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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.5 La Moglie e l'Amante

4.5 La Moglie e l'Amante

Al Giardino Pubblico sedetti su una panchina e, col bastone, segnai distrattamente sulla ghiaia la data di quel giorno. Poi risi amaramente: sapevo che quella non era la data che avrebbe segnata la fine dei miei tradimenti. Anzi, s'iniziavano quel giorno. Dove avrei potuto trovare io la forza per non ritornare da quella donna tanto desiderabile che m'aspettava? Poi avevo già assunti degl'impegni, degl'impegni d'onore. Avevo avuto dei baci e non m'era stato concesso di dare che il controvalore di alcune terraglie! Era proprio un conto non saldato quello che ora mi legava a Carla.

La colazione fu triste. Augusta non aveva domandate delle spiegazioni per il mio ritardo ed io non le diedi. Avevo paura di tradirmi, tanto più che nel breve percorso dal Giardino a casa mi ero baloccato con l'idea di raccontarle tutto e la storia del mio tradimento poteva perciò essere segnata sulla mia faccia onesta. Questo sarebbe stato l'unico mezzo per salvarmi. Raccontandole tutto mi sarei messo sotto la sua protezione e sotto la sua sorveglianza. Sarebbe stato un atto di tale decisione che allora in buona fede avrei potuto segnare la data di quel giorno come un avviamento all'onestà e alla salute.

Si parlò di molte cose indifferenti. Cercai di essere lieto, ma non seppi neppur tentare di essere affettuoso. A lei mancava il fiato; certo aspettava una spiegazione che non venne.

Poi essa andò a continuare il suo grande lavoro di riporre i panni d'inverno in armadi speciali. La intravvidi spesso nel pomeriggio, tutta intenta al suo lavoro, là, in fondo al corridoio lungo, aiutata dalla fantesca. Il suo grande dolore non interrompeva la sua sana attività.

Inquieto, passai spesso dalla mia stanza da letto alla camera da bagno. Avrei voluto chiamare Augusta e dirle almeno che l'amavo perché a lei - povera sempliciona! - questo sarebbe bastato. Ma invece continuai a meditare e a fumare.

Passai naturalmente per varie fasi. Ci fu persino un momento in cui quell'accesso di virtù fu interrotto da una viva impazienza di veder arrivare il giorno appresso per poter correre da Carla. Può essere che anche questo desiderio fosse stato ispirato da qualche buon proposito. In fondo la grande difficoltà era di poter, così solo, impegnarsi e legarsi al dovere. La confessione che m'avrebbe procurata la collaborazione di mia moglie era impensabile; restava dunque Carla sulla cui bocca avrei potuto giurare con un ultimo bacio! Chi era Carla? Nemmeno il ricatto era il massimo pericolo che con lei correvo! Il giorno appresso essa sarebbe stata la mia amante: chissà quello che ne sarebbe poi conseguito! Io la conoscevo solo per quanto me ne aveva detto quell'imbecille del Copler e in base ad informazioni provenienti da costui, un uomo più accorto di me come ad esempio l'Olivi, non avrebbe neppure accettato di contrarre un affare commerciale.

Tutta la sana, bella attività di Augusta intorno alla mia casa era sprecata. La cura drastica del matrimonio che avevo intrapresa nella mia affannosa ricerca della salute era fallita. Io rimanevo malato più che mai e sposato ai danni miei e degli altri.

Più tardi, quando fui effettivamente l'amante di Carla, riandando col pensiero a quel triste pomeriggio non arrivai a intendere perché prima d'impegnarmi più oltre, non mi fossi arrestato con un virile proposito. Avevo tanto pianto il mio tradimento prima di commetterlo, che si sarebbe dovuto credere facile di evitarlo. Ma del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve. Fu marcata in quelle ore angosciose in caratteri grandi nel mio vocabolario alla lettera C (Carla) la data di quel giorno con l'annotazione: «ultimo tradimento». Ma il primo tradimento effettivo, che impegnava a tradimenti ulteriori, seguì soltanto il giorno dopo.

A una tarda ora, non sapendo fare di meglio, presi un bagno. Sentivo una bruttura sul mio corpo e volevo lavarmi. Ma quando fui in acqua pensai: «Per nettarmi dovrei essere capace di sciogliermi tutto in quest'acqua». Mi vestii poi, così privo di volontà, che neppure m'asciugai accuratamente. Il giorno sparì ed io restai alla finestra a guardare le nuove foglie verdi degli alberi del mio giardino. Fui colto da brividi e con una certa soddisfazione pensai fossero di febbre. Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo o che me lo impedisse.

Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi. Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti. Spaventata, essa mi costrinse di mettermi a letto. Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico. La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare. Non so per quanto tempo restammo così: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia. Avevo però la mente ancor tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto più tardi. Ritornavo al proposito di confessare. Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.

Così restammo ancora per vario tempo muti. Più tardi m'accorsi che Augusta s'era levata dalla sua poltrona e mi si accostava. Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto. Mi prese la mano, l'accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:

— Dovevi aspettartelo! Perché tanta dolorosa sorpresa?

Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato. Era evidente che essa non alludeva alla mia avventura. Come avrei io potuto prevedere di essere fatto così? Con una certa rudezza le domandai:

— Ma che cosa vuoi dire? Che cosa dovevo io prevedere?

Confusa essa mormorò:

— L'arrivo del padre di Guido per le nozze di Ada...

Finalmente compresi: essa credeva ch'io soffrissi per l'imminenza del matrimonio di Ada. A me parve ch'essa veramente mi facesse torto: io non ero colpevole di un simile delitto. Mi sentii puro e innocente come un neonato e subito liberato da ogni oppressione. Saltai dal letto:

— Tu credi ch'io soffra per il matrimonio di Ada? Sei pazza! Dacché sono sposato, io non ho più pensato a lei: Non ricordavo neppure ch'era arrivato quest'oggi il signor Cada!

La baciai e abbracciai con pieno desiderio e il mio accento fu improntato a tale sincerità ch'essa si vergognò del suo sospetto.

