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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 6.1 Psico-Analisi

6.1 Psico-Analisi

3 Maggio 1915

L'ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.

In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia più di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli. Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi trovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterò più facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso.

Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano. Dicevo loro: «Non siete mica voi!». Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.

Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura. Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività. Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo. Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro. Non m'è più imposto alcuno sforzo. Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove. La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.

Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire. Era una malattia che mi elevava alla più alta nobiltà. Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano. Ne rido di cuore. La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito. Questa prova convincerebbe anche il dottore. Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza. Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.

Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi. Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.

Ed io non simulai quell'emozione. Fu anzi una delle più profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita. Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi. Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di più della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.

È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.

Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani. Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione. Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette. Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute. E il dottore registrava. Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello». In verità, noi non avevamo più che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.

Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare. C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora. E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai. Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giù, giù, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina. Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe. Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore. Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa. All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello più giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui. Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa. Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodì! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare. Era stata una visione di un'evidenza enorme. Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo. Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani. E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città. Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche. Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono più non appena io uscii dall'infanzia.

La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca. Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola. Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno. Più tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.

La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché più vasta di qualunque altra che vi è realmente. È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina. Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.

La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole. Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero. Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò più a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua. Ma non vi riuscii. Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza. Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra. Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo. Mi disse:

— Mi presti il tuo cucchiaio?

Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio. Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:

— Sì! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.

Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore. Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:

— Vergogna! Strozzino!

Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente. Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.

Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica. Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa. Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.

La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla. Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto. Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.

Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa. Il nostro tinello nelle ore pomeridiane. Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede. Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole. M'avvicino sempre più a mamma. Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi. A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro. La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà. Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...

Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio. Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma. Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo più e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.

Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuì tale importanza da dichiararmi guarito.

Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo. Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui. Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo. Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio. Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane. Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata. Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui. In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore. Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca. Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo più strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.

Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla. A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso più infantile.

Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:

— Vostra madre era bionda e formosa?

Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale. Ma per lui ero guarito, ben guarito. Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non più indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.

Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo. Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione. Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente. Egli allora faceva tanto d'occhi. Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie. In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre. Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.

Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura. Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo più alcuno. Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno. Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione. Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare. «Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti. Dimostravo così anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me. Edipo infantile era fatto proprio così: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre. Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede. Quasi dovetti recere.

Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventù, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire. Visto che accanto al dottore non venivano più, tentai di evocarle lontano da lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre. Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?

Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituì. Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica. Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici. I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.


6.1 Psico-Analisi 6.1 Psycho-Analysis 6.1 Psychanalyse 6.1 Psicanálise

3 Maggio 1915

L'ho finita con la psico-analisi. Dopo di averla praticata assiduamente per sei mesi interi sto peggio di prima. Non ho ancora congedato il dottore, ma la mia risoluzione è irrevocabile. Ieri intanto gli mandai a dire ch'ero impedito, e per qualche giorno lascio che m'aspetti. Se fossi ben sicuro di saper ridere di lui senz'adirarmi, sarei anche capace di rivederlo. Ma ho paura che finirei col mettergli le mani addosso.

In questa città, dopo lo scoppio della guerra, ci si annoia più di prima e, per rimpiazzare la psico-analisi, io mi rimetto ai miei cari fogli. Da un anno non avevo scritto una parola, in questo come in tutto il resto obbediente alle prescrizioni del dottore il quale asseriva che durante la cura dovevo raccogliermi solo accanto a lui perché un raccoglimento da lui non sorvegliato avrebbe rafforzati i freni che impedivano la mia sincerità, il mio abbandono. Ma ora mi trovo squilibrato e malato più che mai e, scrivendo, credo che mi netterò più facilmente del male che la cura m'ha fatto. Almeno sono sicuro che questo è il vero sistema per ridare importanza ad un passato che più non duole e far andare via più rapido il presente uggioso.

Tanto fiduciosamente m'ero abbandonato al dottore che quando egli mi disse ch'ero guarito, gli credetti con fede intera e invece non credetti ai miei dolori che tuttavia m'assalivano. Dicevo loro: «Non siete mica voi!». Ma adesso non v'è dubbio! Son proprio loro! Le ossa delle mie gambe si sono convertite in lische vibranti che ledono la carne e i muscoli.

