×

Utilizziamo i cookies per contribuire a migliorare LingQ. Visitando il sito, acconsenti alla nostra politica dei cookie.


image

Ragazzi di Vita - Pasolini, VI. IL BAGNO SULL'ANIENE (2) (NO AUDIO)

VI. IL BAGNO SULL'ANIENE (2) (NO AUDIO)

Il sole era un po' calato, giù verso Roma, e c'era nell'aria come della polvere di carbone. - Namo, - disse Genesio ai suoi fratellini. Si fece dare i panni da Mariuccio e s'infilò i calzoni un po' strappati sull'orlo dal morso del cane. - Ma li mortè, - disse tra i denti, guardando. - Mo che te dice mamma? - fece Mariuccio. Genesio non rispose niente, prese dal fondo della saccoccia un'altra mezza sigaretta, e quando furono un po' più in là lungo il sentiero che saliva sulla scarpata della Tiburtina, se l'accese. -Aspettateme, - gridò in quel momento il Riccetto vedendo che se ne andavano. I tre maschietti si voltarono di sguincio, e stettero un po' fermi: erano incerti se stare ad aspettarlo oppure no. - Aspettamolo, - disse piano, sempre con la faccia scura, Genesio, e senza nemmeno guardare quello che facevano i fratelli si sedette a gambe incrociate sulla polvere, fumando con gli occhi bassi.

Il Riccetto si vestì con calma, un pedalino per volta cantando e alzando moina con quelli che facevano qualche pennello o caposotto; poi finalmente dopo essersi messo due o tre volte la roba a rovescio, fu pronto, s'alzò in piedi e un passo dopo l'altro, muovendosi pigramente sulle spalle, passò davanti ai tre maschietti di Ponte Mammolo che lo stavano a aspettare, e facendo un cenno da burlo con la testa disse: - Namo. -Andarono in fila per il sentiero lungo l'Aniene, salirono su per la scarpata quasi a strapiombo sulla Tiburtina e imboccarono ponte.

Il Riccetto camminava avanti, in canottiera, grassoccio, e tutto lucido per il bagno, facendo sempre la camminata malandrina. Era allegro, e cantava con gli occhi pieni di ironia e le mutandine bagnate penzoloni in mano. I tre maschietti gli venivano dietro, Genesio, con la pelle di liquerizia e gli occhi di carbone, in disparte, sornione, e gli altri due che trotterellavano come cuccioletti, come se andassero a una processione col Riccetto in testa. Voltarono fuori dalla Tiburtina su per via Casal dei Pazzi che puntava tra le grandi spianate dei campi coltivati, coi solchi a zig zag, e i piccoli fabbricati bianchi di calce, i cantieri, i mozziconi di case. Non c'era un'anima, e sotto il sole che cuoceva l'asfalto della strada e l'agro si sentiva solo la voce del Riccetto che cantava.

Gli operai che stavano facendo i buchi per le fogne lungo via Casal dei Pazzi, perché s'era in tempo d'elezioni, dormivano a pancia all'aria, distesi sotto l'ombra di un muretto. - An vedi! - gridò Mariuccio col suo vocino d'uccelletto, sporgendosi a guardare dentro una delle buche su cui penzolava ferma la corda dell'argano. Borgo Antico corse a guardar giù, meravigliandosi anche lui per la profondità; Genesio ci diede un'occhiata sprezzante. - E daje, - fece il Riccetto vedendo che i tre erano rimasti indietro, occupati a osservare a una a una le buche che in fila coi loro cavalletti si succedevano per quant'era lunga la strada.

- Mo so' c... vostra co' vostro padre, - gridò allegro il Riccetto muovendo energicamente su e giù una mano.

- E chi 'o fila pe niente, - fece rauco Genesio.

- Se, se, è na chiacchieretta, - disse sfottente il Riccetto continuando ad agitare il braccio. Alludeva alle botte che i tre fratellini prendevano ogni giorno da loro padre, ch'era un cafone malvagio e ubriacone. Il Riccetto che faceva il manovale con lui dalla primavera, a Ponte Mammolo, lo conosceva bene. Entrarono su per via Selmi, lasciando la fila delle buche recintate che si perdeva sotto il sole.

- Mo ve gonfia l'occhi, mo! - continuava a dire, divertendosi il Riccetto.

- See! - faceva Genesio, punto sul vivo e non disposto ad accettare quelle predizioni del Riccetto: però non aveva argomenti per difendersi e il Riccetto approfittava per divertirsi.

- Specie si ha bevuto, - disse con voce patetica, - acchiappa na saracca de bastone e ve fa vede lui ve fa!

