Giovanni che stava realmente meglio. Solo non poteva mettere gli stivali per una certa gonfiezza ai piedi cui egli non attribuiva importanza ed io in allora neppure. Si trovava in salotto col padre di Guido cui mi presentò. Augusta ci lasciò subito per andare a raggiungere la madre e la sorella.

Il Signor Francesco Speier mi parve un uomo molto meno istruito del figlio. Era piccolo, tozzo, sulla sessantina, di poche idee e di poca vivacità, forse anche perché in seguito ad una malattia aveva l'orecchio molto indebolito. Ficcava qualche parola spagnuola nel suo italiano:

— Cada volta che vengo a Trieste...

I due vecchi parlavano di affari, e Giovanni ascoltava attentamente perché quegli affari erano molto importanti per il destino di Ada. Stetti ad ascoltare distrattamente. Sentii che il vecchio Speier aveva deciso di liquidare i suoi affari nell'Argentina e di consegnare a Guido tutti i suoi duros perché li impiegasse alla fondazione di una ditta a Trieste; poi egli sarebbe ritornato a Buenos Aires per vivere con la moglie e con la figlia con un piccolo podere che gli rimaneva. Non compresi perché raccontasse in mia presenza a Giovanni tutto ciò, né lo so neppur oggi.

A me parve che ambedue a un dato punto cessassero di parlare, guardandomi come se avessero aspettato da me un consiglio ed io, per essere gentile, osservai:

— Non dev'essere piccolo quel podere se le basta per viverci!

Giovanni urlò subito:

— Ma che cosa vai dicendo? - Lo scoppio di voce ricordava i suoi migliori tempi, ma è certo che se egli non avesse urlato tanto, il signor Francesco non avrebbe rilevata la mia osservazione. Così, invece, impallidì e disse:

— Spero bene che Guido non mancherà di pagarmi gl'interessi del mio capitale.

Giovanni, sempre urlando, cercò di rassicurarlo:

— Altro che gl'interessi! Anche il doppio se le occorrerà! Non è forse suo figlio?

Il signor Francesco tuttavia non parve molto rasserenato ed aspettava proprio da me una parola che lo rassicurasse. Io la diedi subito e abbondante perché il vecchio ora sentiva meno di prima.

Poi il discorso fra i due uomini di affari continuò, ma io mi guardai bene dall'intervenire più oltre. Giovanni mi guardava di tempo in tempo al disopra degli occhiali per sorvegliarmi e il suo respiro pesante pareva una minaccia. Parlò poi a lungo e mi domandò a un dato punto:

— Ti pare?

Io annuii fervidamente.

Tanto più fervido dovette apparire il mio consenso in quanto ogni mio atto era reso più espressivo dalla rabbia che sempre più mi pervadeva. Che cosa stavo facendo in quel luogo lasciando trascorrere il tempo utile per effettuare i miei buoni propositi? Mi obbligavano di trascurare un'opera tanto utile a me e ad Augusta! Stavo preparando una scusa per andarmene, ma in quel momento il salotto fu invaso dalle donne accompagnate da Guido. Questi, subito dopo l'arrivo del padre, aveva regalato alla sposa un magnifico anello. Nessuno mi guardò o salutò, nemmeno la piccola Anna. Ada aveva già al dito la gemma splendente e, sempre poggiando il braccio sulla spalla del fidanzato, la faceva vedere al padre. Le donne guardavano anche loro estatiche.

Neppure gli anelli m'interessavano. Se non portavo neppure quello matrimoniale perché m'impediva la circolazione del sangue! Senza salutare infilai la porta del salotto, andai alla porta di casa e m'accinsi ad uscire. Augusta però s'accorse della mia fuga e mi raggiunse in tempo. Fui stupito del suo aspetto sconvolto. Le sue labbra erano pallide come il giorno del nostro matrimonio, poco prima che andassimo in chiesa. Le dissi che avevo un affare di premura. Poi essendomi in buon punto ricordato che pochi giorni prima, per un capriccio, avevo comperato degli occhiali leggerissimi da presbite che poi non avevo provati dopo di averli posti nel taschino del panciotto dove li sentivo, le dissi che avevo un appuntamento con un oculista per farmi esaminare la vista che da qualche tempo mi pareva indebolita. Essa rispose che avrei potuto andarmene subito, ma che mi pregava di fare prima i miei convenevoli col padre di Guido. Mi strinsi nelle spalle dall'impazienza, ma tuttavia la compiacqui.

Rientrai nel salotto e tutti gentilmente mi salutarono. In quanto a me, sicuro che ora mi mandavano via, ebbi persino un momento di buon umore. Il padre di Guido che in tanta famiglia non si raccapezzava bene, mi domandò:

— Ci rivedremo ancora prima della mia partenza per Buenos Aires?

— Oh! - dissi io, - cada volta ch'ella verrà in questa casa, probabilmente mi ci troverà!

Tutti risero ed io me ne andai trionfalmente accompagnato anche da un saluto abbastanza lieto da parte di Augusta. Andavo via tanto ordinatamente dopo di aver corrisposto a tutte le formalità legali, che potevo camminare sicuro. Ma v'era un altro motivo che mi liberava dai dubbi che fino a quel momento m'avevano trattenuto: io correvo via dalla casa di mio suocero per allontanarmene più che fosse possibile, cioè fino da Carla. In quella casa e non per la prima volta (così mi pareva) mi sospettavano di congiurare bassamente ai danni di Guido. Innocentemente e in piena distrazione io avevo parlato di quel podere che si trovava nell'Argentina, e Giovanni subito aveva interpretate le mie parole come se fossero state meditate per danneggiare Guido presso suo padre. Con Guido mi sarebbe stato facile di spiegarmi se fosse abbisognato: con Giovanni e gli altri, che mi sospettavano capace di simili macchinazioni, bastava la vendetta. Non che io mi fossi proposto di correre a tradire Augusta. Facevo però alla luce del sole quello che desideravo. Una visita a Carla non implicava ancora niente di male ed anzi, se io da quelle parti mi fossi imbattuto ancora una volta in mia suocera, e se essa mi avesse domandato che cosa io fossi andato a farvi, le avrei subito risposto:

— Oh bella! Vado da Carla! - Fu perciò quella la sola volta che andai da Carla senza ricordare Augusta. Tanto mi aveva offeso il contegno di mio suocero!

