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Gli Indifferenti - Alberto Moravia, 20 (XV)

20 (XV)

Sarebbero scomparse le tre donne dalla sua vita, la sorella, la madre, l'amante, ciascuna per la sua strada; il processo sarebbe continuato; pochi giorni dopo avrebbe parlato il pubblico ministero. Un forte discorso; dopo essersi sforzato di dipingere con foschi colori l'ambiente corrotto e corruttore nel quale il delitto era avvenuto, pur concedendo a Michele le attenuanti avrebbe sostenuto in pieno la tesi della premeditazione.

"Sì, signori giurati" avrebbe esclamato a questo punto battendo il pugno sulla tavola, "si tratta di un delitto premeditato; Michele ha da Lisa la notizia della seduzione della sorella e se ne va accennando, scherzosamente, secondo la deposizione della teste, ad una possibile uccisione del seduttore... dunque tutto era già deciso, Leo era già condannato. Michele non va da Leo per domandargli spiegazioni ma per assassinarlo, siano o non siano vere le parole di Lisa. Tra quella rivelazione e il delitto passano quasi due ore; cosa fa in questo tempo Michele? Appena uscito dalla casa della donna, in quella stessa strada in cui ella abita, si precipita come un pazzo da un armaiolo e compra per settanta lire una rivoltella; dopo di che, erra senza scopo per la città, abbandonato a se stesso e ai suoi sanguinosi propositi di vendetta come una nave alla tempesta; lo vedete, con quella rivoltella in tasca, fermarsi davanti ai negozi, guardare le vetrine, camminare, percorrere più volte la strada dove abita Leo, lo vedete alfine davanti a quella porta, esitare, entrare, salire la scala... Eccolo nel salotto del suo nemico; questi gli viene incontro ilare, affettuoso, amichevole, sorridendogli... quel sorriso, signori giurati, quel sorriso dell'uomo che senza saperlo andava verso la morte!... tendendogli la mano... Allora Michele spara; l'uomo cade; Michele si china e freddamente, spietatamente lo finisce con un colpo alla tempia; poi, con una calma di delinquente inveterato, chiude dietro di sé la porta della casa e va a costituirsi..." L'oratore avrebbe analizzato l'ostinata, implacabile volontà che aveva avuto Michele di uccider Leo, nonostante sapesse che "Carla, come risultava dalle testimonianze, non era quella pura, intatta, virginea fanciulla che si poteva credere, tutt'altra invece, e che di conseguenza, seduzione nel vero senso della parola non c'era stata." Impressione. "Carla," avrebbe definito l'oratore "è una di quelle fanciulle che non sono mai state innocenti: oggi uno, domani un altro, sciagurata figura del nostro tempo corrotto." Avrebbe insistito sul fatto che con ogni probabilità non era stato Leo a far la corte alla fanciulla, ma viceversa, e questo per una specie d'insana e morbosa rivalità tra la madre e la figlia. "Signori giurati" avrebbe alfine concluso; "nessuno ha il diritto di sostituirsi alla giustizia umana, e tanto meno a quella divina; Michele ha osato questo; Michele ha condannato il suo nemico ed eseguito la condanna; questa atroce e fredda volontà di uccidere è il suo vero delitto: non uno scoppio passionale, signori giurati, non l'esplosione di uno sdegno virtuoso, ma la preparazione e l'esecuzione di un sanguinoso proposito a lungo meditato; ricordatevi questo, ricordatevi che per Michele Leo era morto mentre ancora viveva, e il suo posto tra gli uomini non era ancora segnato da una tomba." "E tu Michele" avrebbe esclamato rivolgendosi verso l'imputato "accetta questa condanna come una espiazione e una purificazione dopo la quale potrai tornare alla tua famiglia e agli uomini."

"Chissà perche"' pensò a questo punto il ragazzo "gli avvocati nelle loro discussioni credono di dover dar del tu agli imputati." Scosse la testa: "Hai torto, pubblico accusatore" pensò con ironia; "hai torto... né purificazione, né espiazione, e neppure famiglia... indifferenza, indifferenza; soltanto indifferenza." Sorrise distrattamente; e chi avrebbe parlato dopo l'accusatore? Il suo avvocato; si sarebbe alzato questo luminare, questo nuovo Demostene, avrebbe delineato una per una le torbide figure di questo processo, avrebbe dipinto anche lui con foschi colori l'ambiente e le persone della sua famiglia: donnaccia senza pudore la madre, profittatore e incestuoso Leo, femmina pettegola e di facili costumi Lisa; vittime loro due, lui e Carla, figli di un alcoolizzato ("il padre è sempre alcoolizzato" egli pensò), cresciuti senza l'amore dei genitori, senza religione, senza morale.

