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Ragazzi di Vita - Pasolini, I. IL FERROBEDO (2)

I. IL FERROBEDO (2)

Il Riccetto se ne stava ignudo, lungo sull'erbaccia, con le mani sotto la nuca guardando in aria.

- Ce sei ito mai a Ostia? - domandò a Marcello tutt'a un botto. -Ammazzete, - rispose Marcello, - che, nun ce lo sai che ce so' nato? - Ma li mortè, - fece il Riccetto con una smorfia squadrandolo, - mica me l'avevi mai detto sa'! - Embè? - fece l'altro. - Ce sei mai stato co 'a nave in mezzo ar mare? - chiese curioso il Riccetto. - Come no, fece Marcello sornione. - Insin'addove? - riprese il Riccetto. - Ammazzete, Riccè, -disse tutto contento Marcello, quante cose voi sapè! E cchi se ricorda, nun c'avevo manco tre anni, nun c'avevo! - Me sa che in nave ce sei ito quanto me, a balordo! - fece sprezzante il Riccetto - Sto c..., - ribatté pronto l'altro, - c'annavo tutti li ciorni su 'r barcone a vela de mi zzio! - Ma vaffan..., va! - fece il Riccetto schioccando con la bocca. - Ih li zeeeeppi, - fece poi, guardando sull'acqua, - li zeeeeppi! - Sul pelo della corrente passavano un po' di rottami, una cassetta fracica e un orinale. Il Riccetto e Marcello si fecero sull'orlo del fiume nero d'olio. - Quanto me piacerebbe de famme na gita 'n barca! - disse il Riccetto con aria accorata, guardando la cassetta che se ne andava al suo destino dondolando tra l'immondezza. -Che nun ce lo sai che ar Ciriola 'e danno in affitto 'e bbarche? - disse Marcello. - Sì, e chi ce passa 'a grana, - fece cupo il Riccetto. - A locco, se va a tubbature pure noi, che te frega, - disse Marcello tutto infervorato all'idea; - Agnoletto già ha rimediato er cacciagomme - Aòh, - fece il Riccetto, - io ce sto!

Se ne stettero lì fin tardi, distesi con la testa sui calzoncini intostati dalla polvere e dal sudore: tanto chi glielo faceva fare lo sforzo d'andarsene. Tutt'intorno era pieno di cespugli e di canne secche; ma sotto l'acqua ci stava pure del ghiaino e dei serci. Si divertirono a tirare dei serci sull'acqua e anche quando finalmente si decisero ad andarsene, continuarono, mezzi svestiti, a tirarne in alto, verso l'altra sponda o contro le rondini che sfioravano il pelo del fiume.

Lanciavano pure intere manciate di ghiaia, gridando e divertendosi: i sassolini cadevano dappertutto intorno sulle fratte. Ma d'un tratto sentirono un grido, come se qualcuno li chiamasse. Si voltarono e nell'aria già un po' scura, poco lontano, videro un negro, in ginocchioni sull'erba. Il Riccetto e Marcello, che avevano subito capito la situazione, tagliarono, ma appena che furono a una certa distanza, presero un'altra manciata di ghiaia e la gettarono verso quei cespugli.

Allora con le zinne mezze fuori, incazzata nera, si alzò in piedi la mignotta, e si mise a urlare contro di loro.

- E statte zitta, - gridò sardonico il Riccetto con le mani a imbuto, - che perdi come le papere, a brutta zozzona! - Ma il negro in quel momento s'alzò come una bestia, e reggendosi con una mano i calzoni e con l'altra un coltello, si mise a corrergli dietro. Il Riccetto e Marcello se la squagliarono gridando aiuto, in mezzo alle fratte, verso l'argine, su per l'erta: arrivati in cima, ebbero la forza di guardarsi per un momento indietro e videro in fondo il negro che agitava il coltello in aria e urlava. Il Riccetto e Marcello scesero ancora giù di corsa, e guardandosi in faccia non la finivano più di ridere; il Riccetto, addirittura si mise a rotolarsi per terra, sulla polvere; sghignazzando guardava Marcello e gridava: -Ahioddio, che t'ha preso na paralisi, a Marcè?

Con quel fugge, erano sboccati sul lungotevere proprio in direzione della facciata di San Paolo che ancora brillava debolmente al sole. Scesero giù, verso il Parco Paolino, che in fondo tra gli alberelli brulicava di operai e di soldati che scendevano in libera uscita dalla Cecchignola, e rasentarono la basilica, per un pezzo di strada vuoto e male illuminato. Un cieco con le spalle appoggiate al muro e le gambe abbandonate sul marciapiede chiedeva l'elemosina.

Il Riccetto e Marcello si sedettero appresso sull'orlo del marciapiede, per farsi passare il fiatone, e il vecchio, sentendo della gente vicina, cominciò con la sua lagna. Teneva le gambe larghe, e in mezzo c'era il berretto pieno di soldi. Il Riccetto urtò col gomito Marcello, indicandolo. - Vacce piano, - borbottò Marcello. Quando il fiatone si fu un po' calmato, il Riccetto tornò a urtargli il gomito, con aria stizzita, facendogli un gesto con la mano come per dirgli: - Embè, che famo? - Marcello alzò le spalle per dirgli che s'arrangiasse, e il Riccetto gli lanciò un'occhiata di compassione, arrossendo di collera. Poi gli disse piano: - Aspettarne laggiù -. Marcello s'alzò, e andò a aspettarlo dall'altra parte della strada, tra gli alberelli. Quando Marcello fu lontano, il Riccetto aspettò un momento che non passava nessuno, si accostò al cieco, acchiappò la manciata dei soldi dal berretto e filò via. Appena furono al sicuro, si misero a contare i soldi sotto un lampione: c'era quasi mezzo sacco.

La mattina dopo, il convento delle Monache e altri palazzi di via Garibaldi restarono senz'acqua.