Sul pianerottolo non sentii echeggiare la voce di Carla. Ebbi un istante di terrore: che essa fosse uscita? Bussai e subito entrai prima che qualcuno me ne avesse dato il permesso. Carla v'era bensì, ma con lei si trovava anche sua madre. Cucivano assieme in un'associazione che potrà essere frequente, ma che io mai prima avevo vista.

Lavoravano ambedue allo stesso grande lenzuolo, ai suoi lembi, una molto lontana dall'altra. Ecco ch'io ero corso da Carla e arrivavo a Carla accompagnata dalla madre. Era tutt'altra cosa. Non si potevano attuare né i buoni né i cattivi propositi. Tutto continuava a restare in sospeso.

Molto accesa, Carla si levò in piedi mentre la vecchia lentamente si levò gli occhiali che ripose in una busta. Io intanto credetti di poter essere indignato per altra ragione che non fosse quella di vedermi interdetto di chiarire subito l'animo mio. Non erano queste le ore che il Copler aveva destinate allo studio? Salutai gentilmente la vecchia signora e mi fu difficile persino di sottopormi a tale atto di gentilezza. Salutai anche Carla quasi senza guardarla. Le dissi:

— Sono venuto per vedere se possiamo cavare da questo libro - e accennai al Garcia che si trovava intatto sul tavolo al posto ove l'avevamo lasciato, - qualche altra cosa di utile.

M'assisi al posto che avevo occupato il giorno prima e subito apersi il libro. Carla tentò dapprima di sorridermi, ma visto che io non corrisposi alla sua gentilezza, sedette con una certa sollecitudine di obbedienza accanto a me, per guardare. Era esitante; non comprendeva. Io la guardai e vidi che sulla sua faccia si distendeva qualche cosa che poteva significare sdegno e ostinazione. Mi figurai che così usasse di accogliere i rimproveri del Copler. Solo essa non era ancora sicura che i miei rimproveri fossero proprio quelli che il Copler le indirizzava perché - come me lo disse poi - ricordava ch'io il giorno prima l'avevo baciata e perciò credeva di essere per sempre rassicurata sulla mia ira. Era perciò sempre ancora pronta a convertire quel suo sdegno in un sorriso amichevole. Debbo dire qui, perché più tardi non ne avrò il tempo, che questa sua fiducia di avermi addomesticato definitivamente con quel solo bacio che m'aveva concesso, mi dispiacque enormemente: una donna che pensa così è molto pericolosa.

Ma in quel momento il mio animo era proprio quello stesso del Copler, carico di rimproveri e di risentimento. Mi misi a leggere ad alta voce proprio quella parte che il giorno prima avevamo già letta e che io stesso avevo demolita, pedantescamente, e non commentando altrimenti, pesando su alcune parole che mi parevano più significative.

Con voce un po' tremante Carla m'interruppe:

— Mi pare che questo l'abbiamo già letto!

Così fui finalmente obbligato di dire parole mie. Anche la parola propria può dare un po' di salute. La mia non soltanto fu più mite del mio animo e del mio comportamento, ma addirittura mi ricondusse alla vita di società:

— Vede, signorina, - e accompagnai subito l'appellativo vezzeggiativo con un sorriso che poteva essere anche di amante, - vorrei rivedere questa roba prima di passare oltre. Forse noi ieri l'abbiamo giudicata un po' precipitosamente, ed un mio amico poco fa m'avvertì che per intendere tutto quello che il Garcia dice, bisognava studiarlo tutto.

Sentii finalmente anche il bisogno di usare un riguardo alla povera vecchia signora che certamente nel corso della sua vita e per quanto poco fortunata fosse stata, non s'era mai trovata in un frangente simile. Inviai anche a lei un sorriso che mi costò più fatica di quello regalato a Carla:

— La cosa non è molto divertente, - le dissi, - ma può essere sentita con qualche vantaggio anche da chi non si occupa di canto.

Continuai ostinatamente a leggere. Carla certamente si sentiva meglio, e sulle sue labbra carnose errava qualche cosa che somigliava ad un sorriso. La vecchia invece appariva sempre come un povero animale catturato e restava in quella stanza solo perché la sua timidezza le impediva di trovare il modo di andarsene. Io, poi, a nessun prezzo avrei tradito il mio desiderio di buttarla fuori di quella stanza. Sarebbe stata una cosa grave e compromettente.

Carla fu più decisa: con molto riguardo mi pregò sospendere per un momento quella lettura e, rivoltasi alla madre, le disse che poteva andarsene e che il lavoro a quel lenzuolo l'avrebbero continuato nel pomeriggio.

La signora s'avvicinò a me, esitante se porgermi la mano. Io gliela strinsi affettuosamente e le dissi:

— Capisco che questa lettura non è troppo divertente.

Sembrava volessi deplorare ch'essa ci lasciasse. La signora se ne andò dopo di aver posto su di una sedia il lenzuolo ch'essa fino ad allora aveva tenuto in grembo. Poi Carla la seguì per un istante sul pianerottolo per dirle qualche cosa mentre io smaniavo di averla finalmente accanto. Rientrò, chiuse dietro di sé la porta e ritornando al suo posto ebbe di nuovo attorno alla bocca qualche cosa di rigido che ricordava l'ostinazione su una faccia infantile. Disse:

— Ogni giorno a quest'ora io studio. Giusto ora doveva capitarmi di attendere a quel lavoro di premura!

