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Ragazzi di Vita - Pasolini, IV. RAGAZZI DI VITA (2)

IV. RAGAZZI DI VITA (2)

Dentro la bisca tutto continuava come prima. Nessuno s'era accorto né che essi se n'erano andati né che erano tornati. Prima però che Amerigo riperdesse tutto un'altra volta, mentre che lui era intento a giocare, il Riccetto piano piano si scostò, tra il mucchio di gente, lungo il secchiaio, e imboccò la porta dileguando.

E fece bene, perché nemmeno era svoltato fuori dalla porta del lotto nove, dietro la loggetta, che arrivarono i carubba. Fu appena in tempo a vederli e a tagliare dietro il cantone. «Li mortaaacci sua», si disse a voce alta come se cantasse, per quanto era grande la soddisfazione di non esser rimasto fregato; e si mise a correre per le strade deserte tra i lotti, giù verso via Boccaleone, e poi ancora di corsa per la strada di Tor Sapienza. Non c'era più una nuvola nel cielo; a mancina bruciavano le luci, i piloni pieni di fari, i riflettori della centrale elettrica, e indietro, già lontano, Tiburtino, coi casoni nuovi in fila contro il cielo nero. In fondo, nel gran tepore, brillavano i lumi delle altre borgate, fino a Centocelle, la Borgata Gordiani, Tor de' Schiavi, il Quarticciolo. Passo passo, morto di debolezza, il Riccetto arrivò sulla Prenestina e si mise a aspettare l'autobus del Quarticciolo. Cacciò le cinque carte da cento ch'era riuscito a salvare, e scelse la più ciancicata per darla al fattorino.

«E mo?» disse quando l'autobus vuoto lo depose al Prenestino. Si diede una guardata intorno, si tirò su i calzoni, e vedendo che lì non c'era proprio niente da fare per lui, sbottò a cantare a voce alta filosoficamente. Qualche tram arrivava dalla via Prenestina, si fermava un po' luccicante, Sotto un alberello storcinato, poi faceva il giro dietro tre o quattro casacce tra i praticelli zozzi, e si veniva a rifermare dall'altra parte: intanto la gente ch'era scesa, un po' correva affannata verso gli autobus delle borgate fermi in fila davanti a un caffeuccio illuminato, un po' se n'andava piano piano verso il suo letto lì vicino, al Borghetto Prenestino, con tante case piccole come dadi o come pollai, bianche come quelle degli arabi, e nere come capanne, piene di cafoni pugliesi o marchegiani, sardegnoli o calabresi: giovinottelli e vecchi che a quell'ora se ne tornavano ubbriachi e coperti di stracci; oppure ai villaggi di tuguri ammucchiati nelle aree da costruzione, tra le scarpate delle viuzze che davano sulla Prenestina. Il Riccetto decise di comprarsi tre nazionali, che era un pezzo che si stava a sfiatare da fumare: attraversò, tutto snodato, il piccolo piazzale, e entrò nel bar contando i soldi. Rivenne fuori con la sigaretta incollata sul labbro inferiore, e gli occhi paraguli ruotanti alla ricerca di uno che c'avesse del fuoco. - Me fai accende, a morè? - fece a un giovanotto che fumava decadente appoggiato a un palo. Senza dir niente quello gli tese la sigaretta accesa, il Riccetto ringraziò con un cenno guappo del capo, s'infilò le mani in saccoccia, e andò cantando su per la viuzza livida per dove girava il tram.

Tutt'intorno s'alzavano impalcature e casamenti in costruzione, e grandi prati, depositi di rottami, terreni fabbricabili; da lontano, forse dalla Maranella, dietro il Pigneto, si sentiva giungere la voce d'un grammofono ingrossata dall'altoparlante. Sul prato della Casilina, prima della Maranella, dovevano esserci i carosielli: e il Riccetto se ne andava da quella parte, con le mani in saccoccia e la testa ritratta tra le spalle per la passione che ci metteva a cantare tra sé la canzonetta.

Per un po' per l'Acqua Bullicante non incontrò che qualche persona anziana che se n'andava di fretta verso casa; però all'altezza della stradina che voltava in su, tra i muriccioli di due fabbriche, verso la Borgata Gordiani, comparve una fila di ragazzi che se ne venivano avanti, riempiendo la strada quant'era larga, senza fretta, gridando e facendo i malandri, in disordine come uno sciametto di mosche s'un tavolo sporco. Chi dava scopolette sulla testa del compagno, facendolo incazzare, chi si metteva in guardia colpendo l'aria di sinistro, di destro, e poi con un gancio per cui gli occhi gli si rapprendevano di soddisfazione, un altro invece mostrava la sua dritteria facendo l'indifferente con le mani pigramente in saccoccia e con l'aria di dire: «Co sta debolezza e chi ve li fa ffà sti sforzi!», carico d'ironia verso gli altri; alcuni discutevano fra loro ghignando, torcendo la bocca con disgusto, tendendo le braccia con un schiocco della lingua, o, nel calore della discussione, mettendo le mani a scodella sotto il mento, puntate contro il petto e stando in quella posizione per mezz'ora, pieni d'aria interrogativa verso l'avversario. Tutta la via dell'Acqua Bullicante, in profondo raccoglimento, li stava a ammirare. Il Riccetto c'andò subito in puzza. Non che quelli con la loro moina ce l'avessero proprio con lui: volevano, semmai, prender di petto, così, il mondo in generale, con tutta la razza degli uomini che non se la sapevano divertire come loro. Ma il Riccetto ci sformava che quelli facessero i dritti mentre lui era lì solo, e escluso, sul momento, da una compagnia paragula come quella, e dovesse starsene ad ascoltare bono bono la loro caciara. Si mise a fischiettare più forte, senza filarli per niente e andò per la sua strada: ma come li ebbe lasciati indietro nemmeno una ventina di passi, sentì dentro il fosso che dava sugli orti luridi una voce che piagnucolava; si fece appresso e distinse un ragazzo col torace nudo accucciato sull'erba.

- Ch'hai fatto, - disse. Ma quello piangeva senza dir niente. - Aòh, mbè? - fece il Riccetto.