Il Riccetto e Marcello avevano trovato Agnolo a Donna Olimpia davanti alle scuole elementari Giorgio Franceschi che dava calci alla palla con altri ragazzi senza altra illuminazione che quella della luna. Gli dissero d'andare a prendere il cacciagomme, e quello non se lo fece ripetere. Poi discesero tutti e tre insieme, per San Pancrazio, giù verso Trastevere, in cerca di un posto tranquillo: lo trovarono in via Manara, che a quell'ora era tutta deserta, e poterono mettersi a lavorare intorno a un chiusino senza che nessuno andasse a rompergli le scatole. Non si misero in allarme manco quando lì sopra s'aprì di botto un balcone e una vecchia mezza appennicata e tutta dipinta cominciò a gridare: - Che state a ffà liggiù? - Il Riccetto alzò il capo un momento, e le fece: - A signò, nun è niente, è er mistero de la fogna atturata! - Già avevano finito, si presero il sopra e il sotto del chiusino, Agnolo e il Riccetto se lo incollarono, e se ne andarono piano piano verso una casa diroccata sotto il Gianicolo, che era una vecchia palestra in rovina. C'era buio, ma Agnolo era pratico e trovò in un angolo dello stanzone la mazza, e con quella fecero a pezzi il chiusino.

Adesso si trattava di trovare il compratore; ma anche stavolta ci pensò Agnolo. Andarono giù per il vicolo dei Cinque, che, tranne qualche ubbriaco, era tutto deserto. Sotto le finestre dello stracciarolo, Agnolo si mise le mani a imbuto intorno alla bocca, e si mise a chiamare: - A Antò!

- Lo stracciarolo si affacciò, poi scese e li fece entrare in bottega, dove pesò la ghisa e gli diede duemila e settecento lire, per i settanta chili che pesava. Ormai che c'erano vollero farla completa. Agnolo corse nella palestra a prendere l'accettola, e andarono verso le scalinate del Gianicolo. Lì scoperchiarono una fogna e vi si calarono dentro. Col manico dell'accettola acciaccarono la tubatura per fermare l'acqua, poi la tagliarono, distaccandone cinque o sei metri. Nella palestra la pestarono tutta, facendola in tanti pezzetti, la misero in un sacco e la portarono dallo stracciarolo, che gliela pagò centocinquanta lire al chilo. Con le saccocce piene di grana risalirono tutti contenti verso mezzanotte ai Grattacieli. Lassù Alvaro, Rocco e gli altri giovanotti se ne stavano a giocare alle carte in fondo alla tromba delle scale, accucciati o sbragati in silenzio sul pianerottolo a pianterreno della casa di Rocco, che dava in uno dei tanti cortili interni. Agnolo, per andare a casa, doveva passare di lì, e il Riccetto e Marcello l'accompagnavano. Così si fermarono a giocare coi grossi a zecchinetta. Dopo poco più di mezzora avevano perso tutta la grana. Per poter andarsi a divertire in barca dal Ciriola, gli rimaneva, per fortuna, il mezzo sacco fregato al cieco, che il Riccetto s'era nascosto dentro le scarpe.

- Ecco la pipinara! - disse sullo zatterone un giovanotto vedendoli scendere lungo il marciapiede rovente. Il Riccetto non resistette alla tentazione di dondolarsi subito un po' sulla cannofiena. Ma saltò giù immediatamente per raggiungere gli altri che avevano già sceso la breve passerella e stavano dando le cinquanta lire alla moglie di Orazio, nello stabilimento che galleggiava sull'acqua del Tevere. Giggetto li ricevette male. - Metteteve qua, - disse: e mostrò a tutti tre un solo armadietto. Quelli restavano indecisi. - E che ve state a aspettà? - scattò Giggetto allungando un braccio con la mano aperta verso di loro come per mostrare quant'era indegno il loro comportamento. - Che? mo devo da venì a svestivve io, mo?

- Li mortacci sua, - borbottò Agnolo fra i denti: e si rovesciò sul capo la camicetta, togliendosela senza più aspettare. Intanto Giggetto continuava:

- Sti rompicojoni de ragazzini... ve potessino ammazzavve tutti, voi e chi ve ce manna... - Avviliti i tre rompicojoni si svestirono e restarono nudi coi panni in mano. - Be? - urlò il bagnino, uscendo da dietro il banchetto, - mo? - Essi non sapevano come si faceva. Giggetto gli strappò di mano i panni, li gettò dentro l'armadietto e lo richiuse a chiave. Suo figlio piccolo guardava i tre nuovi ghignando. Gli altri giovanotti che indugiavano chi nudo, chi con gli slip penzoloni, chi pettinandosi davanti allo specchietto, chi cantando, se li guardavano con la coda dell'occhio come per dire: -Ammazza quanto so' gajardi -. Appena che si furono annodati ai fianchi i lembi degli slip che gli andavano larghi, schizzarono fuori dallo spogliatoio, e s'andarono a raccogliere accanto la ringhiera di ferro del galleggiante. Furono subito cacciati via pure da lì. Orazio in persona era uscito dal reparto centrale dove stava il bare, con la sua gamba paralitica e la sua faccia chiazzata di sangue. - Li mortacci vostra, - urlò - quante vorte devo da dì che nun ce se pò stà llì che se rompe 'a ringhiera? - Essi filarono via, passando davanti alla stuoia della doccia, seguiti dalle grida di Orazio che continuò a urlare per dieci minuti seduto sulla sua seggiola di vimini. Lì dentro dei giovanotti giocavano alle carte, altri stavano seduti con le gambe sui tavolini zoppicanti fumando. In pizzo alla piccola passerella che univa il galleggiante alla riva il cagnolino di Agnolo li aspettava con la lingua penzoloni, tutto allegro. Ciò consolò i tre malandrini, che si misero a correre lungo il muraglione, facendosi seguire dal cane. Si fermarono un po' presso il trampolino, poi continuarono a correre verso Ponte Sisto. Era ancora prestissimo: le una e mezza, nemmeno, e a Roma non c'era che il sole.