- E lèvate, - disse Mariuccio, che era ancora troppo piccoletto per dirgli «vaffan...», guardandolo incerto da sotto in su. - Se, se, scherzace tu, -fece il Riccetto, - ma mo devi da piagne devi!

- E lèvate, - ripeté Mariuccio, incerto se scherzare pure lui o prendersela a male. Il Riccetto si fece una cantatina, come se si fosse scordato dei tre fratelli, e poi: - Nun me ce vorrebbe trovà ne li panni vostra! - disse giocondo, stirando la bocca e rattrappendo il capo tra le spalle come per schivare una scarica di botte.

- E lèvate, - disse ancora Mariuccio risentito. Genesio se ne stava zitto, dando le ultime tirate alla cicca ridotta alla sola brace, e prendendo a calci i ciottoli di via Selmi, affondata tra orticelli striminziti, casucce lasciate a metà e eserciti di bucati.

- Mo ce semo, - disse ironico il Riccetto come furono in fondo alla via, nei pressi della casa del Pugliese, anch'essa a un solo piano e senza intonaco: ma ora la stavano rialzando, e c'erano intorno le impalcature, e nella terra battuta dell'orticello, la pozzanghera della calce viva e i mucchi di sabbia color prugna. Allo sgobbo non c'era ancora nessuno dei due o tre manovali. Il Riccetto era il primo e si avvicinò con tutta calma. Il Pugliese aveva appena menato la moglie, e se ne stava seduto sullo scalino di casa con il viso chiazzato di sangue e gli occhi biechi e lucidi come quelli di un cane. I tre ragazzini che avevano smicciato il padre da lontano, si erano mantenuti alle larghe, tra le gobbe della strada e i muriccioli sventrati, in attesa della tragedia. Il Riccetto invece entrò nell'orto, tutto tranquillo e ben disposto, si tolse il pettinino dalla tasca di dietro dei calzoni, lo bagnò sotto la fontanella e cominciò a pettinarsi, bello come Cleopatra.

- Li cani, li cani! - gridò il Roscetto, sbucando di sotto la scarpata dell'Aniene, con tutta la pipinara dei compagni. Il Zinzello, il carrettiere con la pettinata alla Rudi, e il Miccia con due cani lupi adulti, un maschio ed una femmina, se ne venivano infatti per il sentiero di Tiburtino. Arrivati alla curva del fiume, mentre i cani ruzzavano tra i gambi tagliati del grano, si spogliarono, presero il sapone dalle saccocce, e chiacchierando tra loro andarono coi piedi dentro l'acqua bassa a lavarsi.

Non filavano per niente né i ragazzini né i giovinottelli. Il Zinzello con la faccia dura come un sercio, e il Miccia un tipo già grosso, con la barba che gli anneriva le guance ben nutrite, al freddo dell'acqua che gli correva per la schiena, s'erano messi tutt'e due a cantare, e non badavano ai maschi che giocavano coi loro cani.

Il cane d'Armandino, infatti, s'era messo a ringhiare, ma stando alla lontana, con la coda stretta tra le cosce girando su se stesso in modo da non presentare mai il fianco tutto zuppo agli altri due colleghi, raggomitolandosi e allungandosi.

Tutti i ragazzini, compreso il Piattoletta, s'erano radunati intorno.

- Je trema er c..., - disse beffardo il Roscetto.

- E cucciolo è, - disse lo Sgarone prendendo le sue parti.

- Ma quale cucciolo, quale cucciolo, a stupido, - disse il Roscetto con voce vibrante, - ma si è nnato prima de me!

Armandino fece «pzt» con la lingua alzando con aria di compassione le sopracciglia: - 'N c'ha manco n'anno, - disse.

- Mbè? - fece il Roscetto. - Che deve da tené paura de n'antro cane?

- Ma quale paura, sì paura! Me fai rabbia me fai, - sbottò Armandino.

S'accostò al suo cane, lo prese con violenza per il collare e lo trascinò

verso gli altri due cani, che, ringhiando, già avevano cominciato a fare la ronda, per le stoppie.

S'abbassò su di lui, e piano piano che quasi non si sentiva, cominciò a aizzarlo, con rabbia, colando saliva:

- Daje, Lupo, daje, Lupo, daje, daje!

Lupo tremava agli incitamenti di quella voce bassissima che arrivava appena alle sue orecchie ritte. Con lo sterno in avanti, era tutto una vibrazione, come un motore acceso. Di botto Armandino lo lasciò andare.

Tutti i ragazzini stavano a guardare, quasi in silenzio. Dei due cani del Zinzello il maschio era più piccolo e magro, e vedendo Lupo aizzato contro dal suo padrone e su di morale, batteva infingardo in ritirata, verso il centro del campo, ritornando ogni tanto ad abbaiare e ringhiare.

