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Capitolo V
Nessun servitore dormiva in casa di Lisa, ella non ne voleva, e per le faccende indispensabili come la cucina e la pulizia faceva venire una donnetta alacre, la portiera della casa; questo sistema, certo, non andava senza incomodità, ma Lisa che aveva una vita molto libera anzi sregolata preferiva che fosse così.
Quella mattina ella si destò tardi; era qualche tempo che rincasava dopo mezzanotte, dormiva senza piacere e si levava quasi più stanca e nervosa del giorno avanti; si svegliò con difficoltà e senza muoversi né alzar la testa, guardò: una rada e polverosa oscurità forata come un setaccio da mille fili di luce empiva la stanza; in quest'ombra s'indovinavano, muti e morti, i vecchi mobili, gli specchi silenziosi, i panni appesi, a quella macchia oscura, la porta; l'aria era greve e dell'odore del sonno e di quello delle suppellettili; la finestra era chiusa. Lisa scese dal letto e ravviandosi i capelli che le pendevano sopra la faccia madida andò alla finestra e tirò su l'imposta; un giorno bianco invase la stanza; ella allargò la tendina; i vetri erano tutti imperlati di vapore, doveva far freddo; attraverso questa rugiada s'indovinavano i colori vaghi, tenui e puri, un bianco, un verde come dissolti in un lago d'acqua; ella squarciò con la mano questo velo liquido e vide subito un pezzo di tetto rossiccio di un aspetto così poco luminoso, così indifferente e opaco che non ebbe bisogno di guardar più in su per vedere se il cielo era grigio; si distaccò, fece macchinalmente qualche passo per la stanza ingombra. Il gran letto matrimoniale di noce cupo e volgare, tutto pieno di bianche lenzuola disfatte occupava molto posto, ed era così vicino alla finestra rettangolare che qualche volta nelle notti d'inverno le era di gran godimento mentre giaceva sotto le coperte calde, vedere là, a un metro di distanza, l'onda della pioggia colare dalla vasta notte torrenziale sui vetri quadrati; oltre il letto c'erano due grandi armadi dello stesso legno casalingo e malodorante con immensi specchi ingialliti; la stanza era di media grandezza ma con quei mobili il posto che avanzava per muoversi era addirittura esiguo.
Andò all'attaccapanni; non aveva addosso che una trasparente camiciuola che faceva ancor più corte le sporgenze del corpo, le gambe erano tutte scoperte fino alla piega profonda che staccava la rotondità delle natiche dalle cosce bianche e senza peli, i seni muscolosi, appena più bassi che a vent'anni, ne uscivano per metà con due rigonfi lisci e venati; ella si vide in uno specchio così seminuda e molto piegata in avanti come per nascondere sotto quel velo troppo corto la macchia oscura del grembo, e giudicò di essere dimagrita; infilò una vestaglia e passò nel bagno.
Questo era una stanzetta grigia, nuda, fredda, i tubi erano verniciati e opachi, la vasca era in metallo smaltato, non c'era che un solo specchio tutto rugginoso, un'ombra umida empiva gli angoli; Lisa accese la luce; le venne in mente che erano passati tre giorni da quando si era lavata per l'ultima volta tutto il corpo, e che sarebbe stato necessario prendere un bagno; esitò; era veramente indispensabile? Si guardò i piedi: le unghie erano bianche, parevano puliti; no, non ce n'era bisogno, tanto più che se, come era probabile, passava la notte con Michele, avrebbe dovuto ripulirsi interamente il giorno dopo; si decise, andò ad un lavabo inchiodato al muro, aprì i rubinetti, aspettò che si fosse riempito; allora si tolse la vestaglia, abbassò la camicia fino alla cintola e si lavò; prima la faccia, starnutendo e soffiando, poi con gesti che avrebbero voluto impedire che l'acqua colasse dal petto e dalle spalle sulle parti inferiori ancora tutte piene del tepore notturno, il collo e le ascelle; ogni volta che si chinava sentiva la camicia risalire sul dorso, un freddo di pietre le veniva dalle mattonelle del pavimento: all'ultimo non trovò l'asciugamano e scappò tutta accecata e nuda a prenderne uno nella stanza da letto.
