Apologia 13 - 14
XIII.
E per Giove ci di', o Meleto, se è meglio abitare fra buoni, o fra malvagi cittadini... Caro! rispondi; non è niente difficil cosa quella che dimando. E i malvagi, a quei che tutto dí li accostano non fanno del male; e del bene i buoni? - Sí. - E ci è chi voglia essere da quelli danneggiato, con i quali conversa, piuttosto che giovato? rispondi, o buono uomo; dice anche la legge che si ha a rispondere; c'è chi voglia essere danneggiato? - No. - Su via, tu trai qua me come un che corrompe e fa malvagi i giovani volontariamente, o involontariamente? - Volontariamente, dico io. - Che, o Meleto? tu all'età tua sei tanto piú savio che non io all'età mia, che tu conosciuto hai che i cattivi sempre fanno del male a quelli che li accostano, e i buoni del bene; e io son cosí ignorante, che financo ignoro che se alcuno farò malvagio di quelli che conversano meco, starò nel pericolo di ricevere del male io da lui; cosí ignorante, che fo cotesto male come di' tu, volontariamente? Non te lo credo, né io né nessun altro. Ma, o non corrompo, o, se mai, involontariamente; sicché in tutte e due i casi tu mentisci. E se involontariamente, per tali involontarii peccati non è di legge trarre qua alcuno, ma sibbene averlo a sé da parte, ammonendo e insegnando. Egli è chiaro che piú non farò quel che io fo involontariamente, quando avrò appreso. Ma ti sei scansato dallo starti con me e dall'insegnarmi; non hai voluto; e mi meni qua dove è di legge che coloro siano menati, i quali han bisogno di castigo, ma non d'insegnamento. XIV.
Ma, Ateniesi, come io diceva, manifesto è che Meleto di queste cose non se n'è curato mai né molto né poco. Nientedimeno di': come affermi tu, o Meleto, che io corrompo i giovani? O non è chiaro, secondo l'accusa che hai scritta, che insegnando a non credere in quelli Iddii nei quali la città crede, ma bensí in strane cose demoniache, e nuove? Non di' tu che, con insegnare cotesto, io corrompo quelli? - Sí, sí, cotesto. - E via, in nome di questi stessi Iddii dei quali si parla, piú chiaro di' e a me e a questi giudici. Io non posso intendere: di' tu ch'io insegno a credere che ci siano Iddii, e ch'io stesso credo ci siano Iddii, e non sono al tutto ateo, non sono cosí reo; ma non quelli che la città crede, ma sibbene diversi, e, perché diversi, tu mi accusi? o proprio affermi che io stesso non credo niente che ci siano Iddii, e che cotesto insegno io agli altri? - Cosí affermo, che tu non credi proprio niente ci siano Iddii. - O maraviglioso Meleto, perché tu di' cosí? sole e luna non credo io dunque che siano Iddii, come credon gli altri uomini? - Per Giove, no, o Giudici: il sole ei dice che è pietra; e la luna, terra. - Anassagora credi tu accusare, caro Meleto? e cosí sprezzi costoro, e li credi cosí salvatichi di lettere, da non sapere che di cotali discorsi i libri di Anassagora, il Clazomenio, sono pieni? Oh bella! i giovani imparano da me questa dottrina, che quando vogliano, con una dramma a dir molto molto, possono comperare dall'orchestra, dando la baia a Socrate se se ne vuol fare bello lui e di dottrina sí strana! Ma, per Giove, ti par cosí di me, che non creda in nessuno Iddio? - Nessuno, nessuno, per Giove. - Non ti si ha credere, o Meleto, e, a vedere, non credi a te né anche tu. Imperocché costui, Ateniesi, mi par molto procace e prosuntuoso, e che coteste accuse le ha proprio scritte per procacia e prosunzione, e perché giovine. Ch'egli ha l'aria di un che compone enimma, per tentare: «Socrate, il sapiente, o conoscerà che io mi contraddico per pigliarmi gioco di lui, o no; e se no, trarrò lui in inganno e gli altri che odono». Ché manifestamente egli mi si contraddice nell'accusa, come se dicesse: «Socrate è reo, perché non crede esserci Iddii, e crede esserci Iddii». Pare un che burla.