"Amante prima di Lisa, poi della madre" avrebbe gridato l'oratore "Leo lo diventa anche della figlia, della figlia, signori giurati..." avrebbe ripetuto con voce patetica e commossa "che aveva veduto innocente bambina, con le trecce sulle spalle e le gambe nude, che aveva tenuto sulle ginocchia, che aveva, si può dire, allevata per sé e per le sue voglie immonde... Quella casa era il suo harem... non contento di questo tende le mani avide sul patrimonio familiare..." E dopo aver accumulato i soprusi di Leo come le pietre di uno scellerato edifizio, l'oratore avrebbe esaltato, in uno scoppio generoso di voce, la giustizia di quel delitto; e già gli pareva di vederlo, quel suo Cicerone, rosso, congestionato, i capelli al vento, i pugni sulla tavola, gli pareva di udirlo: "Condannerete voi Michele, per avere vendicato l'onore oltraggiato e calpestato della propria famiglia?..." quando, alzando gli occhi, si accorse di essere nella strada dove abitava Leo.

Un freddo, mortale disagio gli gelò il sangue; "Ecco, ci siamo" pensò. La strada era veramente quella che cercava; case nuove, candide, giardini ancor vuoti, qua e là costruzioni cariche d'impalcature, marciapiedi senza selciato; la campagna non doveva esser lontana; poca gente passava; nessuno si voltava per guardarlo, nessuno l'osservava. "Eppure vado ad uccidere un uomo" pensò; frase inverosimile; mise la mano in tasca, toccò la rivoltella; uccider Leo significava ucciderlo veramente, toglierlo dal numero dei vivi, farne scorrere il sangue: "Bisogna ucciderlo" pensò febbrilmente, "ucciderlo... così... senza troppo rumore... così... ecco: mirare al petto... egli cade... cade in terra... mi chino, senza far rumore, con lentezza lo finisco." La scena che doveva essere fulminea; gli appariva lunghissima, disgregata nei suoi gesti, silenziosa; un mortale malessere lo vinceva: "Bisognerebbe ucciderlo senza accorgersene" pensò; "allora sì, tutto andrebbe bene."

Il cielo era grigio; poca gente passava; una automobile; ville; giardini; la rivoltella in fondo alla tasca; il grilletto; il calcio. Si fermò un istante a guardare il numero del portone: in quel momento la propria tranquillità lo spaventò: "Se continuo con questa calma" pensò atterrito "non se ne fa nulla...: bisogna essere sdegnati, furiosi..." Riprese il cammino; il numero ottantatré era più lontano. "Bisogna montarsi" pensò febbrilmente, "vediamo... vediamo le ragioni che ho di odiare Leo... mia madre... mia sorella... era pura pochi giorni fa... ora in quello stesso letto... nuda... perduta... Leo l'ha presa... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... mia sorella... trattata come una donnaccia... distesa in quel sudicio letto... orribile, orribile... nuda tra quelle braccia... la mia anima freme al solo pensiero... piegata al vizio di quell'uomo... mia sorella... orribile." Si passò una mano sul collo, si sentiva la gola secca. "Al diavolo mia sorella" pensò disperato ritrovandosi nella stessa calma di prima; tutte quelle fantasie non l'avevano scosso; guardò un portone; era già il numero sessantacinque; un'atroce paura l'invase di non sapere agire, mise la mano in tasca, strinse nervosamente la rivoltella: "Al diavolo tutti... cosa importano le ragioni... ho deciso di ucciderlo e lo ucciderò." Affrettò il passo, le case sfilavano, una dopo l'altra, più presto, più presto... bisognava ucciderlo e l'avrebbe ucciso... ecco tutto; il numero settantacinque, settantasei, una strada, settantasette, settantotto; improvvisamente si mise a correre, la rivoltella gli sbatteva contro la coscia; osservò sul marciapiede una bambina di forse dieci anni che tenendo per mano un bimbo più piccolo gli veniva incontro; pensò d'incrociarli; ma raggiunse prima di loro il portone di Leo, ed entrò col rimpianto di non averli almeno sfiorati. "E ora" pensò arrampicandosi su per la scala "il più bello sarebbe non trovarlo in casa." Fece di corsa le due rampe, al secondo pianerottolo, a destra, trovò la porta del suo nemico; una targa di ottone portava la scritta: Cav. Leo Merumeci.

Non suonò; voleva entrare col respiro tranquillo ed era ansante; aspettò dritto, immobile, davanti quella porta chiusa, che l'ansito e i battiti del cuore si fossero calmati; ma non si calmavano; il cuore pulsava, saltava con fracasso nel suo petto, i polmoni gli si sollevavano contro volontà in un respiro doloroso. "O cuore, o respiro" pensò con un dispetto triste e nervoso, "anche voi vi mettete contro di me?" Premette con una mano il fianco, tentò di dominarsi; quanto tempo sarebbe stato necessario perché il corpo fosse stato pronto come la sua anima? Contò da uno a sessanta, ridicolmente, immobile contro quella porta silenziosa; ricominciò... finalmente, stanco, s'interruppe e suonò.

Udì il campanello echeggiare nell'appartamento vuoto; silenzio; immobilità: "non è in casa" pensò con una gioia e un sollievo profondi. "Suonerò ancora una volta per scrupolo... e poi me ne andrò" e già, apprestandosi a premere di nuovo il bottone, già immaginava di ridiscendere nella strada, andarsene per la città libero, distrarsi; già dimenticava i suoi propositi di vendetta, quando dei passi pesanti risuonarono sul pavimento, di là della porta; poi questa si aprì e Leo apparve.