Si asciugò, sedette alla toeletta; breve acconciatura; ella non usava pomate, né belletti, non c'era che da mettersi un po' di cipria, da profumarsi e da pettinarsi: voltò alfine le spalle allo specchio, e si chinò per infilare le calze: ora due pensieri s'alternavano nella sua mente, quello della colazione e quello di Michele; le piaceva la mattina mangiare col caffè delle buone cose, delle conserve dolci, dei pasticcini, del burro, dei croccanti; era ghiotta e non si staccava dalla tavola se non quando era sazia; ma oggi temeva di restare a digiuno. "Se Michele viene tra poco" pensò "è meglio che non mi faccia trovare amangiare... pazienza... sarà per un'altra volta. "Si drizzò, indossò una combinazione rosa, poi una sottoveste dal busto strettissimo che le fasciava il petto come un corsetto; la sua fantasia, per consolarsi, dipingeva un Michele innamoratissimo e timido, un adolescente inesperto a cui ella si sarebbe data tremante di gioia; alfine un amore puro: "Dopo la vita che ho fatto" pensò convinta, "fa bene un po' d'innocenza." Notti insonni, faticosi piaceri, eccitamenti senza gioia, questa sudicia nebbia dileguava. Michele le portava il sole, il cielo azzurro, la franchezza, l'entusiasmo, l'avrebbe rispettata come una dea, avrebbe appoggiato la testa sulle sue ginocchia; ne aveva un desiderio insaziabile, e non vedeva l'ora di bere a questa fontana di giovinezza, di tornare a quest'amore nuovo, balbettante, pudico che da vent'anni quasi aveva dimenticato; Michele era la purezza: ella si sarebbe data al ragazzo senza lussuria, quasi senza ardore; tutta nuda gli sarebbe venuta incontro a passi di danza, e gli avrebbe detto: "Prendimi"; sarebbe stato un amore straordinario, come non si usano più.
Aveva finito di vestirsi; uscì dalla stanza, attraversò il corridoio oscuro, entrò nel boudoir pieno di luce; era, questa stanza, tutta bianca e rosa; bianchi i mobili e il soffitto, rosei i tappeti, la tappezzeria, il divano; tre grandi finestre leggiadramente velate diffondevano una luce tranquilla; a prima vista tutto appariva puro e innocente, si osservavano mille gentilezze, qui un cestino da ricamo, là una piccola biblioteca dai libri multicolori, e poi dei fiori smilzi sulle mensole laccate, degli acquerelli sotto vetro alle pareti, insomma una quantità di cose che, dapprima, facevano pensare: "Eh, che bel posticino chiaro e sereno, qui non può abitare che qualche giovinetta"; ma se si guardava meglio si cambiava idea; allora ci si accorgeva che il boudoir non era più giovane del resto dell'appartamento, si osservava che la lacca dei mobili era scrostata e ingiallita, che la tappezzeria era scolorita e qua e là mostrava la trama, che una stoffa lacera e dei cuscini sordidi coprivano il divano d'angolo; ancora uno sguardo e si era convinta: si rivelavano gli strappi delle tendine, i vetri spezzati degli acquerelli, i libri polverosi e sdruciti, le larghe screpolature del soffitto; e se poi alfine era presente la padrona di casa, non c'era neppur bisogno di cercare, tutta questa corruzione saltava agli occhi come accusata dalla figura della donna.
