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Novecento, Un Monologo - Alessandro Baricco, Parte (3)

Parte (3)

"Se ti fidi di me, toglili."

Questo è matto, pensai. E li tolsi.

"E adesso vieni a sederti qua," mi disse allora Novecento.

Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero... Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino - un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.

"Se non sali adesso, non sali più," disse il matto sorridendo. (Sale su un marchingegno, una cosa a metà tra un'altalena e un trapezio) "Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c'è da perdere ci salgo, d'accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?"

"E adesso, non aver paura."

E si mise a suonare.

(Parte una musica per piano solo. È' una specie di danza, valzer, mite e dolce. Il marchingegno incomincia a dondolare e a portare l'attore in giro per la scena. Man mano che l'attore va avanti a raccontare, il movimento si fa più ampio, fino a sfiorare le quinte).

Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l'Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.

(Inizia a volteggiare alla grande per il palcoscenico, sul suo marchingegno, con un'aria felice, mentre l'Oceano impazza, la nave balla, e la musica del piano detta una specie di valzer che con diversi effetti sonori accelera, frena, gira, insomma "guida" il grande ballo. Poi, dopo l'ennesima acrobazia, sbaglia una manovra e finisce di slancio dietro le quinte. La musica cerca di "frenare" ma è troppo tardi. L'attore ha giusto il tempo di gridare

"Oh cristo..."

ed esce da una quinta laterale, schiantandosi contro qualcosa. Si sente un gran fracasso, come se fosse finito a distruggere una vetrata, il tavolo di un bar, un salotto, qualcosa. Un gran casino. Attimo di pausa e di silenzio. Poi dalla stessa quinta da cui è uscito, l'attore rientra, lentamente)

Novecento disse che doveva ancora perfezionarlo, quel trucco. Io dissi che in fondo si trattava proprio solo di registrare i freni. Il comandante, finita la burrasca, disse (concitatamente e gridando) "PORCO DI UN DEMONIO VOI DUE ADESSO FINITE IN SALA MACCHINE E CI RESTATE PERCHÉ SE NO VI UCCIDO CON QUESTE MANI, E SIA CHIARO CHE PAGHERETE TUTTO, FINO ALL'ULTIMO CENTESIMO DOVESTE LAVORARE TUTTA LA VITA, COM'È VERO CHE QUESTA NAVE SI CHIAMA VIRGINIAN E VOI SIETE I DUE PIÙ GRANDI IMBECILLI CHE MAI ABBIANO SOLCATO L'OCEANO".

Laggiù, in sala macchine, quella notte, Novecento e io diventammo amici. Per la pelle. E per sempre. Passammo tutto il tempo a contare quanto poteva fare in dollari tutto quello che avevamo rotto. E più il conto saliva, più ridevamo. E se io ci ripenso, mi sembra che era quella cosa lì, essere felici. O una cosa del genere.

Fu in quella notte che gli chiesi se quella storia era vera, quella di lui e la nave, insomma che ci era nato sopra e tutto il resto... se era vero che non era mai sceso da lì. E lui rispose: "Sì".

"Ma vero veramente?"

Lui era tutto serio.

"Vero veramente."

E io non so, però in quel momento quello che sentii dentro, per un istante, senza volerlo, e non so perché, fu un brivido: ed era un brivido di paura.

Paura.

Una volta chiesi a Novecento a cosa diavolo pensava, mentre suonava, e cosa guardava, sempre fisso davanti a sé, e insomma dove finiva, con la testa, mentre le mani gli andavano avanti e indietro sui tasti. E lui mi disse: "Oggi son finito in un paese bellissimo, le donne avevano i capelli profumati, c'era luce dappertutto ed era pieno di tigri".

Viaggiava, lui.

E ogni volta finiva in un posto diverso: nel centro di Londra, su un treno in mezzo alla campagna, su una montagna così alta che la neve ti arrivava alla pancia, nella chiesa più grande del mondo, a contare le colonne e guardare in faccia i crocefissi. Viaggiava. Era difficile capire cosa mai potesse saperne lui di chiese, e di neve, e di tigri e... voglio dire, non c'era mai sceso, da quella nave, proprio mai, non era una palla, era tutto vero. Mai sceso. Eppure, era come se le avesse viste, tutte quelle cose. Novecento era uno che se tu gli dicevi "Una volta son stato a Parigi", lui ti chiedeva se avevi visto i giardini tal dei tali, e se avevi mangiato in quel dato posto, sapeva tutto, ti diceva "Quello che a me piace, laggiù, è aspettare il tramonto andando avanti e indietro sul Pont Neuf, e quando passano le chiatte, fermarmi e guardarle da sopra, e salutare con la mano".