— Ma non vede che a me non importa nulla del suo canto? - gridai io e l'aggredii con un abbraccio violento che mi portò a baciarla prima in bocca eppoi subito sul punto stesso ove avevo baciato il giorno prima.

Curioso! Essa si mise a piangere dirottamente e si sottrasse a me. Disse singhiozzando che aveva sofferto troppo di avermi visto entrare a quel modo. Essa piangeva per quella solita compassione di sé stesso che tocca a chi vede compianto il proprio dolore. Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia. Si piange quando si grida all'ingiustizia. Era infatti ingiusto di obbligare allo studio questa bella fanciulla che si poteva baciare.

In complesso andava peggio di quanto m'ero figurato. Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l'esatta verità. Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla. Io m'ero proposto di venir da lei di buon'ora; in questo proposito avevo persino passata la notte. Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d'importante. Era vero che la stessa dolorosa impazienza l'avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo abbandonarla per sempre e quand'ero accorso per prenderla fra le mie braccia. Poi le raccontai degli avvenimenti della mattina e come mia moglie m'avesse obbligato di uscire con lei e m'avesse condotto da mio suocero ove ero stato immobilizzato ad ascoltare come si discorreva di affari che non mi toccavano. Infine, con grandi sforzi arrivo a svincolarmi e a fare la lunga via a passo celere e che cosa trovo?... La stanza tutta ingombra di quel lenzuolo!

Carla scoppiò a ridere perché comprese che in me non v'era niente del Copler. Il riso sulla sua bella faccia pareva l'arcobaleno ed io la baciai ancora. Essa non rispondeva alle mie carezze, ma le subiva sommessa, un atteggiamento ch'io adoro forse perché amo il sesso debole in proporzione diretta della sua debolezza. Per la prima volta essa mi raccontò d'aver risaputo dal Copler ch'io amavo tanto mia moglie:

— Perciò - aggiunse ed io vidi passare sulla sua bella faccia l'ombra del proposito serio, - fra noi due non ci può essere che una buona amicizia e niente altro.

Io a quel proposito tanto saggio non credetti molto perché quella stessa bocca che lo esprimeva non sapeva neppur allora sottrarsi ai miei baci.

Carla parlò lungamente. Voleva evidentemente destare la mia compassione. Ricordo tutto quello ch'essa mi disse e cui credetti solo quando essa sparì dalla mia vita. Finché l'ebbi accanto, sempre la paventai come una donna che prima o poi avrebbe approfittato del suo ascendente su di me per rovinare me e la mia famiglia. Non le credetti quand'essa m'assicurò che non domandava altro che di essere sicura della propria e della vita della madre. Ora lo so con certezza ch'essa mai ebbe il proposito di ottenere da me più di quanto le occorresse, e quando penso a lei arrossisco dalla vergogna di averla compresa e amata tanto male. Essa, poverina, non ebbe nulla da me. Io le avrei dato tutto, perché io sono di quelli che pagano i proprii debiti. Ma aspettavo sempre che me lo domandasse.

Mi raccontò dello stato disperato in cui s'era trovata alla morte di suo padre. Per mesi e mesi lei e la vecchia erano state obbligate a lavorare giorno e notte a certi ricami che venivano commessi loro da un mercante. Ingenuamente essa credeva che l'aiuto dovesse venire dalla provvidenza divina tant'è vero che talvolta per ore era rimasta alla finestra per guardare sulla via, donde doveva giungere. Venne invece il Copler. Ora essa si diceva contenta del suo stato, ma lei e sua madre passavano le notti inquiete perché l'aiuto che veniva concesso era ben precario. Se un giorno fosse risultato ch'essa non aveva né la voce né il talento per cantare? Il Copler le avrebbe abbandonate. Poi egli parlava di farla apparire su un teatro di lì a pochi mesi. E se ci fosse stato un vero e proprio fiasco?

Sempre nello sforzo di destare la mia compassione, essa mi raccontò che la disgrazia finanziaria della sua famiglia aveva anche travolto un suo sogno d'amore: il suo fidanzato l'aveva abbandonata.

Io ero sempre lontano dalla compassione. Le dissi: - Quel suo fidanzato l'avrà baciata molto? Come faccio io?

Essa rise perché le impedivo di parlare. Io vidi così dinanzi a me un uomo che mi segnava la via.

Era da lungo tempo trascorsa l'ora in cui avrei dovuto trovarmi a colazione a casa. Avrei voluto andarmene. Per quel giorno bastava. Ero ben lontano da quel rimorso che m'aveva tenuto desto durante la notte, e l'inquietudine che m'aveva trascinato da Carla era del tutto scomparsa. Ma tranquillo non ero. È, forse, mio destino di non esserlo mai. Non avevo rimorsi perché intanto Carla m'aveva promesso tanti baci che volevo a nome di un'amicizia che non poteva offendere Augusta. Mi parve di scoprire la ragione del malcontento che come al solito faceva serpeggiare vaghi dolori nel mio organismo. Carla mi vedeva in una luce falsa! Carla poteva disprezzarmi vedendomi tanto desideroso dei suoi baci quando amavo Augusta! Quella stessa Carla che faceva mostra di stimarmi tanto perché di me aveva tanto bisogno!

Decisi di conquistarmi la sua stima e dissi delle parole che dovevano dolermi come il ricordo di un crimine vigliacco, come un tradimento commesso per libera elezione, senza necessità e senza nessun vantaggio.

Ero quasi alla porta e con l'aspetto di persona serena che a malincuore si confessi, dissi a Carla:

— Il Copler le ha raccontato dell'affetto ch'io porto a mia moglie. È vero: io stimo molto mia moglie.

Poi le raccontai per filo e per segno la storia del mio matrimonio, come mi fossi innamorato della sorella maggiore di Augusta che non aveva voluto saperne di me perché innamorata di un altro, come poi avessi tentato di sposare un'altra delle sue sorelle che pure mi respinse e come infine mi adattassi a sposare lei.