Lisa sedette davanti alla scrivania ed aspettò; ora l'idea della colazione le tornava, ne aveva una gran voglia, non sapeva come fare: "Se almeno sapessi a che ora viene," pensò con dispetto guardando l'orologio che teneva al polso; alfine seppe dominarsi, rinunziò di nuovo e tornò alle sue fantasie tenere crudeli ed eccitate. "Lo farò sedere sul divano" pensò ad un tratto, "e mi distenderò dietro di lui... parleremo un poco... poi comincerò a pungerlo su qualche soggetto scabroso... e lo guarderò... se non è uno sciocco capirà"; osservava il divano come un istrumento di cui si vuol valutare la bontà e l'efficacia; e se tutto andava bene avrebbe fatto aspettare l'adolescente per il gusto delicato di vederlo sospirare, e finalmente, dopo qualche giorno, l'avrebbe invitato a cena e l'avrebbe trattenuto tutta la notte; che cena sarebbe stata quella: delle leccornie, e soprattutto del vino: avrebbe indossato quel suo vestito che le stava così bene, azzurro, e si sarebbe ornata di quei pochi gioielli che aveva potuto salvare dalle mani rapaci del suo ex-marito; la tavola sarebbe stata preparata qui, nel boudoir, la sala da pranzo era meno intima; una tavola per due, piena di buone cose, del pesce, dei pasticci di carne e di legumi, dei dolciumi; una tavola piccola, ricca e scintillante, per due, per due soltanto, un terzo non ci sarebbe entrato, neppure a volercelo... Con occhi brillanti di gioia e di tenerezza ella si sarebbe seduta di fronte al suo caro ragazzo, pur mangiando non avrebbe cessato di guardarlo, gli avrebbe versato del vino, molto vino, gli avrebbe parlato in tono scherzoso, curioso, allusivo, materno; si sarebbe informata dei suoi piccoli amori, l'avrebbe fatto arrossire; gli avrebbe ogni tanto gentilmente ammiccato, si sarebbero toccati coi piedi là sotto la tavola; finita la cena avrebbero insieme sgombrato la tavola, ridendo, toccandosi e urtandosi per il gran desiderio di possedersi; poi ella si sarebbe spogliata, avrebbe infilato una vestaglia, e a Michele avrebbe fatto indossare uno di quei pigiama di suo marito; gli sarebbe andato a meraviglia, avevano ambedue la stessa statura sebbene l'adolescente fosse più sottile; seduti sul divano lei e Michele avrebbero conosciuto la gioia irritante e avara di questa loro vigilia della prima notte... finalmente sarebbero andati insieme nella camera da letto.
Un po' eccitata da queste fantasie stava seduta presso la scrivania.
Teneva la fronte bassa, ogni tanto come per scacciare i pensieri si ravviava i capelli, oppure, pur senza cessare di pensare, storceva i piedi e si guardava le scarpe; il rumore del campanello accelerò i battiti del suo cuore: sorrise, si guardò in uno specchio, uscì nel corridoio.
Prima di aprir la porta accese la luce; Michele entrò.
"Forse sono venuto troppo presto?" egli disse appendendo il mantello e il cappello all'attaccapanni.
"Figurati." Passarono nel boudoir, sedettero sul divano: "Come va?" domandò Lisa; prese una scatola di sigarette e ne offrì al ragazzo; egli rifiutò e stette sovrappensiero, colle mani sui ginocchi.
"Va bene," rispose finalmente; silenzio.
"Se permetti" disse la donna "io mi distenderò sopra il divano... ma tu... stai... stai... comodo." Alzò le gambe e s'allungò sopra i cuscini; Michele vide le due cosce goffe e bianche e ne sorrise dentro di sé; quell'idea gli tornò: "Evidentemente vuole eccitarmi"; ma Lisa non gli piaceva, proprio no, e tutto questo gli era indifferente.
Ella guardava il ragazzo pensando a quel che avrebbe potuto dirgli; quei pretesti per una maggiore intimità che pochi minuti prima le erano sembrati tanto spontanei, ora nel suo turbamento le sfuggivano; aveva la testa vuota, il cuore in tumulto, le tornò in mente, chi sa perché, la scena della sera avanti, quel litigio tra Leo e Michele, che al momento l'aveva interessata, esitò a riparlarne, ma l'idea di potere anche vendicarsi un poco del suo antico amante rivelando al ragazzo, se già non lo sapeva, la tresca di sua madre, la incoraggiò; poi, per vie indirette, avrebbe potuto venire a qualche più eccitante conversazione.
"Scommetto" disse guardandolo "che tu muori dalla voglia di sapere perché io ti abbia domandato ieri sera di non fare quelle scuse a Leo."
Egli si voltò: "Sei tu che muori dalla voglia di parlarne" avrebbe voluto risponderle; ma si trattenne: "Proprio morire no... ma di' pure."
"Io credo di avere più di chicchessia il diritto di aprirti gli occhi" ella cominciò.
"Non ne dubito."
"Si tace per molto tempo, si finge di non vedere... ma alla fine il troppo storpia... quel che ho veduto ieri sera mi ha rivoltato."
"Permetti" disse Michele, "che cosa precisamente ti ha rivoltato?"
"Quelle scuse a Leo"; ella lo fissò con serietà; "soprattutto che tua madre, proprio lei, esigesse da te una tale umiliazione."
