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Uno, nessuno e centomila - Pirandello, LIBRO QUINTO (2)

LIBRO QUINTO (2)

VI. Moltiplicazione e sottrazione

Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabulazione con mia moglie Dida.

Com'erano a posto, sicuri, seduti tutt'e due nel salottino chiaro in penombra; l'uno grasso e nero, affondato nel divano verde; l'altra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me, perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:

«Oh, eccolo qua!»

E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l'altro che entrava con me, pur sapendo bene che il "caro Vitangelo" del mio paterno Quantorzo non solo era anch'esso in me come il Gengè di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero che il suo caro Vitangelo, proprio come per Dida altri che il suo "Gengè". Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me, non faceva un piú ma un meno, in quanto voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.

Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d'ogni consistenza apparente, concepiva l'orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.

Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.

«Chi cerchi?»

M'affrettai a risponderle, sorridendo:

«Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!»

Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel "nessuno" cercato accanto a me; e credettero che con quell'"eccoci" mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lí dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io - per me stesso - ormai non contavo piú.

Voglio dire:

1.Dida, com'era per sé;

2.Dida, com'era per me;

3.Dida, com'era per Quantorzo;

4.Quantorzo, com'era per sé;

5.Quantorzo, com'era per Dida;

6.Quantorzo, com'era per me;

7.il caro Gengè di Dida;

8.il caro Vitangelo di Quantorzo.

S'apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.

VII. Ma io intanto dicevo tra me

(Oh Dio mio, e non sentiranno ora venir meno a un tratto la loro bella sicurezza, vedendosi guardati da questi miei occhi che non sanno quello che vedono?

Fermarsi per un poco a guardare uno che stia facendo anche la cosa piú ovvia e consueta della vita; guardarlo in modo da fargli sorgere il dubbio che a noi non sia chiaro ciò che egli stia facendo e che possa anche non esser chiaro a lui stesso: basta questo perché quella sicurezza s'aombri e vacilli. Nulla turba e sconcerta piú di due occhi vani che dimostrino di non vederci, o di non vedere ciò che noi vediamo.

«Perché guardi cosí?»

E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre cosí, ciascuno con gli occhi pieni dell'orrore della propria solitudine senza scampo).

VIII. Il punto vivo

Quantorzo, difatti, cominciò presto a turbarsi, non appena i suoi occhi s'infrontarono coi miei; a smarrirsi, parlando; tanto che senza volerlo accennava di tratto in tratto di levare una mano, come per dire: "No, aspetta".

Ma non tardai a scoprire l'inganno.

Si smarriva cosí, non già perché il mio sguardo gli facesse vacillare la sicurezza di sé, ma perché gli era parso di leggermi negli occhi che io avessi già compreso la ragione riposta per cui era venuto a farmi quella visita: che era di legarmi mani e piedi, d'intesa con Firbo, protestando che non avrebbe potuto piú fare il direttore della banca, se io intendevo d'arrogarmi il diritto di compiere altri atti improvvisi e arbitrarii, di cui né lui né Firbo avrebbero potuto assumersi la responsabilità.

Allora, certo di questo, mi proposi di sconcertarlo, non però subitaneamente come avevo fatto l'altra volta parlando e gestendo come un pazzo davanti a lui e a Firbo, ma al contrario; per il gusto di vedere come se ne sarebbe andato via, dopo essere venuto cosí fermo in quel proposito; il gusto, dico, che poteva darmi quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n'avessi piú bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei detta, il tono con cui l'avrei detta, tale da frastornarlo e da fargli cangiar l'animo, e con l'animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sé se la sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.

Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:

«Ancora?»

Difatti si stizzí:

«Ancora? caro mio! Ci hai fatto trovare tutti gl'incartamenti dello scaffale in tale scompiglio che gli ci vorranno a dir poco due mesi per rimetterli in ordine.

Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:

«Vedi, cara, tu che credevi una burla?»

Dida mi guardò subito incerta; poi guardò Quantorzo; poi di nuovo me; e infine domandò, con apprensione:

«Ma insomma, che hai fatto?»

Con la mano le feci segno d'aspettare. Ancora piú serio mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:

«Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor Firbo? E perché non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io?»

Ed ecco che Quantorzo s'agitò sul divano e una ventina di volte batté le pàlpebre come per richiamarsi istintivamente all'attenzione dallo sbalordimento in cui cadeva, piú che per la domanda, per il tono di sfida con cui l'avevo proferita.

«Che... che vi hai trovato?» balbettò.

Risposi subito, accompagnando le parole col gesto:

«Un palmo di polvere: cosí!»

Si guardarono negli occhi, storditi; perché quel tono escludeva che per sciocchezza avessi detto quella cosa in sé sciocca: e nello stordimento Quantorzo ripeté:

«Un palmo di polvere? che significa?»

«Significa, oh bella, che dormivano tutti quegli incartamenti. Da anni! Un palmo, dico un palmo di polvere. E difatti, una casa sfitta; e di quell'altra là, chi sa da quanto tempo non si riscoteva piú la pigione!