Accostandosi ancora s'avvide ch'era tutto ignudo; magro e fracico di guazza, s'era messo ginocchioni e aveva cominciato a dire facendo la lagna come i ragazzini piccoli: - M'hanno spojato e m'hanno niscosto li panni, li mortacci loro de sti fiji de puttana. - Chi è stato? - fece il Riccetto.

Quello s'alzò in piedi con la mazzetta dritta e tutto bagnato di pianto: - So' quelli, - fece lagnoso. Il Riccetto si mise a correre dietro il gruppo dei ragazzi ch'aveva incontrato un momento prima.

- Aòh, a moretti, - gridò. Quelli si fermarono e si voltarono tutti assieme. - Aòh, che ssète stati voi a nisconneje li panni a quer regazzino llà? - fece con voce decisa ma ancora cortese il Riccetto. - Ma stanno llà vicino! - fece allegro uno di loro, - mo 'i trova -. Il Riccetto fece qualche passo indietro; né lui né gli altri c'avevano voglia di litigare: si sentivano anzi alleati perché loro erano dei dritti, in confronto a quel broccolo che piangeva, là. - Lassalo perde, è loffio, - fece uno battendosi l'indice contro il naso. Il Riccetto alzò le spalle: - Mbè, poveraccio, - fece; ormai però il suo dovere di difensore era finito, e infatti si vide venir fuori dal fosso il loffio coi calzoni già infilati e in mano la canottiera tutta a pezzi. Ma gli altri ragazzi non si muovevano e anzi uno guardava fisso il Riccetto ridendo. - Me guardi? - fece il Riccetto.

Era uno con le labbra carnose e screpolate, e una faccetta da delinquente, sotto la nuca piccola piena di ricci come un cavolo. - Me conoschi, che? - fece il Riccetto, che lo vedeva controluce sotto un fanale. - Come, nun te conoscio! - fece l'altro allegro.

- So' er Lenzetta, - continuò, - se semo visti ieri a ssera a Villa Borghese no! - Ah scuseme! - fece magnanimo il Riccetto riconoscendolo e gli s'avvicinò con la mano tesa. - Addò vai? - chiese. - Indovve voi annà, co sta fame, - fece il Lenzetta. Gli altri ridevano. - E te? - chiese il Lenzetta. Il Riccetto rise filosofico, si rialzò il colletto della camicia, affondò di più le mani nelle tasche dei calzoni. - E cche ne so, - disse, - sto ancora fori casa e cor c... che mo ce torno. - E pecché? - fece divertito il Lenzetta. -Che me voi fà carcerà? - disse il Riccetto. - Stavo a ggiocà a zecchinetta i' una casa a Tibburtino, è venuta 'a polizzia e so' c... loro mo pe' quelli ch'hanno beccato. Li mortacci loro, 'o sai che ce stava pure er Caciotta, llà.

- Chi Caciotta? - fece il Lenzetta. - Quello che stava co' mme, ieri a ssera... quer roscio llà... Mo starà in cammera de sicurezza, li mortacci sua.

- Puro io sto ancora fori casa, - fece il Lenzetta, - e chi ce torna? Mi' fratello si mme vede m'ammazza... - Ma quale ammazza, - fece uno della compagnia, - ma si l'hanno beccato sabbato a ssera, te stamo a ddì. - 'O so, 'o so, - fece il Lenzetta, - mbè, ce ztà sempre mi' madre a casa no, che la possino ammaìlla, che nun 'a posso vede. - Mo so' c... tua, - fece ridendo il suo compagno, minacciando con una mano, - tu' madre a casa e tu' fratello a bottega, come fai fai male, mo: si vai a casa becchi, si te carcerano becchi, attento a tte! - Tutti ridevano. - E che me frega a me! - fece il Lenzetta. Ridendo e urtandosi smandrappati, tornarono in su verso la Maranella. - Tanto, - fece uno, - la Elina stassera nun ce sta. - Chi te 'a detto, - fece un altro, disgustato, - ce sta sempre ce sta. - See, - fece il primo, - c'aveva na panza grossa come na tinozza, mo starà ar Poricrinico a fà er fijo. - Ma quale grossa, quale grossa, - fece il primo in aria di sfida, ma si sarà stata er massimo de quattro mesi. - Quattro mesi er c..., - disse l'altro, - ma si ggià 'a teneva grossa 'a panza quanno che 'ho scopata io sta primavera! - See, dieci anni fa, - fece il Lenzetta, - ma tanto che ve frega si c'avemo na piotta 'n tutti cinque me lasso tajà er collo. - Che, sarebbe 'a prima vorta che 'a mannamo 'n bianco? fece uno. - Je dimo: facce scopà che te damo na fronna, scopamo, e nun je damo na lira. - Sto fijo de na mignotta! - gridò il Lenzetta.

Chiacchierando chiacchierando erano arrivati quasi alla Maranella, e alla Elina ormai non ci stavano a pensare più. Si sentiva d'appresso il suono del fonografo dei carosielli, ma insieme un brusio di voci, uno scalpiccìo, più in qua, proprio all'incrocio della Maranella, alla fermata del tranvetto. Tutta la gente andava da quella parte, come fosse successo qualcosa o ci fosse una festa, con tutto ch'era già tardi. - So' quelli der circo, li mortè, -gridò uno mettendosi a correre. - Ma quale circo, quale circo, - ribatté il Lenzetta calmo, pur affrettando, pigramente, il passo cogli altri: dalla Casilina si vedeva venir giù una piccola folla, nera sul selciato pieno di buche, male illuminato. All'altezza del cinemetto dei Due Allori si fermò, tutta punticchiata dalle luci rette in mano. - E 'a procissione, vaffan... -fece deluso il Lenzetta.

I ragazzi s'erano fermati lì al quadrivio dov'erano arrivati di corsa, incerti se irsene al Prato dove stavano i carosielli, forse con il tirassegno della bionda ancora aperto, o fermarsi a osservare quello strazio lì, alla Maranella. Si misero ironicamente a sedere sull'orlo del marciapiede tra le gambe della gente, che si faceva più fitta a guardare la processione: uno cantava, uno dava scopolette a un altro che s'era fissato a guardare, altri si rotolavano abbraccicati sulla polvere. Intanto la processione si avvicinava.

