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Apologia di Socrate, Apologia 21 - 22

Apologia 21 - 22

XXI.

E credete che poteva durar tanti anni se io era in pubblici ufficii, sostenendo, come si conviene a dabbene uomo, il giusto, e di quello, com'egli è debito, facendo estimazione piú che di ogni altra cosa? Oh no! Ateniesi; né io né verun altro. E io per tutta la vita, e in pubblico, se feci mai cosa alcuna, tale apparirò, e tale in privato, come a niuno mai concedente nulla contro il giusto, chiunque fosse, a niuno, né anche di questi che i miei calunniatori chiamano miei discepoli. Io poi non fui maestro mai di alcuno: e se, parlando e badando io ai fatti miei, alcuno mi vuole udire, sia giovane sia vecchio, non ho detto no mai; né se mi dàn danaro in mano apro bocca, e se non me ne dànno, no; ma similmente e a ricco e a povero mi profferisco per interrogare se voglion rispondere e stare a udire quello che dico io. E o buono diventi alcuno di loro o no, dire che la cagione sono io non sarebbe giusto; io, che a niuno di loro né ho promesso mai d'insegnare né ho insegnato mai niuna dottrina: e se alcuno dice aver mai imparato o udito da me cosa privatamente, la quale tutti gli altri no, sappiate che non dice vero. XXII.

Ma perché mai alcuni godono a passar con me il tempo? Voi, o Ateniesi, l'avete udito, e io vi ho detto la verità: essi godono a udire esaminare quelli che si credono sapienti e non sono. Certo ella è cosa non spiacevole. E, come io affermo, a me è stato commesso da Dio che facessi questo: per vaticinii, e per sogni, e per tutti quei modi che divino fato, in ordinar cosa alcuna a uomo, usati mai avesse. E queste, o Ateniesi, sono cose vere e ben si dimostrano: imperocché, se dei giovani quali corrompo io, quali io ho corrotto, bisognava, se alcuni di essi venuti su di anni conobbero che io a loro da giovani detti mali consigli, che, montati quassú, m'avessero accusato e preso di me vendetta; e non volendo essi, bisognava che padri, fratelli, congiunti, se mai quei di loro casa ricevettero da me alcun male, ora se ne ricordassero e se ne vendicassero. Molti di loro sono qui presenti; io li vedo: prima Critone, qui, della mia età e della mia tribú, padre di Critobulo, qui; poi Lisania, lo Sfettio, padre di Eschine, qui; e anche Antifonte qui, il Cefisiano, padre di Epigene. E questi altri qui, i fratelli dei quali conversarono meco: Nicostrato, il figliuolo di Teozotide, fratello di Teodoto (Teodoto poi è morto, e nol pregherà che stia zitto); e Paralo, qui, il figliuolo di Demodoco, del quale era fratello Teagete; e questo Adimanto, figliuolo di Aristone, del quale è fratello questo Platone, qui; ed Eantodoro, del quale è fratello Apollodoro, qui: e vi posso nominare altri molti, alcuno dei quali bisognava bene che Meleto messo avesse innanzi come testimonio, nella sua orazione. E se allora se ne fu dimenticato, lo metta innanzi ora; io gli cedo il luogo; se li ha, parli. Ma, cittadini, troverete tutto il contrario, tutti pronti ad aiutare me, il corrompitore, colui che ha fatto male a quelli di loro casa, come dicono Meleto e Anito. Forse i corrotti avrebbero alcuna ragione di aiutarmi; ma i non corrotti, uomini già vecchi, parenti loro, quale altra ragione hanno, aiutandomi, se non la diritta e la giusta, la quale è, che Meleto essi sanno che mentisce, e che io dico vero?

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