Quantorzo - non me l'aspettavo - finse lui questa volta di trasecolare piú che mai:

«Ah,» fece, «e tu allora le svegli cosí, le case: regalandole?»

«No, caro mio,» gli gridai subito, riscaldandomi, un pò, sí, ad arte, ma anche sul serio un pò. «No, caro mio! Per dimostrarvi che v'ingannate di molto ma di molto sul conto mio, tu, Firbo, tutti quanti siete! Parlo, parlo, dico sciocchezze, faccio lo svagato; ma non è vero, sai? perché osservo tutto io, invece; osservo tutto!»

Quantorzo - questa volta sí, come m'aspettavo - tentò di reagire ed esclamò:

«Ma che osservi? Ma fa' il piacere! La polvere dello scaffale osservi!»

«E le mie mani,» mi venne d'aggiungere subito, non so perché, presentandole: con un tal tono di voce che destò all'improvviso in me stesso un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell'atto di sollevar le mani per rubare a me stesso l'incartamento, dopo avere immaginato là dentro quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della dita.

«Vengo alla banca,» seguitai, stanco tutt'a un tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell'una e dell'altro, «vengo alla banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa.» Guardai di traverso Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perché forse il Quantorzo di Dida, no, che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse, avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com'io del mio avrei potuto giurare.) A ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d'occhi sgranò nel domandarmi:

«Che ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi di noi?»

«Non diffido, non diffido; non tengo spie,» m'affrettai a rassicurarlo. «Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio padre?»

«Punto per punto!»

«Non ne dubito. Ma siete riparati, voi, dico per la vostra parte, dall'ufficio che tenete: l'uno di direttore, l'altro di consulente legale. Mio padre, per disgrazia, non c'è piú.

Vorrei sapere chi risponde degli atti della banca davanti al paese.

«Come, chi risponde?» fece Quantorzo. «Ma noi, noi! E appunto perché ne rispondiamo noi, vorremmo essere sicuri che tu non abbia ancora a immischiartene, intervenendo con certi atti; senti, dico inconsulti per non dire altro!»

Negai prima col dito; poi dissi, placido:

«Non è vero. Voi no; se seguite punto per punto le norme di mio padre. Davanti a me, tutt'al piú, potreste risponderne voi, se non le seguiste e io ve ne domandassi conto e ragione. Ora dico davanti al paese: chi ne risponde? Ne rispondo io che firmo i vostri atti: io! io! E mi devo veder questa: che voi la mia firma sí, la volete sotto tutti gli atti che fate voi; e mi negate poi la vostra per quell'uno che faccio io.»

Doveva essersi impaurito ben bene, perché a questo punto gli vidi dare tre allegri balzi sul divano, esclamando:

«Oh bella! oh bella! oh bella! Ma perché noi, i nostri, sono quelli normali della banca! Mentre il tuo, scusa, me lo fai dire tu, è stato proprio da pazzo! da pazzo!»

Scattai in piedi; gli appuntai l'indice d'una mano contro il petto, come un'arma.

«E tu mi credi pazzo?»

«Ma no!» fece, smorendo subito sotto la minaccia di quel dito.

«No, eh?» gli gridai tenendolo fermo con gli occhi. «Resta intanto assodato questo tra noi, bada!»

Quantorzo, allora, rimasto come a mezz'aria, vagellò; non già perché gli nascesse lí per lí di nuovo il dubbio ch'io potessi anche esser pazzo per davvero, no; ma perché, non comprendendo la ragione per cui mi premeva d'assodare ch'egli non m'aveva per tale, nell'incertezza, temendo un'insidia da parte mia, quasi quasi si pentiva d'aver detto di no cosí in prima, e tentò di disdirsi con un mezzo sorriso.

«No, aspetta... ma devi convenire...»

Che bella cosa! ah che bella cosa! Ora Dida, seguitando a guardare accigliata un pò me e un pò Quartorzo, dava a vedere chiaramente che non sapeva piú che pensare cosí di lui come di me. Quel mio scatto, quella mia domanda a bruciapelo, che per lei – s'intende - erano stati uno scatto e una domanda del suo Gengè; e del tutto incomprensibili come di lui, se non a patto che Quantorzo lí presente e il signor Firbo avessero commesso qualche mancanza cosí enorme da renderlo ora, Dio mio, proprio irriconoscibile il suo Gengè, di fronte al momentaneo smarrimento di Quantorzo; quello scatto, dico, e quella domanda avevano avuto l'effetto di farla dubitare piú che mai della posata assennatezza di quel suo rispettabile Quantorzo. E cosí palesemente esprimeva con gli occhi questo dubbio, che Quantorzo, appena pensò di rivolgersi anche a lei, in quel tentativo di disdirsi col suo mezzo sorriso, piú che piú si smarrí, avvertendo subito che gli mancava accanto una certezza di consenso, su cui finora aveva creduto di potersi fidare.

Scoppiai a ridere; ma né l'uno né l'altra ne indovinarono la ragione; fui tentato di gridargliela in faccia, scrollandoli: "Ma vedete? vedete? E come potete essere allora cosí sicuri se da un minuto all'altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri? ".