Dal Cupolone, dietro Ponte Sisto, all'Isola Tiberina dietro Ponte Garibaldi, l'aria era tesa come la pelle d'un tamburo. In quel silenzio, tra i muraglioni che al calore del sole puzzavano come pisciatoi, il Tevere scorreva giallo come se lo spingessero i rifiuti di cui veniva giù pieno. I primi a arrivare, dopo che verso le due se ne furono andati i sei o sette impiegati ch'erano rimasti sempre fermi sullo zatterone, furono i riccioloni di Piazza Giudia. Poi vennero i trasteverini, giù da Ponte Sisto, in lunghe file, mezzi ignudi, urlando e ridendo, sempre in campana per menare qualcuno. Il Ciriola si empì, fuori, sulla spiaggetta sporca e, dentro, negli spogliatoi, nel bare, nello zatterone. Era un verminaio. Due dozzine di ragazzi stavano radunati intorno al trampolino. Cominciarono i primi caposotti, i pennelli, i caprioli. Il trampolino non era alto che un metro e mezzo, poco più, e ce la facevano a tuffarsi pure i ragazzini di sei anni. Qualcuno, passando per Ponte Sisto, si fermava a guardare. Pure in cima al muraglione del lungotevere, a cavalcioni sulle spallette su cui spiovevano i platani, qualche ragazzetto senza grana per scendere, stava a guardare. I più stavano ancora distesi sulla rena o su quel po' d'erba arruzzonita ch'era rimasta sotto il muraglione.

- Er primo l'urtimo! - gridò, a quelli che stavano sbragati intorno, un moretto piccolo e peloso, alzandosi in piedi: ma gli diede retta solo il Nicchiola che partì con la sua schiena curva e storcinata, e si lasciò cadere nell'acqua gialla con le gambe e le braccia larghe sbattendo con le chiappe. Gli altri, facendo schioccare la lingua con aria di disprezzo, dissero al moretto: - E lèvate! -, poi, dopo un po', ciondolando pieni di fiacca, s'alzarono e come un branco di pecore si spostarono, su verso lo spiazzo di sabbia sotto la cannofiena, davanti al galleggiante, a guardarsi il Monnezza, che coi piedi sulla sabbia rovente, e rosso per lo sforzo sotto le due sfere, stava sollevando il peso da cinquanta chili in mezzo a un reggimento di ragazzini. ( L'AUDIO CONTINUA DOPO) Al trampolino se ne restarono solo il Riccetto, Marcello, Agnolo e pochi altri, con il cane, ch'era il beniamino di tutti. -Be? - fece Agnolo con aria minacciosa agli altri due. - Li mortacci tua, -disse il Riccetto, - che, c'hai prescia? - Ma li mortacci tua, - disse Agnolo, - e che semo venuti a ffà? - Mo se famo er bagno, - disse il Riccetto, e se ne andò in pizzo al trampolino a guardare l'acqua.

Il cagnoletto gli andò dietro. Il Riccetto si voltò: - Venghi pure tu? - gli disse affettuoso e allegro, - venghi pure tu? - Il cane guardandolo in viso scodinzolò.

- Te voi fà er caposotto, eh? - disse il Riccetto. Lo prese per il pelo e lo spinse sull'orlo: ma il cane si tirava indietro. - Tenghi paura, - disse il Riccetto, - be, nun te lo faccio fà er caposotto, va! - Il cane continuava a guardarlo tutto trepidante. - Ma che voi da me? - continuò il Riccetto con aria di protezione, chinandosi, - brutto sciammannato d'uno spinone! - Lo accarezzava, gli grattava il collo, gli metteva la mano tra i denti, lo tirava.

- A brutto, a brutto! - gli gridava affettuosamente. Il cane però sentendosi tirare aveva un po' di paura e saltava indietro.

- None, - gli disse allora il Riccetto, - nun te ce butto a fiume! - Te lo fai sto caposotto, a Riccè? - gli gridò ironico Agnolo. - Famme fà prima na pisciata, - rispose il Riccetto e corse a pisciare contro il muraglione: il cane gli venne dietro e stette a guardarlo con gli occhi lucidi e la coda irrequieta.

Agnolo allora prese la rincorsa e si tuffò. - Li mortacci tua! - gridò Marcello vedendolo cadere tutto di sguincio con la pancia. - Ammazzeme, - gridò Agnolo risortendo col capo in mezzo al fiume, - che panzata! -Mo je faccio vede io come ce se tuffa! - gridò il Riccetto, e si gettò in acqua. - Come l'ho fatto? - gridò riemergendo a Marcello. - Co 'e gambe larghe, - disse Marcello. - Mo ce riprovo, fece il Riccetto e si arrampicò su per la riva.

() In quel momento quelli che stavano a far caciara intorno al Monnezza che sollevava i pesi, si spostarono in massa verso il trampolino: venivano giù con un ghigno sicuro e beffardo, sputando, coi più piccoletti che zompavano intorno o si rotolavano abbraccicati pel marciapiede. Erano più di una cinquantina, e invasero il piccolo spiazzo d'erba sporca intorno al trampolino: per primo partì il Monnezza, biondo come la paglia e pieno di cigolini rossi, e fece un carpio con le sette bellezze: gli andarono dietro Remo, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione, Pallante, ma pure i più piccoletti, che non ci smagravano per niente, e anzi Ercoletto, del vicolo dei Cinque, era forse il meglio di tutti: si tuffava correndo pel trampolino sulla punta dei piedi e le braccia aperte, leggero, come se ballasse. Il Riccetto e gli altri si ritirarono ammusati a sedere sull'erba bruciata, e guardavano in silenzio. Erano come dei pezzetti di pane in mezzo a un formicaio: e ci sformavano a dover stare a sentire in un canto la caciara. Tutti se ne stavano in piedi, con le cianche sporche di fango, gli slip appiccicati sulla carne e le facce sarcastiche, a guardarsi e a gridare i morti: con la sua faccia cattiva, tonda come un uovo, il Ciccione partì, e scivolando sull'orlo dell'asse, mentre cadeva in acqua, urlò con una risata feroce: - Li mortacci sua! -, e Remo sulla riva, scuotendo il capo, allegro borbottò: - Li mortacci, che fforza che sei! - Pure il Bassotto lì accanto, lungo sul marciapiede, ghignava, quando gli arrivò tra i ricci un malloppetto di fanga. - Li mortacci vostra! - urlò voltandosi furente. Ma non sgamò chi era stato, perché tutti guardavano ridendo verso il fiume.