Carla credette subito nell'esattezza di questo racconto. Poi seppi che il Copler ne aveva appreso qualche cosa a casa mia e le aveva riferito dei particolari non del tutto veri, ma quasi, ch'io avevo ora rettificato e confermato.

— È bella la sua signora? - domandò essa pensierosa.

— Secondo i gusti, - dissi io.

C'era qualche centro proibitivo che agiva ancora in me. Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non amarla. Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse piacermi. In quel momento mi pareva di essere molto sincero; ora so di aver tradito con quelle parole tutt'e due le donne e tutto l'amore, il mio e il loro.

A dire il vero non ero ancora tranquillo; dunque mancava ancora qualche cosa. Mi sovvenni della busta dai buoni propositi e l'offersi a Carla. Essa l'aperse e me la restituì dicendomi che pochi giorni prima il Copler le aveva portata la mesata e che per il momento essa proprio non aveva bisogno di danaro. La mia inquietudine aumentò per un'antica idea che m'ero fatta che le donne veramente pericolose non accettano poco denaro. Essa s'avvide del mio malessere e con un'ingenuità deliziosa e che apprezzo solamente ora che ne scrivo, mi domandò poche corone con le quali avrebbe acquistati dei piatti di cui le due donne erano state private da una catastrofe in cucina.

Ma poi avvenne una cosa che lasciò un segno indelebile nella mia memoria. Al momento di andarmene io la baciai, ma questa volta, con tutta intensità, essa rispose al mio bacio. Il mio veleno aveva agito. Essa disse con tutta ingenuità:

— Io le voglio bene perché lei è tanto buono che neppure la ricchezza poté guastarla.

Poi aggiunse con malizia:

— Io so ora che non bisogna farla attendere e che fuori di quel pericolo non ce n'è altro con lei.

Sul pianerottolo essa domandò ancora:

— Potrò mandare a quel paese il maestro di canto assieme al Copler?

Scendendo rapidamente le scale io le dissi:

— Vedremo!

Ecco che qualche cosa restava tuttavia in sospeso nei nostri rapporti; tutto il resto era stato chiaramente stabilito.

Me ne derivò tale malessere, che quando arrivai all'aria aperta, indeciso mi mossi nella direzione opposta a quella della mia casa. Avrei quasi avuto il desiderio di ritornare subito subito da Carla per spiegarle ancora qualche cosa: il mio amore per Augusta. Si poteva farlo perché io non avevo detto di non amarla. Soltanto, come conclusione a quella vera storia che avevo raccontata, avevo dimenticato di dire che oramai io amavo veramente Augusta. Carla, poi, ne aveva dedotto che non l'amavo affatto e perciò aveva corrisposto tanto fervidamente al mio bacio, sottolineandolo con una sua dichiarazione di amore. Mi pareva che, se non ci fosse stato tale episodio, io avrei potuto sopportare più facilmente lo sguardo confidente di Augusta. E pensare che poco prima io ero stato lieto di apprendere che Carla sapesse del mio amore per mia moglie e che così, per sua decisione, l'avventura ch'io aveva cercata mi venisse offerta nella forma di un'amicizia condita da baci.

4.4 La Moglie e l'Amante 4.4 Die Ehefrau und der Liebhaber 4.4 Η σύζυγος και ο εραστής 4.4 La femme et l'amant 4.4 A mulher e o amante

Prima di mettermi a dormire, come m'avviene di spesso, guardai lungamente mia moglie che già dormiva raccolta nella sua lieve respirazione. Anche dormendo essa era tutta ordinata, con le coperte fino al mento e i capelli non abbondanti riuniti in una breve treccia annodata alla nuca. Pensai: «Non voglio procurarle dei dolori. Mai!». Mi addormentai tranquillo. Il giorno seguente avrei chiarita la mia relazione con Carla e avrei trovato il modo di rassicurare la povera fanciulla del suo avvenire, senza perciò essere obbligato di darle dei baci.

Ebbi un sogno bizzarro: non solo baciavo il collo di Carla, ma lo mangiavo. Era però un collo fatto in modo che le ferite ch'io le infliggevo con rabbiosa voluttà non sanguinavano, e il collo restava perciò sempre coperto dalla sua bianca pelle e inalterato nella sua forma lievemente arcuata. Carla, abbandonata fra le mie braccia, non pareva soffrisse dei miei morsi. Chi invece ne soffriva era Augusta che improvvisamente era accorsa. Per tranquillarla le dicevo: «Non lo mangerò tutto: ne lascerò un pezzo anche a te».

Il sogno ebbe l'aspetto di un incubo soltanto quando in mezzo alla notte mi destai e la mia mente snebbiata poté ricordarlo, ma non prima, perché finché durò, neppure la presenza di Augusta m'aveva levato il sentimento di soddisfazione ch'esso mi procurava.

Non appena desto, ebbi la piena coscienza della forza del mio desiderio e del pericolo ch'esso rappresentava per Augusta e anche per me. Forse nel grembo della donna che mi dormiva accanto già s'iniziava un'altra vita di cui sarei stato responsabile. Chissà quello che avrebbe preteso Carla quando fosse stata la mia amante? A me pareva desiderosa del godimento che fino ad allora le era stato conteso, e come avrei io saputo provvedere a due famiglie? Augusta domandava l'utile lavanderia, l'altra avrebbe domandata qualche altra cosa, ma non meno costosa. Rividi Carla mentre dal pianerottolo mi salutava ridendo dopo di essere stata baciata. Essa già sapeva ch'io sarei stato la sua preda. N'ebbi spavento e là, solo e nell'oscurità, non seppi trattenere un gemito.