«Lascia andare!» troncai con un atto di sdegno, per significargli che la stima che poteva essersi fatta di me, della mia sanità mentale, non aveva piú, almeno per il momento, alcuna importanza. «Rispondi a me. Ho visto alla banca bilance e bilancine. Vi servono per pesare i pegni, è vero? Ma tu, dimmi un pò: tu, tu, sulla tua coscienza, li hai mai pesati, tu, col peso che possono avere per gli altri, codesti che chiami gli atti normali della banca?

A questa domanda Quantorzo si guardò di nuovo attorno, quasi che da altri, oltre che da me, si sentisse ancora, proditoriamente, tirare fuor di strada.

«Come, sulla mia coscienza?»

«Credi che non c'entri?» ribattei subito. «Eh, lo so! E forse credi che non c'entri neppure la mia, perché ve l'ho lasciata per tanti anni alla banca, con tutto l'altro patrimonio, ad amministrare secondo le norme di mio padre.

«Ma la banca...» si provò a obiettare Quantorzo.

Scattai di nuovo:

«La banca... la banca... Non sai veder altro che la banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell'usurajo!»

A questa uscita inattesa Quantorzo balzò in piedi a sua volta, come se avessi detto la piú fiera delle bestemmie o la piú madornale delle bestialità; e, fingendo di scapparsene: «Uh, Dio benedetto!» esclamò con le braccia levate; e, di nuovo: «Uh, Dio benedetto!» ritornando indietro, con la testa tra le mani e guardando mia moglie, come per dirle: "Ma sente, ma sente che bambinate? E io che supponevo che avesse da dirmi una cosa seria!". M'afferrò per le braccia, forse per scuotermi dallo sbalordimento che a mia volta m'aveva cagionato istintivamente quella sua mimica furiosa e mi gridò:

«Ma ti dai sul serio pensiero di questo? Eh via! eh via!»

E per prendersi la rivincita m'additò in prova a mia moglie che rideva, ah rideva, si buttava via dalle risa, certo per quello che avevo detto, ma fors'anche per l'effetto di quelle mie parole su Quantorzo, nonché per lo sbalordimento che n'era seguito in me e che senza dubbio ridestava in lei finalmente la piú lampante immagine della nota e cara sciocchezza del suo Gengè.»

Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all'improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento, nell'animo con cui un pò m'ero messo e un pò lasciato andare a quella discussione: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; tanto finora m'era apparso chiaro ch'io alla presenza di quei due, io come io, non ci fossi, e ci fossero invece il "Gengè" dell'una e il "caro Vitangelo"dell'altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.

Fuori d'ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d'ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un "punto vivo" in me s'era sentito ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.

«Finiscila di ridere!» gridai, ma con tal voce, a mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d'un tratto ammutolí, scontraffacendosi tutta.

«E tu stai bene attento a quello che ti dico,» soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera stessa.»

«Chiusa? Che dici?»

«Chiusa! chiusa!» ribattei, facendomegli addosso. «Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sí o no?»

«No, caro! Che padrone!» insorse. «Non sei mica tu solo il padrone.»

«E chi altri? tu? il signor Firbo?»

«Ma tuo suocero, ma tanti altri!»

«Però la banca porta soltanto il mio nome.»

«No, di tuo padre che la fondò!»

«Ebbene, voglio che sia levato!»

«Ma che levato! Non è possibile!»

«Oh guarda un pò. Non sono padrone del mio nome? del nome di mio padre?»

«No, perché è negli atti di costituzione della banca, quel nome; è il nome della banca: creatura di tuo padre, tal quale come te! E ne porta il nome con lo stesso stessissimo tuo diritto!»

«Ah è cosí.»

«Cosí, cosí!»

«E il danaro? Quello che mio padre ci mise, di suo?»

«Ha investito nelle operazioni della banca.»

«E se io non voglio piú? Se voglio ritirarlo per investirlo altrimenti, a piacer mio, non sono padrone?»

«Ma tu cosí butti all'aria la banca!»

«E che vuoi che me n'importi? Non voglio più saperne, ti dico!»

«Ma importa agli altri, se permetti! Tu rovini gli interessi degli altri, i tuoi stessi, quelli di tua moglie, di tuo suocero!»

«Nient'affatto! Gli altri facciano quello che vogliono: séguitino a tenerci il loro: io ritiro il mio.»

«Vorresti mettere dunque in liquidazione la banca?»

«So un corno io di queste cose! So che voglio, "voglio" capisci? voglio ritirare i miei denari, e basta cosí!»

Vedo bene adesso che questi violenti diverbii, cosí a botta e risposta, sono veri e proprii pugilati tra due avverse volontà che cercano d'accopparsi a vicenda, colpendo, parando, ribattendo, sicura ciascuna che il colpo assestato debba atterrare l'altra; fin tanto che all'una e all'altra non venga dalla resistente durezza d'ogni ribattuta avversaria la prova sempre piú convincente che inutile è insistere poiché l'altra non cede. E la piú ridicola figura l'hanno fatta intanto i pugni veri levandosi istintivamente ad accompagnare irosi quelli parlati, o meglio, urlati, proprio fino all'altezza del grugno avversario ma senza toccarlo, e i denti che si serrano e i nasi che s'arricciano e le ciglia che s'aggrottano e tutta la persona che freme.

