Apologia 7 - 8
VII.
E seguitai ad andare: con dolore e tremore, sentendo che veniva in odio; nondimeno parevami necessario far grandissima estimazione della parola dell'Iddio, e andare a tutti coloro che mostravano di sapere qualche cosa, per vedere che dicesse mai l'oracolo. E per il Cane, o giudici (a voi si ha a dire il vero), ei m'avvenne che, cercando secondo la mente dell'Iddio, quelli massimamente riputati mi paressero quasi essere piú da poco, e quelli, a vedere piú da poco, essere piú savii. E la peregrinazione mia conviene che io ve la conti, la quale non fu senza fatiche, acciocché la sentenza dell'oracolo chiaro mi si mostrasse. Perché dopo ai politici andai ai poeti, a quelli di tragedia e a quelli di ditirambi e agli altri, per cogliere in sul fatto me quale piú ignorante di loro. E pigliando in mano i loro poemi, quelli che mi parean piú lavorati, anche per apprendere qualche cosa dai poeti, li interrogai che mai dire volessero. Bene ho vergogna, o giudici, di palesarvi il vero; e pur vi si ha a palesare. Ecco, se ho a dire, di quelli argomenti dei quali aveano cantato, quasi tutti gli astanti ne ragionavan meglio di loro. In breve questo ebbi conosciuto, che i poeti non per sapienza poetavano checché poetassero, ma per certa natura e da Dio occupati, come i divinatori e i vaticinatori; i quali dicono pure molte e belle cose, e non sanno nulla di ciò che dicono. E vidi che tale passione tocca i poeti: e insieme mi fui accorto che essi, perciò che poeti, si reputavano ancora nelle altre cose sapientissimi uomini, senza che fossero: e ne andai via pensando che, per la ragion medesima, al paragone di quelli non altrimenti che al paragone dei politici, piú valeva io.
VIII.
In ultimo andai agli artefici, perché mi sapeva da me non essere io intendente di nulla; e quelli sapeva di avere a trovare intendenti di molte e belle cose. E non mi fui ingannato, perché veramente essi intendevano cose che non intendeva io, e da questo lato erano piú sapienti di me. Ma, o Ateniesi, i buoni artefici mi parve che il medesimo peccato avessero che i poeti, dacché ciascuno, per lo adoperare bene sua arte, si credeva sapientissimo anche nelle altre maggiori cose; e questa stoltizia oscurava quella sapienza. Onde per parte dell'oracolo interrogai me medesimo se io volessi essere cosí come sono, né per nulla sapiente della loro sapienza né ignorante della loro ignoranza, o avere l'una e l'altra cosa, che hanno quelli. Risposi a me e all'oracolo, che mi giovava essere come sono.