Ma la cagna era una bestia. Magra, nera, col muso affilato, con la coda spelacchiata e gli occhi obliqui, aspettò ferma come una statua il Lupo, che, arrivatole vicino a callara, si fermò di botto, abbaiando come uno scellerato contro di lei.

Essa stette un po' ferma a ascoltarlo, lugubre, tra le grida dei ragazzini: poi gli voltò le spalle e fece due passi per allontanarsi e andare pei fatti suoi, come se pensasse tra di sé: «Fammene annà, va, sinnò qqua succede na traggedia!»

Ma andandosene ogni tanto si rivoltava, col viso a punta contro la spalla magra, e gli occhi smorti e bui chiazzati di rosso.

- Daje, a Lupo, daje, daje, - sussurrava Armandino ancora piegato sull'orecchio del suo cane, mentre i ragazzini lo incitavano anch'essi, gridando come scimmie, facendo una caciara che li sentivano fino a Tiburtino. Il Lupo, ingenuo, si lanciò dietro alla cagna, che stava ancora zitta, abbaiando a squarciagola, facendo un po' di moina.

«Mo però me pare che te gonfi un po' troppo, - parve pensare la cagna, soffermandosi, - per carattere mio!», e dopo un istante: «Ma li mortacci tua» sbottò a urlare, perdendo tutt'a un botto la pazienza. Fu un ringhio così feroce che Lupo si fermò, e pure ai ragazzini fece un po' d'impressione. Lei intanto si era rivoltata facendo perno sulla schiena e smicciando tetra quel fesso di Lupo che cominciava a tagliare.

- Che te dicevo, a Sgarò? - disse il Roscetto.

Armandino si piegò ancora di più: - Daje, daje, Lupo, daje, - diceva quasi tremando pure lui. Lupo si rifece un po' di coraggio, dimenticando subito lo spagheggio che aveva provato, e ricominciò ad abbaiare, ancor più minaccioso e sciammannato di prima. «E ariòcace» parve pensare la cagna. «A zozzona, a carogna, è inutile che me guardi tanto, sa'! - gridava il Lupo furibondo, - che tanto me nun me impressioni!» E l'altra zitta. «Mo si nun dichi quarcosa, - minacciò Lupo, - t'ammollo na pignata che te stacco 'a testa!»

«Aaaah, sei carino sei!» disse l'altro cane intervenendo nel discorso.

«Mbè? - fece Lupo con uno scatto verso di lui, che scappò, - ma che va cercanno mo sto disgrazziato?» La cagna mollò un ringhio. «Fatte un ringhio su sto c. ..» urlò Lupo.

«Mo basta, - scattò la cagna, - già me so stufata, ce lo sai sì?» Si voltò completamente di fronte. «Potessi cecamme, - fece poi urlando del tutto infuriata, - ma pe na soddisfazzione me faccio pure trent'anni de Reggina Celi!»

- Mo quelli s'ammazzeno, - fece lo Sgarone, ma non aveva nemmeno finito di dire queste parole, che i due lupi già erano uno addosso all'altra, con le zampe di dietro puntate a terra e quelle davanti intrecciate, sui petti, con le bocche spalancate e le chiostre dei denti scoperte fino alle gengive. Rantolando, cercavano di mordersi dietro alle orecchie, e, tra un morso e l'altro, ringhiavano così forte da coprire gli strilli dei ragazzini. Lupo rotolò tra le stoppie, alzando il polverone, e la cagna gli era sopra, addentandolo alla gola. Ma Lupo si rialzò e dopo aver fatto qualche zompo all'indietro, le saltò di nuovo addosso, stando quasi perpendicolare e agitando le zampe davanti come uno che sta affogando. Ruggivano, si divincolavano, strozzati dalla rabbia. Ma il Zinzello sul più bello venne su infregnato dalla scarpata e diede un fischio. Subito la cagna, come sbollita d'incanto la rabbia, seguita dal maschio, corse verso di lui, leggera, balzando, muovendo la coda, sottomessa e quasi allegra. Il Zinzello gridò i morti ai ragazzini, e quando si fu sfogato per bene, ridiscese giù a riprendere l'insaponata, portando con sé i suoi cani. Lupo era rimasto male.

- Guà li mòzzichi! - disse con voce alta di meraviglia il Tirillo, - li mòzzichi! - Tutti si chinarono su Lupo, che aveva il collo tutto spelacchiato, e qua e là tra i peli neri e incollati, delle piaghe rossicce, gonfie, con delle crosticine nere. - Ammazzalo! - disse con la stessa voce carica di stupore del Tirillo lo Sgarone. - Buttamolo in acqua, - disse il Roscetto, e scesero tutti, trascinando il cane giù per la scarpata.