"Ah, ora capisco," e il volto di Michele si illuminò di ironia; "che voglia darmi la gran notizia che mia madre ha un amante?" pensò; gli venne un disgusto acuto di sé e della donna; "ma forse non era una umiliazione" soggiunse.
"Lo era in tutti i casi... e doppiamente quando udirai quello che sto per dirti..."; egli la guardò: "Se ora ti prendessi per i fianchi o ti pizzicassi sul dorso," pensò "come lasceresti subito quell'aria segreta e dignitosa, come ti dimeneresti."
"Ti avverto" disse, e gli parve di essere veramente sincero, "che non m'importa di saper nulla."
"Benissimo" rispose Lisa per niente sconcertata; "tu hai ragione ma sento che debbo parlare.... mi ringrazierai poi... dunque devi sapere che tua madre ha commesso un errore..."
"Uno solo Tra i due partiti, quello di irritarsi e quello di ridere, Lisa scelse il secondo: "Ne avrà commessi mille" disse sorridendo e avvicinandosi alquanto al ragazzo; "ma questo è certo il più grosso."
"Un momento" interruppe Michele, "non so cosa tu stia per dirmi... ma se, a quanto pare, è una cosa grave, vorrei sapere perché me la riveli."
Si guardarono: "Perché?" ripetè Lisa, lentamente abbassando gli occhi; "ma perché m'interessi molto e anche ti voglio bene, e poi, te l'ho già detto, perché certe ingiustizie mi rivoltano."
Egli sapeva dei legami che c'erano stati tra Leo e la donna: "O piuttosto" pensò "ti rivolta che te l'abbiano portato via, eh," ma assentì gravemente colla testa. "Hai ragione, non c'è nulla di peggio che l'ingiustizia...! allora, avanti, in che cosa consiste questo errore?"
"Ecco... dieci anni fa tua madre conobbe Leo Merumeci..." "Non vorresti mica dirmi" interruppe Michele col più falso degli spaventi, "che Leo sia l'amante di mia madre!"
Si guardarono: "Mi dispiace" disse Lisa con una dolorosa semplicità; "ma è proprio così."
Silenzio; Michele guardava in terra e avrebbe voluto ridere; quel suo disgusto si trasformava in un senso amaro di ridicolaggine.
"E ora puoi capire" continuò Lisa "se e quanto mi abbia rivoltato tua madre che ti chiedeva di umiliarti di fronte a quell'uomo."
Egli non si muoveva né parlava; rivedeva sua madre, Leo, se stesso in atto di farsi perdonare, figure stupide e piccole, perdute senza speranza nella vita più vasta... ma queste visioni non l'offendevano né destavano in lui alcun sentimento; avrebbe voluto essere tutt'altro, sdegnato, pieno di rancore, pieno di inestinguibile odio; e soffriva invece di essere a tal punto indifferente.
Vide Lisa alzarsi e sedersi al suo fianco. "Via" ella disse posando una mano goffa e consolatrice sulla sua testa; "via., fatti coraggio... capisco che ti debba dispiacere... si vive con la certezza che una persona meriti il nostro affetto, la nostra stima, e poi... ad un certo punto tutto crolla intorno a noi... ma non importa... questo ti sarà di ammaestramento..."
Dopo di che seguì un profondo silenzio; ambedue con scopi diversi, fingevano una trasognata e ispirata distrazione; stavano immobili, l'uno accanto all'altra, e guardavano in terra.
Un fruscio; il braccio di Michele scivolò dietro la schiena della donna e le circondò la vita. "No" ella disse con voce chiara, senza muoversi o voltarsi, come se avesse risposto ad una domanda interiore; Michele sorrise di malavoglia, né sentiva un certo turbamento invaderlo, e l'attirò più strettamente; "No, no" ella ripetè in tono più debole, ma cedette e appoggiò quella sua testa sperduta sulla spalla del ragazzo; allora dopo un istante di sentimentale immobilità egli la prese per il mento e nonostante la falsa muta protesta degli occhi, la baciò sulla bocca.
Si separarono: "Sei cattivo" disse Lisa con un mezzo sorriso di gratitudine, pateticamente; "cattivo e prepotente." Michele alzò gli occhi e la guardò con freddezza; poi un sorriso passò sulla sua faccia magra e seria; allungò una mano, e con quanta forza aveva pizzicò la donna al costato, sotto il braccio: "Ohi, ohi" ella gridò ad un tratto, ridendo spalancando la bocca, e dimenandosi; "ohi, ohi! "; agitava le braccia, le gambe; alfine cadde fuori del divano e in un movimento convulso di tutto il corpo la veste le risalì sul ventre e le grosse cosce di una bianchezza adombrata di muscoli apparvero; allora Michele lasciò la stretta; Lisa risedette e riabbassò la gonna sopra le ginocchia.