Con l'ultima scarica di quei tre "voglio", "voglio", "voglio" dovevo aver bene ammaccata la resistenza di Quantorzo. Gli vidi congiungere le mani in atto di preghiera:

«Ma si può sapere almeno perché? Cosí da un momento all'altro?»

Ebbi, vedendolo in quell'atto, come una vertigine. D'improvviso avvertii che spiegare lí per lí a lui e a mia moglie che pendevano da me, l'uno supplichevole e l'altra ansiosa e spaventata, i motivi di quella mia testarda risoluzione, di tanta gravità per tutti, non mi sarebbe stato possibile. Quei motivi, che pur sentivo in me aggrovigliati in quel momento e sottili e contorti dai lunghi spasimi delle mie tante meditazioni, non erano piú chiari del resto neanche a me stesso, strappato dalla concitazione dell'ira a quella terribile fissità di luce che folgorava tetra da quanto avevo cosí solitariamente scoperto: tenebra per tutti gli altri che vivevano ciechi e sicuri nella pienezza abituale dei loro sentimenti. Avvertii subito che, a svelarne appena appena uno solo, sarei parso irremissibilmente pazzo all'uno e all'altra: che, per esempio, non m'ero mai veduto fino a poco tempo addietro com'essi mi avevano sempre veduto, cioè uno che vivesse tranquillo e svagato sull'usura di quella banca, pur senza doverla riconoscere apertamente. L'avevo appena appena riconosciuto in loro presenza, ed ecco che all'uno e all'altra era sembrata un'ingenuità cosí inverosimile da suscitare nell'uno quella comica furiosa mimica e nell'altra quell'interminabile risata. E come dunque dir loro che su questa "ingenuità" appunto, ai loro occhi quasi incredibile, io fondavo tutto il peso di quella risoluzione? Ma se usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi? Non m'ero visto io stesso sulla strada maestra della pazzia incamminato a compiere un atto che agli occhi di tutti doveva apparire appunto contrario a me stesso e incoerente, ponendo fuori di me la mia volontà, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca? Non avevo io stesso riconosciuto che il signor usurajo Vitangelo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva in alcun modo distruggere?

Ebbene, ma questo, proprio questo, era il "punto vivo" ferito in me, che m'accecava e mi toglieva in quel momento la comprensione di tutto: che usurajo no, quell'usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo piú essere neanche per gli altri e non sarei piú stato, anche a costo della rovina di tutte le condizioni della mia vita. Ed era finalmente in me un sentimento, questo, ben cementato dalla volontà che mi dava (benché lo avvertissi fin d'allora con una certa apprensione e diffidenza) la stessa consistente solidità degli altri sorda e chiusa in sé come una pietra. Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento, scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:

«Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come voglio sarà fatto!»

Mi voltai a Quantorzo.

«Hai capito?»

E uscii, furioso, dal salotto.


LIBRO QUINTO (2) LIVRO CINCO (2)

VI. Moltiplicazione e sottrazione

Rientrando in casa, vi trovai Quantorzo in seria confabulazione con mia moglie Dida.

Com'erano a posto, sicuri, seduti tutt'e due nel salottino chiaro in penombra; l'uno grasso e nero, affondato nel divano verde; l'altra esile e bianca nella sua veste tutta a falbalà, in punta in punta e di tre quarti sulla poltrona accanto, con una freccia di sole sulla nuca. Parlavano certo di me, perché, come mi videro entrare, esclamarono a un tempo:

«Oh, eccolo qua!»

E poiché erano due a vedermi entrare, mi venne la tentazione di voltarmi a cercare l'altro che entrava con me, pur sapendo bene che il "caro Vitangelo" del mio paterno Quantorzo non solo era anch'esso in me come il Gengè di mia moglie Dida, ma che io tutto quanto, per Quantorzo, altri non ero che il suo caro Vitangelo, proprio come per Dida altri che il suo "Gengè". Due, dunque, non agli occhi loro, ma soltanto per me che mi sapevo per quei due uno e uno; il che per me, non faceva un piú ma un meno, in quanto voleva dire che ai loro occhi, io come io, non ero nessuno.

Ai loro occhi soltanto? Anche per me, anche per la solitudine del mio spirito che, in quel momento, fuori d'ogni consistenza apparente, concepiva l'orrore di vedere il proprio corpo per sé come quello di nessuno nella diversa incoercibile realtà che intanto gli davano quei due.

Mia moglie, nel vedermi voltare, domandò.

«Chi cerchi?»

M'affrettai a risponderle, sorridendo:

«Ah, nessuno, cara, nessuno. Eccoci qua!»

Non compresero, naturalmente, che cosa intendessi dire con quel "nessuno" cercato accanto a me; e credettero che con quell'"eccoci" mi riferissi anche a loro due, sicurissimi che lí dentro quel salotto fossimo ora in tre e non in nove; o piuttosto, in otto, visto che io - per me stesso - ormai non contavo piú.