Dopo poco gli schizzò sul capo un altro malloppetto. - A li mortacci, -gridò. Andò a prendere di petto Remo. - Ma che vvòi, - gli fece quello con la faccia offesa, - li mortacci tua, e de tu nonno! - Ma dopo un poco tutta l'aria era attraversata da centinaia di pezzetti di fango tirati a tutta forza: qualcuno, nella melma fino al ginocchio, ne lanciava dal basso all'alto contro il cornicione delle intere manciate, facendo schizzare tutt'intorno una pioggia di fanghiglia: altri stavano seduti indifferenti, un po' in disparte, e tiravano i malloppi a tradimento, facendoli fischiare come frustate. - All'anima de li mortacci vostra! - urlò Remo, in mezzo alla mischia, premendosi infuriato un occhio con la mano, e corse a gettarsi in acqua per togliersi il fango incastrato tra le palpebre: vedendolo che si tuffava, il Monnezza gli andò dietro gridando lui stavolta: - Er primo l'urtimo, - e si buttò in acqua raggomitolandosi e rotolandosi per aria, e cadendo sul pelo della corrente con un gran botto della schiena, delle ginocchia e dei gomiti. - Ma li mortacci sua! - rise corrugando la fronte lo Spudorato. Partì e ne fece uno uguale. - Pallante! - gridò. - E chi me lo fa ffà, - disse Pallante. - A vigliacco, - gridarono dall'acqua lo Spudorato e il Monnezza.

- Ma li mortacci loro, - borbottava intanto in disparte il Riccetto - Mbè, che stamo a ffà? - disse Agnolo duro. L'unico dei tre che sapeva remare era Marcello: toccava a lui incominciare la manovra. S'andarono a sedere sul mucchio dei vecchi sandolini scassati. - A Marcè, - fece Agnolo, - noi t'aspettamo, daje -. Marcello s'alzò e andò a girellare intorno al Guaione, che se ne stava mezzo ubbriaco in fondo al galleggiante facendo un lavoro col coltellino. - Quanto costa na barca? - gli chiese a bruciapelo. - Na piotta e mezza, - rispose il Guaione senza alzare gl'occhi. - Ce 'a date, che? - disse Marcello. - Mo quanno torna. E fora. - Ce vole tanto, a Guaiò? - chiese dopo un po' Marcello. - Ma li mortacci tua, - disse il Guaione alzando gli occhi bianchi da ubbriaco, - che c... ne so io! Quanno torna -. Poi diede un'occhiata al fiume verso Ponte Sisto. - Ecchela, -fece. - Se paga subbito o dopo? - Subbito, mejo. - Vado a prenne li sordi, - gridò Marcello. Ma non aveva calcolato Giggetto. Questo era un buon bagnino coi grandi: ma coi piccoletti, se si fossero tutti affogati c'avrebbe fatto la firma. Marcello stette lì un pezzetto cercando di farsi dar retta, ma quello non lo filò per niente. Se ne tornò su sconcertato al mucchio dei sandolini. - Come c... se fa a prenne li sordi, - disse. - Va dar bagnino, no, a stronzo! - Ce so' ito, - spiegò Marcello, - ma nun me dà retta nun me dà!

- Ma quanto sei stronzo, - scattò incollerito Agnolo. - An vedi questo, -gli rispose vibrante Marcello, stendendo verso di lui la mano aperta, come aveva fatto poco prima Giggetto con loro, - perché nun ce vai te? - Mo fate a cazzotti, - filosofò il Riccetto. - Je lo darebbe sì un cazzotto, a quer stronzo llì! - disse Agnolo. - Ma già te 'o detto, ma perché nun ce provi te, a fijo de na paragula! - Agnolo se ne andò a affrontare Giggetto e subito dopo difatti tornò con la piotta e mezza e una nazionale accesa tra le labbra. Andarono a aspettare la barca presso la ringhiera, e appena che la barca approdò e furono scesi gli altri ragazzi, i tre si imbarcarono. Era la prima volta che il Riccetto e Agnolo navigavano.

La barca dapprincipio non si muoveva. Più Marcello remava e più quella stava ferma. Poi piano piano cominciò a staccarsi dal galleggiante, andando qua e là come se fosse ubbriaca. - A disgrazziato, - gridava Agnoletto con quanta voce aveva in petto, - che sai remà pure tu? - La barca pareva ammattita e andava a caso un po' su e un po' giù, un po' verso Ponte Sisto, un po' verso Ponte Garibaldi. Ma la corrente la trascinava a sinistra verso Ponte Garibaldi, anche se per caso la prua si voltava dall'altra parte, e il Guaione, comparendo alla ringhiera del galleggiante, cominciò a gridare qualcosa con le corde del collo che gli scoppiavano -Sto stronzo, - continuava a gridare Agnolo a Marcello, - mo ce vengono a ricoje a Fiumicino! - Nun me rompe er c... - diceva Marcello ammazzandosi sui remi che o sbattevano fuori dall'acqua o ci affondavano dentro fino al manico, - provace te, daje! - Io mica so' de Ostia! urlò Agnolo. Intanto il Ciriola restava distanziato, traballando alla poppa della barchetta: sotto il verde dei platani il muraglione cominciava a comparire in tutta la sua lunghezza da Ponte Sisto a Ponte Garibaldi, e i ragazzi sparsi lungo la riva, chi all'altalena, chi al trampolino, chi sulla zattera, rimpicciolivano sempre più e non si potevano più distinguere le loro voci.