Ma di ciò non m'importerebbe gran fatto e non è questa la ragione per cui lascio la cura. Se le ore di raccoglimento presso il dottore avessero continuato ad essere interessanti apportatrici di sorprese e di emozioni, non le avrei abbandonate o, per abbandonarle, avrei atteso la fine della guerra che m'impedisce ogni altra attività. Ma ora che sapevo tutto, cioè che non si trattava d'altro che di una sciocca illusione, un trucco buono per commuovere qualche vecchia donna isterica, come potevo sopportare la compagnia di quell'uomo ridicolo, con quel suo occhio che vuole essere scrutatore e quella sua presunzione che gli permette di aggruppare tutti i fenomeni di questo mondo intorno alla sua grande, nuova teoria? Impiegherò il tempo che mi resta libero scrivendo. Scriverò intanto sinceramente la storia della mia cura. Ogni sincerità fra me e il dottore era sparita ed ora respiro. Non m'è più imposto alcuno sforzo. Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio vero pensiero, credevo di dover dimostrargli un ossequio supino e lui ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove. La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altra che quella diagnosticata a suo tempo dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo amata mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre.

Né io m'arrabbiai! Incantato stetti a sentire. Era una malattia che mi elevava alla più alta nobiltà. Cospicua quella malattia di cui gli antenati arrivavano all'epoca mitologica! E non m'arrabbio neppure adesso che sono qui solo con la penna in mano. Ne rido di cuore. La miglior prova ch'io non ho avuta quella malattia risulta dal fatto che non ne sono guarito. Questa prova convincerebbe anche il dottore. Se ne dia pace: le sue parole non poterono guastare il ricordo della mia giovinezza. Io chiudo gli occhi e vedo subito puro, infantile, ingenuo, il mio amore per mia madre, il mio rispetto ed il grande mio affetto per mio padre.

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt'altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.

Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un'emozione tanto forte come la mia all'imbattermi nelle immagini ch'egli credeva di aver saputo procurarmi. Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.

Ed io non simulai quell'emozione. Fu anzi una delle più profonde ch'io abbia avuta in tutta la mia vita. Madida di sudore quando l'immagine creai, di lagrime quando l'ebbi. Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d'innocenza e d'ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m'animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di più della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.

È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c'erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l'aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.

Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l'illusione e che mi pareva nient'altro che l'associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani. Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz'alcun'eccitazione o commozione. Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette. Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute. E il dottore registrava. Diceva: «Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello». In verità, noi non avevamo più che dei segni grafici, degli scheletri d'immagini.

Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un'epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch'essa parve confermare. C'è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora. E pareva fosse appartenuta a quell'anno l'ora che rievocai. Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giù, giù, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina. Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l'eroe. Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell'animo, un intenso rancore. Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa. All'infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello più giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui. Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa. Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodì! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare. Era stata una visione di un'evidenza enorme. Catina che io avevo conosciuta piccola, m'era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo. Vecchissima m'era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani. E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città. Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche. Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono più non appena io uscii dall'infanzia.

La fede nell'autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell'epoca. Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola. Ero sicuro d'essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno. Più tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c'era stata, ma nel sogno era stata spostata.

La seconda visione mi riportò anch'essa ad un'epoca recente, benché anteriore di molto a quella della prima: una stanza della mia villa, ma non so quale, perché più vasta di qualunque altra che vi è realmente. È strano che io mi vedevo chiuso in quella stanza e che subito ne seppi un particolare che dalla semplice visione non poteva essere risultato: la stanza era lontana dal posto ove allora soggiornavano mia madre e Catina. Ed un secondo: io ancora non sono stato a scuola.

La stanza era tutta bianca ed anzi io non vidi giammai una stanza tanto bianca né tanto completamente illuminata dal sole. Il sole di allora passava traverso le pareti? Esso era certamente già alto, ma io mi trovavo tuttavia nel mio letto con in mano una tazza da cui avevo sorbito tutto il caffelatte e nella quale continuavo a lavorare con un cucchiaino traendone lo zucchero. Ad un certo punto il cucchiaio non arrivò più a raccoglierne altro ed allora io tentai di arrivare al fondo della tazza con la mia lingua. Ma non vi riuscii. Perciò finii col tenere la tazza in una mano e il cucchiaio nell'altra e stetti a guardare mio fratello coricato nel letto accanto al mio come, tardivo, stava ancora sorbendo il caffè col naso nella tazza. Quando levò finalmente la faccia, io la vidi tutta come si contrasse ai raggi del sole che la colpirono in pieno mentre la mia (Dio ne sa il perché) si trovava nell'ombra. Il suo viso era pallido ed un poco imbruttito da un lieve prognatismo. Mi disse:

— Mi presti il tuo cucchiaio?