Voglio dire:

1.Dida, com'era per sé;

2.Dida, com'era per me;

3.Dida, com'era per Quantorzo;

4.Quantorzo, com'era per sé;

5.Quantorzo, com'era per Dida;

6.Quantorzo, com'era per me;

7.il caro Gengè di Dida;

8.il caro Vitangelo di Quantorzo.

S'apparecchiava in quel salotto, fra quegli otto che si credevano tre, una bella conversazione.

VII. Ma io intanto dicevo tra me

(Oh Dio mio, e non sentiranno ora venir meno a un tratto la loro bella sicurezza, vedendosi guardati da questi miei occhi che non sanno quello che vedono?

Fermarsi per un poco a guardare uno che stia facendo anche la cosa piú ovvia e consueta della vita; guardarlo in modo da fargli sorgere il dubbio che a noi non sia chiaro ciò che egli stia facendo e che possa anche non esser chiaro a lui stesso: basta questo perché quella sicurezza s'aombri e vacilli. Nulla turba e sconcerta piú di due occhi vani che dimostrino di non vederci, o di non vedere ciò che noi vediamo.

«Perché guardi cosí?»

E nessuno pensa che tutti dovremmo guardare sempre cosí, ciascuno con gli occhi pieni dell'orrore della propria solitudine senza scampo).

VIII. Il punto vivo

Quantorzo, difatti, cominciò presto a turbarsi, non appena i suoi occhi s'infrontarono coi miei; a smarrirsi, parlando; tanto che senza volerlo accennava di tratto in tratto di levare una mano, come per dire: "No, aspetta".

Ma non tardai a scoprire l'inganno.

Si smarriva cosí, non già perché il mio sguardo gli facesse vacillare la sicurezza di sé, ma perché gli era parso di leggermi negli occhi che io avessi già compreso la ragione riposta per cui era venuto a farmi quella visita: che era di legarmi mani e piedi, d'intesa con Firbo, protestando che non avrebbe potuto piú fare il direttore della banca, se io intendevo d'arrogarmi il diritto di compiere altri atti improvvisi e arbitrarii, di cui né lui né Firbo avrebbero potuto assumersi la responsabilità.

Allora, certo di questo, mi proposi di sconcertarlo, non però subitaneamente come avevo fatto l'altra volta parlando e gestendo come un pazzo davanti a lui e a Firbo, ma al contrario; per il gusto di vedere come se ne sarebbe andato via, dopo essere venuto cosí fermo in quel proposito; il gusto, dico, che poteva darmi quella sua guerriera fermezza di dimostrarmi ancora una volta, senza che n'avessi piú bisogno, come un nonnulla sarebbe bastato a fargliela crollare: una parola che avrei detta, il tono con cui l'avrei detta, tale da frastornarlo e da fargli cangiar l'animo, e con l'animo, per forza, tutta quella sua solidissima realtà, come ora dentro di sé se la sentiva, e fuori se la vedeva e se la toccava.

Appena mi disse che Firbo specialmente non si poteva dar pace di quanto avevo fatto, gli domandai con un sorriso fatuo, per farlo stizzire:

«Ancora?»

Difatti si stizzí:

«Ancora? caro mio! Ci hai fatto trovare tutti gl'incartamenti dello scaffale in tale scompiglio che gli ci vorranno a dir poco due mesi per rimetterli in ordine.

Mi feci allora molto serio e, rivolto a Dida:

«Vedi, cara, tu che credevi una burla?»

Dida mi guardò subito incerta; poi guardò Quantorzo; poi di nuovo me; e infine domandò, con apprensione:

«Ma insomma, che hai fatto?»

Con la mano le feci segno d'aspettare. Ancora piú serio mi rivolsi a Quantorzo e gli dissi:

«Ha trovato lo scompiglio nello scaffale il signor Firbo? E perché non ti provi ora a domandare, tu a me, che cosa ci ho trovato io?»

Ed ecco che Quantorzo s'agitò sul divano e una ventina di volte batté le pàlpebre come per richiamarsi istintivamente all'attenzione dallo sbalordimento in cui cadeva, piú che per la domanda, per il tono di sfida con cui l'avevo proferita.

«Che... che vi hai trovato?» balbettò.

Risposi subito, accompagnando le parole col gesto:

«Un palmo di polvere: cosí!»

Si guardarono negli occhi, storditi; perché quel tono escludeva che per sciocchezza avessi detto quella cosa in sé sciocca: e nello stordimento Quantorzo ripeté:

«Un palmo di polvere? che significa?»

«Significa, oh bella, che dormivano tutti quegli incartamenti. Da anni! Un palmo, dico un palmo di polvere. E difatti, una casa sfitta; e di quell'altra là, chi sa da quanto tempo non si riscoteva piú la pigione!

Quantorzo - non me l'aspettavo - finse lui questa volta di trasecolare piú che mai:

«Ah,» fece, «e tu allora le svegli cosí, le case: regalandole?»