I. IL FERROBEDO (2) I. THE FERROBEDO (2) I. EL FERROBEDO (2) I. O FERROBEDO (2)

Il Riccetto se ne stava ignudo, lungo sull'erbaccia, con le mani sotto la nuca guardando in aria.

- Ce sei ito mai a Ostia? - domandò a Marcello tutt'a un botto. -Ammazzete, - rispose Marcello, - che, nun ce lo sai che ce so' nato? - Ma li mortè, - fece il Riccetto con una smorfia squadrandolo, - mica me l'avevi mai detto sa'! - Embè? - fece l'altro. - Ce sei mai stato co 'a nave in mezzo ar mare? - chiese curioso il Riccetto. - Come no, fece Marcello sornione. - Insin'addove? - riprese il Riccetto. - Ammazzete, Riccè, -disse tutto contento Marcello, quante cose voi sapè! E cchi se ricorda, nun c'avevo manco tre anni, nun c'avevo! - Me sa che in nave ce sei ito quanto me, a balordo! - fece sprezzante il Riccetto - Sto c..., - ribatté pronto l'altro, - c'annavo tutti li ciorni su 'r barcone a vela de mi zzio! - Ma vaffan..., va! - fece il Riccetto schioccando con la bocca. - Ih li zeeeeppi, - fece poi, guardando sull'acqua, - li zeeeeppi! - Sul pelo della corrente passavano un po' di rottami, una cassetta fracica e un orinale. Il Riccetto e Marcello si fecero sull'orlo del fiume nero d'olio. - Quanto me piacerebbe de famme na gita 'n barca! - disse il Riccetto con aria accorata, guardando la cassetta che se ne andava al suo destino dondolando tra l'immondezza. -Che nun ce lo sai che ar Ciriola 'e danno in affitto 'e bbarche? - disse Marcello. - Sì, e chi ce passa 'a grana, - fece cupo il Riccetto. - A locco, se va a tubbature pure noi, che te frega, - disse Marcello tutto infervorato all'idea; - Agnoletto già ha rimediato er cacciagomme - Aòh, - fece il Riccetto, - io ce sto!

Se ne stettero lì fin tardi, distesi con la testa sui calzoncini intostati dalla polvere e dal sudore: tanto chi glielo faceva fare lo sforzo d'andarsene. Tutt'intorno era pieno di cespugli e di canne secche; ma sotto l'acqua ci stava pure del ghiaino e dei serci. Si divertirono a tirare dei serci sull'acqua e anche quando finalmente si decisero ad andarsene, continuarono, mezzi svestiti, a tirarne in alto, verso l'altra sponda o contro le rondini che sfioravano il pelo del fiume.

Lanciavano pure intere manciate di ghiaia, gridando e divertendosi: i sassolini cadevano dappertutto intorno sulle fratte. Ma d'un tratto sentirono un grido, come se qualcuno li chiamasse. Si voltarono e nell'aria già un po' scura, poco lontano, videro un negro, in ginocchioni sull'erba. Il Riccetto e Marcello, che avevano subito capito la situazione, tagliarono, ma appena che furono a una certa distanza, presero un'altra manciata di ghiaia e la gettarono verso quei cespugli.

Allora con le zinne mezze fuori, incazzata nera, si alzò in piedi la mignotta, e si mise a urlare contro di loro.

- E statte zitta, - gridò sardonico il Riccetto con le mani a imbuto, - che perdi come le papere, a brutta zozzona! - Ma il negro in quel momento s'alzò come una bestia, e reggendosi con una mano i calzoni e con l'altra un coltello, si mise a corrergli dietro. Il Riccetto e Marcello se la squagliarono gridando aiuto, in mezzo alle fratte, verso l'argine, su per l'erta: arrivati in cima, ebbero la forza di guardarsi per un momento indietro e videro in fondo il negro che agitava il coltello in aria e urlava. Il Riccetto e Marcello scesero ancora giù di corsa, e guardandosi in faccia non la finivano più di ridere; il Riccetto, addirittura si mise a rotolarsi per terra, sulla polvere; sghignazzando guardava Marcello e gridava: -Ahioddio, che t'ha preso na paralisi, a Marcè?

Con quel fugge, erano sboccati sul lungotevere proprio in direzione della facciata di San Paolo che ancora brillava debolmente al sole. Scesero giù, verso il Parco Paolino, che in fondo tra gli alberelli brulicava di operai e di soldati che scendevano in libera uscita dalla Cecchignola, e rasentarono la basilica, per un pezzo di strada vuoto e male illuminato. Un cieco con le spalle appoggiate al muro e le gambe abbandonate sul marciapiede chiedeva l'elemosina.

Il Riccetto e Marcello si sedettero appresso sull'orlo del marciapiede, per farsi passare il fiatone, e il vecchio, sentendo della gente vicina, cominciò con la sua lagna. Teneva le gambe larghe, e in mezzo c'era il berretto pieno di soldi. Il Riccetto urtò col gomito Marcello, indicandolo. - Vacce piano, - borbottò Marcello. Quando il fiatone si fu un po' calmato, il Riccetto tornò a urtargli il gomito, con aria stizzita, facendogli un gesto con la mano come per dirgli: - Embè, che famo? - Marcello alzò le spalle per dirgli che s'arrangiasse, e il Riccetto gli lanciò un'occhiata di compassione, arrossendo di collera. Poi gli disse piano: - Aspettarne laggiù -. Marcello s'alzò, e andò a aspettarlo dall'altra parte della strada, tra gli alberelli. Quando Marcello fu lontano, il Riccetto aspettò un momento che non passava nessuno, si accostò al cieco, acchiappò la manciata dei soldi dal berretto e filò via. Appena furono al sicuro, si misero a contare i soldi sotto un lampione: c'era quasi mezzo sacco.

La mattina dopo, il convento delle Monache e altri palazzi di via Garibaldi restarono senz'acqua.