- Mannaggia, - disse il Riccetto, - potèmio restà ar Prenestino, era mejo. -E che ce facevi? - disse il Lenzetta. - Ce ztava la Elina no, - fece il Riccetto paragulo. Lì a venir avanti erano tutte donne vecchie e spampanate, con qualche vecchietto qua e là e qualche ragazzino: tutte reggevano in mano un imbuto di cartone, con dentro una candela perché il vento notturno non la spegnesse. Ogni tanto si mettevano a cantare, ognuna per conto suo. Arrivate all'incrocio, si fermarono, si raccolsero intorno al marciapiede sotto una pizzeria, due giovanotti andarono a mettere contro il muro scrostato un tavolino, e sopra ci salì un vecchio, che cominciò a fare un discorso contro i comunisti e a esaltare lo spirito di Cristo.

Lì attorno dove s'erano fermati il Lenzetta, il Riccetto e gli altri c'era una gran caciara, tanto che la voce del vecchio, che parlava cispadano, si sentiva appena. - An senti! - gridò uno. - Che te voi fà chirichetto, a Mozzò? - disse il Lenzetta; il Mozzone stette un po' zitto, colle orecchie tese. - Gome barla! - fece poi con la voce addolcita dalla meraviglia. Il Riccetto diede una gomitata al Lenzetta: Aòh, - gli fece, - io già me so' stufato, sa'. - E cche vvòi, - disse il Lenzetta. - Tornamo ggiù, - disse il Riccetto accennando col capo verso il Prenestino. - A matto, - fece l'altro.

- Tengo li sordi, che te credi, - spiegò il Riccetto, - ma ppe' noi due soli però -. Il Lenzetta prima diede un'occhiata a lui, poi si guardò intorno: -Aspetta, - disse. Gli altri erano distratti. - Arzete, - fece allora, - e vattene ggiù pell'Acqua Bullicante, ch'io te vengo appresso.

II Riccetto s'alzò e piano piano s'allontanò tra la folla che stava a guardare il vecchio beffardamente; ma quello dopo manco cinque minuti fece la bella, e la processione riprese cantando la marcia, e voltò giù, verso il centro della borgata. Il Lenzetta raggiunse il Riccetto correndo. - E l'altri? - fece il Riccetto.

- L'avemo scaricati, - disse il Lenzetta, - se ne so' iti a li carosielli.

Chiacchierando si rifecero tutta la via dell'Acqua Bullicante, mentre alle loro spalle le sambe suonate al fonografo e i canti della processione s'andavano smorzando. C'era ormai solo qualcuno che tornava dal Preneste o dall'Impero verso la Borgata Gordiani, o verso il Pigneto, oppure qualche ubbriaco che rincasava cantando ora Bandiera Rossa ora la Marcia Reale.

Trovarono la Elina in mezzo alle ombre di cui era la regina, dietro ai praticelli lerci pieni di montarozzi per dove i tram facevano il giro, qualche stradetta tutta buche, in uno spiazzo dominato dalle immense ombre di due o tre grattacieli in costruzione, di dietro, e di fronte da uno già costruito, ma ancora senza strade o cortili davanti, abbandonato tra l'erbaccia e il pattume. L'enorme scatolone con tutte le finestre illuminate, s'alzava solo in mezzo al cielo, dove qualche stella tristemente brilluccicava. La Elina stava rintanata là dietro, vicino ai reticolati o le fratte che circondavano i terreni lottizzati, ridotti ancora a enormi depositi d'immondezza, con intorno o in mezzo qualche tugurio e qualche mucchio di breccia.

Il Lenzetta e il Riccetto s'accostarono alla donna ch'era piccola e grossa come un rotolo di còppa, stettero un po' a contrattare, e, passando tra i fili di ferro di un reticolato, si spinsero in dentro, tra mucchi fradici di canne.

Non ci misero molto; appena che risortirono andarono calmi calmi a lavarsi un pochetto a una fontanella, in mezzo al piazzale dov'era il capolinea dei tranvi. Per dormire ci pensò il Lenzetta. Dietro alla borgata Gordiani, in una prateria da dove si vedeva tutta la periferia con le borgate, da Centocelle a Tiburtino, in fondo a un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi bidoni arruzzoniti, abbandonati lì insieme a altri ferrivecchi, in un recinto. Erano abbastanza grossi, tanto che ci si poteva camminare dentro sulle ginocchia, e lunghi quanto una persona. Dentro uno di questi il Lenzetta c'aveva messo della paglia; ne prese un poca, e la mise in uno vicino. Ci si distesero e dormirono fino alla mattina dopo alle dieci.

Il Lenzetta bazzicava dalle parti di via Tuscolana, piazza Re di Roma, via Taranto, là, dove c'era qualche mercatino rionale, qualche caserma o qualche mensa di frati. Quand'era fori de casa s'arrangiava un po' lavorando (meno che poteva) per qualche pesciarolo o qualche piazzista, un po' fregando per le bancarelle o nei tranvi. Quando gli andava restava nella periferia, dalla borgata Prenestina al Quadraro, con un sacco tutto sbrillentato a cercar ferrivecchi o pezzetti di piombo tra le spazzature: ma questo lo faceva di raro perché gli veniva mal di schiena a piegarsi, e poi gli restava la bocca così impastata di polvere che gli occorreva poco poco un tubo di vino per disinfettarla, e a quel modo se n'andavano metà de li sordi ch'aveva rimediato. Pure al Riccetto quell'inguippo dei ferrivecchi non gli spinferava, anche perché era roba da ragazzini; così in periferia ci venivano solo per dormire nei bidoni, e tutta la giornata la passavano dentro Roma. Se poi un giorno rimediavano della pecogna pure per quello successivo, allora col cavolo che andavano a lavorare e a sfaticare: prendevano l'autobus e se ne andavano all'Acqua Santa. Entravano dietro quattro cespugli scheletriti lungo l'Appia Nuova, salivano su per la scesa incrostata di due spanne di polvere, e tra cave e caverne, crinali, praticelli bruciati, burroncelli, mozziconi di torri e carraie si spingevano dentro la sconfinata e accidentata terra promessa ch'era l'Acqua Santa. Le speranze erano quelle d'incontrare, in cima a un cucuzzolo, all'incrocio dei viottoli slabbrati, qualche zanoida, appostata a aspettare i clienti imberbi delle borgate di tuguri o delle prime case popolari che giganteggiavano sullo sfondo; oppure, appostato all'ingresso d'una caverna, o tra le fratte di more intorno a una marana, col giornale disteso accanto e gli occhiali d'oro, qualche grosso tedesco da poter levargli quello che volevano. Lo guardavano, facevano finta di niente, oppure si mettevano a fare un goccio d'acqua: e lui, dietro, su e giù per le balze e i burroncelli, fino alle più zozze marane, al modo che diceva il gran poeta di Roma:

Me sentivo quer frocio dì a le tacche

Cor fiatone: - Tartaifel, sor paine,

Pss, nun currete tante, che so stracche.

Un giorno i due paini - soli soli, però - arrivati alla marana del cancello rosso, trovarono un giovinottello di Tiburtino, che era semplicemente Alduccio. Il Riccetto forzò un po' la camminata per andare a dargli la mano tutto allegro. - Ah, cuggì, embè? - gli diceva cordialmente mentre che si spogliava. Alduccio se ne stava disteso in mutandine sull'erba sporca nel filo d'ombra d'una frattaccia di canne. Parlava galante. - Er zolito, -diceva, - più zta e ppiù te viè voja de mannà tutto affan... e mettete a ffà er bandito.

- Ammazzete, - fece il Riccetto sfilandosi dalla testa luccicante la canottiera.

- Zi nun lavori nun magni, sa', e da lavorà quanno trovi? - Masticava con aria decadente e sprezzante il cheewing-gum.

- Mbè, - disse il Riccetto continuando il filo umoristico di Alduccio, -se procuramo du' Berretta, e famo na banda-. Alduccio lo guardò con l'aria di uno che non sta a scherzare proprio per niente. - Propio così, - disse. Il Lenzetta che non sopportava di non intervenire in una discussione per più di un minuto, e che alla parola «Berretta» aveva drizzato l'orecchie, esclamò beffardo: - Ma quale Berretta, na Cappella, non na Berretta!

Si distesero pure il Riccetto e il Lenzetta sulla proda della marana. -Mbè, - riprese il Riccetto, - che me riconti de Tibburtino?

- Che te devo da ricontà, - fece Alduccio, - già te 'o detto, er zòlito.

- Che, 'o conoschi er Caciotta, ve', quello che zta a abbità ar lotto nove... - fece il Riccetto.

- Come, 'un 'o conoscio, - rispose Alduccio, - 'o conoscio sì...

- Che fa? - indagò il Riccetto. Il bel viso d'Alduccio ebbe un'espressione allegra: e senza dir niente coi polpastrelli del pollice e dell'indice si tirò la pelle delle guance sotto gli occhi. Voleva dire che era a bottega, a Porta Portese.

«Ammazzelo», borbottò ridendo fra sé il Riccetto.

- 'O hanno beccato ne 'a bizca de Fileni che stava a ggiocà a zecchinetta, - spiegò Alduccio.

- 'O so, 'o so, - fece astuto il Riccetto, - ce stavo pure io -. Alduccio lo guardò con interesse. - Amerigo è morto, - disse. Il Riccetto si alzò a sedere puntando i gomiti e lo guardò in faccia. Gli angoli della bocca gli tremavano come per un sorrisetto divertito; era una notizia eccitante, e si sentiva tutto pieno di curiosità. - Ch'hai fatto? - chiese. - E morto, è morto, - ripetè Alduccio, contento di dare quella notizia inaspettata. - E morto ieri ar Poricrinico, - aggiunse. Quel cavolo di sera che il Riccetto aveva tagliato dalla casa di Fileni, il Caciotta e gli altri s'erano fatti beccare, ma non avevano fatto resistenza. Amerigo invece s'era lasciato portar fuori tenuto per le braccia da due carabinieri, ma appena sul terrazzino li aveva sbattuti contro la parete e aveva fatto un zompo di due o tre metri sul cortile; s'era acciaccato un ginocchio, ma era riuscito lo stesso a trascinarsi avanti lungo il muro del lotto: i carabinieri avevano sparato e l'avevano colto a una spalla, e lui ugualmente ce l'aveva fatta a arrivare fin sulla sponda dell'Aniene lì stavano quasi per acchiapparlo, ma lui sanguinante com'era s'era buttato in acqua per attraversare il fiume e nascondersi negli orti dell'altra riva, scappare verso Ponte Mammolo o Tor Sapienza. Ma in mezzo al correntino s'era sturbato e i carubba l'avevano acchiappato e portato al commissariato zuppo di sangue e di fanga come una spugna: così che dovettero trasferirlo all'Ospedale e piantonarlo. Dopo una settimana gli era passato il febbrone, e lui tentò d'ammazzarsi tagliandosi i polsi coi vetri d'un bicchiere, ma anche stavolta lo avevano salvato; allora una decina di giorni appresso, prima che Alduccio e il Riccetto s'incontrassero all'Acqua Santa, s'era gettato giù dalla finestra del secondo piano: per una settimana aveva agonizzato, e finalmente se n'era andato all'alberi pizzuti.

- Domani ce stanno li funerali, - disse Alduccio.

- Li mortacci sua! - scandì impressionato a mezza voce il Riccetto. Il Lanzetta per far vedere che lui non si meravigliava di niente e che la sua massima era: fatte sempre li c... tua, si mise a cantare:

Zoccoletti, zoccoletti...

e si sbragò meglio che poteva sull'erba con le mani intrecciate sotto il broccoletto fresco della sua capoccia.

Il Riccetto invece stette a pensarci un po' sopra poi decise ch'era suo dovere partecipare ai funerali d'Amerigo: è vero che lo conosceva appena, ma Amerigo era amico del Caciotta, e poi insomma la cosa gli andava. -Domani vengo a Pietralata, - disse a Alduccio, - ma nun lo ddì a nissuno, che nun 'o venisse a sapè mi' padre.