"Novecento, ci sei mai stato a Parigi, tu?"

"No."

"E allora..."

"Cioè... sì."

"Sì cosa?"

"Parigi. "

Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c'è in Bertham Street, d'estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c'è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell'aria, l'aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l'aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l'anima.

In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.

(Parte in audio un ragtime malinconico)

Ci vollero degli anni, ma alla fine, un giorno, presi il coraggio a quattro mani e glielo chiesi. Novecento, perché cristo non scendi, una volta, anche solo una volta, perché non lo vai a vedere, il mondo, con gli occhi tuoi, proprio i tuoi. Perché te ne stai su questa galera viaggiante, tu potresti startene sul tuo Pont Neuf a guardare le chiatte e tutto il resto, tu potresti fare quello che vuoi, suoni il pianoforte da dio, impazzirebbero per te, ti faresti un sacco di soldi, e potresti sceglierti la casa più bella che c'è puoi anche fartela a forma di nave, che ti frega? ma te la metteresti dove vuoi, in mezzo alle tigri, magari, o in Bertham Street... diosanto non potrai continuare tutta la vita ad andare avanti e indietro come uno scemo... tu non sei scemo, tu sei grande, e il mondo è lì, c'è solo quella fottuta scaletta da scendere, cosa sarà mai, qualche stupido gradino, cristo, c'è tutto, alla fine di quei gradini, tutto. Perché non la fai finita e te ne scendi da qui, una volta almeno, una sola volta.

Novecento... Perché non scendi?

Perché?

Perché?

Fu d'estate, nell'estate del 1931, che sul Virginian salì Jelly Roll Morton. Tutto vestito di bianco, anche il cappello. E un diamante così al dito.

Lui era uno che quando faceva i concerti scriveva sui manifesti: stasera Jelly Roll Morton, l'inventore del jazz. Non lo scriveva così per dire: ne era convinto: l'inventore del jazz. Suonava il pianoforte.

Sempre un po' seduto di tre quarti, e con due mani che erano farfalle. Leggerissime. Aveva iniziato nei bordelli, a New Orleans, e l'aveva imparato lì a sfiorare i tasti e accarezzare note: facevano l'amore, al piano di sopra, e non volevano baccano. Volevano una musica che scivolasse dietro le tende e sotto i letti, senza disturbare. Lui faceva quella musica lì. E in quello, veramente, era il migliore.

Qualcuno, da qualche parte, un giorno, gli disse di Novecento. Dovettero dirgli una cosa tipo: quello è il più grande. Il più grande pianista del mondo. Può sembrare assurdo, ma era una cosa che poteva succedere. Non aveva mai suonato una sola nota fuori dal Virginian, Novecento, eppure era un personaggio a suo modo celebre, ai tempi, una piccola leggenda. Quelli che scendevano dalla nave raccontavano di una musica strana e di un pianista che sembrava avesse quattro mani, tante note faceva. Giravano storie curiose, anche vere, alle volte, come quella del senatore americano Wilson che si era fatto il viaggio tutto in terza classe, perché era lì che Novecento suonava, quando non suonava le note normali, ma quelle sue, che normali non erano. C'aveva un pianoforte, là sotto, e ci andava di pomeriggio, o la notte tardi. Prima ascoltava: voleva che la gente gli cantasse le canzoni che sapeva, ogni tanto qualcuno tirava fuori una chitarra, o un'armonica, qualcosa, e iniziava a suonare, musiche che venivano da chissà dove... Novecento ascoltava. Poi incominciava a sfiorare i tasti, mentre quelli cantavano o suonavano, sfiorava i tasti e a poco a poco quello diventava un suonare vero e proprio, uscivano dei suoni dal pianoforte - verticale, nero - ed erano suoni dell'altro mondo. C'era dentro tutto: tutte in una volta, tutte le musiche della terra. C'era da rimanere di stucco. E rimase di stucco, il senatore Wilson, a sentire quella roba, e a parte quella storia della terza classe, lui, tutto elegante, in mezzo a quella puzza, perché era puzza vera e propria, a parte quella storia, lo dovettero portare giù di forza, all'arrivo, perché se era per lui sarebbe rimasto là sopra, a sentire Novecento per tutto il resto dei fottuti anni che gli restavano da vivere. Davvero. Lo scrissero sui giornali, ma era vero sul serio. Era proprio andata così.