Anche lei ebbe la ingenua faccia sgombera da ogni nube e andammo presto a cena ambedue affamati. A quello stesso tavolo, dove avevamo sofferto tanto, poche ore prima, sedevamo ora come due buoni compagni in vacanza.

Ella mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio malessere. Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva. Le raccontai che già in compagnia dei due vecchi signori, alla mattina, m'ero sentito scoraggiato profondamente. Poi ero andato a prendere gli occhiali che l'oculista m'aveva prescritti. Forse quel segno di vecchiezza m'aveva avvilito maggiormente. E avevo camminato per le vie della città per ore ed ore. Raccontai anche qualche cosa delle immaginazioni che tanto m'avevano fatto soffrire e ricordo che contenevano persino un abbozzo di confessione. Non so in quale connessione con la malattia immaginaria, parlai anche del nostro sangue che girava, girava, ci teneva eretti, capaci al pensiero e all'azione e perciò alla colpa e al rimorso. Essa non capì che si trattava di Carla, ma a me parve di averlo detto.

Dopo cena inforcai gli occhiali e finsi lungamente di leggere il mio giornale, ma quei vetri m'annebbiavano la vista. Ne ebbi un aumento del mio turbamento lieto come di alcolizzato. Dissi di non poter intendere quello che leggevo. Continuavo a fare il malato.

La notte la passai pressocché insonne. Aspettavo l'abbraccio di Carla con pieno grande desiderio. Desideravo proprio lei, la fanciulla dalle ricche treccie fuori di posto e la voce tanto musicale quando la nota non le era imposta. Ella era resa desiderabile anche da tutto ciò che per lei avevo già sofferto. Fui accompagnato tutta la notte da un ferreo proposito. Sarei stato sincero con Carla prima di farla mia e le avrei detta l'intera verità sui miei rapporti con Augusta. Nella mia solitudine mi misi a ridere: era molto originale di andare alla conquista di una donna con in bocca la dichiarazione d'amore per un'altra. Forse Carla sarebbe ritornata alla sua passività! E che perciò? Per il momento nessun suo atto avrebbe potuto diminuire il pregio della sua sottomissione di cui mi sembrava di poter essere sicuro.

La mattina seguente vestendomi mormoravo le parole che le avrei dette. Prima di essere mia, Carla doveva sapere che Augusta col suo carattere e anche con la sua salute (avrei potuto spendere molte parole per spiegare quello ch'io intendessi per salute ciò che avrebbe anche servito ad educare Carla) aveva saputo conquistare il mio rispetto, ma anche il mio amore.

Prendendo il caffè, ero tanto assorto nel preparare un tanto elaborato discorso, che Augusta non ebbe da me altro segno di affetto che un lieve bacio prima di uscire. Se ero tutto suo! Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per lei.

Non appena entrai nella stanza di studio di Carla, ebbi un tale sollievo al trovarla sola e pronta, che subito l'attirai a me e appassionatamente l'abbracciai. Fui spaventato dall'energia con la quale essa mi respinse. Una vera violenza! Essa non voleva saperne ed io rimasi a bocca aperta in mezzo alla stanza, dolorosamente deluso.

Ma Carla subito rimessasi mormorò:

— Non vede che la porta è rimasta aperta e che qualcuno sta scendendo le scale?

Assunsi l'aspetto di un visitatore cerimonioso finché l'importuno non passò. Poi chiudemmo la porta. Essa impallidì vedendo che giravo anche la chiave. Così tutto era chiaro. Poco dopo essa mormorò fra le mie braccia con voce soffocata:

— Lo vuoi? Veramente lo vuoi?

M'aveva dato del tu, e questo fu decisivo. Io poi avevo subito risposto:

— Se non desidero altro!

Avevo dimenticato che avrei voluto prima chiarire qualche cosa.

Subito dopo io avrei voluto cominciare a parlarle dei miei rapporti con Augusta avendo tralasciato di farlo prima. Ma era difficile per il momento. Parlando con Carla d'altro in quel momento sarebbe stato come diminuire l'importanza della sua dedizione. Anche il più sordo fra gli uomini sa che non si può fare una cosa simile, per quanto tutti sappiano che non c'è confronto fra l'importanza di quella dedizione prima che avvenga e immediatamente dopo. Sarebbe una grande offesa per una donna, che aperse le braccia per la prima volta, sentirsi dire: «Prima di tutto debbo chiarire quelle parole che ti dissi ieri... ». Ma che ieri? Tutto quello che avvenne il giorno prima deve apparire indegno di essere menzionato e se ad un gentiluomo avviene di non sentire così, tanto peggio per lui e deve fare in modo che nessuno se ne avveda.

È certo che io ero quel gentiluomo che non sentiva così perché nella simulazione sbagliai come la sincerità non saprebbe. Le domandai:

— Com'è che ti concedesti a me? Come meritai una cosa simile?

Volevo dimostrarmi grato o rimproverarla? Probabilmente non era che un tentativo per iniziare delle spiegazioni.

Essa un po' stupita guardò in alto per vedere il mio aspetto:

— A me pare che tu mi abbia presa, - e sorrise affettuosamente per provarmi che non intendeva di rimproverarmi.

Ricordai che le donne esigono si dica che sono state prese. Poi, essa stessa si accorse di aver sbagliato, che le cose si prendono e le persone si accordano e mormorò:

— Io ti aspettavo! Eri il cavaliere che doveva venire a liberarmi. Certo è male che tu sia sposato, ma, visto che non ami tua moglie, io so almeno che la mia felicità non distrugge quella di nessun altro.

Fui preso dal mio dolore al fianco con tale intensità che dovetti cessare dall'abbracciarla. Dunque l'importanza delle mie sconsiderate parole non era stata esagerata da me? Era proprio la mia menzogna che aveva indotta Carla di divenire mia? Ecco che se ora avessi pensato di parlare del mio amore per Augusta, Carla avrebbe avuto il diritto di rimproverarmi nientemeno che di un tranello! Rettifiche e spiegazioni non erano più possibili per il momento. Ma in seguito ci sarebbe stata l'opportunità di spiegarsi e di chiarire. Aspettando che si presentasse, ecco che si costituiva un nuovo legame fra me e Carla.