Mia moglie, subito desta, mi domandò che cosa avessi ed io risposi con una breve parola, la prima che mi si fosse affacciata alla mente quando seppi rimettermi dallo spavento di vedermi interrogato in un momento in cui mi pareva di aver gridata una confessione:

— Penso alla vecchiaia incombente!

Ella rise e cercò di consolarmi senza perciò tagliare il sonno cui s'aggrappava. M'inviò la frase stessa che sempre mi diceva quando mi vedeva spaventato del tempo che andava via:

— Non pensarci, ora che siamo giovani... il sonno è tanto buono!

L'esortazione giovò: non ci pensai più e mi riaddormentai. La parola nella notte è come un raggio di luce. Illumina un tratto di realtà in confronto al quale sbiadiscono le costruzioni della fantasia. Perché avevo tanto da temere della povera Carla di cui ancora non ero l'amante? Era evidente che avevo fatto di tutto per spaventarmi della mia situazione. Infine, il bébé che avevo evocato nel grembo di Augusta finora non aveva dato altro segno di vita che la costruzione della lavanderia.

Mi alzai sempre accompagnato dai migliori propositi. Corsi al mio studio e preparai in una busta qualche poco di denaro che volevo offrire a Carla nello stesso istante in cui le avrei annunziato il mio abbandono. Però mi sarei dichiarato pronto di mandarle per posta dell'altro denaro ogni qualvolta essa me ne avesse domandato scrivendomi ad un indirizzo che le avrei fatto sapere. Proprio quando m'accingevo ad uscire, Augusta m'invitò con un dolce sorriso ad accompagnarla in casa del padre. Era arrivato da Buenos Aires il padre di Guido per assistere alle nozze, e bisognava andare a farne la conoscenza. Essa certamente si curava meno del padre di Guido che di me. Voleva rinnovare la dolcezza del giorno prima. Ma la cosa non era più la stessa: a me pareva fosse male lasciar trascorrere del tempo fra il mio buon proposito e la sua esecuzione. Intanto che noi camminavamo sulla via uno accanto all'altro e, all'apparenza, sicuri del nostro affetto, l'altra si riteneva già amata da me. Ciò era male. Sentii quella passeggiata come una vera e propria constrizione.

Trovammo Giovanni che stava realmente meglio. Solo non poteva mettere gli stivali per una certa gonfiezza ai piedi cui egli non attribuiva importanza ed io in allora neppure. Si trovava in salotto col padre di Guido cui mi presentò. Augusta ci lasciò subito per andare a raggiungere la madre e la sorella.

Il Signor Francesco Speier mi parve un uomo molto meno istruito del figlio. Era piccolo, tozzo, sulla sessantina, di poche idee e di poca vivacità, forse anche perché in seguito ad una malattia aveva l'orecchio molto indebolito. Ficcava qualche parola spagnuola nel suo italiano:

— Cada volta che vengo a Trieste...

I due vecchi parlavano di affari, e Giovanni ascoltava attentamente perché quegli affari erano molto importanti per il destino di Ada. Stetti ad ascoltare distrattamente. Sentii che il vecchio Speier aveva deciso di liquidare i suoi affari nell'Argentina e di consegnare a Guido tutti i suoi duros perché li impiegasse alla fondazione di una ditta a Trieste; poi egli sarebbe ritornato a Buenos Aires per vivere con la moglie e con la figlia con un piccolo podere che gli rimaneva. Non compresi perché raccontasse in mia presenza a Giovanni tutto ciò, né lo so neppur oggi.

A me parve che ambedue a un dato punto cessassero di parlare, guardandomi come se avessero aspettato da me un consiglio ed io, per essere gentile, osservai:

— Non dev'essere piccolo quel podere se le basta per viverci!

Giovanni urlò subito:

— Ma che cosa vai dicendo? - Lo scoppio di voce ricordava i suoi migliori tempi, ma è certo che se egli non avesse urlato tanto, il signor Francesco non avrebbe rilevata la mia osservazione. Così, invece, impallidì e disse:

— Spero bene che Guido non mancherà di pagarmi gl'interessi del mio capitale.

Giovanni, sempre urlando, cercò di rassicurarlo:

— Altro che gl'interessi! Anche il doppio se le occorrerà! Non è forse suo figlio?

Il signor Francesco tuttavia non parve molto rasserenato ed aspettava proprio da me una parola che lo rassicurasse. Io la diedi subito e abbondante perché il vecchio ora sentiva meno di prima.

Poi il discorso fra i due uomini di affari continuò, ma io mi guardai bene dall'intervenire più oltre. Giovanni mi guardava di tempo in tempo al disopra degli occhiali per sorvegliarmi e il suo respiro pesante pareva una minaccia. Parlò poi a lungo e mi domandò a un dato punto:

— Ti pare?

Io annuii fervidamente.

Tanto più fervido dovette apparire il mio consenso in quanto ogni mio atto era reso più espressivo dalla rabbia che sempre più mi pervadeva. Che cosa stavo facendo in quel luogo lasciando trascorrere il tempo utile per effettuare i miei buoni propositi? Mi obbligavano di trascurare un'opera tanto utile a me e ad Augusta! Stavo preparando una scusa per andarmene, ma in quel momento il salotto fu invaso dalle donne accompagnate da Guido. Questi, subito dopo l'arrivo del padre, aveva regalato alla sposa un magnifico anello. Nessuno mi guardò o salutò, nemmeno la piccola Anna. Ada aveva già al dito la gemma splendente e, sempre poggiando il braccio sulla spalla del fidanzato, la faceva vedere al padre. Le donne guardavano anche loro estatiche.