Indossava una veste da camera, aveva la testa arruffata e il petto nudo; squadrò dall'alto in basso il ragazzo.

"Tu qui" esclamò con faccia e voce assonnate, senza invitarlo ad entrare; "e cosa vuoi?"

Si guardarono: "Cosa voglio?" avrebbe voluto gridare Michele. "Lo sai bene, spudorato, cosa voglio." Ma si trattenne:

"Nulla" disse in un soffio, ché ora il respiro di nuovo gli mancava; "soltanto parlarti."

Leo alzò gli occhi; un'espressione impudente e stupida gli passò sul volto: "Oh bella, parlare? a me? a quest'ora?" disse con stupore esagerato; si teneva sempre nel mezzo della soglia: "E che cosa vuoi dirmi?... Senti, senti caro" soggiunse cominciando a chiudere la porta, "non sarebbe meglio un altro giorno? Stavo dormendo, non ho la testa abbastanza chiara... per esempio domani."

La porta si chiudeva. "Non è vero che stavi dormendo" pensò Michele, e ad un tratto gli scaturì quest'idea: "Carla è di là... in camera sua" e gli parve di vederla nuda, seduta sul bordo del letto, in atto di ascoltare ansiosamente questo dialogo tra l'amante e lo sconosciuto visitatore; diede una spinta alla porta ed entrò:

"No" disse con voce ferma e turbata, "no, oggi stesso ho da parlarti, ... ora."

Un'esitazione: "E sia" profferì l'altro come chi è al termine della sua pazienza; Michele entrò: "Carla è di là?" pensava e un turbamento straordinario lo possedeva.

"Di' la verità" profferì alfine con sforzo mentre quello chiudeva la porta, posandogli una mano sulla spalla; "di', la verità che ho turbato qualche dolce colloquio... c'è qualcheduno di là non è vero?... eh, eh!... qualche bella ragazza..." Vide l'uomo voltarsi e schermirsi con un sorriso odioso di malcelata vanità: "Assolutamente nessuno... dormivo." Capì di aver colto nel segno.

Mise la mano in tasca e strinse la rivoltella; "Dormivo proprio" ripetè Leo senza voltarsi, precedendolo nell'anticamera; "dormivo profondamente e facevo dei sogni bellissimi."

"Ah! sì?"

"Sì... e tu sei venuto a destarmi."

"No, colpirlo alle spalle no" pensò Michele; trasse di tasca la rivoltella e tenendo la mano contro il fianco la puntò nella direzione di Leo... appena questi si sarebbe voltato, avrebbe sparato.

Leo entrò per primo nel salotto, andò alla tavola, accese una sigaretta; avvolto nella veste da camera, come un lottatore, a gambe larghe, con la testa, arruffata e tozza, china verso l'invisibile fiammifero, egli dava l'impressione di un uomo sicuro di sé e della sua vita; poi si voltò; allora, non senza odio, Michele alzo la mano e sparò.

Non ci fu né fumo né fracasso; alla vista della rivoltella Leo spaventatissimo si era gettato con una specie di muggito dietro una sedia; poi il rumore secco del grilletto. "S'è inceppata" pensò il ragazzo; vide Leo urlare "Sei matto!" e alzare una sedia in aria mostrando tutto il corpo: si protese in avanti e sparò daccapo; nuovo rumore del grilletto. "E scarica" comprese alfine atterrito, "e le palle le ho in tasca io." Fece un salto da parte, per evitare la seggiola di Leo, corse all'angolo opposto; la testa gli girava, aveva la gola secca, il cuore in tumulto: "Una palla" pensò disperatamente, "soltanto una palla." Frugò, arraffò con le dita febbrili alcuni proiettili, alzò la testa, tentando, curvo colle mani impazzate, di aprire il tamburo e cacciarvi la carica; ma Leo scorse il suo gesto ed egli ricevette di sbieco un colpo di seggiola sulle mani e sulle ginocchia, così forte che la rivoltella cadde in terra; dal dolore chiuse gli occhi, poi una rabbia indicibile lo invase; si gettò su Leo tentando di stringerlo al collo; ma fu preso, scagliato prima a destra poi a sinistra, e alfine respinto con tanta violenza che dopo aver ciecamente urtato e rovesciato una sedia, cadde sul divano... L'altro gli fu subito sopra e lo prese per i polsi.

Silenzio; si guardarono; rosso, ansante, costretto in malo modo dentro il divano, Michele fece uno sforzo per liberarsi; Leo gli rispose torcendogli i polsi; altro sforzo; altra torsione; alfine il dolore e la rabbia vinsero il ragazzo: gli parve oscuramente che la vita non fosse mai stata così aspra come in questo momento nel quale, così brutalmente oppresso, gli tornava un lamentoso desiderio di certe lontanissime carezze materne; gli occhi gli si empirono di lacrime; allentò i muscoli doloranti, si abbandonò. Per un istante l'uomo lo guardò: la veste da camera era aperta, il petto nudo e peloso gli si sollevava in un respiro che ogni tanto si sfogava per le narici frementi in una specie di soffio ferino: guardava, guardava e tutta la sua persona esprimeva un minaccioso furore a stento trattenuto.