Intanto il Caciotta venne su dalla riva dove i grossi si erano messi a giocare a carte, dando ogni tanto un'occhiata per vedere se alla finestrella sperduta tra i muraglioni della fabbrica compariva la figlia del custode, per poter fare un po' i disgraziati con lei, ignudi come stavano. Si guardò intorno e disse: - Mo addò staranno li panni mia.

- Panni, addò state? - gridò poi col suo solito buon umore.

- Che già te ne vai? - gli fece Alduccio.

- E che sto a ffà qua? - disse il Caciotta, cercando i panni tra gli sterpi e le canne.

- Fàmose n'antro bagno, daje, - gridò Alduccio.

- None, - gridò il Caciotta.

- E lassalo perde, - disse il Begalone a Alduccio urtandogli il gomito. Il Caciotta aveva trovato i panni, e se li stava a rigirare tra le mani guardandoli.

- Chi l'avrà toccati, - disse fra di sé, - boh, no lo so.

- Che, ce sta quarcheduno che va pe saccocce? - chiese a voce alta.

- No, - gridò ironico lo Sgarone.

- Si acchiappo uno che va pe le saccocce mia, je ceco l'occhi je ceco, -disse allegro il Caciotta.

- Se' forte, va, - gli gridò dal basso il Begalone, sentendolo. Il Caciotta cominciò con l'infilarsi i pedalini e le scarpe, e intanto cantava:

Zoccoletti, zoccoletti...

- Claudio Villa, - disse il Begalone, - nun è nissuno appetto a tte, a Caciò.

- Ce lo so, - disse il Caciotta, interrompendo il canto e riprendendolo subito.

- Arriconzolete a cantà, - disse Alduccio.

- M'arriconzolo sì... - disse il Caciotta.

Zoccoletti, zoccoletti...

Che, nun me dovrebbe d'arriconzolà? che, je devo da chiede er permesso a quarcheduno pe cantamme na canzona?...

Zoccoletti, zoccoletti...

- Mo se vestimo, s'annamo a ffà na passeggiata, e poi se n'annamo a sbragà dentro ar cinema... - Mentre cantava e chiacchierava, s'era infilato calze e scarpe, e adesso slacciava la cinta che teneva legati i panni.

- Te ne vai ar cinema, ma mica dichi de portacce pure l'amichi, ve'? -disse il Begalone.

- A scemo, - rispose il Caciotta, - tengo in tutto na piotta e mezza...

- Va be, va be, fa un po' come te pare, - disse il Begalone.

Il Caciotta si rimise a cantare: - Zoccoletti, zoc..., - tacque di botto. Stette così un poco zitto, poi venne avanti coi panni in mano, bianco in faccia come un morto.

- Chi m'ha rubbato li sordi che tenevo in saccoccia? disse.

- A coso, - disse il Begalone, - me, me venghi a guardà?

- Chi è stato? - ripetè pallido il Caciotta.

- Mo chi è stato te lo viene a ddì, - fece il Zinzello andandosene coi suoi cani, e scrollando la testa.

- Mo me fate vede 'nde le saccocce vostra! - disse il Caciotta.

Il Begalone saltò in piedi con uno scatto di nervi. - A cretino, - gli disse, -tiè, guardece. - Prese i panni e li gettò in faccia al Caciotta; questi li prese e guardò attentamente in tutte le saccocce, in silenzio. Poi guardò anche dentro i pedalini e le scarpe del Begalone.

- Hai trovato quarche cosa, che? - gridò il Bègalo. - C'ho trovato li mortacci tua, - disse il Caciotta.

- Mo te do un carcio 'n faccia mo, - fece il Begalone. Il Caciotta andò a guardare nei panni d'Alduccio, e poi a uno a uno di tutti i ragazzini, ma senza trovar niente. Li rimise nella polvere, senza più guardare in faccia nessuno: chi sa quante settimane erano che non vedeva cento lire e che non s'era sentito soddisfatto come quel dopopranzo. Si vestì in silenzio, meditando profondamente, e se ne andò. Già per la Tiburtina c'era più passaggio di macchine, benché il sole, basso, bruciasse ancora, sopra i vapori neri ammassati su Roma; le saracinesche del Silver Cine s'alzarono, e qua e là, per i lotti della borgata, si sentivano più frequenti le voci e i rumori lontani. Alduccio e il Begalone si fecero un altro bagno e poi se ne andarono pure loro. Gli ultimi a lasciare il fiume furono i ragazzini.