Neppure gli anelli m'interessavano. Se non portavo neppure quello matrimoniale perché m'impediva la circolazione del sangue! Senza salutare infilai la porta del salotto, andai alla porta di casa e m'accinsi ad uscire. Augusta però s'accorse della mia fuga e mi raggiunse in tempo. Fui stupito del suo aspetto sconvolto. Le sue labbra erano pallide come il giorno del nostro matrimonio, poco prima che andassimo in chiesa. Le dissi che avevo un affare di premura. Poi essendomi in buon punto ricordato che pochi giorni prima, per un capriccio, avevo comperato degli occhiali leggerissimi da presbite che poi non avevo provati dopo di averli posti nel taschino del panciotto dove li sentivo, le dissi che avevo un appuntamento con un oculista per farmi esaminare la vista che da qualche tempo mi pareva indebolita. Essa rispose che avrei potuto andarmene subito, ma che mi pregava di fare prima i miei convenevoli col padre di Guido. Mi strinsi nelle spalle dall'impazienza, ma tuttavia la compiacqui.

Rientrai nel salotto e tutti gentilmente mi salutarono. In quanto a me, sicuro che ora mi mandavano via, ebbi persino un momento di buon umore. Il padre di Guido che in tanta famiglia non si raccapezzava bene, mi domandò:

— Ci rivedremo ancora prima della mia partenza per Buenos Aires?

— Oh! - dissi io, - cada volta ch'ella verrà in questa casa, probabilmente mi ci troverà!

Tutti risero ed io me ne andai trionfalmente accompagnato anche da un saluto abbastanza lieto da parte di Augusta. Andavo via tanto ordinatamente dopo di aver corrisposto a tutte le formalità legali, che potevo camminare sicuro. Ma v'era un altro motivo che mi liberava dai dubbi che fino a quel momento m'avevano trattenuto: io correvo via dalla casa di mio suocero per allontanarmene più che fosse possibile, cioè fino da Carla. In quella casa e non per la prima volta (così mi pareva) mi sospettavano di congiurare bassamente ai danni di Guido. Innocentemente e in piena distrazione io avevo parlato di quel podere che si trovava nell'Argentina, e Giovanni subito aveva interpretate le mie parole come se fossero state meditate per danneggiare Guido presso suo padre. Con Guido mi sarebbe stato facile di spiegarmi se fosse abbisognato: con Giovanni e gli altri, che mi sospettavano capace di simili macchinazioni, bastava la vendetta. Non che io mi fossi proposto di correre a tradire Augusta. Facevo però alla luce del sole quello che desideravo. Una visita a Carla non implicava ancora niente di male ed anzi, se io da quelle parti mi fossi imbattuto ancora una volta in mia suocera, e se essa mi avesse domandato che cosa io fossi andato a farvi, le avrei subito risposto:

— Oh bella! Vado da Carla! - Fu perciò quella la sola volta che andai da Carla senza ricordare Augusta. Tanto mi aveva offeso il contegno di mio suocero!

Sul pianerottolo non sentii echeggiare la voce di Carla. Ebbi un istante di terrore: che essa fosse uscita? Bussai e subito entrai prima che qualcuno me ne avesse dato il permesso. Carla v'era bensì, ma con lei si trovava anche sua madre. Cucivano assieme in un'associazione che potrà essere frequente, ma che io mai prima avevo vista.

Lavoravano ambedue allo stesso grande lenzuolo, ai suoi lembi, una molto lontana dall'altra. Ecco ch'io ero corso da Carla e arrivavo a Carla accompagnata dalla madre. Era tutt'altra cosa. Non si potevano attuare né i buoni né i cattivi propositi. Tutto continuava a restare in sospeso.

Molto accesa, Carla si levò in piedi mentre la vecchia lentamente si levò gli occhiali che ripose in una busta. Io intanto credetti di poter essere indignato per altra ragione che non fosse quella di vedermi interdetto di chiarire subito l'animo mio. Non erano queste le ore che il Copler aveva destinate allo studio? Salutai gentilmente la vecchia signora e mi fu difficile persino di sottopormi a tale atto di gentilezza. Salutai anche Carla quasi senza guardarla. Le dissi:

— Sono venuto per vedere se possiamo cavare da questo libro - e accennai al Garcia che si trovava intatto sul tavolo al posto ove l'avevamo lasciato, - qualche altra cosa di utile.

M'assisi al posto che avevo occupato il giorno prima e subito apersi il libro. Carla tentò dapprima di sorridermi, ma visto che io non corrisposi alla sua gentilezza, sedette con una certa sollecitudine di obbedienza accanto a me, per guardare. Era esitante; non comprendeva. Io la guardai e vidi che sulla sua faccia si distendeva qualche cosa che poteva significare sdegno e ostinazione. Mi figurai che così usasse di accogliere i rimproveri del Copler. Solo essa non era ancora sicura che i miei rimproveri fossero proprio quelli che il Copler le indirizzava perché - come me lo disse poi - ricordava ch'io il giorno prima l'avevo baciata e perciò credeva di essere per sempre rassicurata sulla mia ira. Era perciò sempre ancora pronta a convertire quel suo sdegno in un sorriso amichevole. Debbo dire qui, perché più tardi non ne avrò il tempo, che questa sua fiducia di avermi addomesticato definitivamente con quel solo bacio che m'aveva concesso, mi dispiacque enormemente: una donna che pensa così è molto pericolosa.

Ma in quel momento il mio animo era proprio quello stesso del Copler, carico di rimproveri e di risentimento. Mi misi a leggere ad alta voce proprio quella parte che il giorno prima avevamo già letta e che io stesso avevo demolita, pedantescamente, e non commentando altrimenti, pesando su alcune parole che mi parevano più significative.

Con voce un po' tremante Carla m'interruppe:

— Mi pare che questo l'abbiamo già letto!

Così fui finalmente obbligato di dire parole mie. Anche la parola propria può dare un po' di salute. La mia non soltanto fu più mite del mio animo e del mio comportamento, ma addirittura mi ricondusse alla vita di società:

— Vede, signorina, - e accompagnai subito l'appellativo vezzeggiativo con un sorriso che poteva essere anche di amante, - vorrei rivedere questa roba prima di passare oltre. Forse noi ieri l'abbiamo giudicata un po' precipitosamente, ed un mio amico poco fa m'avvertì che per intendere tutto quello che il Garcia dice, bisognava studiarlo tutto.