"Sei matto!" profferì alfine con forza scrollando la testa, e lo liberò.

Michele si alzò fregandosi i polsi indolenziti: vedeva Leo dritto, immobile nel mezzo della stanza, la sedia rovesciata e là, nell'angolo, quella cosa nera, la rivoltella... veramente tutto era finito... tutto era stato fatto... ma non gli riusciva di capire... non sapeva se doveva mostrarsi ancora indignato o invece timoroso... guardava Leo e macchinalmente continuava a fregarsi i polsi.

"E ora" disse alfine l'uomo voltandosi verso la porta, "ora fammi il santissimo piacere di andartene." Avrebbe voluto profferire qualche violenza ma si trattenne. "E di questa tua sciocchezza" soggiunse "parlerò con tua madre."

Ma Michele non si mosse: "Non mi rimprovera, non si sfoga, ha fretta ch'io me ne vada" pensò "perché teme ch'io scopra Carla... Carla è di là... nella stanza attigua." Guardava la seconda porta e quasi si meravigliava di vederla così comune ed eguale a tutte le altre, e che la presenza della sorella non vi si rivelasse in qualche modo, per esempio con un lembo di veste rimastovi serrato nel momento che precipitosamente era stata chiusa.

"Dov'è Carla" domandò alfine con voce chiara; un lievissimo stupore passò sul volto impudente dell'uomo: ma fu cosa labile:

"Carla?" egli ripetè con la più grande naturalezza. "Cosa vuoi che ne sappia? sarà a casa, oppure in strada." Gli si avvicinò e lo prese per un braccio: "Vuoi andartene sì o no?"

"Ssst" fece il ragazzo impallidendo e guardandolo, senza svincolarsi; "non credere di farmi paura... me ne andrò quando vorrò."

"Vuoi andartene sì o no" ripetè Leo con voce più alta; fece un primo movimento per trascinare Michele verso la porta; l'altro resistette:

"Io credo" gridò in fretta puntando i piedi "che Carla sia proprio là, in camera tua." Una spinta. "E tu lasciami" ingiunse dibattendosi; ma Leo non lo lasciò.

"Te ne andrai" ripeteva quasi con gioia; "in casa mia faccio quel che mi pare e piace... te ne andrai come un santo." Spinto alle spalle Michele non sapeva come voltarsi.

"Ah! mascalzone!" gridò sentendosi mancare il pavimento sotto i piedi, "mascalzone..."

"Mascalzone sì... quanto vorrai" ripetè Leo spingendolo, "ma te ne andrai."

Fu in questo momento che la porta si aprì e Carla entrò. Non aveva giacca, indossava una gonna succinta e una maglia di lana marrone; doveva essersi vestita allora, in gran fretta, i capelli erano arruffati, era pallida, con quel particolare aspetto tra disadorno e stanco delle donne che non hanno potuto o voluto acconciarsi. Chiuse l'uscio dietro di sé, e dritta, con gli occhi fissi, si avanzò nel mezzo del salotto:

"Ho sentito del rumore" disse "e sono venuta."

"Ma come?" Dopo un primo istante di stupore Leo aveva lasciato Michele, le era corso incontro e ora la scuoteva per un braccio. "Ma come? ti dico di restar di là! e tu vieni lo stesso... ma come?... per chi mi prendi... siete tutti pazzi voi... ma come?" Dal furore non riusciva a parlare; poi parve dominarsi: "Ebbene dal momento che hai voluto venire" soggiunse, "ebbene, eccolo là tuo fratello Michele che spara addosso alla gente... parlaci tu, fanne quel che vuoi...: io me ne lavo le mani..." La lasciò e, come chi non vuol essere disturbato, andò a sedersi presso la finestra.

Michele guardava Carla; dov'era restato lo sdegno virtuoso che aveva immaginato di dover provare in tal momento? Altrove; l'idea stessa della seduzione non gli sarebbe venuta se Leo non avesse con quei modi brutali afferrato per un braccio la fanciulla, e certa negligenza non avesse rivelato la frettolosa vestizione. "Dio sa com'era quando sono venuto" pensava e cercava, cercava con una dolorosa avidità, le tracce della colpa: sul volto pallido, gli occhi cerchiati, violati, le labbra scolorite dall'uso, l'espressione confusa e sazia, tutto confermava quel suo sospetto; ma il corpo ecco, il corpo posseduto, bruciato, piegato in mille modi dalla libidine, il corpo non rivelava nulla, era come tutti gli altri giorni; soltanto il principio del petto gli faceva la strana impressione di non essere più quella cosa innocente che si era abituato a considerare staccata, separata dalle altre membra nascoste, ma un lembo impuro dal quale si poteva indovinare l'intero corpo nudo.