«No, caro mio,» gli gridai subito, riscaldandomi, un pò, sí, ad arte, ma anche sul serio un pò. «No, caro mio! Per dimostrarvi che v'ingannate di molto ma di molto sul conto mio, tu, Firbo, tutti quanti siete! Parlo, parlo, dico sciocchezze, faccio lo svagato; ma non è vero, sai? perché osservo tutto io, invece; osservo tutto!»

Quantorzo - questa volta sí, come m'aspettavo - tentò di reagire ed esclamò:

«Ma che osservi? Ma fa' il piacere! La polvere dello scaffale osservi!»

«E le mie mani,» mi venne d'aggiungere subito, non so perché, presentandole: con un tal tono di voce che destò all'improvviso in me stesso un brivido, rivedendomi col pensiero in quello stanzino dello scaffale nell'atto di sollevar le mani per rubare a me stesso l'incartamento, dopo avere immaginato là dentro quelle di mio padre, bianche, grasse, piene di anelli e coi peli rossi sul dorso della dita.

«Vengo alla banca,» seguitai, stanco tutt'a un tratto e nauseato, tra il crescente sbalordimento dell'una e dell'altro, «vengo alla banca solo quando mi chiamate a firmare; ma state attenti che non ho neanche bisogno di venirci, io, alla banca, per sapere tutto ciò che vi si fa.» Guardai di traverso Quantorzo; mi parve pallidissimo. (Ma oh, badiamo, dico sempre quello mio; perché forse il Quantorzo di Dida, no, che seppure anche a Dida sarà parso che il suo impallidisse, avrà forse creduto per isdegno e non per paura, com'io del mio avrei potuto giurare.) A ogni modo, le mani se le portò subito al petto per davvero; e gli occhi, tanto d'occhi sgranò nel domandarmi:

«Che ci tieni dunque le spie? Ah dunque tu diffidi di noi?»

«Non diffido, non diffido; non tengo spie,» m'affrettai a rassicurarlo. «Osservo, fuori, gli effetti delle vostre operazioni; e mi basta. Rispondi a me: tu e Firbo, è vero? seguite nel trattare gli affari le norme di mio padre?»

«Punto per punto!»

«Non ne dubito. Ma siete riparati, voi, dico per la vostra parte, dall'ufficio che tenete: l'uno di direttore, l'altro di consulente legale. Mio padre, per disgrazia, non c'è piú.

Vorrei sapere chi risponde degli atti della banca davanti al paese.

«Come, chi risponde?» fece Quantorzo. «Ma noi, noi! E appunto perché ne rispondiamo noi, vorremmo essere sicuri che tu non abbia ancora a immischiartene, intervenendo con certi atti; senti, dico inconsulti per non dire altro!»

Negai prima col dito; poi dissi, placido:

«Non è vero. Voi no; se seguite punto per punto le norme di mio padre. Davanti a me, tutt'al piú, potreste risponderne voi, se non le seguiste e io ve ne domandassi conto e ragione. Ora dico davanti al paese: chi ne risponde? Ne rispondo io che firmo i vostri atti: io! io! E mi devo veder questa: che voi la mia firma sí, la volete sotto tutti gli atti che fate voi; e mi negate poi la vostra per quell'uno che faccio io.»

Doveva essersi impaurito ben bene, perché a questo punto gli vidi dare tre allegri balzi sul divano, esclamando:

«Oh bella! oh bella! oh bella! Ma perché noi, i nostri, sono quelli normali della banca! Mentre il tuo, scusa, me lo fai dire tu, è stato proprio da pazzo! da pazzo!»

Scattai in piedi; gli appuntai l'indice d'una mano contro il petto, come un'arma.

«E tu mi credi pazzo?»

«Ma no!» fece, smorendo subito sotto la minaccia di quel dito.

«No, eh?» gli gridai tenendolo fermo con gli occhi. «Resta intanto assodato questo tra noi, bada!»

Quantorzo, allora, rimasto come a mezz'aria, vagellò; non già perché gli nascesse lí per lí di nuovo il dubbio ch'io potessi anche esser pazzo per davvero, no; ma perché, non comprendendo la ragione per cui mi premeva d'assodare ch'egli non m'aveva per tale, nell'incertezza, temendo un'insidia da parte mia, quasi quasi si pentiva d'aver detto di no cosí in prima, e tentò di disdirsi con un mezzo sorriso.

«No, aspetta... ma devi convenire...»

Che bella cosa! ah che bella cosa! Ora Dida, seguitando a guardare accigliata un pò me e un pò Quartorzo, dava a vedere chiaramente che non sapeva piú che pensare cosí di lui come di me. Quel mio scatto, quella mia domanda a bruciapelo, che per lei – s'intende - erano stati uno scatto e una domanda del suo Gengè; e del tutto incomprensibili come di lui, se non a patto che Quantorzo lí presente e il signor Firbo avessero commesso qualche mancanza cosí enorme da renderlo ora, Dio mio, proprio irriconoscibile il suo Gengè, di fronte al momentaneo smarrimento di Quantorzo; quello scatto, dico, e quella domanda avevano avuto l'effetto di farla dubitare piú che mai della posata assennatezza di quel suo rispettabile Quantorzo. E cosí palesemente esprimeva con gli occhi questo dubbio, che Quantorzo, appena pensò di rivolgersi anche a lei, in quel tentativo di disdirsi col suo mezzo sorriso, piú che piú si smarrí, avvertendo subito che gli mancava accanto una certezza di consenso, su cui finora aveva creduto di potersi fidare.