Lì, accanto a Carla, rinacque intera la mia passione per Augusta. Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina.

Ma restai al mio dovere, che fu gravissimo per un episodio che mi turbò molto dapprima perché m'apparve come un'altra minaccia della sfinge con la quale aveva da fare. Carla mi raccontò che subito dopo che me n'ero andato il giorno prima, era venuto il maestro di canto e che essa lo aveva semplicemente messo alla porta.

Non seppi celare un gesto di contrarietà. Era lo stesso che avvisare il Copler della nostra tresca!

— Che cosa ne dirà il Copler? - esclamai.

Essa si mise a ridere e si rifugiò, questa volta di sua iniziativa, fra le mie braccia:

— Non avevamo detto che l'avremmo buttato fuori della porta anche lui?

Era carina, ma non poteva più conquistarmi. Trovai subito anch'io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perché mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c'era in fondo all'anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie. - Bisognava lavorare a questo mondo - le dissi - perché, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano. E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? - Avevo prospettata l'eventualità del mio abbandono in modo ch'essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse. Poi, con l'evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.

— Ebbene! - disse lei rassegnata - manderemo a dire al maestro che ritorni! - Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro. Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla. Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava. Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.

Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione. Ripeté, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata. Quando ricordava che m'aveva subito amato perché le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.

Così conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccarono; erano violenti fino a scuotere, pervadendolo, il suo debole organismo. Mi sembrava di subire immediatamente un brusco assalto alla mia tasca e alla mia vita. Le domandai:

— Ma credi tu che mia moglie a questo mondo non faccia nulla? Adesso che noi due parliamo, essa ha i polmoni inquinati dalla canfora e dalla naftalina.

Carla singhiozzò:

— Le cose, le masserizie, i vestiti... beata lei!

Pensai irritato ch'essa volesse che io corressi a comperarle tutte quelle cose, solo per procurarle l'occupazione che prediligeva. Non dimostrai dell'ira, grazie al cielo e obbedii alla voce del dovere che gridava: «accarezza la fanciulla che si abbandonò a te!». L'accarezzai. Passai la mia mano leggermente sui suoi capelli. Ne risultò che i suoi singhiozzi si calmarono e le sue lagrime fluirono abbondanti e non trattenute come la pioggia che segue ad un temporale.

— Tu sei il mio primo amante - disse essa ancora - ed io spero che continuerai ad amarmi!

Quella sua comunicazione, ch'ero il suo primo amante, designazione che preparava il posto ad un secondo, non mi commosse molto. Era una dichiarazione che arrivava in ritardo perché da una buona mezz'ora l'argomento era stato abbandonato. Eppoi era una nuova minaccia. Una donna crede di avere tutti i diritti verso il suo primo amante. Dolcemente le mormorai all'orecchio:

— Anche tu sei la mia prima amante... dacché mi sono sposato.

La dolcezza della voce mascherava il tentativo di pareggiare le due partite.

Poco dopo io la lasciai perché a nessun prezzo avrei voluto arrivare tardi a colazione. Prima di andarmene trassi di nuovo di tasca la busta che io dicevo dei buoni propositi perché un ottimo proposito l'aveva creata. Sentivo il bisogno di pagare per sentirmi più libero. Carla rifiutò dolcemente di nuovo quel denaro ed io allora m'arrabbiai fortemente, ma seppi trattenermi dal manifestare questa rabbia, se non urlando delle parole dolcissime. Gridavo per non picchiarla, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene. Dissi che ero arrivato al colmo dei miei desideri possedendola e che adesso volevo aver il senso di possederla ancora più mantenendola completamente. Perciò doveva guardarsi dal farmi arrabbiare perché ne soffrivo troppo. Volendo correre via, riassunsi in poche parole il mio concetto che divenne - così gridato - molto brusco.

— Sei la mia amante? Perciò il tuo mantenimento incombe a me.

Essa, spaventata, cessò dal resistere e prese la busta mentre mi guardava ansiosa studiando che cosa fosse la verità, il mio urlo d'odio oppure la parola d'amore con cui le veniva concesso tutto quello ch'essa aveva desiderato. Si rasserenò un poco quando prima di andarmene sfiorai con le mie labbra la sua fronte. Sulle scale mi venne il dubbio ch'essa, disponendo di quei denari e avendo sentito ch'io m'incaricavo del suo avvenire, avrebbe messo alla porta anche il Copler nel caso in cui egli nel pomeriggio fosse venuto da lei. Avrei voluto risalire quelle scale per andare ad esortarla di non compromettermi con un atto simile. Ma non v'era tempo e dovetti correr via.

Io temo che il dottore che leggerà questo mio manoscritto abbia a pensare che anche Carla sarebbe stata un soggetto interessante alla psico-analisi. A lui sembrerà che quella dedizione, preceduta dal congedo al maestro di canto, fosse stata troppo rapida. Anche a me sembrava che in premio del suo amore essa si fosse attese da me troppe concessioni. Occorsero molti, ma molti mesi, perché io intendessi meglio la povera fanciulla. Probabilmente essa s'era lasciata prendere per liberarsi dall'inquietante tutela del Copler, e dovette essere per lei una ben dolorosa sorpresa all'accorgersi che s'era concessa invano perché da lei si continuava a pretendere proprio quello che le pesava tanto, cioè il canto. Si trovava ancora fra le mie braccia e apprendeva che doveva continuare a cantare. Da ciò un'ira e un dolore che non trovavano le parole giuste. Per ragioni differenti dicemmo così ambedue delle stranissime parole. Quand'essa mi volle bene, riebbe tutta la naturalezza che il calcolo le aveva tolto. Io la naturalezza non la ebbi mai con lei.

Correndo via pensai ancora: «Se essa sapesse quanto io ami mia moglie si comporterebbe altrimenti». Quando lo seppe si comportò infatti altrimenti.