VI. IL BAGNO SULL'ANIENE (2) (NO AUDIO) VI. THE BATH ON THE ANIENE (2) (NO AUDIO) VI. EL BAÑO EN EL ANIENE (2) (SIN AUDIO) VI. O BANHO NO ANIÉNICO (2) (SEM ÁUDIO)

Il sole era un po' calato, giù verso Roma, e c'era nell'aria come della polvere di carbone. - Namo, - disse Genesio ai suoi fratellini. Si fece dare i panni da Mariuccio e s'infilò i calzoni un po' strappati sull'orlo dal morso del cane. - Ma li mortè, - disse tra i denti, guardando. - Mo che te dice mamma? - fece Mariuccio. Genesio non rispose niente, prese dal fondo della saccoccia un'altra mezza sigaretta, e quando furono un po' più in là lungo il sentiero che saliva sulla scarpata della Tiburtina, se l'accese. -Aspettateme, - gridò in quel momento il Riccetto vedendo che se ne andavano. I tre maschietti si voltarono di sguincio, e stettero un po' fermi: erano incerti se stare ad aspettarlo oppure no. - Aspettamolo, - disse piano, sempre con la faccia scura, Genesio, e senza nemmeno guardare quello che facevano i fratelli si sedette a gambe incrociate sulla polvere, fumando con gli occhi bassi.

Il Riccetto si vestì con calma, un pedalino per volta cantando e alzando moina con quelli che facevano qualche pennello o caposotto; poi finalmente dopo essersi messo due o tre volte la roba a rovescio, fu pronto, s'alzò in piedi e un passo dopo l'altro, muovendosi pigramente sulle spalle, passò davanti ai tre maschietti di Ponte Mammolo che lo stavano a aspettare, e facendo un cenno da burlo con la testa disse: - Namo. -Andarono in fila per il sentiero lungo l'Aniene, salirono su per la scarpata quasi a strapiombo sulla Tiburtina e imboccarono ponte.

Il Riccetto camminava avanti, in canottiera, grassoccio, e tutto lucido per il bagno, facendo sempre la camminata malandrina. Era allegro, e cantava con gli occhi pieni di ironia e le mutandine bagnate penzoloni in mano. I tre maschietti gli venivano dietro, Genesio, con la pelle di liquerizia e gli occhi di carbone, in disparte, sornione, e gli altri due che trotterellavano come cuccioletti, come se andassero a una processione col Riccetto in testa. Voltarono fuori dalla Tiburtina su per via Casal dei Pazzi che puntava tra le grandi spianate dei campi coltivati, coi solchi a zig zag, e i piccoli fabbricati bianchi di calce, i cantieri, i mozziconi di case. Non c'era un'anima, e sotto il sole che cuoceva l'asfalto della strada e l'agro si sentiva solo la voce del Riccetto che cantava.

Gli operai che stavano facendo i buchi per le fogne lungo via Casal dei Pazzi, perché s'era in tempo d'elezioni, dormivano a pancia all'aria, distesi sotto l'ombra di un muretto. - An vedi! - gridò Mariuccio col suo vocino d'uccelletto, sporgendosi a guardare dentro una delle buche su cui penzolava ferma la corda dell'argano. Borgo Antico corse a guardar giù, meravigliandosi anche lui per la profondità; Genesio ci diede un'occhiata sprezzante. - E daje, - fece il Riccetto vedendo che i tre erano rimasti indietro, occupati a osservare a una a una le buche che in fila coi loro cavalletti si succedevano per quant'era lunga la strada.

- Mo so' c... vostra co' vostro padre, - gridò allegro il Riccetto muovendo energicamente su e giù una mano.

- E chi 'o fila pe niente, - fece rauco Genesio.

- Se, se, è na chiacchieretta, - disse sfottente il Riccetto continuando ad agitare il braccio. Alludeva alle botte che i tre fratellini prendevano ogni giorno da loro padre, ch'era un cafone malvagio e ubriacone. Il Riccetto che faceva il manovale con lui dalla primavera, a Ponte Mammolo, lo conosceva bene. Entrarono su per via Selmi, lasciando la fila delle buche recintate che si perdeva sotto il sole.

- Mo ve gonfia l'occhi, mo! - continuava a dire, divertendosi il Riccetto.

- See! - faceva Genesio, punto sul vivo e non disposto ad accettare quelle predizioni del Riccetto: però non aveva argomenti per difendersi e il Riccetto approfittava per divertirsi.

- Specie si ha bevuto, - disse con voce patetica, - acchiappa na saracca de bastone e ve fa vede lui ve fa!