"Tutti i miei complimenti" disse alfine con sforzo, "ma era inutile che tu ti scomodassi a vestirti., potevi venire avanti come Leo... investe da camera." E additò l'uomo; questi ebbe un gesto irritato e si coprì il petto.

Silenzio: "Michele, non parlare così" ella disse ad un tratto supplichevole e ansiosa; "lascia che ti spieghi..."

"Non c'è nulla da spiegare." Michele si awicinò alla tavola e vi si appoggiò: "Non so se tu lo ami" continuò come se l'altro non fosse stato presente anche lui, là presso la finestra, "ma certo, ti sei fatta un male enorme... Tu sapevi quel che egli rappresenta per mamma e che uomo sia, e ciò nonostante ti sei data a lui... e per di più sono sicuro che non lo ami..."

"Non lo amo" ella ammise senza alzare gli occhi, "ma c'è un'altra ragione..."

"Ah! c'era un'altra ragione!" si ripetè Leo; li guardava tutti e due, fratello e sorella, con una specie di divertito disprezzo; ora l'ira era sbollita e non restava altro da fare che aspettare gli eventi. "Te la direi io la ragione" pensò, e gli tornava in mente l'atteggiamento lascivo nel quale ricordava di aver veduto Carla non più di dieci minuti avanti; "è la voglia, mia cara, il bisogno che avevi..."

"Neppure tu sai perché hai fatto questo" continuò Michele; infervorato gli pareva di leggere nella colpa della sorella come in un libro aperto; "neppure tu sapresti dirlo."

"Lo so" ella protestò alzando gli occhi.

"Allora dillo."

Turbata Carla guardò Michele poi Leo; "per avere una nuova vita," avrebbe voluto rispondere; ma non ebbe il coraggio; quella sua lontana ragione, ora che vedeva che nulla era mutato se non nel suo corpo posseduto, le pareva ridicola e indegna, e un pudore, un timore, di non essere creduta o di venir derisa le impediva di rivelarla; tacque abbassando la testa.

"Te lo dirò io il perché" continuò Michele trionfante e pur dentro di sé terribilmente irritato dalla parte che gli toccava fare (Cosa sono? pensava, un padre di famiglia? ): "Hai avuto un momento di debolezza, di noia, non hai voluto neppure cercare più in là di Leo, lo hai accettato subito come avresti accettato un altro se si fosse fatto avanti... gli hai ceduto senza saper perché, forse soltanto per far qualcosa." "Sì... per far qualcosa" ella ripetè.

"Quel che ha fatto lo chiama qualcosa" pensò Leo con ironia; si sentiva senza pietà per quei due: soprattutto gli pareva assurdo e ridicolo che Michele, quel ragazzo stupido che aveva tentato di sparargli addosso e si era dimenticato di caricare la rivoltella, e quella sgualdrinella, Carla, che fino a pochi minuti prima egli aveva tenuta nuda tra le sue braccia, nel suo letto, e a cui aveva fatto tutto quel che aveva voluto, ora s'innalzassero entrambi su dei troni di giudici, si affibbiassero delle ali d'angiolo e delle aureole di santi, facessero i puri lasciando lui nella bassezza e nel fango: "Ma fatemi il santissimo piacere," avrebbe voluto gridare, "lasciate quelle facce compunte, quei discorsi gravi... dite pane al pane, e vino al vino... siate quel che siete e nulla più."

Ma si trattenne, curioso di veder come sarebbe finita questa scena fraterna.


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Sarebbero scomparse le tre donne dalla sua vita, la sorella, la madre, l'amante, ciascuna per la sua strada; il processo sarebbe continuato; pochi giorni dopo avrebbe parlato il pubblico ministero. Un forte discorso; dopo essersi sforzato di dipingere con foschi colori l'ambiente corrotto e corruttore nel quale il delitto era avvenuto, pur concedendo a Michele le attenuanti avrebbe sostenuto in pieno la tesi della premeditazione.