Scoppiai a ridere; ma né l'uno né l'altra ne indovinarono la ragione; fui tentato di gridargliela in faccia, scrollandoli: "Ma vedete? vedete? E come potete essere allora cosí sicuri se da un minuto all'altro una minima impressione basta a farvi dubitare di voi stessi e degli altri? ".

«Lascia andare!» troncai con un atto di sdegno, per significargli che la stima che poteva essersi fatta di me, della mia sanità mentale, non aveva piú, almeno per il momento, alcuna importanza. «Rispondi a me. Ho visto alla banca bilance e bilancine. Vi servono per pesare i pegni, è vero? Ma tu, dimmi un pò: tu, tu, sulla tua coscienza, li hai mai pesati, tu, col peso che possono avere per gli altri, codesti che chiami gli atti normali della banca?

A questa domanda Quantorzo si guardò di nuovo attorno, quasi che da altri, oltre che da me, si sentisse ancora, proditoriamente, tirare fuor di strada.

«Come, sulla mia coscienza?»

«Credi che non c'entri?» ribattei subito. «Eh, lo so! E forse credi che non c'entri neppure la mia, perché ve l'ho lasciata per tanti anni alla banca, con tutto l'altro patrimonio, ad amministrare secondo le norme di mio padre.

«Ma la banca...» si provò a obiettare Quantorzo.

Scattai di nuovo:

«La banca... la banca... Non sai veder altro che la banca, tu. Ma tocca a me poi, fuori, a sentirmi dare dell'usurajo!»

A questa uscita inattesa Quantorzo balzò in piedi a sua volta, come se avessi detto la piú fiera delle bestemmie o la piú madornale delle bestialità; e, fingendo di scapparsene: «Uh, Dio benedetto!» esclamò con le braccia levate; e, di nuovo: «Uh, Dio benedetto!» ritornando indietro, con la testa tra le mani e guardando mia moglie, come per dirle: "Ma sente, ma sente che bambinate? E io che supponevo che avesse da dirmi una cosa seria!". M'afferrò per le braccia, forse per scuotermi dallo sbalordimento che a mia volta m'aveva cagionato istintivamente quella sua mimica furiosa e mi gridò:

«Ma ti dai sul serio pensiero di questo? Eh via! eh via!»

E per prendersi la rivincita m'additò in prova a mia moglie che rideva, ah rideva, si buttava via dalle risa, certo per quello che avevo detto, ma fors'anche per l'effetto di quelle mie parole su Quantorzo, nonché per lo sbalordimento che n'era seguito in me e che senza dubbio ridestava in lei finalmente la piú lampante immagine della nota e cara sciocchezza del suo Gengè.»

Ebbene, da quella risata mi sentii ferire all'improvviso come non mi sarei mai aspettato che potesse accadermi in quel momento, nell'animo con cui un pò m'ero messo e un pò lasciato andare a quella discussione: ferire addentro in un punto vivo di me che non avrei saputo dire né che né dove fosse; tanto finora m'era apparso chiaro ch'io alla presenza di quei due, io come io, non ci fossi, e ci fossero invece il "Gengè" dell'una e il "caro Vitangelo"dell'altro; nei quali non potevo sentirmi vivo.

Fuori d'ogni immagine in cui potessi rappresentarmi vivo a me stesso, come qualcuno anche per me, fuori d'ogni immagine di me quale mi figuravo potesse essere per gli altri; un "punto vivo" in me s'era sentito ferire cosí addentro, che perdetti il lume degli occhi.

«Finiscila di ridere!» gridai, ma con tal voce, a mia moglie, che questa, guardandomi (e chi sa che viso dovette vedermi) d'un tratto ammutolí, scontraffacendosi tutta.

«E tu stai bene attento a quello che ti dico,» soggiunsi subito, rivolto a Quantorzo. «Voglio che la banca sia chiusa questa sera stessa.»

«Chiusa? Che dici?»

«Chiusa! chiusa!» ribattei, facendomegli addosso. «Voglio che sia chiusa. Sono il padrone, sí o no?»

«No, caro! Che padrone!» insorse. «Non sei mica tu solo il padrone.»

«E chi altri? tu? il signor Firbo?»

«Ma tuo suocero, ma tanti altri!»

«Però la banca porta soltanto il mio nome.»

«No, di tuo padre che la fondò!»

«Ebbene, voglio che sia levato!»

«Ma che levato! Non è possibile!»

«Oh guarda un pò. Non sono padrone del mio nome? del nome di mio padre?»

«No, perché è negli atti di costituzione della banca, quel nome; è il nome della banca: creatura di tuo padre, tal quale come te! E ne porta il nome con lo stesso stessissimo tuo diritto!»

«Ah è cosí.»

«Cosí, cosí!»