Insomma, qualcuno andò da Jelly Roll Morton e gli disse: su quella nave c'è uno che col pianoforte fa quel che vuole. E quando ha voglia suona il jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme. Jelly Roll Morton aveva un caratterino, lo sapevano tutti. Disse: "Come fa a suonare bene uno che non ha nemmeno le palle per scendere da una stupida nave?". E giù a ridere, come un matto, lui, l'inventore del jazz. Poteva finire lì, solo che uno a quel punto disse: "Fai bene a ridere perché se solo quello si decide a scendere tu ritorni a suonare nei bordelli, com'è vero Iddio, nei bordelli". Jelly Roll smise di ridere, tirò fuori dalla tasca una piccola pistola col calcio di madreperla, la puntò alla testa del tizio che aveva parlato e non sparò: però disse: "Dov'è 'sto cazzo di nave? ".

Quel che aveva in mente era un duello. Si usava, allora. Si sfidavano a colpi di pezzi di bravura e alla fine uno vinceva. Cose da musicisti.


Parte (3) Teil (3) Part (3) Parte (3)

"Se ti fidi di me, toglili."

Questo è matto, pensai. E li tolsi.

"E adesso vieni a sederti qua," mi disse allora Novecento.

Non lo capivo dove voleva arrivare, proprio non lo capivo. Stavo lì a tenere fermo quel pianoforte che incominciava a scivolare come un enorme sapone nero... Era una situazione di merda, giuro, dentro alla burrasca fino al collo e in più quel matto, seduto sul suo seggiolino - un altro bel sapone e le mani sulla tastiera, ferme.

"Se non sali adesso, non sali più," disse il matto sorridendo. (Sale su un marchingegno, una cosa a metà tra un'altalena e un trapezio) "Okay. Mandiamo tutto in merda, okay? tanto cosa c'è da perdere ci salgo, d'accordo, ecco, sul tuo stupido seggiolino, ci son salito, e adesso?"

"E adesso, non aver paura."

E si mise a suonare.

(Parte una musica per piano solo. È' una specie di danza, valzer, mite e dolce. Il marchingegno incomincia a dondolare e a portare l'attore in giro per la scena. Man mano che l'attore va avanti a raccontare, il movimento si fa più ampio, fino a sfiorare le quinte).

Ora, nessuno è costretto a crederlo, e io, a essere precisi, non ci crederei mai se me lo raccontassero, ma la verità dei fatti è che quel pianoforte incominciò a scivolare, sul legno della sala da ballo, e noi dietro a lui, con Novecento che suonava, e non staccava lo sguardo dai tasti, sembrava altrove, e il piano seguiva le onde e andava e tornava, e si girava su se stesso, puntava diritto verso la vetrata, e quando era arrivato a un pelo si fermava e scivolava dolcemente indietro, dico, sembrava che il mare lo cullasse, e cullasse noi, e io non ci capivo un accidente, e Novecento suonava, non smetteva un attimo, ed era chiaro, non suonava semplicemente, lui lo guidava, quel pianoforte, capito?, coi tasti, con le note, non so, lui lo guidava dove voleva, era assurdo ma era così. E mentre volteggiavamo tra i tavoli, sfiorando lampadari e poltrone, io capii che in quel momento, quel che stavamo facendo, quel che davvero stavamo facendo, era danzare con l'Oceano, noi e lui, ballerini pazzi, e perfetti, stretti in un torbido valzer, sul dorato parquet della notte. Oh yes.

(Inizia a volteggiare alla grande per il palcoscenico, sul suo marchingegno, con un'aria felice, mentre l'Oceano impazza, la nave balla, e la musica del piano detta una specie di valzer che con diversi effetti sonori accelera, frena, gira, insomma "guida" il grande ballo. Poi, dopo l'ennesima acrobazia, sbaglia una manovra e finisce di slancio dietro le quinte. La musica cerca di "frenare" ma è troppo tardi. L'attore ha giusto il tempo di gridare

"Oh cristo..."

ed esce da una quinta laterale, schiantandosi contro qualcosa. Si sente un gran fracasso, come se fosse finito a distruggere una vetrata, il tavolo di un bar, un salotto, qualcosa. Un gran casino. Attimo di pausa e di silenzio. Poi dalla stessa quinta da cui è uscito, l'attore rientra, lentamente)

Novecento disse che doveva ancora perfezionarlo, quel trucco. Io dissi che in fondo si trattava proprio solo di registrare i freni. Il comandante, finita la burrasca, disse (concitatamente e gridando) "PORCO DI UN DEMONIO VOI DUE ADESSO FINITE IN SALA MACCHINE E CI RESTATE PERCHÉ SE NO VI UCCIDO CON QUESTE MANI, E SIA CHIARO CHE PAGHERETE TUTTO, FINO ALL'ULTIMO CENTESIMO DOVESTE LAVORARE TUTTA LA VITA, COM'È VERO CHE QUESTA NAVE SI CHIAMA VIRGINIAN E VOI SIETE I DUE PIÙ GRANDI IMBECILLI CHE MAI ABBIANO SOLCATO L'OCEANO".