Il Riccetto e Marcello avevano trovato Agnolo a Donna Olimpia davanti alle scuole elementari Giorgio Franceschi che dava calci alla palla con altri ragazzi senza altra illuminazione che quella della luna. Gli dissero d'andare a prendere il cacciagomme, e quello non se lo fece ripetere. Poi discesero tutti e tre insieme, per San Pancrazio, giù verso Trastevere, in cerca di un posto tranquillo: lo trovarono in via Manara, che a quell'ora era tutta deserta, e poterono mettersi a lavorare intorno a un chiusino senza che nessuno andasse a rompergli le scatole. Non si misero in allarme manco quando lì sopra s'aprì di botto un balcone e una vecchia mezza appennicata e tutta dipinta cominciò a gridare: - Che state a ffà liggiù? - Il Riccetto alzò il capo un momento, e le fece: - A signò, nun è niente, è er mistero de la fogna atturata! - Già avevano finito, si presero il sopra e il sotto del chiusino, Agnolo e il Riccetto se lo incollarono, e se ne andarono piano piano verso una casa diroccata sotto il Gianicolo, che era una vecchia palestra in rovina. C'era buio, ma Agnolo era pratico e trovò in un angolo dello stanzone la mazza, e con quella fecero a pezzi il chiusino.

Adesso si trattava di trovare il compratore; ma anche stavolta ci pensò Agnolo. Andarono giù per il vicolo dei Cinque, che, tranne qualche ubbriaco, era tutto deserto. Sotto le finestre dello stracciarolo, Agnolo si mise le mani a imbuto intorno alla bocca, e si mise a chiamare: - A Antò!

- Lo stracciarolo si affacciò, poi scese e li fece entrare in bottega, dove pesò la ghisa e gli diede duemila e settecento lire, per i settanta chili che pesava. Ormai che c'erano vollero farla completa. Agnolo corse nella palestra a prendere l'accettola, e andarono verso le scalinate del Gianicolo. Lì scoperchiarono una fogna e vi si calarono dentro. Col manico dell'accettola acciaccarono la tubatura per fermare l'acqua, poi la tagliarono, distaccandone cinque o sei metri. Nella palestra la pestarono tutta, facendola in tanti pezzetti, la misero in un sacco e la portarono dallo stracciarolo, che gliela pagò centocinquanta lire al chilo. Con le saccocce piene di grana risalirono tutti contenti verso mezzanotte ai Grattacieli. Lassù Alvaro, Rocco e gli altri giovanotti se ne stavano a giocare alle carte in fondo alla tromba delle scale, accucciati o sbragati in silenzio sul pianerottolo a pianterreno della casa di Rocco, che dava in uno dei tanti cortili interni. Agnolo, per andare a casa, doveva passare di lì, e il Riccetto e Marcello l'accompagnavano. Così si fermarono a giocare coi grossi a zecchinetta. Dopo poco più di mezzora avevano perso tutta la grana. Per poter andarsi a divertire in barca dal Ciriola, gli rimaneva, per fortuna, il mezzo sacco fregato al cieco, che il Riccetto s'era nascosto dentro le scarpe.

- Ecco la pipinara! - disse sullo zatterone un giovanotto vedendoli scendere lungo il marciapiede rovente. Il Riccetto non resistette alla tentazione di dondolarsi subito un po' sulla cannofiena. Ma saltò giù immediatamente per raggiungere gli altri che avevano già sceso la breve passerella e stavano dando le cinquanta lire alla moglie di Orazio, nello stabilimento che galleggiava sull'acqua del Tevere. Giggetto li ricevette male. - Metteteve qua, - disse: e mostrò a tutti tre un solo armadietto. Quelli restavano indecisi. - E che ve state a aspettà? - scattò Giggetto allungando un braccio con la mano aperta verso di loro come per mostrare quant'era indegno il loro comportamento. - Che? mo devo da venì a svestivve io, mo?

- Li mortacci sua, - borbottò Agnolo fra i denti: e si rovesciò sul capo la camicetta, togliendosela senza più aspettare. Intanto Giggetto continuava:

- Sti rompicojoni de ragazzini... ve potessino ammazzavve tutti, voi e chi ve ce manna... - Avviliti i tre rompicojoni si svestirono e restarono nudi coi panni in mano. - Be? - urlò il bagnino, uscendo da dietro il banchetto, - mo? - Essi non sapevano come si faceva. Giggetto gli strappò di mano i panni, li gettò dentro l'armadietto e lo richiuse a chiave. Suo figlio piccolo guardava i tre nuovi ghignando. Gli altri giovanotti che indugiavano chi nudo, chi con gli slip penzoloni, chi pettinandosi davanti allo specchietto, chi cantando, se li guardavano con la coda dell'occhio come per dire: -Ammazza quanto so' gajardi -. Appena che si furono annodati ai fianchi i lembi degli slip che gli andavano larghi, schizzarono fuori dallo spogliatoio, e s'andarono a raccogliere accanto la ringhiera di ferro del galleggiante. Furono subito cacciati via pure da lì. Orazio in persona era uscito dal reparto centrale dove stava il bare, con la sua gamba paralitica e la sua faccia chiazzata di sangue. - Li mortacci vostra, - urlò - quante vorte devo da dì che nun ce se pò stà llì che se rompe 'a ringhiera? - Essi filarono via, passando davanti alla stuoia della doccia, seguiti dalle grida di Orazio che continuò a urlare per dieci minuti seduto sulla sua seggiola di vimini. Lì dentro dei giovanotti giocavano alle carte, altri stavano seduti con le gambe sui tavolini zoppicanti fumando. In pizzo alla piccola passerella che univa il galleggiante alla riva il cagnolino di Agnolo li aspettava con la lingua penzoloni, tutto allegro. Ciò consolò i tre malandrini, che si misero a correre lungo il muraglione, facendosi seguire dal cane. Si fermarono un po' presso il trampolino, poi continuarono a correre verso Ponte Sisto. Era ancora prestissimo: le una e mezza, nemmeno, e a Roma non c'era che il sole.