IV. RAGAZZI DI VITA (2) IV. BOYS OF LIFE (2). IV. CHICOS DE LA VIDA (2)

Dentro la bisca tutto continuava come prima. Nessuno s'era accorto né che essi se n'erano andati né che erano tornati. Prima però che Amerigo riperdesse tutto un'altra volta, mentre che lui era intento a giocare, il Riccetto piano piano si scostò, tra il mucchio di gente, lungo il secchiaio, e imboccò la porta dileguando.

E fece bene, perché nemmeno era svoltato fuori dalla porta del lotto nove, dietro la loggetta, che arrivarono i carubba. Fu appena in tempo a vederli e a tagliare dietro il cantone. «Li mortaaacci sua», si disse a voce alta come se cantasse, per quanto era grande la soddisfazione di non esser rimasto fregato; e si mise a correre per le strade deserte tra i lotti, giù verso via Boccaleone, e poi ancora di corsa per la strada di Tor Sapienza. Non c'era più una nuvola nel cielo; a mancina bruciavano le luci, i piloni pieni di fari, i riflettori della centrale elettrica, e indietro, già lontano, Tiburtino, coi casoni nuovi in fila contro il cielo nero. In fondo, nel gran tepore, brillavano i lumi delle altre borgate, fino a Centocelle, la Borgata Gordiani, Tor de' Schiavi, il Quarticciolo. Passo passo, morto di debolezza, il Riccetto arrivò sulla Prenestina e si mise a aspettare l'autobus del Quarticciolo. Cacciò le cinque carte da cento ch'era riuscito a salvare, e scelse la più ciancicata per darla al fattorino.

«E mo?» disse quando l'autobus vuoto lo depose al Prenestino. Si diede una guardata intorno, si tirò su i calzoni, e vedendo che lì non c'era proprio niente da fare per lui, sbottò a cantare a voce alta filosoficamente. Qualche tram arrivava dalla via Prenestina, si fermava un po' luccicante, Sotto un alberello storcinato, poi faceva il giro dietro tre o quattro casacce tra i praticelli zozzi, e si veniva a rifermare dall'altra parte: intanto la gente ch'era scesa, un po' correva affannata verso gli autobus delle borgate fermi in fila davanti a un caffeuccio illuminato, un po' se n'andava piano piano verso il suo letto lì vicino, al Borghetto Prenestino, con tante case piccole come dadi o come pollai, bianche come quelle degli arabi, e nere come capanne, piene di cafoni pugliesi o marchegiani, sardegnoli o calabresi: giovinottelli e vecchi che a quell'ora se ne tornavano ubbriachi e coperti di stracci; oppure ai villaggi di tuguri ammucchiati nelle aree da costruzione, tra le scarpate delle viuzze che davano sulla Prenestina. Il Riccetto decise di comprarsi tre nazionali, che era un pezzo che si stava a sfiatare da fumare: attraversò, tutto snodato, il piccolo piazzale, e entrò nel bar contando i soldi. Rivenne fuori con la sigaretta incollata sul labbro inferiore, e gli occhi paraguli ruotanti alla ricerca di uno che c'avesse del fuoco. - Me fai accende, a morè? - fece a un giovanotto che fumava decadente appoggiato a un palo. Senza dir niente quello gli tese la sigaretta accesa, il Riccetto ringraziò con un cenno guappo del capo, s'infilò le mani in saccoccia, e andò cantando su per la viuzza livida per dove girava il tram.

Tutt'intorno s'alzavano impalcature e casamenti in costruzione, e grandi prati, depositi di rottami, terreni fabbricabili; da lontano, forse dalla Maranella, dietro il Pigneto, si sentiva giungere la voce d'un grammofono ingrossata dall'altoparlante. Sul prato della Casilina, prima della Maranella, dovevano esserci i carosielli: e il Riccetto se ne andava da quella parte, con le mani in saccoccia e la testa ritratta tra le spalle per la passione che ci metteva a cantare tra sé la canzonetta.

Per un po' per l'Acqua Bullicante non incontrò che qualche persona anziana che se n'andava di fretta verso casa; però all'altezza della stradina che voltava in su, tra i muriccioli di due fabbriche, verso la Borgata Gordiani, comparve una fila di ragazzi che se ne venivano avanti, riempiendo la strada quant'era larga, senza fretta, gridando e facendo i malandri, in disordine come uno sciametto di mosche s'un tavolo sporco. Chi dava scopolette sulla testa del compagno, facendolo incazzare, chi si metteva in guardia colpendo l'aria di sinistro, di destro, e poi con un gancio per cui gli occhi gli si rapprendevano di soddisfazione, un altro invece mostrava la sua dritteria facendo l'indifferente con le mani pigramente in saccoccia e con l'aria di dire: «Co sta debolezza e chi ve li fa ffà sti sforzi!», carico d'ironia verso gli altri; alcuni discutevano fra loro ghignando, torcendo la bocca con disgusto, tendendo le braccia con un schiocco della lingua, o, nel calore della discussione, mettendo le mani a scodella sotto il mento, puntate contro il petto e stando in quella posizione per mezz'ora, pieni d'aria interrogativa verso l'avversario. Tutta la via dell'Acqua Bullicante, in profondo raccoglimento, li stava a ammirare. Il Riccetto c'andò subito in puzza. Non che quelli con la loro moina ce l'avessero proprio con lui: volevano, semmai, prender di petto, così, il mondo in generale, con tutta la razza degli uomini che non se la sapevano divertire come loro. Ma il Riccetto ci sformava che quelli facessero i dritti mentre lui era lì solo, e escluso, sul momento, da una compagnia paragula come quella, e dovesse starsene ad ascoltare bono bono la loro caciara. Si mise a fischiettare più forte, senza filarli per niente e andò per la sua strada: ma come li ebbe lasciati indietro nemmeno una ventina di passi, sentì dentro il fosso che dava sugli orti luridi una voce che piagnucolava; si fece appresso e distinse un ragazzo col torace nudo accucciato sull'erba.

- Ch'hai fatto, - disse. Ma quello piangeva senza dir niente. - Aòh, mbè? - fece il Riccetto.