Laggiù, in sala macchine, quella notte, Novecento e io diventammo amici. Per la pelle. E per sempre. Passammo tutto il tempo a contare quanto poteva fare in dollari tutto quello che avevamo rotto. E più il conto saliva, più ridevamo. E se io ci ripenso, mi sembra che era quella cosa lì, essere felici. O una cosa del genere.

Fu in quella notte che gli chiesi se quella storia era vera, quella di lui e la nave, insomma che ci era nato sopra e tutto il resto... se era vero che non era mai sceso da lì. E lui rispose: "Sì".

"Ma vero veramente?"

Lui era tutto serio.

"Vero veramente."

E io non so, però in quel momento quello che sentii dentro, per un istante, senza volerlo, e non so perché, fu un brivido: ed era un brivido di paura.

Paura.

Una volta chiesi a Novecento a cosa diavolo pensava, mentre suonava, e cosa guardava, sempre fisso davanti a sé, e insomma dove finiva, con la testa, mentre le mani gli andavano avanti e indietro sui tasti. E lui mi disse: "Oggi son finito in un paese bellissimo, le donne avevano i capelli profumati, c'era luce dappertutto ed era pieno di tigri".

Viaggiava, lui.

E ogni volta finiva in un posto diverso: nel centro di Londra, su un treno in mezzo alla campagna, su una montagna così alta che la neve ti arrivava alla pancia, nella chiesa più grande del mondo, a contare le colonne e guardare in faccia i crocefissi. Viaggiava. Era difficile capire cosa mai potesse saperne lui di chiese, e di neve, e di tigri e... voglio dire, non c'era mai sceso, da quella nave, proprio mai, non era una palla, era tutto vero. Mai sceso. Eppure, era come se le avesse viste, tutte quelle cose. Novecento era uno che se tu gli dicevi "Una volta son stato a Parigi", lui ti chiedeva se avevi visto i giardini tal dei tali, e se avevi mangiato in quel dato posto, sapeva tutto, ti diceva "Quello che a me piace, laggiù, è aspettare il tramonto andando avanti e indietro sul Pont Neuf, e quando passano le chiatte, fermarmi e guardarle da sopra, e salutare con la mano".

"Novecento, ci sei mai stato a Parigi, tu?"

"No."

"E allora..."

"Cioè... sì."

"Sì cosa?"

"Parigi. "

Potevi pensare che era matto. Ma non era così semplice. Quando uno ti racconta con assoluta esattezza che odore c'è in Bertham Street, d'estate, quando ha appena smesso di piovere, non puoi pensare che è matto per la sola stupida ragione che in Bertham Street, lui, non c'è mai stato. Negli occhi di qualcuno, nelle parole di qualcuno, lui, quell'aria, l'aveva respirata davvero. A modo suo: ma davvero. Il mondo, magari, non l'aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l'anima.

In questo era un genio, niente da dire. Sapeva ascoltare. E sapeva leggere. Non i libri, quelli son buoni tutti, sapeva leggere la gente. I segni che la gente si porta addosso: posti, rumori, odori, la loro terra, la loro storia... Tutta scritta, addosso. Lui leggeva, e con cura infinita, catalogava, sistemava, ordinava... Ogni giorno aggiungeva un piccolo pezzo a quella immensa mappa che stava disegnandosi nella testa, immensa, la mappa del mondo, del mondo intero, da un capo all'altro, città enormi e angoli di bar, lunghi fiumi, pozzanghere, aerei, leoni, una mappa meravigliosa. Ci viaggiava sopra da dio, poi, mentre le dita gli scivolavano sui tasti, accarezzando le curve di un ragtime.