- E lèvate, - disse Mariuccio, che era ancora troppo piccoletto per dirgli «vaffan...», guardandolo incerto da sotto in su. - Se, se, scherzace tu, -fece il Riccetto, - ma mo devi da piagne devi!

- E lèvate, - ripeté Mariuccio, incerto se scherzare pure lui o prendersela a male. Il Riccetto si fece una cantatina, come se si fosse scordato dei tre fratelli, e poi: - Nun me ce vorrebbe trovà ne li panni vostra! - disse giocondo, stirando la bocca e rattrappendo il capo tra le spalle come per schivare una scarica di botte.

- E lèvate, - disse ancora Mariuccio risentito. Genesio se ne stava zitto, dando le ultime tirate alla cicca ridotta alla sola brace, e prendendo a calci i ciottoli di via Selmi, affondata tra orticelli striminziti, casucce lasciate a metà e eserciti di bucati.

- Mo ce semo, - disse ironico il Riccetto come furono in fondo alla via, nei pressi della casa del Pugliese, anch'essa a un solo piano e senza intonaco: ma ora la stavano rialzando, e c'erano intorno le impalcature, e nella terra battuta dell'orticello, la pozzanghera della calce viva e i mucchi di sabbia color prugna. Allo sgobbo non c'era ancora nessuno dei due o tre manovali. Il Riccetto era il primo e si avvicinò con tutta calma. Il Pugliese aveva appena menato la moglie, e se ne stava seduto sullo scalino di casa con il viso chiazzato di sangue e gli occhi biechi e lucidi come quelli di un cane. I tre ragazzini che avevano smicciato il padre da lontano, si erano mantenuti alle larghe, tra le gobbe della strada e i muriccioli sventrati, in attesa della tragedia. Il Riccetto invece entrò nell'orto, tutto tranquillo e ben disposto, si tolse il pettinino dalla tasca di dietro dei calzoni, lo bagnò sotto la fontanella e cominciò a pettinarsi, bello come Cleopatra.

- Li cani, li cani! - gridò il Roscetto, sbucando di sotto la scarpata dell'Aniene, con tutta la pipinara dei compagni. Il Zinzello, il carrettiere con la pettinata alla Rudi, e il Miccia con due cani lupi adulti, un maschio ed una femmina, se ne venivano infatti per il sentiero di Tiburtino. Arrivati alla curva del fiume, mentre i cani ruzzavano tra i gambi tagliati del grano, si spogliarono, presero il sapone dalle saccocce, e chiacchierando tra loro andarono coi piedi dentro l'acqua bassa a lavarsi.

Non filavano per niente né i ragazzini né i giovinottelli. Il Zinzello con la faccia dura come un sercio, e il Miccia un tipo già grosso, con la barba che gli anneriva le guance ben nutrite, al freddo dell'acqua che gli correva per la schiena, s'erano messi tutt'e due a cantare, e non badavano ai maschi che giocavano coi loro cani.

Il cane d'Armandino, infatti, s'era messo a ringhiare, ma stando alla lontana, con la coda stretta tra le cosce girando su se stesso in modo da non presentare mai il fianco tutto zuppo agli altri due colleghi, raggomitolandosi e allungandosi.

Tutti i ragazzini, compreso il Piattoletta, s'erano radunati intorno.

- Je trema er c..., - disse beffardo il Roscetto.

- E cucciolo è, - disse lo Sgarone prendendo le sue parti.

- Ma quale cucciolo, quale cucciolo, a stupido, - disse il Roscetto con voce vibrante, - ma si è nnato prima de me!

Armandino fece «pzt» con la lingua alzando con aria di compassione le sopracciglia: - 'N c'ha manco n'anno, - disse.

- Mbè? - fece il Roscetto. - Che deve da tené paura de n'antro cane?

- Ma quale paura, sì paura! Me fai rabbia me fai, - sbottò Armandino.

S'accostò al suo cane, lo prese con violenza per il collare e lo trascinò

verso gli altri due cani, che, ringhiando, già avevano cominciato a fare la ronda, per le stoppie.

S'abbassò su di lui, e piano piano che quasi non si sentiva, cominciò a aizzarlo, con rabbia, colando saliva:

- Daje, Lupo, daje, Lupo, daje, daje!

Lupo tremava agli incitamenti di quella voce bassissima che arrivava appena alle sue orecchie ritte. Con lo sterno in avanti, era tutto una vibrazione, come un motore acceso. Di botto Armandino lo lasciò andare.

Tutti i ragazzini stavano a guardare, quasi in silenzio. Dei due cani del Zinzello il maschio era più piccolo e magro, e vedendo Lupo aizzato contro dal suo padrone e su di morale, batteva infingardo in ritirata, verso il centro del campo, ritornando ogni tanto ad abbaiare e ringhiare.