Dal Cupolone, dietro Ponte Sisto, all'Isola Tiberina dietro Ponte Garibaldi, l'aria era tesa come la pelle d'un tamburo. In quel silenzio, tra i muraglioni che al calore del sole puzzavano come pisciatoi, il Tevere scorreva giallo come se lo spingessero i rifiuti di cui veniva giù pieno. I primi a arrivare, dopo che verso le due se ne furono andati i sei o sette impiegati ch'erano rimasti sempre fermi sullo zatterone, furono i riccioloni di Piazza Giudia. Poi vennero i trasteverini, giù da Ponte Sisto, in lunghe file, mezzi ignudi, urlando e ridendo, sempre in campana per menare qualcuno. Il Ciriola si empì, fuori, sulla spiaggetta sporca e, dentro, negli spogliatoi, nel bare, nello zatterone. Era un verminaio. Due dozzine di ragazzi stavano radunati intorno al trampolino. Cominciarono i primi caposotti, i pennelli, i caprioli. Il trampolino non era alto che un metro e mezzo, poco più, e ce la facevano a tuffarsi pure i ragazzini di sei anni. Qualcuno, passando per Ponte Sisto, si fermava a guardare. Pure in cima al muraglione del lungotevere, a cavalcioni sulle spallette su cui spiovevano i platani, qualche ragazzetto senza grana per scendere, stava a guardare. I più stavano ancora distesi sulla rena o su quel po' d'erba arruzzonita ch'era rimasta sotto il muraglione.

- Er primo l'urtimo! - gridò, a quelli che stavano sbragati intorno, un moretto piccolo e peloso, alzandosi in piedi: ma gli diede retta solo il Nicchiola che partì con la sua schiena curva e storcinata, e si lasciò cadere nell'acqua gialla con le gambe e le braccia larghe sbattendo con le chiappe. Gli altri, facendo schioccare la lingua con aria di disprezzo, dissero al moretto: - E lèvate! -, poi, dopo un po', ciondolando pieni di fiacca, s'alzarono e come un branco di pecore si spostarono, su verso lo spiazzo di sabbia sotto la cannofiena, davanti al galleggiante, a guardarsi il Monnezza, che coi piedi sulla sabbia rovente, e rosso per lo sforzo sotto le due sfere, stava sollevando il peso da cinquanta chili in mezzo a un reggimento di ragazzini. (** L'AUDIO CONTINUA DOPO) Al trampolino se ne restarono solo il Riccetto, Marcello, Agnolo e pochi altri, con il cane, ch'era il beniamino di tutti. -Be? - fece Agnolo con aria minacciosa agli altri due. - Li mortacci tua, -disse il Riccetto, - che, c'hai prescia? - Ma li mortacci tua, - disse Agnolo, - e che semo venuti a ffà? - Mo se famo er bagno, - disse il Riccetto, e se ne andò in pizzo al trampolino a guardare l'acqua.

Il cagnoletto gli andò dietro. Il Riccetto si voltò: - Venghi pure tu? - gli disse affettuoso e allegro, - venghi pure tu? - Il cane guardandolo in viso scodinzolò.

- Te voi fà er caposotto, eh? - disse il Riccetto. Lo prese per il pelo e lo spinse sull'orlo: ma il cane si tirava indietro. - Tenghi paura, - disse il Riccetto, - be, nun te lo faccio fà er caposotto, va! - Il cane continuava a guardarlo tutto trepidante. - Ma che voi da me? - continuò il Riccetto con aria di protezione, chinandosi, - brutto sciammannato d'uno spinone! - Lo accarezzava, gli grattava il collo, gli metteva la mano tra i denti, lo tirava.

- A brutto, a brutto! - gli gridava affettuosamente. Il cane però sentendosi tirare aveva un po' di paura e saltava indietro.

- None, - gli disse allora il Riccetto, - nun te ce butto a fiume! - Te lo fai sto caposotto, a Riccè? - gli gridò ironico Agnolo. - Famme fà prima na pisciata, - rispose il Riccetto e corse a pisciare contro il muraglione: il cane gli venne dietro e stette a guardarlo con gli occhi lucidi e la coda irrequieta.

Agnolo allora prese la rincorsa e si tuffò. - Li mortacci tua! - gridò Marcello vedendolo cadere tutto di sguincio con la pancia. - Ammazzeme, - gridò Agnolo risortendo col capo in mezzo al fiume, - che panzata! -Mo je faccio vede io come ce se tuffa! - gridò il Riccetto, e si gettò in acqua. - Come l'ho fatto? - gridò riemergendo a Marcello. - Co 'e gambe larghe, - disse Marcello. - Mo ce riprovo, fece il Riccetto e si arrampicò su per la riva.

(**) In quel momento quelli che stavano a far caciara intorno al Monnezza che sollevava i pesi, si spostarono in massa verso il trampolino: venivano giù con un ghigno sicuro e beffardo, sputando, coi più piccoletti che zompavano intorno o si rotolavano abbraccicati pel marciapiede. Erano più di una cinquantina, e invasero il piccolo spiazzo d'erba sporca intorno al trampolino: per primo partì il Monnezza, biondo come la paglia e pieno di cigolini rossi, e fece un carpio con le sette bellezze: gli andarono dietro Remo, lo Spudorato, il Pecetto, il Ciccione, Pallante, ma pure i più piccoletti, che non ci smagravano per niente, e anzi Ercoletto, del vicolo dei Cinque, era forse il meglio di tutti: si tuffava correndo pel trampolino sulla punta dei piedi e le braccia aperte, leggero, come se ballasse. Il Riccetto e gli altri si ritirarono ammusati a sedere sull'erba bruciata, e guardavano in silenzio. Erano come dei pezzetti di pane in mezzo a un formicaio: e ci sformavano a dover stare a sentire in un canto la caciara. Tutti se ne stavano in piedi, con le cianche sporche di fango, gli slip appiccicati sulla carne e le facce sarcastiche, a guardarsi e a gridare i morti: con la sua faccia cattiva, tonda come un uovo, il Ciccione partì, e scivolando sull'orlo dell'asse, mentre cadeva in acqua, urlò con una risata feroce: - Li mortacci sua! -, e Remo sulla riva, scuotendo il capo, allegro borbottò: - Li mortacci, che fforza che sei! - Pure il Bassotto lì accanto, lungo sul marciapiede, ghignava, quando gli arrivò tra i ricci un malloppetto di fanga. - Li mortacci vostra! - urlò voltandosi furente. Ma non sgamò chi era stato, perché tutti guardavano ridendo verso il fiume.