Allora appena m'avvidi che Catina aveva dimenticato di portargli il cucchiaio. Subito e senz'alcuna esitazione gli risposi:

— Sì! Se mi dài in compenso un poco del tuo zucchero.

Tenni in alto il cucchiaio per farne rilevare il valore. Ma subito la voce di Catina risuonò nella stanza:

— Vergogna! Strozzino!

Lo spavento e la vergogna mi fecero ripiombare nel presente. Avrei voluto discutere con Catina, ma lei, mio fratello ed io, come ero fatto allora, piccolo, innocente e strozzino, sparimmo ripiombando nell'abisso.

Rimpiansi di aver sentita tanto forte quella vergogna da aver distrutta l'immagine cui ero arrivato con tanta fatica. Avrei fatto tanto bene di offrire invece mitemente e gratis il cucchiaino e non discutere quella mia mala azione ch'era probabilmente la prima che avessi commessa. Forse Catina avrebbe invocato l'ausilio di mia madre per infliggermi una punizione ed io finalmente l'avrei rivista.

La vidi però pochi giorni appresso o credetti di rivederla. Avrei potuto intendere subito ch'era un'illusione perché l'immagine di mia madre, come l'avevo evocata, somigliava troppo al suo ritratto che ho sul mio letto. Ma devo confessare che nell'apparizione mia madre si mosse come una persona viva.

Molto, molto sole, tanto da abbacinare! Da quella ch'io credevo la mia giovinezza mi perveniva tanto di quel sole ch'era difficile dubitare non fosse dessa. Il nostro tinello nelle ore pomeridiane. Mio padre è ritornato a casa e siede su un sofà accanto a mamma che sta imprimendo con certo inchiostro indelebile delle iniziali su molta biancheria distribuita sul tavolo a cui essa siede. Io mi trovo sotto il tavolo dove giuoco con delle pallottole. M'avvicino sempre più a mamma. Probabilmente desidero ch'essa s'associ ai miei giuochi. A un dato punto, per rizzarmi in piedi fra di loro, m'aggrappo alla biancheria che pende dal tavolo e allora avviene un disastro. La boccetta d'inchiostro mi capita sulla testa, bagna la mia faccia e le mie vesti, la gonna di mamma e produce una lieve macchia anche sui calzoni di papà. Mio padre alza una gamba per appiopparmi un calcio...

Ma io in tempo ero ritornato dal mio lontano viaggio e mi trovavo al sicuro qui, adulto, vecchio. Devo dirlo! Per un istante soffersi della punizione minacciatami e subito dopo mi dolse di non aver potuto assistere all'atto di protezione che senza dubbio sarà partito da mamma. Ma chi può arrestare quelle immagini quando si mettono a fuggire traverso quel tempo che giammai somigliò tanto allo spazio? Quest'era il mio concetto finché credetti nell'autenticità di quelle immagini! Ora, purtroppo (oh! quanto me ne dolgo!) non ci credo più e so che non erano le immagini che correvano via, ma i miei occhi snebbiati che guardavano di nuovo nel vero spazio in cui non c'è posto per fantasmi.

Racconterò ancora delle immagini di un altro giorno alle quali il dottore attribuì tale importanza da dichiararmi guarito.

Nel mezzo sonno cui m'abbandonai ebbi un sogno dall'immobilità dell'incubo. Sognai di me stesso ridivenuto bambino e soltanto per vedere quel bambino come sognava anche lui. Giaceva muto in preda ad una letizia che pervadeva il suo minuto organismo. Gli pareva di aver finalmente raggiunto il suo antico desiderio. Eppure giaceva là solo e abbandonato! Ma vedeva e sentiva con quell'evidenza come si sa vedere e sentire nel sogno anche le cose lontane. Il bambino, giacendo in una stanza della mia villa, vedeva (Dio sa in quale modo) che sul tetto della stessa ci fosse una gabbia murata su basi solidissime, priva di porte e di finestre, ma illuminata di quanta luce può far piacere e fornita di aria pura e profumata. Ed il bambino sapeva che a quella gabbia egli solo avrebbe saputo giungere e senza neppur andare perché forse la gabbia sarebbe venuta a lui. In quella gabbia non v'era che un solo mobile, una poltrona e su questa sedeva una donna formosa, costruita deliziosamente, vestita di nero, bionda, dagli occhi grandi e azzurri, le mani bianchissime e i piedi piccoli in scarpine laccate delle quali, di sotto alle gonne, sporgeva solo un lieve bagliore. Devo dire che quella donna mi pareva una cosa sola col suo vestito nero e le sue scarpine di lacca. Tutto era lei! Ed il bambino sognava di possedere quella donna, ma nel modo più strano: era sicuro cioè di poter mangiarne dei pezzettini al vertice e alla base.