Ma la cagna era una bestia. Magra, nera, col muso affilato, con la coda spelacchiata e gli occhi obliqui, aspettò ferma come una statua il Lupo, che, arrivatole vicino a callara, si fermò di botto, abbaiando come uno scellerato contro di lei.

Essa stette un po' ferma a ascoltarlo, lugubre, tra le grida dei ragazzini: poi gli voltò le spalle e fece due passi per allontanarsi e andare pei fatti suoi, come se pensasse tra di sé: «Fammene annà, va, sinnò qqua succede na traggedia!»

Ma andandosene ogni tanto si rivoltava, col viso a punta contro la spalla magra, e gli occhi smorti e bui chiazzati di rosso.

- Daje, a Lupo, daje, daje, - sussurrava Armandino ancora piegato sull'orecchio del suo cane, mentre i ragazzini lo incitavano anch'essi, gridando come scimmie, facendo una caciara che li sentivano fino a Tiburtino. Il Lupo, ingenuo, si lanciò dietro alla cagna, che stava ancora zitta, abbaiando a squarciagola, facendo un po' di moina.

«Mo però me pare che te gonfi un po' troppo, - parve pensare la cagna, soffermandosi, - per carattere mio!», e dopo un istante: «Ma li mortacci tua» sbottò a urlare, perdendo tutt'a un botto la pazienza. Fu un ringhio così feroce che Lupo si fermò, e pure ai ragazzini fece un po' d'impressione. Lei intanto si era rivoltata facendo perno sulla schiena e smicciando tetra quel fesso di Lupo che cominciava a tagliare.

- Che te dicevo, a Sgarò? - disse il Roscetto.

Armandino si piegò ancora di più: - Daje, daje, Lupo, daje, - diceva quasi tremando pure lui. Lupo si rifece un po' di coraggio, dimenticando subito lo spagheggio che aveva provato, e ricominciò ad abbaiare, ancor più minaccioso e sciammannato di prima. «E ariòcace» parve pensare la cagna. «A zozzona, a carogna, è inutile che me guardi tanto, sa'! - gridava il Lupo furibondo, - che tanto me nun me impressioni!» E l'altra zitta. «Mo si nun dichi quarcosa, - minacciò Lupo, - t'ammollo na pignata che te stacco 'a testa!»

«Aaaah, sei carino sei!» disse l'altro cane intervenendo nel discorso.

«Mbè? - fece Lupo con uno scatto verso di lui, che scappò, - ma che va cercanno mo sto disgrazziato?» La cagna mollò un ringhio. «Fatte un ringhio su sto c. ..» urlò Lupo.

«Mo basta, - scattò la cagna, - già me so stufata, ce lo sai sì?» Si voltò completamente di fronte. «Potessi cecamme, - fece poi urlando del tutto infuriata, - ma pe na soddisfazzione me faccio pure trent'anni de Reggina Celi!»

- Mo quelli s'ammazzeno, - fece lo Sgarone, ma non aveva nemmeno finito di dire queste parole, che i due lupi già erano uno addosso all'altra, con le zampe di dietro puntate a terra e quelle davanti intrecciate, sui petti, con le bocche spalancate e le chiostre dei denti scoperte fino alle gengive. Rantolando, cercavano di mordersi dietro alle orecchie, e, tra un morso e l'altro, ringhiavano così forte da coprire gli strilli dei ragazzini. Lupo rotolò tra le stoppie, alzando il polverone, e la cagna gli era sopra, addentandolo alla gola. Ma Lupo si rialzò e dopo aver fatto qualche zompo all'indietro, le saltò di nuovo addosso, stando quasi perpendicolare e agitando le zampe davanti come uno che sta affogando. Ruggivano, si divincolavano, strozzati dalla rabbia. Ma il Zinzello sul più bello venne su infregnato dalla scarpata e diede un fischio. Subito la cagna, come sbollita d'incanto la rabbia, seguita dal maschio, corse verso di lui, leggera, balzando, muovendo la coda, sottomessa e quasi allegra. Il Zinzello gridò i morti ai ragazzini, e quando si fu sfogato per bene, ridiscese giù a riprendere l'insaponata, portando con sé i suoi cani. Lupo era rimasto male.

- Guà li mòzzichi! - disse con voce alta di meraviglia il Tirillo, - li mòzzichi! - Tutti si chinarono su Lupo, che aveva il collo tutto spelacchiato, e qua e là tra i peli neri e incollati, delle piaghe rossicce, gonfie, con delle crosticine nere. - Ammazzalo! - disse con la stessa voce carica di stupore del Tirillo lo Sgarone. - Buttamolo in acqua, - disse il Roscetto, e scesero tutti, trascinando il cane giù per la scarpata.

