Parte Prima: Capitulo XXVII
La casa era grande, all'antica, e Levin, pur vivendo solo, la occupava e la riscaldava tutta. Sapeva che questo era sciocco, sapeva che era perfino malfatto e contrario ai suoi attuali nuovi propositi, ma questa casa era tutto un mondo per Levin. Era il mondo nel quale avevano vissuto ed erano morti suo padre e sua madre. Essi avevano vissuto quella vita che per Levin rappresentava l'ideale di ogni perfezione e che egli sognava di rinnovare con la propria moglie e con la propria famiglia. Levin ricordava appena sua madre. L'immagine di lei era sempre stata un ricordo sacro, e nella sua mente la futura sposa avrebbe dovuto essere una riproduzione di quell'ideale delicato e santo di donna che era stata sua madre. Egli non solo non poteva immaginare l'amore per la donna al di fuori del matrimonio, ma immaginava prima la famiglia e poi la donna che gliel'avrebbe data. Perciò le sue idee sul matrimonio non erano simili a quelle della maggioranza degli uomini che conosceva, per i quali il matrimonio era uno dei molti affari della vita sociale. Per Levin era il più grande avvenimento della vita, dal quale dipendeva tutta la felicità. E ora bisognava rinunciarvi.
Quando entrò nel salottino dove era solito prendere il tè e si mise a sedere nella sua poltrona con un libro, e quando Agaf'ja Michajlovna gli portò il tè e, col suo solito «e mi metto a sedere anch'io, batjuška », si accomodò sulla sedia accanto alla finestra, Levin sentì che, per quanto ciò fosse strano, egli non aveva abbandonato il suo sogno e non poteva vivere senza esso. O con lei o con un'altra, ma questo sarebbe avvenuto. Leggeva il libro, pensava a quello che leggeva, soffermandosi a sentire Agaf'ja Michajlovna che parlottava senza posa; e intanto vari quadri della sua azienda agricola e della futura vita familiare si presentavano senza alcun legame alla sua immagine. Sentiva che in fondo all'anima qualcosa si fissava, si dimensionava, si assestava. Ascoltava il parlottare di Agaf'ja Michajlovna, di come Prochor avesse dimenticato Dio e con i denari che gli aveva regalato Levin per comprare il cavallo cioncasse tutto il giorno e picchiasse a morte la moglie; ascoltava e leggeva il libro, e ricordava tutto il procedimento delle sue idee risvegliato dalla lettura. Era un libro di Tyndall sul calore. Ricordava le sue critiche mosse al Tyndall per quella sua disinvoltura nel condurre gli esperimenti e per quella sua mancanza di visione filosofica. Ma d'un tratto gli affiorò alla mente un pensiero piacevole: «Fra due anni avrò nella mia mandria due mucche olandesi, la stessa Pava potrà essere ancora viva, e alle dodici giovenche di Berkut aggiungici a far bella mostra queste tre, che meraviglia!». E prese di nuovo il libro.
«E va bene, l'elettricità e il calore sono una cosa sola; ma è possibile, per risolvere un problema, porre in un'equazione una grandezza in luogo di un'altra? E allora? Il collegamento di tutte le forze della natura anche così si sente per istinto... Proprio bello quando la figlia di Pava sarà già una mucca pezzata di rosso e quando ci sarà già una mandria cui aggiungere queste tre!... Perfetto!... Uscire con la moglie e con gli ospiti a incontrar la mandria... Mia moglie dirà: ‘Kostja ed io abbiamo tirato su questa vitella come fosse un bambino'. ‘Come vi può interessare tutto questo?' dirà l'ospite. ‘Tutto quello che interessa lui, interessa mè. Chi sarà mai lei? — Ed egli ricordava quello che era successo a Mosca... — Ma che fare? Io non ne ho colpa. Ora tutto andrà in modo nuovo. È assurdo che la vita, che il passato non lascino raggiungere lo scopo. Bisogna lottare per vivere meglio...». Sollevò il capo e si fece pensoso. La vecchia Laska, che non aveva ancora completamente smaltito la gioia dell'arrivo del padrone, e che era corsa ad abbaiare in cortile, ritornò scodinzolando e portando con sé odor d'aria fresca; si accostò a Levin, gli ficcò il muso sotto il braccio, guaendo flebile e chiedendo d'essere carezzata. — Solo la parola non ha — disse Agaf'ja Michajlovna. — È un cane, eppure capisce che il padrone è tornato ed è di umor nero.
— Perché d'umor nero? — E che forse non lo vedo, batjuška ? Basta aver la salute e la coscienza pulita.
Levin la guardava fisso, meravigliandosi che ella avesse intuito i suoi pensieri.
— Bè, devo portare dell'altro tè? — disse lei e, presa la tazza, uscì.
Laska continuava a ficcargli il muso sotto il braccio. Egli la lisciò. Allora essa si acciambellò ai suoi piedi, poggiando il muso sulla zampa posteriore che sporgeva. E a mostrar che ora stava bene, che era contenta, aprì leggermente la bocca, schioccò un po' con le labbra e, accostate ai vecchi denti le labbra bavose, s'acquietò in una calma beata. Levin seguì attentamente quest'ultimo movimento. «Anch'io così — si disse — anch'io così. Non fa niente... Tutto va bene».