All'aria aperta respirai la libertà e non sentii il dolore di averla compromessa. Fino al giorno dopo c'era tempo e avrei forse trovato un riparo alle difficoltà che mi minacciavano. Correndo verso casa ebbi anche il coraggio di prendermela con l'ordine sociale, come se esso fosse stato la colpa dei miei trascorsi. Mi pareva avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all'amore, senz'aver a temerne delle conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto. Di rimorso non v'era traccia in me. Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso. Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava. Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza. Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro.

A colazione, senz'altro sforzo, fui lieto ed affettuoso con Augusta. Non ci fu quel giorno alcuna nota stonata fra di noi. Niente di eccessivo: ero come dovevo essere con la donna onestamente e sicuramente mia. Altre volte ci furono degli eccessi d'affettuosità da parte mia, ma solamente quando nel mio animo si combatteva una lotta fra le due donne ed eccedendo nelle manifestazioni d'affetto m'era più facile di celare ad Augusta che fra di noi c'era l'ombra per il momento abbastanza potente di un'altra donna. Posso anche dire che perciò Augusta mi preferiva quando non ero tutto e con grande sincerità suo.

Io stesso ero un po' stupito della mia calma e l'attribuivo al fatto ch'ero riuscito di far accettare a Carla quella busta dai buoni propositi. Non che con quella credessi di averla saldata. Ma mi pareva che avevo cominciato a pagare un'indulgenza. Disgraziatamente per tutta la durata della mia relazione con Carla, il denaro restò la mia preoccupazione principale. Ad ogni occasione ne mettevo in disparte in un posto ben celato della mia biblioteca, per essere preparato a far fronte a qualunque esigenza dell'amante che tanto temevo. Così quel denaro, quando Carla m'abbandonò lasciandomelo, servì per pagare tutt'altra cosa.

Dovevamo passare la sera in casa di mio suocero ad un pranzo cui non erano invitati che i membri della famiglia e che doveva sostituire il tradizionale banchetto, preludio alle nozze che dovevano aver luogo due giorni appresso. Guido voleva approfittare per sposarsi del miglioramento di Giovanni, ch'egli credeva non avrebbe durato.

Andai con Augusta di buon'ora nel pomeriggio da mio suocero. Sulla via le ricordai ch'essa il giorno prima aveva sospettato ch'io soffrissi tuttavia per quelle nozze. Essa si vergognò del suo sospetto ed io parlai molto di quella mia innocenza. Se ero ritornato a casa non ricordando neppure che quella stessa sera v'era la solennità che doveva preparare quelle nozze!

Quantunque non vi fossero altri invitati che noi di famiglia, i vecchi Malfenti volevano che il banchetto fosse preparato solennemente. Augusta era stata pregata di aiutare a preparare la sala e la tavola. Alberta non ne voleva sapere. Poco tempo prima essa aveva ottenuto un premio ad un concorso per una commedia in un atto e s'accingeva ora alacremente alla riforma del teatro nazionale. Così restammo intorno a quella tavola io ed Augusta coadiuvati da una cameriera e da Luciano un ragazzo dell'ufficio di Giovanni che dimostrava altrettanto talento per l'ordine in casa quanto per quello d'ufficio.

Aiutai a trasportare sulla tavola dei fiori e a distribuirli in bell'ordine.

— Vedi - dissi scherzando ad Augusta - che contribuisco anch'io alla loro felicità. Se mi domandassero di preparare per loro anche il letto nuziale, lo farei con lo stesso aspetto sereno!

Più tardi andammo a trovare gli sposi ritornati allora da una visita ufficiale. S'erano messi nel cantuccio più riposto del salotto e suppongo che fino al nostro arrivo si fossero baciucchiati. La sposina non aveva neppur smesso il suo abito da passeggio ed era tanto bellina, così arrossata dal caldo.

Io credo che gli sposi, per celare ogni traccia dei baci che si erano scambiati, volessero darci ad intendere che avessero discusso di scienza. Era una sciocchezza, forse anche sconveniente! Volevano allontanarci dalla loro intimità o credevano che i loro baci potessero dolere a qualcuno? Ciò però non guastò il mio buon umore. Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche più forti di loro per conservarli così paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza. Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido:

— Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo. Lasciammo gli sposi per permettere loro di occuparsi di cose più liete. Io però cominciavo a trovare alquanto lungo il pomeriggio e avrei voluto andare a casa ad aspettare nel mio studio l'ora del pranzo.


4.5 La Moglie e l'Amante 4.5 Die Ehefrau und der Liebhaber 4.5 The Wife and the Lover 4.5 La femme et l'amant 4.5 A mulher e o amante

Al Giardino Pubblico sedetti su una panchina e, col bastone, segnai distrattamente sulla ghiaia la data di quel giorno. Poi risi amaramente: sapevo che quella non era la data che avrebbe segnata la fine dei miei tradimenti. Anzi, s'iniziavano quel giorno. Dove avrei potuto trovare io la forza per non ritornare da quella donna tanto desiderabile che m'aspettava? Poi avevo già assunti degl'impegni, degl'impegni d'onore. Avevo avuto dei baci e non m'era stato concesso di dare che il controvalore di alcune terraglie! Era proprio un conto non saldato quello che ora mi legava a Carla. На самом деле это был неоплаченный счет, который теперь связывал меня с Карлой.

La colazione fu triste. Augusta non aveva domandate delle spiegazioni per il mio ritardo ed io non le diedi. Avevo paura di tradirmi, tanto più che nel breve percorso dal Giardino a casa mi ero baloccato con l'idea di raccontarle tutto e la storia del mio tradimento poteva perciò essere segnata sulla mia faccia onesta. Questo sarebbe stato l'unico mezzo per salvarmi. Raccontandole tutto mi sarei messo sotto la sua protezione e sotto la sua sorveglianza. Sarebbe stato un atto di tale decisione che allora in buona fede avrei potuto segnare la data di quel giorno come un avviamento all'onestà e alla salute.