«E il danaro? Quello che mio padre ci mise, di suo?»

«Ha investito nelle operazioni della banca.»

«E se io non voglio piú? Se voglio ritirarlo per investirlo altrimenti, a piacer mio, non sono padrone?»

«Ma tu cosí butti all'aria la banca!»

«E che vuoi che me n'importi? Non voglio più saperne, ti dico!»

«Ma importa agli altri, se permetti! Tu rovini gli interessi degli altri, i tuoi stessi, quelli di tua moglie, di tuo suocero!»

«Nient'affatto! Gli altri facciano quello che vogliono: séguitino a tenerci il loro: io ritiro il mio.»

«Vorresti mettere dunque in liquidazione la banca?»

«So un corno io di queste cose! So che voglio, "voglio" capisci? voglio ritirare i miei denari, e basta cosí!»

Vedo bene adesso che questi violenti diverbii, cosí a botta e risposta, sono veri e proprii pugilati tra due avverse volontà che cercano d'accopparsi a vicenda, colpendo, parando, ribattendo, sicura ciascuna che il colpo assestato debba atterrare l'altra; fin tanto che all'una e all'altra non venga dalla resistente durezza d'ogni ribattuta avversaria la prova sempre piú convincente che inutile è insistere poiché l'altra non cede. E la piú ridicola figura l'hanno fatta intanto i pugni veri levandosi istintivamente ad accompagnare irosi quelli parlati, o meglio, urlati, proprio fino all'altezza del grugno avversario ma senza toccarlo, e i denti che si serrano e i nasi che s'arricciano e le ciglia che s'aggrottano e tutta la persona che freme.

Con l'ultima scarica di quei tre "voglio", "voglio", "voglio" dovevo aver bene ammaccata la resistenza di Quantorzo. Gli vidi congiungere le mani in atto di preghiera:

«Ma si può sapere almeno perché? Cosí da un momento all'altro?»

Ebbi, vedendolo in quell'atto, come una vertigine. D'improvviso avvertii che spiegare lí per lí a lui e a mia moglie che pendevano da me, l'uno supplichevole e l'altra ansiosa e spaventata, i motivi di quella mia testarda risoluzione, di tanta gravità per tutti, non mi sarebbe stato possibile. Quei motivi, che pur sentivo in me aggrovigliati in quel momento e sottili e contorti dai lunghi spasimi delle mie tante meditazioni, non erano piú chiari del resto neanche a me stesso, strappato dalla concitazione dell'ira a quella terribile fissità di luce che folgorava tetra da quanto avevo cosí solitariamente scoperto: tenebra per tutti gli altri che vivevano ciechi e sicuri nella pienezza abituale dei loro sentimenti. Avvertii subito che, a svelarne appena appena uno solo, sarei parso irremissibilmente pazzo all'uno e all'altra: che, per esempio, non m'ero mai veduto fino a poco tempo addietro com'essi mi avevano sempre veduto, cioè uno che vivesse tranquillo e svagato sull'usura di quella banca, pur senza doverla riconoscere apertamente. L'avevo appena appena riconosciuto in loro presenza, ed ecco che all'uno e all'altra era sembrata un'ingenuità cosí inverosimile da suscitare nell'uno quella comica furiosa mimica e nell'altra quell'interminabile risata. E come dunque dir loro che su questa "ingenuità" appunto, ai loro occhi quasi incredibile, io fondavo tutto il peso di quella risoluzione? Ma se usurajo ero sempre stato, sempre, da prima ancora che nascessi? Non m'ero visto io stesso sulla strada maestra della pazzia incamminato a compiere un atto che agli occhi di tutti doveva apparire appunto contrario a me stesso e incoerente, ponendo fuori di me la mia volontà, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca? Non avevo io stesso riconosciuto che il signor usurajo Vitangelo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva in alcun modo distruggere?

Ebbene, ma questo, proprio questo, era il "punto vivo" ferito in me, che m'accecava e mi toglieva in quel momento la comprensione di tutto: che usurajo no, quell'usurajo che non ero mai stato per me, ora non volevo piú essere neanche per gli altri e non sarei piú stato, anche a costo della rovina di tutte le condizioni della mia vita. Ed era finalmente in me un sentimento, questo, ben cementato dalla volontà che mi dava (benché lo avvertissi fin d'allora con una certa apprensione e diffidenza) la stessa consistente solidità degli altri sorda e chiusa in sé come una pietra. Sicché bastò che mia moglie, approfittando del mio improvviso smarrimento, scattasse, imponendo al suo Gengè di finirla una buona volta con quella ridicola aria di comando che voleva darsi, e mi venisse, cosí dicendo, quasi con le mani in faccia, bastò questo perché io perdessi di nuovo il lume degli occhi e le afferrassi i polsi e scrollandola e respingendola indietro la ributtassi a sedere sulla poltrona:

«Finiscila tu, col tuo Gengè che non sono io, non sono io, non sono io! Basta con codesta marionetta! Voglio quello che voglio; e come voglio sarà fatto!»

Mi voltai a Quantorzo.

«Hai capito?»

E uscii, furioso, dal salotto.