Intanto il Caciotta venne su dalla riva dove i grossi si erano messi a giocare a carte, dando ogni tanto un'occhiata per vedere se alla finestrella sperduta tra i muraglioni della fabbrica compariva la figlia del custode, per poter fare un po' i disgraziati con lei, ignudi come stavano. Si guardò intorno e disse: - Mo addò staranno li panni mia.

- Panni, addò state? - gridò poi col suo solito buon umore.

- Che già te ne vai? - gli fece Alduccio.

- E che sto a ffà qua? - disse il Caciotta, cercando i panni tra gli sterpi e le canne.

- Fàmose n'antro bagno, daje, - gridò Alduccio.

- None, - gridò il Caciotta.

- E lassalo perde, - disse il Begalone a Alduccio urtandogli il gomito. Il Caciotta aveva trovato i panni, e se li stava a rigirare tra le mani guardandoli.

- Chi l'avrà toccati, - disse fra di sé, - boh, no lo so.

- Che, ce sta quarcheduno che va pe saccocce? - chiese a voce alta.

- No, - gridò ironico lo Sgarone.

- Si acchiappo uno che va pe le saccocce mia, je ceco l'occhi je ceco, -disse allegro il Caciotta.

- Se' forte, va, - gli gridò dal basso il Begalone, sentendolo. Il Caciotta cominciò con l'infilarsi i pedalini e le scarpe, e intanto cantava:

Zoccoletti, zoccoletti...

- Claudio Villa, - disse il Begalone, - nun è nissuno appetto a tte, a Caciò.

- Ce lo so, - disse il Caciotta, interrompendo il canto e riprendendolo subito.

- Arriconzolete a cantà, - disse Alduccio.

- M'arriconzolo sì... - disse il Caciotta.

Zoccoletti, zoccoletti...

Che, nun me dovrebbe d'arriconzolà? che, je devo da chiede er permesso a quarcheduno pe cantamme na canzona?...

Zoccoletti, zoccoletti...

- Mo se vestimo, s'annamo a ffà na passeggiata, e poi se n'annamo a sbragà dentro ar cinema... - Mentre cantava e chiacchierava, s'era infilato calze e scarpe, e adesso slacciava la cinta che teneva legati i panni.

- Te ne vai ar cinema, ma mica dichi de portacce pure l'amichi, ve'? -disse il Begalone.

- A scemo, - rispose il Caciotta, - tengo in tutto na piotta e mezza...

- Va be, va be, fa un po' come te pare, - disse il Begalone.

Il Caciotta si rimise a cantare: - Zoccoletti, zoc..., - tacque di botto. Stette così un poco zitto, poi venne avanti coi panni in mano, bianco in faccia come un morto.

- Chi m'ha rubbato li sordi che tenevo in saccoccia? disse.

- A coso, - disse il Begalone, - me, me venghi a guardà?

- Chi è stato? - ripetè pallido il Caciotta.

- Mo chi è stato te lo viene a ddì, - fece il Zinzello andandosene coi suoi cani, e scrollando la testa.

- Mo me fate vede 'nde le saccocce vostra! - disse il Caciotta.

Il Begalone saltò in piedi con uno scatto di nervi. - A cretino, - gli disse, -tiè, guardece. - Prese i panni e li gettò in faccia al Caciotta; questi li prese e guardò attentamente in tutte le saccocce, in silenzio. Poi guardò anche dentro i pedalini e le scarpe del Begalone.

- Hai trovato quarche cosa, che? - gridò il Bègalo. - C'ho trovato li mortacci tua, - disse il Caciotta.

- Mo te do un carcio 'n faccia mo, - fece il Begalone. Il Caciotta andò a guardare nei panni d'Alduccio, e poi a uno a uno di tutti i ragazzini, ma senza trovar niente. Li rimise nella polvere, senza più guardare in faccia nessuno: chi sa quante settimane erano che non vedeva cento lire e che non s'era sentito soddisfatto come quel dopopranzo. Si vestì in silenzio, meditando profondamente, e se ne andò. Già per la Tiburtina c'era più passaggio di macchine, benché il sole, basso, bruciasse ancora, sopra i vapori neri ammassati su Roma; le saracinesche del Silver Cine s'alzarono, e qua e là, per i lotti della borgata, si sentivano più frequenti le voci e i rumori lontani. Alduccio e il Begalone si fecero un altro bagno e poi se ne andarono pure loro. Gli ultimi a lasciare il fiume furono i ragazzini.