"Sì, signori giurati" avrebbe esclamato a questo punto battendo il pugno sulla tavola, "si tratta di un delitto premeditato; Michele ha da Lisa la notizia della seduzione della sorella e se ne va accennando, scherzosamente, secondo la deposizione della teste, ad una possibile uccisione del seduttore... dunque tutto era già deciso, Leo era già condannato. Michele non va da Leo per domandargli spiegazioni ma per assassinarlo, siano o non siano vere le parole di Lisa. Tra quella rivelazione e il delitto passano quasi due ore; cosa fa in questo tempo Michele? Appena uscito dalla casa della donna, in quella stessa strada in cui ella abita, si precipita come un pazzo da un armaiolo e compra per settanta lire una rivoltella; dopo di che, erra senza scopo per la città, abbandonato a se stesso e ai suoi sanguinosi propositi di vendetta come una nave alla tempesta; lo vedete, con quella rivoltella in tasca, fermarsi davanti ai negozi, guardare le vetrine, camminare, percorrere più volte la strada dove abita Leo, lo vedete alfine davanti a quella porta, esitare, entrare, salire la scala... Eccolo nel salotto del suo nemico; questi gli viene incontro ilare, affettuoso, amichevole, sorridendogli... quel sorriso, signori giurati, quel sorriso dell'uomo che senza saperlo andava verso la morte!... tendendogli la mano... Allora Michele spara; l'uomo cade; Michele si china e freddamente, spietatamente lo finisce con un colpo alla tempia; poi, con una calma di delinquente inveterato, chiude dietro di sé la porta della casa e va a costituirsi..." L'oratore avrebbe analizzato l'ostinata, implacabile volontà che aveva avuto Michele di uccider Leo, nonostante sapesse che "Carla, come risultava dalle testimonianze, non era quella pura, intatta, virginea fanciulla che si poteva credere, tutt'altra invece, e che di conseguenza, seduzione nel vero senso della parola non c'era stata." Impressione. "Carla," avrebbe definito l'oratore "è una di quelle fanciulle che non sono mai state innocenti: oggi uno, domani un altro, sciagurata figura del nostro tempo corrotto." Avrebbe insistito sul fatto che con ogni probabilità non era stato Leo a far la corte alla fanciulla, ma viceversa, e questo per una specie d'insana e morbosa rivalità tra la madre e la figlia. "Signori giurati" avrebbe alfine concluso; "nessuno ha il diritto di sostituirsi alla giustizia umana, e tanto meno a quella divina; Michele ha osato questo; Michele ha condannato il suo nemico ed eseguito la condanna; questa atroce e fredda volontà di uccidere è il suo vero delitto: non uno scoppio passionale, signori giurati, non l'esplosione di uno sdegno virtuoso, ma la preparazione e l'esecuzione di un sanguinoso proposito a lungo meditato; ricordatevi questo, ricordatevi che per Michele Leo era morto mentre ancora viveva, e il suo posto tra gli uomini non era ancora segnato da una tomba." "E tu Michele" avrebbe esclamato rivolgendosi verso l'imputato "accetta questa condanna come una espiazione e una purificazione dopo la quale potrai tornare alla tua famiglia e agli uomini."

"Chissà perche"' pensò a questo punto il ragazzo "gli avvocati nelle loro discussioni credono di dover dar del tu agli imputati." Scosse la testa: "Hai torto, pubblico accusatore" pensò con ironia; "hai torto... né purificazione, né espiazione, e neppure famiglia... indifferenza, indifferenza; soltanto indifferenza." Sorrise distrattamente; e chi avrebbe parlato dopo l'accusatore? Il suo avvocato; si sarebbe alzato questo luminare, questo nuovo Demostene, avrebbe delineato una per una le torbide figure di questo processo, avrebbe dipinto anche lui con foschi colori l'ambiente e le persone della sua famiglia: donnaccia senza pudore la madre, profittatore e incestuoso Leo, femmina pettegola e di facili costumi Lisa; vittime loro due, lui e Carla, figli di un alcoolizzato ("il padre è sempre alcoolizzato" egli pensò), cresciuti senza l'amore dei genitori, senza religione, senza morale.

"Amante prima di Lisa, poi della madre" avrebbe gridato l'oratore "Leo lo diventa anche della figlia, della figlia, signori giurati..." avrebbe ripetuto con voce patetica e commossa "che aveva veduto innocente bambina, con le trecce sulle spalle e le gambe nude, che aveva tenuto sulle ginocchia, che aveva, si può dire, allevata per sé e per le sue voglie immonde... Quella casa era il suo harem... non contento di questo tende le mani avide sul patrimonio familiare..." E dopo aver accumulato i soprusi di Leo come le pietre di uno scellerato edifizio, l'oratore avrebbe esaltato, in uno scoppio generoso di voce, la giustizia di quel delitto; e già gli pareva di vederlo, quel suo Cicerone, rosso, congestionato, i capelli al vento, i pugni sulla tavola, gli pareva di udirlo: "Condannerete voi Michele, per avere vendicato l'onore oltraggiato e calpestato della propria famiglia?..." quando, alzando gli occhi, si accorse di essere nella strada dove abitava Leo.

Un freddo, mortale disagio gli gelò il sangue; "Ecco, ci siamo" pensò. La strada era veramente quella che cercava; case nuove, candide, giardini ancor vuoti, qua e là costruzioni cariche d'impalcature, marciapiedi senza selciato; la campagna non doveva esser lontana; poca gente passava; nessuno si voltava per guardarlo, nessuno l'osservava. "Eppure vado ad uccidere un uomo" pensò; frase inverosimile; mise la mano in tasca, toccò la rivoltella; uccider Leo significava ucciderlo veramente, toglierlo dal numero dei vivi, farne scorrere il sangue: "Bisogna ucciderlo" pensò febbrilmente, "ucciderlo... così... senza troppo rumore... così... ecco: mirare al petto... egli cade... cade in terra... mi chino, senza far rumore, con lentezza lo finisco." La scena che doveva essere fulminea; gli appariva lunghissima, disgregata nei suoi gesti, silenziosa; un mortale malessere lo vinceva: "Bisognerebbe ucciderlo senza accorgersene" pensò; "allora sì, tutto andrebbe bene."