Si parlò di molte cose indifferenti. Cercai di essere lieto, ma non seppi neppur tentare di essere affettuoso. Я пыталась быть счастливой, но не могла даже попытаться проявить нежность. A lei mancava il fiato; certo aspettava una spiegazione che non venne.

Poi essa andò a continuare il suo grande lavoro di riporre i panni d'inverno in armadi speciali. La intravvidi spesso nel pomeriggio, tutta intenta al suo lavoro, là, in fondo al corridoio lungo, aiutata dalla fantesca. Il suo grande dolore non interrompeva la sua sana attività.

Inquieto, passai spesso dalla mia stanza da letto alla camera da bagno. Avrei voluto chiamare Augusta e dirle almeno che l'amavo perché a lei - povera sempliciona! - questo sarebbe bastato. Ma invece continuai a meditare e a fumare.

Passai naturalmente per varie fasi. Ci fu persino un momento in cui quell'accesso di virtù fu interrotto da una viva impazienza di veder arrivare il giorno appresso per poter correre da Carla. Был даже момент, когда этот доступ к добродетели был прерван живым нетерпением увидеть, что наступит следующий день, чтобы иметь возможность бежать к Карле. Può essere che anche questo desiderio fosse stato ispirato da qualche buon proposito. In fondo la grande difficoltà era di poter, così solo, impegnarsi e legarsi al dovere. La confessione che m'avrebbe procurata la collaborazione di mia moglie era impensabile; restava dunque Carla sulla cui bocca avrei potuto giurare con un ultimo bacio! Chi era Carla? Nemmeno il ricatto era il massimo pericolo che con lei correvo! Il giorno appresso essa sarebbe stata la mia amante: chissà quello che ne sarebbe poi conseguito! Io la conoscevo solo per quanto me ne aveva detto quell'imbecille del Copler e in base ad informazioni provenienti da costui, un uomo più accorto di me come ad esempio l'Olivi, non avrebbe neppure accettato di contrarre un affare commerciale.

Tutta la sana, bella attività di Augusta intorno alla mia casa era sprecata. La cura drastica del matrimonio che avevo intrapresa nella mia affannosa ricerca della salute era fallita. Io rimanevo malato più che mai e sposato ai danni miei e degli altri. Я оставался более больным, чем когда-либо, и женился в ущерб себе и другим.

Più tardi, quando fui effettivamente l'amante di Carla, riandando col pensiero a quel triste pomeriggio non arrivai a intendere perché prima d'impegnarmi più oltre, non mi fossi arrestato con un virile proposito. Avevo tanto pianto il mio tradimento prima di commetterlo, che si sarebbe dovuto credere facile di evitarlo. Ma del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve. Fu marcata in quelle ore angosciose in caratteri grandi nel mio vocabolario alla lettera C (Carla) la data di quel giorno con l'annotazione: «ultimo tradimento». Ma il primo tradimento effettivo, che impegnava a tradimenti ulteriori, seguì soltanto il giorno dopo.

A una tarda ora, non sapendo fare di meglio, presi un bagno. Sentivo una bruttura sul mio corpo e volevo lavarmi. Ma quando fui in acqua pensai: «Per nettarmi dovrei essere capace di sciogliermi tutto in quest'acqua». Mi vestii poi, così privo di volontà, che neppure m'asciugai accuratamente. Il giorno sparì ed io restai alla finestra a guardare le nuove foglie verdi degli alberi del mio giardino. Fui colto da brividi e con una certa soddisfazione pensai fossero di febbre. Non la morte desiderai ma la malattia, una malattia che mi servisse di pretesto per fare quello che volevo o che me lo impedisse.

Dopo aver esitato per tanto tempo, Augusta venne a cercarmi. Vedendola tanto dolce e priva di rancore, si aumentarono da me i brividi fino a farmi battere i denti. Spaventata, essa mi costrinse di mettermi a letto. Battevo sempre i denti dal freddo, ma già sapevo di non aver la febbre e le impedii di chiamare il medico. La pregai di spegnere la lampada, di sedere accanto a me e di non parlare. Non so per quanto tempo restammo così: riconquistai il necessario calore e anche qualche fiducia. Avevo però la mente ancor tanto offuscata che quando essa riparlò di chiamare il medico, le dissi che sapevo la ragione del mio malore e che glielo avrei detto più tardi. Ritornavo al proposito di confessare. Non mi rimaneva aperta altra via per liberarmi da tanta oppressione.

Così restammo ancora per vario tempo muti. Più tardi m'accorsi che Augusta s'era levata dalla sua poltrona e mi si accostava. Ebbi paura: forse essa aveva indovinato tutto. Mi prese la mano, l'accarezzò, poi leggermente poggiò la sua mano sulla mia testa per sentire se scottasse, e infine mi disse:

— Dovevi aspettartelo! Perché tanta dolorosa sorpresa?

Mi meravigliai delle strane parole e nello stesso tempo che passassero traverso un singhiozzo soffocato. Era evidente che essa non alludeva alla mia avventura. Come avrei io potuto prevedere di essere fatto così? Con una certa rudezza le domandai:

— Ma che cosa vuoi dire? Che cosa dovevo io prevedere?

Confusa essa mormorò:

— L'arrivo del padre di Guido per le nozze di Ada...

Finalmente compresi: essa credeva ch'io soffrissi per l'imminenza del matrimonio di Ada. A me parve ch'essa veramente mi facesse torto: io non ero colpevole di un simile delitto. Mi sentii puro e innocente come un neonato e subito liberato da ogni oppressione. Saltai dal letto:

— Tu credi ch'io soffra per il matrimonio di Ada? Sei pazza! Dacché sono sposato, io non ho più pensato a lei: Non ricordavo neppure ch'era arrivato quest'oggi il signor Cada!

La baciai e abbracciai con pieno desiderio e il mio accento fu improntato a tale sincerità ch'essa si vergognò del suo sospetto.

Anche lei ebbe la ingenua faccia sgombera da ogni nube e andammo presto a cena ambedue affamati. A quello stesso tavolo, dove avevamo sofferto tanto, poche ore prima, sedevamo ora come due buoni compagni in vacanza.