Adesso, pensandoci, sono stupito che il dottore che ha letto, a quanto ne dice, con tanta attenzione il mio manoscritto non abbia ricordato il sogno ch'io ebbi prima di andar a raggiungere Carla. A me qualche tempo dopo, quando ci ripensai, parve che questo sogno non fosse altro che l'altro un po' variato, reso più infantile.

Invece il dottore registrò accuratamente tutto eppoi mi domandò con aspetto un po' melenso:

— Vostra madre era bionda e formosa?

Fui stupito della domanda e risposi che anche mia nonna era stata tale. Ma per lui ero guarito, ben guarito. Spalancai la bocca per gioirne con lui e m'adattai a quanto doveva seguire, cioè non più indagini, ricerche, meditazioni, ma una vera e assidua rieducazione.

Da allora quelle sedute furono una vera tortura ed io le continuai solo perché m'è sempre stato tanto difficile di fermarmi quando mi movo o di mettermi in movimento quando son fermo. Qualche volta, quando egli me ne diceva di troppo grosse, arrischiavo qualche obbiezione. Non era mica vero - com'egli lo credeva - che ogni mia parola, ogni mio pensiero fosse di delinquente. Egli allora faceva tanto d'occhi. Ero guarito e non volevo accorgermene! Era una vera cecità questa: avevo appreso che avevo desiderato di portar via la moglie - mia madre! - a mio padre e non mi sentivo guarito? Inaudita ostinazione la mia: però il dottore ammetteva che sarei guarito ancora meglio quando fosse finita la mia rieducazione in seguito alla quale mi sarei abituato a considerare quelle cose (il desiderio di uccidere il padre e di baciare la propria madre) come cose innocentissime per le quali non c'era da soffrire di rimorsi, perché avvenivano frequentemente nelle migliori famiglie. In fondo che cosa ci perdevo? Egli un giorno mi disse ch'io oramai ero come un convalescente che ancora non s'era abituato a vivere privo di febbre. Ebbene: avrei atteso di abituarmivi.

Egli sentiva che non ero ancora ben suo ed oltre alla rieducazione, di tempo in tempo, ritornava anche alla cura. Tentava di nuovo i sogni, ma di autentici non ne ebbimo più alcuno. Seccato di tanta attesa, finii coll'inventarne uno. Non l'avrei fatto se avessi potuto prevedere la difficoltà di una simile simulazione. Non è mica facile di balbettare come se ci si trovasse immersi in un mezzo sogno, coprirsi di sudore o sbiancarsi, non tradirsi, eventualmente diventar vermigli dallo sforzo e non arrossire: parlai come se fossi ritornato alla donna della gabbia e l'avessi indotta a porgermi per un buco improvvisamente prodottosi nella parete dello stanzino un suo piede da succhiare e mangiare. «Il sinistro, il sinistro!», mormorai mettendo nella visione un particolare curioso che potesse farla somigliare meglio ai sogni precedenti. Dimostravo così anche di aver capito perfettamente la malattia che il dottore esigeva da me. Edipo infantile era fatto proprio così: succhiava il piede sinistro della madre per lasciare il destro al padre. Nel mio sforzo d'immaginare realmente (tutt'altro che una contraddizione, questa) ingannai anche me stesso col sentire il sapore di quel piede. Quasi dovetti recere.

Non solo il dottore ma anch'io avrei desiderato di esser visitato ancora da quelle care immagini della mia gioventù, autentiche o meno, ma che io non avevo avuto bisogno di costruire. Visto che accanto al dottore non venivano più, tentai di evocarle lontano da lui. Da solo ero esposto al pericolo di dimenticarle, ma già io non miravo mica ad una cura! Io volevo ancora rose del Maggio in Dicembre. Le avevo già avute; perché non avrei potuto riaverle?

Anche nella solitudine m'annoiai abbastanza, ma poi, invece delle immagini venne qualche cosa che per qualche tempo le sostituì. Semplicemente credetti di aver fatta un'importante scoperta scientifica. Mi credetti chiamato a completare tutta la teoria dei colori fisiologici. I miei predecessori, Goethe e Schopenhauer, non avevano mai immaginato dove si potesse arrivare maneggiando abilmente i colori complementari.