Il cielo era grigio; poca gente passava; una automobile; ville; giardini; la rivoltella in fondo alla tasca; il grilletto; il calcio. Si fermò un istante a guardare il numero del portone: in quel momento la propria tranquillità lo spaventò: "Se continuo con questa calma" pensò atterrito "non se ne fa nulla...: bisogna essere sdegnati, furiosi..." Riprese il cammino; il numero ottantatré era più lontano. "Bisogna montarsi" pensò febbrilmente, "vediamo... vediamo le ragioni che ho di odiare Leo... mia madre... mia sorella... era pura pochi giorni fa... ora in quello stesso letto... nuda... perduta... Leo l'ha presa... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... posseduta... mia sorella... mia sorella... trattata come una donnaccia... distesa in quel sudicio letto... orribile, orribile... nuda tra quelle braccia... la mia anima freme al solo pensiero... piegata al vizio di quell'uomo... mia sorella... orribile." Si passò una mano sul collo, si sentiva la gola secca. "Al diavolo mia sorella" pensò disperato ritrovandosi nella stessa calma di prima; tutte quelle fantasie non l'avevano scosso; guardò un portone; era già il numero sessantacinque; un'atroce paura l'invase di non sapere agire, mise la mano in tasca, strinse nervosamente la rivoltella: "Al diavolo tutti... cosa importano le ragioni... ho deciso di ucciderlo e lo ucciderò." Affrettò il passo, le case sfilavano, una dopo l'altra, più presto, più presto... bisognava ucciderlo e l'avrebbe ucciso... ecco tutto; il numero settantacinque, settantasei, una strada, settantasette, settantotto; improvvisamente si mise a correre, la rivoltella gli sbatteva contro la coscia; osservò sul marciapiede una bambina di forse dieci anni che tenendo per mano un bimbo più piccolo gli veniva incontro; pensò d'incrociarli; ma raggiunse prima di loro il portone di Leo, ed entrò col rimpianto di non averli almeno sfiorati. "E ora" pensò arrampicandosi su per la scala "il più bello sarebbe non trovarlo in casa." Fece di corsa le due rampe, al secondo pianerottolo, a destra, trovò la porta del suo nemico; una targa di ottone portava la scritta: Cav. Leo Merumeci.

Non suonò; voleva entrare col respiro tranquillo ed era ansante; aspettò dritto, immobile, davanti quella porta chiusa, che l'ansito e i battiti del cuore si fossero calmati; ma non si calmavano; il cuore pulsava, saltava con fracasso nel suo petto, i polmoni gli si sollevavano contro volontà in un respiro doloroso. "O cuore, o respiro" pensò con un dispetto triste e nervoso, "anche voi vi mettete contro di me?" Premette con una mano il fianco, tentò di dominarsi; quanto tempo sarebbe stato necessario perché il corpo fosse stato pronto come la sua anima? Contò da uno a sessanta, ridicolmente, immobile contro quella porta silenziosa; ricominciò... finalmente, stanco, s'interruppe e suonò.

Udì il campanello echeggiare nell'appartamento vuoto; silenzio; immobilità: "non è in casa" pensò con una gioia e un sollievo profondi. "Suonerò ancora una volta per scrupolo... e poi me ne andrò" e già, apprestandosi a premere di nuovo il bottone, già immaginava di ridiscendere nella strada, andarsene per la città libero, distrarsi; già dimenticava i suoi propositi di vendetta, quando dei passi pesanti risuonarono sul pavimento, di là della porta; poi questa si aprì e Leo apparve.

Indossava una veste da camera, aveva la testa arruffata e il petto nudo; squadrò dall'alto in basso il ragazzo.

"Tu qui" esclamò con faccia e voce assonnate, senza invitarlo ad entrare; "e cosa vuoi?"

Si guardarono: "Cosa voglio?" avrebbe voluto gridare Michele. "Lo sai bene, spudorato, cosa voglio." Ma si trattenne:

"Nulla" disse in un soffio, ché ora il respiro di nuovo gli mancava; "soltanto parlarti."

Leo alzò gli occhi; un'espressione impudente e stupida gli passò sul volto: "Oh bella, parlare? a me? a quest'ora?" disse con stupore esagerato; si teneva sempre nel mezzo della soglia: "E che cosa vuoi dirmi?... Senti, senti caro" soggiunse cominciando a chiudere la porta, "non sarebbe meglio un altro giorno? Stavo dormendo, non ho la testa abbastanza chiara... per esempio domani."

La porta si chiudeva. "Non è vero che stavi dormendo" pensò Michele, e ad un tratto gli scaturì quest'idea: "Carla è di là... in camera sua" e gli parve di vederla nuda, seduta sul bordo del letto, in atto di ascoltare ansiosamente questo dialogo tra l'amante e lo sconosciuto visitatore; diede una spinta alla porta ed entrò:

"No" disse con voce ferma e turbata, "no, oggi stesso ho da parlarti, ... ora."

Un'esitazione: "E sia" profferì l'altro come chi è al termine della sua pazienza; Michele entrò: "Carla è di là?" pensava e un turbamento straordinario lo possedeva.