Ella mi ricordò che le avevo promesso di dirle la ragione del mio malessere. Io finsi una malattia, quella malattia che doveva darmi la facoltà di fare senza colpa tutto quello che mi piaceva. Le raccontai che già in compagnia dei due vecchi signori, alla mattina, m'ero sentito scoraggiato profondamente. Poi ero andato a prendere gli occhiali che l'oculista m'aveva prescritti. Forse quel segno di vecchiezza m'aveva avvilito maggiormente. E avevo camminato per le vie della città per ore ed ore. Raccontai anche qualche cosa delle immaginazioni che tanto m'avevano fatto soffrire e ricordo che contenevano persino un abbozzo di confessione. Non so in quale connessione con la malattia immaginaria, parlai anche del nostro sangue che girava, girava, ci teneva eretti, capaci al pensiero e all'azione e perciò alla colpa e al rimorso. Essa non capì che si trattava di Carla, ma a me parve di averlo detto.

Dopo cena inforcai gli occhiali e finsi lungamente di leggere il mio giornale, ma quei vetri m'annebbiavano la vista. Ne ebbi un aumento del mio turbamento lieto come di alcolizzato. Dissi di non poter intendere quello che leggevo. Continuavo a fare il malato.

La notte la passai pressocché insonne. Aspettavo l'abbraccio di Carla con pieno grande desiderio. Desideravo proprio lei, la fanciulla dalle ricche treccie fuori di posto e la voce tanto musicale quando la nota non le era imposta. Ella era resa desiderabile anche da tutto ciò che per lei avevo già sofferto. Fui accompagnato tutta la notte da un ferreo proposito. Sarei stato sincero con Carla prima di farla mia e le avrei detta l'intera verità sui miei rapporti con Augusta. Nella mia solitudine mi misi a ridere: era molto originale di andare alla conquista di una donna con in bocca la dichiarazione d'amore per un'altra. Forse Carla sarebbe ritornata alla sua passività! E che perciò? Per il momento nessun suo atto avrebbe potuto diminuire il pregio della sua sottomissione di cui mi sembrava di poter essere sicuro.

La mattina seguente vestendomi mormoravo le parole che le avrei dette. Prima di essere mia, Carla doveva sapere che Augusta col suo carattere e anche con la sua salute (avrei potuto spendere molte parole per spiegare quello ch'io intendessi per salute ciò che avrebbe anche servito ad educare Carla) aveva saputo conquistare il mio rispetto, ma anche il mio amore.

Prendendo il caffè, ero tanto assorto nel preparare un tanto elaborato discorso, che Augusta non ebbe da me altro segno di affetto che un lieve bacio prima di uscire. Se ero tutto suo! Andavo da Carla per riaccendere la mia passione per lei.

Non appena entrai nella stanza di studio di Carla, ebbi un tale sollievo al trovarla sola e pronta, che subito l'attirai a me e appassionatamente l'abbracciai. Как только я вошел в кабинет Карлы, я испытал такое облегчение, обнаружив ее одну и готовую, что сразу же привлек ее к себе и страстно обнял. Fui spaventato dall'energia con la quale essa mi respinse. Меня поразила энергия, с которой она оттолкнула меня. Una vera violenza! Essa non voleva saperne ed io rimasi a bocca aperta in mezzo alla stanza, dolorosamente deluso.

Ma Carla subito rimessasi mormorò:

— Non vede che la porta è rimasta aperta e che qualcuno sta scendendo le scale?

Assunsi l'aspetto di un visitatore cerimonioso finché l'importuno non passò. Poi chiudemmo la porta. Essa impallidì vedendo che giravo anche la chiave. Così tutto era chiaro. Poco dopo essa mormorò fra le mie braccia con voce soffocata:

— Lo vuoi? Veramente lo vuoi?

M'aveva dato del tu, e questo fu decisivo. Io poi avevo subito risposto:

— Se non desidero altro!

Avevo dimenticato che avrei voluto prima chiarire qualche cosa.

Subito dopo io avrei voluto cominciare a parlarle dei miei rapporti con Augusta avendo tralasciato di farlo prima. Ma era difficile per il momento. Parlando con Carla d'altro in quel momento sarebbe stato come diminuire l'importanza della sua dedizione. Anche il più sordo fra gli uomini sa che non si può fare una cosa simile, per quanto tutti sappiano che non c'è confronto fra l'importanza di quella dedizione prima che avvenga e immediatamente dopo. Sarebbe una grande offesa per una donna, che aperse le braccia per la prima volta, sentirsi dire: «Prima di tutto debbo chiarire quelle parole che ti dissi ieri... ». Ma che ieri? Tutto quello che avvenne il giorno prima deve apparire indegno di essere menzionato e se ad un gentiluomo avviene di non sentire così, tanto peggio per lui e deve fare in modo che nessuno se ne avveda.

È certo che io ero quel gentiluomo che non sentiva così perché nella simulazione sbagliai come la sincerità non saprebbe. Le domandai:

— Com'è che ti concedesti a me? Come meritai una cosa simile?

Volevo dimostrarmi grato o rimproverarla? Probabilmente non era che un tentativo per iniziare delle spiegazioni.

Essa un po' stupita guardò in alto per vedere il mio aspetto:

— A me pare che tu mi abbia presa, - e sorrise affettuosamente per provarmi che non intendeva di rimproverarmi.

Ricordai che le donne esigono si dica che sono state prese. Poi, essa stessa si accorse di aver sbagliato, che le cose si prendono e le persone si accordano e mormorò:

— Io ti aspettavo! Eri il cavaliere che doveva venire a liberarmi. Certo è male che tu sia sposato, ma, visto che non ami tua moglie, io so almeno che la mia felicità non distrugge quella di nessun altro.

