Parte Secunda: Capitolo XΙI
Ancora nei primi tempi dopo il suo ritorno da Mosca, Levin, fremendo ed arrossendo ogni volta che ricordava l'offesa del rifiuto, finiva col dire a se stesso: "Arrossivo e fremevo proprio così giudicando tutto perduto, quando presi uno in fisica e dovetti ripetere l'anno; così pure mi considerai fallito quando persi la causa affidatami da mia sorella. Ebbene?... ora che gli anni sono passati, ricordo e stupisco come abbia potuto addolorarmene tanto. Sarà lo stesso anche per questo dispiacere. Passerà il tempo, e diverrò indifferente anche a questo". Ma erano passati tre mesi e non diventava indifferente, e gli doleva, come nei primi giorni, questo ricordo. Non riusciva a rasserenarsene, perché, dopo aver sognato così a lungo una vita di famiglia, e sentendosi ormai maturo per essa, non s'era sposato, e s'era più che mai allontanato dal matrimonio. Sentiva, come lo sentivano tutti quelli che lo circondavano, che per un uomo della sua età rimaner celibe era un male. Ricordava che prima di partire per Mosca, aveva detto un giorno a Nikolaj il bovaro, un brav'uomo col quale amava parlare: "Ehi, Nikolaj, voglio prender moglie", e Nikolaj aveva risposto senza indugio, come di una cosa di cui non s'avesse a dubitare: "È tempo da un pezzo, Konstantin Dmitric". Ma il matrimonio s'era fatto più lontano che mai. Il posto nel suo cuore era occupato, e quando gli capitava di sostituirvi nell'immaginazione qualcuna delle ragazze di sua conoscenza, sentiva che tale sostituzione era assolutamente impossibile. Inoltre il ricordo del rifiuto e della parte che aveva recitato in quell'occasione, lo tormentava di vergogna. Per quanto si dicesse che non era per nulla colpevole, questo ricordo, al pari degli altri ricordi umilianti di tal genere, lo costringeva a rabbrividire e ad arrossire. Nel suo passato, come in quello di ogni uomo, c'erano delle cattive azioni da lui riconosciute come tali, per le quali la coscienza avrebbe dovuto rimordergli; ma il ricordo di queste cattive azioni era ben lungi dal tormentarlo allo stesso modo di questi inconsistenti, ma umilianti ricordi. Questa ferita non si rimarginava mai. E nel ricordo venivano a trovarsi adesso, sullo stesso piano, e il rifiuto e quella situazione penosa in cui era apparso agli altri in quella sera. Ma il tempo e le occupazioni facevano l'opera loro. I ricordi penosi venivano sempre più velati dagli impercettibili, ma significativi avvenimenti della vita di campagna. Di settimana in settimana ricordava sempre più di rado Kitty. Aspettava con ansia la notizia che si fosse sposata o stesse per sposarsi a giorni; sperava che una notizia simile, come l'estirpazione di un dente, finisse col guarirlo. Sopraggiunse intanto la primavera, splendida, improvvisa, senza le attese e gli inganni delle primavere; una di quelle primavere di cui si rallegrano insieme e piante e bestie e uomini. Questa primavera bellissima rianimò ancor più Levin e lo confermò nel suo proposito di rinunciare a tutti i suoi sogni precedenti per costruire, salda e indipendente, la sua vita di uomo solo. Pur non avendo mantenuto fede a molti propositi che aveva formulato nel viaggio di ritorno, tuttavia, l'aspirazione prima, la continenza di vita, egli l'aveva osservata. Non provava la vergogna che di solito lo tormentava dopo ogni caduta, e poteva coraggiosamente guardare in faccia agli uomini. Inoltre, in febbraio, aveva ricevuta da Mar'ja Nikolaevna una lettera in cui si diceva che le condizioni di salute del fratello erano peggiorate, e che egli non voleva curarsi; in seguito a questa lettera, Levin era andato a Mosca e aveva fatto in tempo a persuadere il fratello a consigliarsi con un medico e ad andare all'estero per la cura delle acque. Gli era riuscito così bene di convincere il fratello e di dargli in prestito, senza irritarlo, del denaro per il viaggio, che, sotto questo rapporto, era soddisfatto di sé. Oltre l'azienda che esigeva cure particolari in primavera, Levin aveva anche cominciato a scrivere, in quell'inverno, un libro di economia, la cui tesi consisteva nell'assumere in economia il temperamento del lavoratore come un dato assoluto, così come il suolo e il clima, e nel sostenere che tutte le tesi dell'economia dovessero essere di conseguenza dedotte non dai soli dati del suolo e del clima, ma da quelli del suolo, del clima e di un certo immutabile temperamento del lavoratore. Così che, malgrado la solitudine, e anzi proprio per la solitudine, la sua vita era straordinariamente ricca, e solo di rado sentiva il bisogno insoddisfatto di comunicare i pensieri che gli passavano per la testa a qualcuno che non fosse Agaf'ja Michajlovna, benché anche con lei gli accadesse di ragionar di fisica, di agraria e in particolare di filosofia; la filosofia, anzi, era l'argomento preferito da Agaf'ja Michajlovna. La primavera aveva tardato ad arrivare. Nelle ultime settimane della quaresima il tempo era stato sereno, gelido. Di giorno, al sole, sgelava; di notte la temperatura scendeva a sette gradi sotto lo zero. La neve era così indurita che i carri non seguivano più la strada. Per Pasqua c'era ancora la neve. Ma due giorni dopo la settimana santa, si levò a un tratto un vento tiepido, le nuvole si addensarono, e per tre notti cadde una pioggia burrascosa e calda. Il giovedì, il vento si calmò e, quasi a nascondere il mistero dei cambiamenti che si operavano nella natura, avanzò una nebbia fitta e grigia. Nella nebbia si sciolsero le acque, crepitarono e si smossero i ghiacci, più rapidi corsero i torrenti torbidi e schiumosi, e proprio per la domenica in Albis, la sera si squarciò la nebbia, le nuvole corsero via a pecorelle, si rasserenò, e si schiuse la primavera. Al mattino il sole, levatosi splendidamente, divorò in fretta il ghiaccio sottile che aveva coperto le acque, e l'aria trepidò dei vapori che si sprigionavano dalla terra rianimata, invadendola tutta. Verzicò l'erba vecchia e la novella che spuntava ad aghi; si gonfiarono le gemme del viburno, del ribes e della betulla viscosa e inebriante, e su di un ramo di salice, soffuso di fiori d'oro, prese a ronzare un'ape rimasta fuori che vagava all'intorno. Allodole invisibili presero a trillare sul velluto delle verzure e sulla stoppia gelata; piansero le pavoncelle sulle bassure e sulle paludi piene d'acqua nera non ancora riassorbita, e in alto, a volo, con un gridìo di primavera, passarono cicogne e oche. Gli armenti, che non avevano ancora del tutto mutato il pelo, presero a muggire nei pascoli, e gli agnelli dalla zampe ritorte ruzzarono intorno alle madri belanti che mutavano il vello, mentre i ragazzi dalle gambe agili presero a correre per i tratturi che, rasciugandosi, conservavano le impronte dei piedi scalzi; accanto allo stagno crepitarono le voci allegre delle comari intente a candeggiar le tele, e sulle aie risonarono le accette dei contadini che racconciavano aratri ed erpici. Era venuta la vera primavera.