Accostandosi ancora s'avvide ch'era tutto ignudo; magro e fracico di guazza, s'era messo ginocchioni e aveva cominciato a dire facendo la lagna come i ragazzini piccoli: - M'hanno spojato e m'hanno niscosto li panni, li mortacci loro de sti fiji de puttana. - Chi è stato? - fece il Riccetto.

Quello s'alzò in piedi con la mazzetta dritta e tutto bagnato di pianto: - So' quelli, - fece lagnoso. Il Riccetto si mise a correre dietro il gruppo dei ragazzi ch'aveva incontrato un momento prima.

- Aòh, a moretti, - gridò. Quelli si fermarono e si voltarono tutti assieme. - Aòh, che ssète stati voi a nisconneje li panni a quer regazzino llà? - fece con voce decisa ma ancora cortese il Riccetto. - Ma stanno llà vicino! - fece allegro uno di loro, - mo 'i trova -. Il Riccetto fece qualche passo indietro; né lui né gli altri c'avevano voglia di litigare: si sentivano anzi alleati perché loro erano dei dritti, in confronto a quel broccolo che piangeva, là. - Lassalo perde, è loffio, - fece uno battendosi l'indice contro il naso. Il Riccetto alzò le spalle: - Mbè, poveraccio, - fece; ormai però il suo dovere di difensore era finito, e infatti si vide venir fuori dal fosso il loffio coi calzoni già infilati e in mano la canottiera tutta a pezzi. Ma gli altri ragazzi non si muovevano e anzi uno guardava fisso il Riccetto ridendo. - Me guardi? - fece il Riccetto.

Era uno con le labbra carnose e screpolate, e una faccetta da delinquente, sotto la nuca piccola piena di ricci come un cavolo. - Me conoschi, che? - fece il Riccetto, che lo vedeva controluce sotto un fanale. - Come, nun te conoscio! - fece l'altro allegro.

- So' er Lenzetta, - continuò, - se semo visti ieri a ssera a Villa Borghese no! - Ah scuseme! - fece magnanimo il Riccetto riconoscendolo e gli s'avvicinò con la mano tesa. - Addò vai? - chiese. - Indovve voi annà, co sta fame, - fece il Lenzetta. Gli altri ridevano. - E te? - chiese il Lenzetta. Il Riccetto rise filosofico, si rialzò il colletto della camicia, affondò di più le mani nelle tasche dei calzoni. - E cche ne so, - disse, - sto ancora fori casa e cor c... che mo ce torno. - E pecché? - fece divertito il Lenzetta. -Che me voi fà carcerà? - disse il Riccetto. - Stavo a ggiocà a zecchinetta i' una casa a Tibburtino, è venuta 'a polizzia e so' c... loro mo pe' quelli ch'hanno beccato. Li mortacci loro, 'o sai che ce stava pure er Caciotta, llà.

- Chi Caciotta? - fece il Lenzetta. - Quello che stava co' mme, ieri a ssera... quer roscio llà... Mo starà in cammera de sicurezza, li mortacci sua.

- Puro io sto ancora fori casa, - fece il Lenzetta, - e chi ce torna? Mi' fratello si mme vede m'ammazza... - Ma quale ammazza, - fece uno della compagnia, - ma si l'hanno beccato sabbato a ssera, te stamo a ddì. - 'O so, 'o so, - fece il Lenzetta, - mbè, ce ztà sempre mi' madre a casa no, che la possino ammaìlla, che nun 'a posso vede. - Mo so' c... tua, - fece ridendo il suo compagno, minacciando con una mano, - tu' madre a casa e tu' fratello a bottega, come fai fai male, mo: si vai a casa becchi, si te carcerano becchi, attento a tte! - Tutti ridevano. - E che me frega a me! - fece il Lenzetta. Ridendo e urtandosi smandrappati, tornarono in su verso la Maranella. - Tanto, - fece uno, - la Elina stassera nun ce sta. - Chi te 'a detto, - fece un altro, disgustato, - ce sta sempre ce sta. - See, - fece il primo, - c'aveva na panza grossa come na tinozza, mo starà ar Poricrinico a fà er fijo. - Ma quale grossa, quale grossa, - fece il primo in aria di sfida, ma si sarà stata er massimo de quattro mesi. - Quattro mesi er c..., - disse l'altro, - ma si ggià 'a teneva grossa 'a panza quanno che 'ho scopata io sta primavera! - See, dieci anni fa, - fece il Lenzetta, - ma tanto che ve frega si c'avemo na piotta 'n tutti cinque me lasso tajà er collo. - Che, sarebbe 'a prima vorta che 'a mannamo 'n bianco? fece uno. - Je dimo: facce scopà che te damo na fronna, scopamo, e nun je damo na lira. - Sto fijo de na mignotta! - gridò il Lenzetta.

Chiacchierando chiacchierando erano arrivati quasi alla Maranella, e alla Elina ormai non ci stavano a pensare più. Si sentiva d'appresso il suono del fonografo dei carosielli, ma insieme un brusio di voci, uno scalpiccìo, più in qua, proprio all'incrocio della Maranella, alla fermata del tranvetto. Tutta la gente andava da quella parte, come fosse successo qualcosa o ci fosse una festa, con tutto ch'era già tardi. - So' quelli der circo, li mortè, -gridò uno mettendosi a correre. - Ma quale circo, quale circo, - ribatté il Lenzetta calmo, pur affrettando, pigramente, il passo cogli altri: dalla Casilina si vedeva venir giù una piccola folla, nera sul selciato pieno di buche, male illuminato. All'altezza del cinemetto dei Due Allori si fermò, tutta punticchiata dalle luci rette in mano. - E 'a procissione, vaffan... -fece deluso il Lenzetta.

I ragazzi s'erano fermati lì al quadrivio dov'erano arrivati di corsa, incerti se irsene al Prato dove stavano i carosielli, forse con il tirassegno della bionda ancora aperto, o fermarsi a osservare quello strazio lì, alla Maranella. Si misero ironicamente a sedere sull'orlo del marciapiede tra le gambe della gente, che si faceva più fitta a guardare la processione: uno cantava, uno dava scopolette a un altro che s'era fissato a guardare, altri si rotolavano abbraccicati sulla polvere. Intanto la processione si avvicinava.