(Parte in audio un ragtime malinconico)

Ci vollero degli anni, ma alla fine, un giorno, presi il coraggio a quattro mani e glielo chiesi. Novecento, perché cristo non scendi, una volta, anche solo una volta, perché non lo vai a vedere, il mondo, con gli occhi tuoi, proprio i tuoi. Perché te ne stai su questa galera viaggiante, tu potresti startene sul tuo Pont Neuf a guardare le chiatte e tutto il resto, tu potresti fare quello che vuoi, suoni il pianoforte da dio, impazzirebbero per te, ti faresti un sacco di soldi, e potresti sceglierti la casa più bella che c'è puoi anche fartela a forma di nave, che ti frega? ma te la metteresti dove vuoi, in mezzo alle tigri, magari, o in Bertham Street... diosanto non potrai continuare tutta la vita ad andare avanti e indietro come uno scemo... tu non sei scemo, tu sei grande, e il mondo è lì, c'è solo quella fottuta scaletta da scendere, cosa sarà mai, qualche stupido gradino, cristo, c'è tutto, alla fine di quei gradini, tutto. Perché non la fai finita e te ne scendi da qui, una volta almeno, una sola volta.

Novecento... Perché non scendi?

Perché?

Perché?

Fu d'estate, nell'estate del 1931, che sul Virginian salì Jelly Roll Morton. Tutto vestito di bianco, anche il cappello. E un diamante così al dito.

Lui era uno che quando faceva i concerti scriveva sui manifesti: stasera Jelly Roll Morton, l'inventore del jazz. Non lo scriveva così per dire: ne era convinto: l'inventore del jazz. Suonava il pianoforte.

Sempre un po' seduto di tre quarti, e con due mani che erano farfalle. Leggerissime. Aveva iniziato nei bordelli, a New Orleans, e l'aveva imparato lì a sfiorare i tasti e accarezzare note: facevano l'amore, al piano di sopra, e non volevano baccano. Volevano una musica che scivolasse dietro le tende e sotto i letti, senza disturbare. Lui faceva quella musica lì. E in quello, veramente, era il migliore.

Qualcuno, da qualche parte, un giorno, gli disse di Novecento. Dovettero dirgli una cosa tipo: quello è il più grande. Il più grande pianista del mondo. Può sembrare assurdo, ma era una cosa che poteva succedere. Non aveva mai suonato una sola nota fuori dal Virginian, Novecento, eppure era un personaggio a suo modo celebre, ai tempi, una piccola leggenda. Quelli che scendevano dalla nave raccontavano di una musica strana e di un pianista che sembrava avesse quattro mani, tante note faceva. Giravano storie curiose, anche vere, alle volte, come quella del senatore americano Wilson che si era fatto il viaggio tutto in terza classe, perché era lì che Novecento suonava, quando non suonava le note normali, ma quelle sue, che normali non erano. C'aveva un pianoforte, là sotto, e ci andava di pomeriggio, o la notte tardi. Prima ascoltava: voleva che la gente gli cantasse le canzoni che sapeva, ogni tanto qualcuno tirava fuori una chitarra, o un'armonica, qualcosa, e iniziava a suonare, musiche che venivano da chissà dove... Novecento ascoltava. Poi incominciava a sfiorare i tasti, mentre quelli cantavano o suonavano, sfiorava i tasti e a poco a poco quello diventava un suonare vero e proprio, uscivano dei suoni dal pianoforte - verticale, nero - ed erano suoni dell'altro mondo. C'era dentro tutto: tutte in una volta, tutte le musiche della terra. C'era da rimanere di stucco. E rimase di stucco, il senatore Wilson, a sentire quella roba, e a parte quella storia della terza classe, lui, tutto elegante, in mezzo a quella puzza, perché era puzza vera e propria, a parte quella storia, lo dovettero portare giù di forza, all'arrivo, perché se era per lui sarebbe rimasto là sopra, a sentire Novecento per tutto il resto dei fottuti anni che gli restavano da vivere. Davvero. Lo scrissero sui giornali, ma era vero sul serio. Era proprio andata così.

Insomma, qualcuno andò da Jelly Roll Morton e gli disse: su quella nave c'è uno che col pianoforte fa quel che vuole. E quando ha voglia suona il jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme. Jelly Roll Morton aveva un caratterino, lo sapevano tutti. Disse: "Come fa a suonare bene uno che non ha nemmeno le palle per scendere da una stupida nave?". E giù a ridere, come un matto, lui, l'inventore del jazz. Poteva finire lì, solo che uno a quel punto disse: "Fai bene a ridere perché se solo quello si decide a scendere tu ritorni a suonare nei bordelli, com'è vero Iddio, nei bordelli". Jelly Roll smise di ridere, tirò fuori dalla tasca una piccola pistola col calcio di madreperla, la puntò alla testa del tizio che aveva parlato e non sparò: però disse: "Dov'è 'sto cazzo di nave? ".

Quel che aveva in mente era un duello. Si usava, allora. Si sfidavano a colpi di pezzi di bravura e alla fine uno vinceva. Cose da musicisti.