Sentii finalmente anche il bisogno di usare un riguardo alla povera vecchia signora che certamente nel corso della sua vita e per quanto poco fortunata fosse stata, non s'era mai trovata in un frangente simile. Inviai anche a lei un sorriso che mi costò più fatica di quello regalato a Carla:

— La cosa non è molto divertente, - le dissi, - ma può essere sentita con qualche vantaggio anche da chi non si occupa di canto.

Continuai ostinatamente a leggere. Carla certamente si sentiva meglio, e sulle sue labbra carnose errava qualche cosa che somigliava ad un sorriso. La vecchia invece appariva sempre come un povero animale catturato e restava in quella stanza solo perché la sua timidezza le impediva di trovare il modo di andarsene. Io, poi, a nessun prezzo avrei tradito il mio desiderio di buttarla fuori di quella stanza. Sarebbe stata una cosa grave e compromettente.

Carla fu più decisa: con molto riguardo mi pregò sospendere per un momento quella lettura e, rivoltasi alla madre, le disse che poteva andarsene e che il lavoro a quel lenzuolo l'avrebbero continuato nel pomeriggio.

La signora s'avvicinò a me, esitante se porgermi la mano. Io gliela strinsi affettuosamente e le dissi:

— Capisco che questa lettura non è troppo divertente.

Sembrava volessi deplorare ch'essa ci lasciasse. La signora se ne andò dopo di aver posto su di una sedia il lenzuolo ch'essa fino ad allora aveva tenuto in grembo. Poi Carla la seguì per un istante sul pianerottolo per dirle qualche cosa mentre io smaniavo di averla finalmente accanto. Rientrò, chiuse dietro di sé la porta e ritornando al suo posto ebbe di nuovo attorno alla bocca qualche cosa di rigido che ricordava l'ostinazione su una faccia infantile. Disse:

— Ogni giorno a quest'ora io studio. Giusto ora doveva capitarmi di attendere a quel lavoro di premura!

— Ma non vede che a me non importa nulla del suo canto? - gridai io e l'aggredii con un abbraccio violento che mi portò a baciarla prima in bocca eppoi subito sul punto stesso ove avevo baciato il giorno prima.

Curioso! Essa si mise a piangere dirottamente e si sottrasse a me. Disse singhiozzando che aveva sofferto troppo di avermi visto entrare a quel modo. Essa piangeva per quella solita compassione di sé stesso che tocca a chi vede compianto il proprio dolore. Le lacrime non sono espresse dal dolore, ma dalla sua storia. Si piange quando si grida all'ingiustizia. Era infatti ingiusto di obbligare allo studio questa bella fanciulla che si poteva baciare.

In complesso andava peggio di quanto m'ero figurato. Dovetti spiegarmi e per far presto non mi presi il tempo necessario per inventare e raccontai l'esatta verità. Le dissi della mia impazienza di vederla e di baciarla. Io m'ero proposto di venir da lei di buon'ora; in questo proposito avevo persino passata la notte. Naturalmente non seppi dire che cosa mi prefiggessi di fare venendo da lei, ma ciò era poco d'importante. Era vero che la stessa dolorosa impazienza l'avevo sentita quando avevo voluto andare da lei per dirle che volevo abbandonarla per sempre e quand'ero accorso per prenderla fra le mie braccia. Poi le raccontai degli avvenimenti della mattina e come mia moglie m'avesse obbligato di uscire con lei e m'avesse condotto da mio suocero ove ero stato immobilizzato ad ascoltare come si discorreva di affari che non mi toccavano. Infine, con grandi sforzi arrivo a svincolarmi e a fare la lunga via a passo celere e che cosa trovo?... La stanza tutta ingombra di quel lenzuolo!

Carla scoppiò a ridere perché comprese che in me non v'era niente del Copler. Il riso sulla sua bella faccia pareva l'arcobaleno ed io la baciai ancora. Essa non rispondeva alle mie carezze, ma le subiva sommessa, un atteggiamento ch'io adoro forse perché amo il sesso debole in proporzione diretta della sua debolezza. Per la prima volta essa mi raccontò d'aver risaputo dal Copler ch'io amavo tanto mia moglie:

— Perciò - aggiunse ed io vidi passare sulla sua bella faccia l'ombra del proposito serio, - fra noi due non ci può essere che una buona amicizia e niente altro.

Io a quel proposito tanto saggio non credetti molto perché quella stessa bocca che lo esprimeva non sapeva neppur allora sottrarsi ai miei baci.

Carla parlò lungamente. Voleva evidentemente destare la mia compassione. Ricordo tutto quello ch'essa mi disse e cui credetti solo quando essa sparì dalla mia vita. Finché l'ebbi accanto, sempre la paventai come una donna che prima o poi avrebbe approfittato del suo ascendente su di me per rovinare me e la mia famiglia. Non le credetti quand'essa m'assicurò che non domandava altro che di essere sicura della propria e della vita della madre. Ora lo so con certezza ch'essa mai ebbe il proposito di ottenere da me più di quanto le occorresse, e quando penso a lei arrossisco dalla vergogna di averla compresa e amata tanto male. Essa, poverina, non ebbe nulla da me. Io le avrei dato tutto, perché io sono di quelli che pagano i proprii debiti. Ma aspettavo sempre che me lo domandasse.