- Mannaggia, - disse il Riccetto, - potèmio restà ar Prenestino, era mejo. -E che ce facevi? - disse il Lenzetta. - Ce ztava la Elina no, - fece il Riccetto paragulo. Lì a venir avanti erano tutte donne vecchie e spampanate, con qualche vecchietto qua e là e qualche ragazzino: tutte reggevano in mano un imbuto di cartone, con dentro una candela perché il vento notturno non la spegnesse. Ogni tanto si mettevano a cantare, ognuna per conto suo. Arrivate all'incrocio, si fermarono, si raccolsero intorno al marciapiede sotto una pizzeria, due giovanotti andarono a mettere contro il muro scrostato un tavolino, e sopra ci salì un vecchio, che cominciò a fare un discorso contro i comunisti e a esaltare lo spirito di Cristo.

**Lì attorno dove s'erano fermati il Lenzetta, il Riccetto e gli altri c'era una gran caciara, tanto che la voce del vecchio, che parlava cispadano, si sentiva appena. - An senti! - gridò uno. - Che te voi fà chirichetto, a Mozzò? - disse il Lenzetta; il Mozzone stette un po' zitto, colle orecchie tese. - Gome barla! - fece poi con la voce addolcita dalla meraviglia. Il Riccetto diede una gomitata al Lenzetta: Aòh, - gli fece, - io già me so' stufato, sa'. - E cche vvòi, - disse il Lenzetta. - Tornamo ggiù, - disse il Riccetto accennando col capo verso il Prenestino. - A matto, - fece l'altro.

- Tengo li sordi, che te credi, - spiegò il Riccetto, - ma ppe' noi due soli però -. Il Lenzetta prima diede un'occhiata a lui, poi si guardò intorno: -Aspetta, - disse. Gli altri erano distratti. - Arzete, - fece allora, - e vattene ggiù pell'Acqua Bullicante, ch'io te vengo appresso.**

II Riccetto s'alzò e piano piano s'allontanò tra la folla che stava a guardare il vecchio beffardamente; **ma quello dopo manco cinque minuti fece la bella, e la processione riprese cantando la marcia, e voltò giù, verso il centro della borgata.** Il Lenzetta raggiunse il Riccetto correndo. - E l'altri? - fece il Riccetto.

- L'avemo scaricati, - disse il Lenzetta, - se ne so' iti a li carosielli.

Chiacchierando si rifecero tutta la via dell'Acqua Bullicante, mentre alle loro spalle le sambe suonate al fonografo e i canti della processione s'andavano smorzando. C'era ormai solo qualcuno che tornava dal Preneste o dall'Impero verso la Borgata Gordiani, o verso il Pigneto, oppure qualche ubbriaco che rincasava cantando ora Bandiera Rossa ora la Marcia Reale.

Trovarono la Elina in mezzo alle ombre di cui era la regina, dietro ai praticelli lerci pieni di montarozzi per dove i tram facevano il giro, qualche stradetta tutta buche, in uno spiazzo dominato dalle immense ombre di due o tre grattacieli in costruzione, di dietro, e di fronte da uno già costruito, ma ancora senza strade o cortili davanti, abbandonato tra l'erbaccia e il pattume. L'enorme scatolone con tutte le finestre illuminate, s'alzava solo in mezzo al cielo, dove qualche stella tristemente brilluccicava. La Elina stava rintanata là dietro, vicino ai reticolati o le fratte che circondavano i terreni lottizzati, ridotti ancora a enormi depositi d'immondezza, con intorno o in mezzo qualche tugurio e qualche mucchio di breccia.

Il Lenzetta e il Riccetto s'accostarono alla donna ch'era piccola e grossa come un rotolo di còppa, stettero un po' a contrattare, e, passando tra i fili di ferro di un reticolato, si spinsero in dentro, tra mucchi fradici di canne.

Non ci misero molto; appena che risortirono andarono calmi calmi a lavarsi un pochetto a una fontanella, in mezzo al piazzale dov'era il capolinea dei tranvi. Per dormire ci pensò il Lenzetta. Dietro alla borgata Gordiani, in una prateria da dove si vedeva tutta la periferia con le borgate, da Centocelle a Tiburtino, in fondo a un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi bidoni arruzzoniti, abbandonati lì insieme a altri ferrivecchi, in un recinto. Erano abbastanza grossi, tanto che ci si poteva camminare dentro sulle ginocchia, e lunghi quanto una persona. Dentro uno di questi il Lenzetta c'aveva messo della paglia; ne prese un poca, e la mise in uno vicino. Ci si distesero e dormirono fino alla mattina dopo alle dieci.

Il Lenzetta bazzicava dalle parti di via Tuscolana, piazza Re di Roma, via Taranto, là, dove c'era qualche mercatino rionale, qualche caserma o qualche mensa di frati. Quand'era fori de casa s'arrangiava un po' lavorando (meno che poteva) per qualche pesciarolo o qualche piazzista, un po' fregando per le bancarelle o nei tranvi. Quando gli andava restava nella periferia, dalla borgata Prenestina al Quadraro, con un sacco tutto sbrillentato a cercar ferrivecchi o pezzetti di piombo tra le spazzature: ma questo lo faceva di raro perché gli veniva mal di schiena a piegarsi, e poi gli restava la bocca così impastata di polvere che gli occorreva poco poco un tubo di vino per disinfettarla, e a quel modo se n'andavano metà de li sordi ch'aveva rimediato. Pure al Riccetto quell'inguippo dei ferrivecchi non gli spinferava, anche perché era roba da ragazzini; così in periferia ci venivano solo per dormire nei bidoni, e tutta la giornata la passavano dentro Roma. Se poi un giorno rimediavano della pecogna pure per quello successivo, allora col cavolo che andavano a lavorare e a sfaticare: prendevano l'autobus e se ne andavano all'Acqua Santa. Entravano dietro quattro cespugli scheletriti lungo l'Appia Nuova, salivano su per la scesa incrostata di due spanne di polvere, e tra cave e caverne, crinali, praticelli bruciati, burroncelli, mozziconi di torri e carraie si spingevano dentro la sconfinata e accidentata terra promessa ch'era l'Acqua Santa. Le speranze erano quelle d'incontrare, in cima a un cucuzzolo, all'incrocio dei viottoli slabbrati, qualche zanoida, appostata a aspettare i clienti imberbi delle borgate di tuguri o delle prime case popolari che giganteggiavano sullo sfondo; oppure, appostato all'ingresso d'una caverna, o tra le fratte di more intorno a una marana, col giornale disteso accanto e gli occhiali d'oro, qualche grosso tedesco da poter levargli quello che volevano. Lo guardavano, facevano finta di niente, oppure si mettevano a fare un goccio d'acqua: e lui, dietro, su e giù per le balze e i burroncelli, fino alle più zozze marane, al modo che diceva il gran poeta di Roma:

Me sentivo quer frocio dì a le tacche

Cor fiatone: - Tartaifel, sor paine,

Pss, nun currete tante, che so stracche.

Un giorno i due paini - soli soli, però - arrivati alla marana del cancello rosso, trovarono un giovinottello di Tiburtino, che era semplicemente Alduccio. Il Riccetto forzò un po' la camminata per andare a dargli la mano tutto allegro. - Ah, cuggì, embè? - gli diceva cordialmente mentre che si spogliava. Alduccio se ne stava disteso in mutandine sull'erba sporca nel filo d'ombra d'una frattaccia di canne. Parlava galante. - Er zolito, -diceva, - più zta e ppiù te viè voja de mannà tutto affan... e mettete a ffà er bandito.

- Ammazzete, - fece il Riccetto sfilandosi dalla testa luccicante la canottiera.

- Zi nun lavori nun magni, sa', e da lavorà quanno trovi? - Masticava con aria decadente e sprezzante il cheewing-gum.

- Mbè, - disse il Riccetto continuando il filo umoristico di Alduccio, -se procuramo du' Berretta, e famo na banda-. Alduccio lo guardò con l'aria di uno che non sta a scherzare proprio per niente. - Propio così, - disse. Il Lenzetta che non sopportava di non intervenire in una discussione per più di un minuto, e che alla parola «Berretta» aveva drizzato l'orecchie, esclamò beffardo: - Ma quale Berretta, na Cappella, non na Berretta!

Si distesero pure il Riccetto e il Lenzetta sulla proda della marana. -Mbè, - riprese il Riccetto, - che me riconti de Tibburtino?

- Che te devo da ricontà, - fece Alduccio, - già te 'o detto, er zòlito.

- Che, 'o conoschi er Caciotta, ve', quello che zta a abbità ar lotto nove... - fece il Riccetto.

- Come, 'un 'o conoscio, - rispose Alduccio, - 'o conoscio sì...

- Che fa? - indagò il Riccetto. Il bel viso d'Alduccio ebbe un'espressione allegra: e senza dir niente coi polpastrelli del pollice e dell'indice si tirò la pelle delle guance sotto gli occhi. Voleva dire che era a bottega, a Porta Portese.

«Ammazzelo», borbottò ridendo fra sé il Riccetto.

- 'O hanno beccato ne 'a bizca de Fileni che stava a ggiocà a zecchinetta, - spiegò Alduccio.

- 'O so, 'o so, - fece astuto il Riccetto, - ce stavo pure io -. Alduccio lo guardò con interesse. - Amerigo è morto, - disse. Il Riccetto si alzò a sedere puntando i gomiti e lo guardò in faccia. Gli angoli della bocca gli tremavano come per un sorrisetto divertito; era una notizia eccitante, e si sentiva tutto pieno di curiosità. - Ch'hai fatto? - chiese. - E morto, è morto, - ripetè Alduccio, contento di dare quella notizia inaspettata. - E morto ieri ar Poricrinico, - aggiunse. Quel cavolo di sera che il Riccetto aveva tagliato dalla casa di Fileni, il Caciotta e gli altri s'erano fatti beccare, ma non avevano fatto resistenza. Amerigo invece s'era lasciato portar fuori tenuto per le braccia da due carabinieri, ma appena sul terrazzino li aveva sbattuti contro la parete e aveva fatto un zompo di due o tre metri sul cortile; s'era acciaccato un ginocchio, ma era riuscito lo stesso a trascinarsi avanti lungo il muro del lotto: i carabinieri avevano sparato e l'avevano colto a una spalla, e lui ugualmente ce l'aveva fatta a arrivare fin sulla sponda dell'Aniene lì stavano quasi per acchiapparlo, ma lui sanguinante com'era s'era buttato in acqua per attraversare il fiume e nascondersi negli orti dell'altra riva, scappare verso Ponte Mammolo o Tor Sapienza. Ma in mezzo al correntino s'era sturbato e i carubba l'avevano acchiappato e portato al commissariato zuppo di sangue e di fanga come una spugna: così che dovettero trasferirlo all'Ospedale e piantonarlo. Dopo una settimana gli era passato il febbrone, e lui tentò d'ammazzarsi tagliandosi i polsi coi vetri d'un bicchiere, ma anche stavolta lo avevano salvato; allora una decina di giorni appresso, prima che Alduccio e il Riccetto s'incontrassero all'Acqua Santa, s'era gettato giù dalla finestra del secondo piano: per una settimana aveva agonizzato, e finalmente se n'era andato all'alberi pizzuti.

- Domani ce stanno li funerali, - disse Alduccio.

- Li mortacci sua! - scandì impressionato a mezza voce il Riccetto. Il Lanzetta per far vedere che lui non si meravigliava di niente e che la sua massima era: fatte sempre li c... tua, si mise a cantare:

Zoccoletti, zoccoletti...

e si sbragò meglio che poteva sull'erba con le mani intrecciate sotto il broccoletto fresco della sua capoccia.

Il Riccetto invece stette a pensarci un po' sopra poi decise ch'era suo dovere partecipare ai funerali d'Amerigo: è vero che lo conosceva appena, ma Amerigo era amico del Caciotta, e poi insomma la cosa gli andava. -Domani vengo a Pietralata, - disse a Alduccio, - ma nun lo ddì a nissuno, che nun 'o venisse a sapè mi' padre.