"Oh che perfido!" ella ripetè in falsetto premendosi con una mano il petto ansante; "oh che perfido!" Michele taceva e con una curiosità seria e grave l'osservava: "E invece" ella soggiunse, posandogli le mani sulle spalle; "dovresti farmi così, guarda..." Avvicinò quelle sue labbra strette in forma di cuore a quelle del ragazzo, le toccò lievemente, e le distaccò con occhi lustri di soddisfazione: "Così dovresti farmi" ripetè stupidamente per nascondere il proprio eccitamento.
Michele storse la bocca, si alzò, girò per il boudoir, con le mani in tasca, guardando i banali acquerelli che pendevano dalle pareti; era irritato ed eccitato. "Ti piacciono?" udì ad un tratto alle sue spalle; si voltò e vide Lisa: "Delle porcherie" disse.
"Ma veramente" rispose la donna mortificata, "mi erano sempre sembrati buoni."
Tornarono al divano; le tempie del ragazzo battevano, le sue guance ardevano: "Tutto questo è ignobile" pensava disgustato; ma appena si furono seduti, abbatté Lisa sopra i cuscini come se avesse voluto prenderla; vide quel volto chiudere le palpebre lustre e abbandonarsi a una specie di estasi tra ripugnante e ridicola; l'impressione fu così forte che ogni desiderio scomparve; baciò freddamente la bocca della donna, poi con una specie di gemito si accasciò con la testa in quel grembo; oscurità: "Voglio restar così fino alla fine della visita" pensò, "e non vederla più, e non baciarla più."
Sentì delle dita carezzevoli posarsi sui suoi capelli e lisciarli.
"Cos'hai?" domandò la voce familiare e falsa.
"Penso" rispose in tono profondo chiudendo gli occhi "quale debole sforzo basterebbe per essere sinceri, e come invece si faccia di tutto per andare nella direzione opposta". Sospirò; gli parve di essersi definito: "Perché sto qui?" pensò "perché mentisco? sarebbe così facile dire la verità e andarsene."
"È proprio così" gli rispose la donna senza cessare di accarezzargli i capelli; "proprio vero... ma ora non devi più avere di questi pensieri... non avrai più bisogno degli altri... ora ci sono io; staremo insieme... ignoreremo il mondo intero" ella diceva queste parole con una voce fervorosa che fece rabbrividire il ragazzo: "vivremo lontano dalle cose che ti dispiacciono, vuoi?... da tutte queste miserie... Tu mi racconterai la tua vita, i tuoi dispiaceri, le tue tristezze, e io ti darò tutto l'amore che posseggo, che ho messo in serbo per te... sarò la tua compagna, vuoi? la tua compagna fedele e umile, tanto umile, sai, che ti ascolterà in silenzio e ti consolerà con le sue carezze, così... così..." La mano che ella passava sulla testa del ragazzo si contrasse; Lisa si chinò, baciò i capelli, la nuca, in furia, mentre quelle sue dita febbrili s'aggrappavano, stringevano nervosamente le spalle curve di Michele; il cuore le tremava: "Finalmente amo e sono amata" pensava, "finalmente."
Michele non si muoveva, non gli era mai accaduto di vedere la ridicolaggine confondersi a tal punto con la sincerità, la falsità con la verità; un imbarazzo odioso lo possedeva. "Almeno tacesse" pensava; "ma no, deve parlare." A tratti lo prendeva il desiderio isterico di dire la verità, quella sua, la sola possibile, e andarsene; ma lo tratteneva un senso di compassione; e poi non era stato lui il primo a illudere Lisa con quel suo abbraccio?
"Caro... caro" ripeteva la donna, là sulla sua testa, "non puoi immaginarti quanto tu mi sia caro." "Esagerata" avrebbe voluto rispondere il ragazzo; ma aveva gli occhi pieni di oscurità, gli pareva di non aver mai veduto la luce; quelle parole, quelle carezze, quella voce, gli davano l'impressione di una notte senza speranza.