Mi raccontò dello stato disperato in cui s'era trovata alla morte di suo padre. Per mesi e mesi lei e la vecchia erano state obbligate a lavorare giorno e notte a certi ricami che venivano commessi loro da un mercante. Ingenuamente essa credeva che l'aiuto dovesse venire dalla provvidenza divina tant'è vero che talvolta per ore era rimasta alla finestra per guardare sulla via, donde doveva giungere. Venne invece il Copler. Ora essa si diceva contenta del suo stato, ma lei e sua madre passavano le notti inquiete perché l'aiuto che veniva concesso era ben precario. Se un giorno fosse risultato ch'essa non aveva né la voce né il talento per cantare? Il Copler le avrebbe abbandonate. Poi egli parlava di farla apparire su un teatro di lì a pochi mesi. E se ci fosse stato un vero e proprio fiasco?

Sempre nello sforzo di destare la mia compassione, essa mi raccontò che la disgrazia finanziaria della sua famiglia aveva anche travolto un suo sogno d'amore: il suo fidanzato l'aveva abbandonata.

Io ero sempre lontano dalla compassione. Le dissi: - Quel suo fidanzato l'avrà baciata molto? Come faccio io?

Essa rise perché le impedivo di parlare. Io vidi così dinanzi a me un uomo che mi segnava la via.

Era da lungo tempo trascorsa l'ora in cui avrei dovuto trovarmi a colazione a casa. Avrei voluto andarmene. Per quel giorno bastava. Ero ben lontano da quel rimorso che m'aveva tenuto desto durante la notte, e l'inquietudine che m'aveva trascinato da Carla era del tutto scomparsa. Ma tranquillo non ero. È, forse, mio destino di non esserlo mai. Non avevo rimorsi perché intanto Carla m'aveva promesso tanti baci che volevo a nome di un'amicizia che non poteva offendere Augusta. Mi parve di scoprire la ragione del malcontento che come al solito faceva serpeggiare vaghi dolori nel mio organismo. Carla mi vedeva in una luce falsa! Carla poteva disprezzarmi vedendomi tanto desideroso dei suoi baci quando amavo Augusta! Quella stessa Carla che faceva mostra di stimarmi tanto perché di me aveva tanto bisogno!

Decisi di conquistarmi la sua stima e dissi delle parole che dovevano dolermi come il ricordo di un crimine vigliacco, come un tradimento commesso per libera elezione, senza necessità e senza nessun vantaggio.

Ero quasi alla porta e con l'aspetto di persona serena che a malincuore si confessi, dissi a Carla:

— Il Copler le ha raccontato dell'affetto ch'io porto a mia moglie. È vero: io stimo molto mia moglie.

Poi le raccontai per filo e per segno la storia del mio matrimonio, come mi fossi innamorato della sorella maggiore di Augusta che non aveva voluto saperne di me perché innamorata di un altro, come poi avessi tentato di sposare un'altra delle sue sorelle che pure mi respinse e come infine mi adattassi a sposare lei.

Carla credette subito nell'esattezza di questo racconto. Poi seppi che il Copler ne aveva appreso qualche cosa a casa mia e le aveva riferito dei particolari non del tutto veri, ma quasi, ch'io avevo ora rettificato e confermato.

— È bella la sua signora? - domandò essa pensierosa.

— Secondo i gusti, - dissi io.

C'era qualche centro proibitivo che agiva ancora in me. Avevo detto di stimare mia moglie, ma non avevo mica ancora detto di non amarla. Non avevo detto che mi piacesse, ma neppure che non potesse piacermi. In quel momento mi pareva di essere molto sincero; ora so di aver tradito con quelle parole tutt'e due le donne e tutto l'amore, il mio e il loro.

A dire il vero non ero ancora tranquillo; dunque mancava ancora qualche cosa. Mi sovvenni della busta dai buoni propositi e l'offersi a Carla. Essa l'aperse e me la restituì dicendomi che pochi giorni prima il Copler le aveva portata la mesata e che per il momento essa proprio non aveva bisogno di danaro. La mia inquietudine aumentò per un'antica idea che m'ero fatta che le donne veramente pericolose non accettano poco denaro. Essa s'avvide del mio malessere e con un'ingenuità deliziosa e che apprezzo solamente ora che ne scrivo, mi domandò poche corone con le quali avrebbe acquistati dei piatti di cui le due donne erano state private da una catastrofe in cucina.

Ma poi avvenne una cosa che lasciò un segno indelebile nella mia memoria. Al momento di andarmene io la baciai, ma questa volta, con tutta intensità, essa rispose al mio bacio. Il mio veleno aveva agito. Essa disse con tutta ingenuità:

— Io le voglio bene perché lei è tanto buono che neppure la ricchezza poté guastarla.

Poi aggiunse con malizia:

— Io so ora che non bisogna farla attendere e che fuori di quel pericolo non ce n'è altro con lei.

Sul pianerottolo essa domandò ancora:

— Potrò mandare a quel paese il maestro di canto assieme al Copler?

Scendendo rapidamente le scale io le dissi:

— Vedremo!

Ecco che qualche cosa restava tuttavia in sospeso nei nostri rapporti; tutto il resto era stato chiaramente stabilito.

Me ne derivò tale malessere, che quando arrivai all'aria aperta, indeciso mi mossi nella direzione opposta a quella della mia casa. Avrei quasi avuto il desiderio di ritornare subito subito da Carla per spiegarle ancora qualche cosa: il mio amore per Augusta. Si poteva farlo perché io non avevo detto di non amarla. Soltanto, come conclusione a quella vera storia che avevo raccontata, avevo dimenticato di dire che oramai io amavo veramente Augusta. Carla, poi, ne aveva dedotto che non l'amavo affatto e perciò aveva corrisposto tanto fervidamente al mio bacio, sottolineandolo con una sua dichiarazione di amore. Mi pareva che, se non ci fosse stato tale episodio, io avrei potuto sopportare più facilmente lo sguardo confidente di Augusta. E pensare che poco prima io ero stato lieto di apprendere che Carla sapesse del mio amore per mia moglie e che così, per sua decisione, l'avventura ch'io aveva cercata mi venisse offerta nella forma di un'amicizia condita da baci.