Fui preso dal mio dolore al fianco con tale intensità che dovetti cessare dall'abbracciarla. Dunque l'importanza delle mie sconsiderate parole non era stata esagerata da me? Era proprio la mia menzogna che aveva indotta Carla di divenire mia? Ecco che se ora avessi pensato di parlare del mio amore per Augusta, Carla avrebbe avuto il diritto di rimproverarmi nientemeno che di un tranello! Rettifiche e spiegazioni non erano più possibili per il momento. Ma in seguito ci sarebbe stata l'opportunità di spiegarsi e di chiarire. Aspettando che si presentasse, ecco che si costituiva un nuovo legame fra me e Carla.

Lì, accanto a Carla, rinacque intera la mia passione per Augusta. Ora non avrei avuto che un desiderio: correre dalla mia vera moglie, solo per vederla intenta al suo lavoro di formica assidua, mentre metteva in salvo le nostre cose in un'atmosfera di canfora e di naftalina.

Ma restai al mio dovere, che fu gravissimo per un episodio che mi turbò molto dapprima perché m'apparve come un'altra minaccia della sfinge con la quale aveva da fare. Carla mi raccontò che subito dopo che me n'ero andato il giorno prima, era venuto il maestro di canto e che essa lo aveva semplicemente messo alla porta.

Non seppi celare un gesto di contrarietà. Era lo stesso che avvisare il Copler della nostra tresca!

— Che cosa ne dirà il Copler? - esclamai.

Essa si mise a ridere e si rifugiò, questa volta di sua iniziativa, fra le mie braccia:

— Non avevamo detto che l'avremmo buttato fuori della porta anche lui?

Era carina, ma non poteva più conquistarmi. Trovai subito anch'io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perché mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c'era in fondo all'anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie. - Bisognava lavorare a questo mondo - le dissi - perché, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano. E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? - Avevo prospettata l'eventualità del mio abbandono in modo ch'essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse. Poi, con l'evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.

— Ebbene! - disse lei rassegnata - manderemo a dire al maestro che ritorni! - Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro. Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla. Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava. Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.

Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione. Ripeté, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata. Quando ricordava che m'aveva subito amato perché le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.

Così conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccarono; erano violenti fino a scuotere, pervadendolo, il suo debole organismo. Mi sembrava di subire immediatamente un brusco assalto alla mia tasca e alla mia vita. Le domandai:

— Ma credi tu che mia moglie a questo mondo non faccia nulla? Adesso che noi due parliamo, essa ha i polmoni inquinati dalla canfora e dalla naftalina.

Carla singhiozzò:

— Le cose, le masserizie, i vestiti... beata lei!

Pensai irritato ch'essa volesse che io corressi a comperarle tutte quelle cose, solo per procurarle l'occupazione che prediligeva. Non dimostrai dell'ira, grazie al cielo e obbedii alla voce del dovere che gridava: «accarezza la fanciulla che si abbandonò a te!». L'accarezzai. Passai la mia mano leggermente sui suoi capelli. Ne risultò che i suoi singhiozzi si calmarono e le sue lagrime fluirono abbondanti e non trattenute come la pioggia che segue ad un temporale.

— Tu sei il mio primo amante - disse essa ancora - ed io spero che continuerai ad amarmi!

Quella sua comunicazione, ch'ero il suo primo amante, designazione che preparava il posto ad un secondo, non mi commosse molto. Era una dichiarazione che arrivava in ritardo perché da una buona mezz'ora l'argomento era stato abbandonato. Eppoi era una nuova minaccia. Una donna crede di avere tutti i diritti verso il suo primo amante. Dolcemente le mormorai all'orecchio:

— Anche tu sei la mia prima amante... dacché mi sono sposato.

La dolcezza della voce mascherava il tentativo di pareggiare le due partite.

Poco dopo io la lasciai perché a nessun prezzo avrei voluto arrivare tardi a colazione. Prima di andarmene trassi di nuovo di tasca la busta che io dicevo dei buoni propositi perché un ottimo proposito l'aveva creata. Sentivo il bisogno di pagare per sentirmi più libero. Carla rifiutò dolcemente di nuovo quel denaro ed io allora m'arrabbiai fortemente, ma seppi trattenermi dal manifestare questa rabbia, se non urlando delle parole dolcissime. Gridavo per non picchiarla, ma nessuno avrebbe potuto accorgersene. Dissi che ero arrivato al colmo dei miei desideri possedendola e che adesso volevo aver il senso di possederla ancora più mantenendola completamente. Perciò doveva guardarsi dal farmi arrabbiare perché ne soffrivo troppo. Volendo correre via, riassunsi in poche parole il mio concetto che divenne - così gridato - molto brusco.

— Sei la mia amante? Perciò il tuo mantenimento incombe a me.

Essa, spaventata, cessò dal resistere e prese la busta mentre mi guardava ansiosa studiando che cosa fosse la verità, il mio urlo d'odio oppure la parola d'amore con cui le veniva concesso tutto quello ch'essa aveva desiderato. Si rasserenò un poco quando prima di andarmene sfiorai con le mie labbra la sua fronte. Sulle scale mi venne il dubbio ch'essa, disponendo di quei denari e avendo sentito ch'io m'incaricavo del suo avvenire, avrebbe messo alla porta anche il Copler nel caso in cui egli nel pomeriggio fosse venuto da lei. Avrei voluto risalire quelle scale per andare ad esortarla di non compromettermi con un atto simile. Ma non v'era tempo e dovetti correr via.

Io temo che il dottore che leggerà questo mio manoscritto abbia a pensare che anche Carla sarebbe stata un soggetto interessante alla psico-analisi. A lui sembrerà che quella dedizione, preceduta dal congedo al maestro di canto, fosse stata troppo rapida. Anche a me sembrava che in premio del suo amore essa si fosse attese da me troppe concessioni. Occorsero molti, ma molti mesi, perché io intendessi meglio la povera fanciulla. Probabilmente essa s'era lasciata prendere per liberarsi dall'inquietante tutela del Copler, e dovette essere per lei una ben dolorosa sorpresa all'accorgersi che s'era concessa invano perché da lei si continuava a pretendere proprio quello che le pesava tanto, cioè il canto. Si trovava ancora fra le mie braccia e apprendeva che doveva continuare a cantare. Da ciò un'ira e un dolore che non trovavano le parole giuste. Per ragioni differenti dicemmo così ambedue delle stranissime parole. Quand'essa mi volle bene, riebbe tutta la naturalezza che il calcolo le aveva tolto. Io la naturalezza non la ebbi mai con lei.