Dopo poco gli schizzò sul capo un altro malloppetto. - A li mortacci, -gridò. Andò a prendere di petto Remo. - Ma che vvòi, - gli fece quello con la faccia offesa, - li mortacci tua, e de tu nonno! - Ma dopo un poco tutta l'aria era attraversata da centinaia di pezzetti di fango tirati a tutta forza: qualcuno, nella melma fino al ginocchio, ne lanciava dal basso all'alto contro il cornicione delle intere manciate, facendo schizzare tutt'intorno una pioggia di fanghiglia: altri stavano seduti indifferenti, un po' in disparte, e tiravano i malloppi a tradimento, facendoli fischiare come frustate. - All'anima de li mortacci vostra! - urlò Remo, in mezzo alla mischia, premendosi infuriato un occhio con la mano, e corse a gettarsi in acqua per togliersi il fango incastrato tra le palpebre: vedendolo che si tuffava, il Monnezza gli andò dietro gridando lui stavolta: - Er primo l'urtimo, - e si buttò in acqua raggomitolandosi e rotolandosi per aria, e cadendo sul pelo della corrente con un gran botto della schiena, delle ginocchia e dei gomiti. - Ma li mortacci sua! - rise corrugando la fronte lo Spudorato. Partì e ne fece uno uguale. - Pallante! - gridò. - E chi me lo fa ffà, - disse Pallante. - A vigliacco, - gridarono dall'acqua lo Spudorato e il Monnezza.

- Ma li mortacci loro, - borbottava intanto in disparte il Riccetto - Mbè, che stamo a ffà? - disse Agnolo duro. L'unico dei tre che sapeva remare era Marcello: toccava a lui incominciare la manovra. S'andarono a sedere sul mucchio dei vecchi sandolini scassati. - A Marcè, - fece Agnolo, - noi t'aspettamo, daje -. Marcello s'alzò e andò a girellare intorno al Guaione, che se ne stava mezzo ubbriaco in fondo al galleggiante facendo un lavoro col coltellino. - Quanto costa na barca? - gli chiese a bruciapelo. - Na piotta e mezza, - rispose il Guaione senza alzare gl'occhi. - Ce 'a date, che? - disse Marcello. - Mo quanno torna. E fora. - Ce vole tanto, a Guaiò? - chiese dopo un po' Marcello. - Ma li mortacci tua, - disse il Guaione alzando gli occhi bianchi da ubbriaco, - che c... ne so io! Quanno torna -. Poi diede un'occhiata al fiume verso Ponte Sisto. - Ecchela, -fece. - Se paga subbito o dopo? - Subbito, mejo. - Vado a prenne li sordi, - gridò Marcello. Ma non aveva calcolato Giggetto. Questo era un buon bagnino coi grandi: ma coi piccoletti, se si fossero tutti affogati c'avrebbe fatto la firma. Marcello stette lì un pezzetto cercando di farsi dar retta, ma quello non lo filò per niente. Se ne tornò su sconcertato al mucchio dei sandolini. - Come c... se fa a prenne li sordi, - disse. - Va dar bagnino, no, a stronzo! - Ce so' ito, - spiegò Marcello, - ma nun me dà retta nun me dà!

- Ma quanto sei stronzo, - scattò incollerito Agnolo. - An vedi questo, -gli rispose vibrante Marcello, stendendo verso di lui la mano aperta, come aveva fatto poco prima Giggetto con loro, - perché nun ce vai te? - Mo fate a cazzotti, - filosofò il Riccetto. - Je lo darebbe sì un cazzotto, a quer stronzo llì! - disse Agnolo. - Ma già te 'o detto, ma perché nun ce provi te, a fijo de na paragula! - Agnolo se ne andò a affrontare Giggetto e subito dopo difatti tornò con la piotta e mezza e una nazionale accesa tra le labbra. Andarono a aspettare la barca presso la ringhiera, e appena che la barca approdò e furono scesi gli altri ragazzi, i tre si imbarcarono. Era la prima volta che il Riccetto e Agnolo navigavano.

La barca dapprincipio non si muoveva. Più Marcello remava e più quella stava ferma. Poi piano piano cominciò a staccarsi dal galleggiante, andando qua e là come se fosse ubbriaca. - A disgrazziato, - gridava Agnoletto con quanta voce aveva in petto, - che sai remà pure tu? - La barca pareva ammattita e andava a caso un po' su e un po' giù, un po' verso Ponte Sisto, un po' verso Ponte Garibaldi. Ma la corrente la trascinava a sinistra verso Ponte Garibaldi, anche se per caso la prua si voltava dall'altra parte, e il Guaione, comparendo alla ringhiera del galleggiante, cominciò a gridare qualcosa con le corde del collo che gli scoppiavano -Sto stronzo, - continuava a gridare Agnolo a Marcello, - mo ce vengono a ricoje a Fiumicino! - Nun me rompe er c... - diceva Marcello ammazzandosi sui remi che o sbattevano fuori dall'acqua o ci affondavano dentro fino al manico, - provace te, daje! - Io mica so' de Ostia! urlò Agnolo. Intanto il Ciriola restava distanziato, traballando alla poppa della barchetta: sotto il verde dei platani il muraglione cominciava a comparire in tutta la sua lunghezza da Ponte Sisto a Ponte Garibaldi, e i ragazzi sparsi lungo la riva, chi all'altalena, chi al trampolino, chi sulla zattera, rimpicciolivano sempre più e non si potevano più distinguere le loro voci.