Correndo via pensai ancora: «Se essa sapesse quanto io ami mia moglie si comporterebbe altrimenti». Quando lo seppe si comportò infatti altrimenti.

All'aria aperta respirai la libertà e non sentii il dolore di averla compromessa. Fino al giorno dopo c'era tempo e avrei forse trovato un riparo alle difficoltà che mi minacciavano. Correndo verso casa ebbi anche il coraggio di prendermela con l'ordine sociale, come se esso fosse stato la colpa dei miei trascorsi. Mi pareva avrebbe dovuto essere tale da permettere di tempo in tempo (non sempre) di fare all'amore, senz'aver a temerne delle conseguenze, anche con le donne che non si amano affatto. Di rimorso non v'era traccia in me. Perciò io penso che il rimorso non nasca dal rimpianto di una mala azione già commessa, ma dalla visione della propria colpevole disposizione. La parte superiore del corpo si china a guardare e giudicare l'altra parte e la trova deforme. Ne sente ribrezzo e questo si chiama rimorso. Anche nella tragedia antica la vittima non ritornava in vita e tuttavia il rimorso passava. Ciò significava che la deformità era guarita e che oramai il pianto altrui non aveva alcuna importanza. Dove poteva esserci posto per il rimorso in me che con tanta gioia e tanto affetto correvo dalla mia legittima moglie? Da molto tempo non m'ero sentito tanto puro.

A colazione, senz'altro sforzo, fui lieto ed affettuoso con Augusta. Non ci fu quel giorno alcuna nota stonata fra di noi. Niente di eccessivo: ero come dovevo essere con la donna onestamente e sicuramente mia. Altre volte ci furono degli eccessi d'affettuosità da parte mia, ma solamente quando nel mio animo si combatteva una lotta fra le due donne ed eccedendo nelle manifestazioni d'affetto m'era più facile di celare ad Augusta che fra di noi c'era l'ombra per il momento abbastanza potente di un'altra donna. Posso anche dire che perciò Augusta mi preferiva quando non ero tutto e con grande sincerità suo.

Io stesso ero un po' stupito della mia calma e l'attribuivo al fatto ch'ero riuscito di far accettare a Carla quella busta dai buoni propositi. Non che con quella credessi di averla saldata. Ma mi pareva che avevo cominciato a pagare un'indulgenza. Disgraziatamente per tutta la durata della mia relazione con Carla, il denaro restò la mia preoccupazione principale. Ad ogni occasione ne mettevo in disparte in un posto ben celato della mia biblioteca, per essere preparato a far fronte a qualunque esigenza dell'amante che tanto temevo. Così quel denaro, quando Carla m'abbandonò lasciandomelo, servì per pagare tutt'altra cosa.

Dovevamo passare la sera in casa di mio suocero ad un pranzo cui non erano invitati che i membri della famiglia e che doveva sostituire il tradizionale banchetto, preludio alle nozze che dovevano aver luogo due giorni appresso. Guido voleva approfittare per sposarsi del miglioramento di Giovanni, ch'egli credeva non avrebbe durato.

Andai con Augusta di buon'ora nel pomeriggio da mio suocero. Sulla via le ricordai ch'essa il giorno prima aveva sospettato ch'io soffrissi tuttavia per quelle nozze. Essa si vergognò del suo sospetto ed io parlai molto di quella mia innocenza. Se ero ritornato a casa non ricordando neppure che quella stessa sera v'era la solennità che doveva preparare quelle nozze!

Quantunque non vi fossero altri invitati che noi di famiglia, i vecchi Malfenti volevano che il banchetto fosse preparato solennemente. Augusta era stata pregata di aiutare a preparare la sala e la tavola. Alberta non ne voleva sapere. Poco tempo prima essa aveva ottenuto un premio ad un concorso per una commedia in un atto e s'accingeva ora alacremente alla riforma del teatro nazionale. Così restammo intorno a quella tavola io ed Augusta coadiuvati da una cameriera e da Luciano un ragazzo dell'ufficio di Giovanni che dimostrava altrettanto talento per l'ordine in casa quanto per quello d'ufficio.

Aiutai a trasportare sulla tavola dei fiori e a distribuirli in bell'ordine.

— Vedi - dissi scherzando ad Augusta - che contribuisco anch'io alla loro felicità. Se mi domandassero di preparare per loro anche il letto nuziale, lo farei con lo stesso aspetto sereno!

Più tardi andammo a trovare gli sposi ritornati allora da una visita ufficiale. S'erano messi nel cantuccio più riposto del salotto e suppongo che fino al nostro arrivo si fossero baciucchiati. La sposina non aveva neppur smesso il suo abito da passeggio ed era tanto bellina, così arrossata dal caldo.

Io credo che gli sposi, per celare ogni traccia dei baci che si erano scambiati, volessero darci ad intendere che avessero discusso di scienza. Era una sciocchezza, forse anche sconveniente! Volevano allontanarci dalla loro intimità o credevano che i loro baci potessero dolere a qualcuno? Ciò però non guastò il mio buon umore. Guido m'aveva detto che Ada non voleva credergli che certe vespe sapevano paralizzare con una puntura altri insetti anche più forti di loro per conservarli così paralizzati, vivi e freschi, quale nutrimento per la loro discendenza. Io credevo di ricordare ch'esisteva qualche cosa di tanto mostruoso in natura, ma in quel momento non volli concedere una soddisfazione a Guido:

— Mi credi una vespa che ti dirigi a me? - gli dissi ridendo. Lasciammo gli sposi per permettere loro di occuparsi di cose più liete. Io però cominciavo a trovare alquanto lungo il pomeriggio e avrei voluto andare a casa ad aspettare nel mio studio l'ora del pranzo.