"Di' la verità" profferì alfine con sforzo mentre quello chiudeva la porta, posandogli una mano sulla spalla; "di', la verità che ho turbato qualche dolce colloquio... c'è qualcheduno di là non è vero?... eh, eh!... qualche bella ragazza..." Vide l'uomo voltarsi e schermirsi con un sorriso odioso di malcelata vanità: "Assolutamente nessuno... dormivo." Capì di aver colto nel segno.

Mise la mano in tasca e strinse la rivoltella; "Dormivo proprio" ripetè Leo senza voltarsi, precedendolo nell'anticamera; "dormivo profondamente e facevo dei sogni bellissimi."

"Ah! sì?"

"Sì... e tu sei venuto a destarmi."

"No, colpirlo alle spalle no" pensò Michele; trasse di tasca la rivoltella e tenendo la mano contro il fianco la puntò nella direzione di Leo... appena questi si sarebbe voltato, avrebbe sparato.

Leo entrò per primo nel salotto, andò alla tavola, accese una sigaretta; avvolto nella veste da camera, come un lottatore, a gambe larghe, con la testa, arruffata e tozza, china verso l'invisibile fiammifero, egli dava l'impressione di un uomo sicuro di sé e della sua vita; poi si voltò; allora, non senza odio, Michele alzo la mano e sparò.

Non ci fu né fumo né fracasso; alla vista della rivoltella Leo spaventatissimo si era gettato con una specie di muggito dietro una sedia; poi il rumore secco del grilletto. "S'è inceppata" pensò il ragazzo; vide Leo urlare "Sei matto!" e alzare una sedia in aria mostrando tutto il corpo: si protese in avanti e sparò daccapo; nuovo rumore del grilletto. "E scarica" comprese alfine atterrito, "e le palle le ho in tasca io." Fece un salto da parte, per evitare la seggiola di Leo, corse all'angolo opposto; la testa gli girava, aveva la gola secca, il cuore in tumulto: "Una palla" pensò disperatamente, "soltanto una palla." Frugò, arraffò con le dita febbrili alcuni proiettili, alzò la testa, tentando, curvo colle mani impazzate, di aprire il tamburo e cacciarvi la carica; ma Leo scorse il suo gesto ed egli ricevette di sbieco un colpo di seggiola sulle mani e sulle ginocchia, così forte che la rivoltella cadde in terra; dal dolore chiuse gli occhi, poi una rabbia indicibile lo invase; si gettò su Leo tentando di stringerlo al collo; ma fu preso, scagliato prima a destra poi a sinistra, e alfine respinto con tanta violenza che dopo aver ciecamente urtato e rovesciato una sedia, cadde sul divano... L'altro gli fu subito sopra e lo prese per i polsi.

Silenzio; si guardarono; rosso, ansante, costretto in malo modo dentro il divano, Michele fece uno sforzo per liberarsi; Leo gli rispose torcendogli i polsi; altro sforzo; altra torsione; alfine il dolore e la rabbia vinsero il ragazzo: gli parve oscuramente che la vita non fosse mai stata così aspra come in questo momento nel quale, così brutalmente oppresso, gli tornava un lamentoso desiderio di certe lontanissime carezze materne; gli occhi gli si empirono di lacrime; allentò i muscoli doloranti, si abbandonò. Per un istante l'uomo lo guardò: la veste da camera era aperta, il petto nudo e peloso gli si sollevava in un respiro che ogni tanto si sfogava per le narici frementi in una specie di soffio ferino: guardava, guardava e tutta la sua persona esprimeva un minaccioso furore a stento trattenuto.

"Sei matto!" profferì alfine con forza scrollando la testa, e lo liberò.

Michele si alzò fregandosi i polsi indolenziti: vedeva Leo dritto, immobile nel mezzo della stanza, la sedia rovesciata e là, nell'angolo, quella cosa nera, la rivoltella... veramente tutto era finito... tutto era stato fatto... ma non gli riusciva di capire... non sapeva se doveva mostrarsi ancora indignato o invece timoroso... guardava Leo e macchinalmente continuava a fregarsi i polsi.

"E ora" disse alfine l'uomo voltandosi verso la porta, "ora fammi il santissimo piacere di andartene." Avrebbe voluto profferire qualche violenza ma si trattenne. "E di questa tua sciocchezza" soggiunse "parlerò con tua madre."

Ma Michele non si mosse: "Non mi rimprovera, non si sfoga, ha fretta ch'io me ne vada" pensò "perché teme ch'io scopra Carla... Carla è di là... nella stanza attigua." Guardava la seconda porta e quasi si meravigliava di vederla così comune ed eguale a tutte le altre, e che la presenza della sorella non vi si rivelasse in qualche modo, per esempio con un lembo di veste rimastovi serrato nel momento che precipitosamente era stata chiusa.

"Dov'è Carla" domandò alfine con voce chiara; un lievissimo stupore passò sul volto impudente dell'uomo: ma fu cosa labile:

"Carla?" egli ripetè con la più grande naturalezza. "Cosa vuoi che ne sappia? sarà a casa, oppure in strada." Gli si avvicinò e lo prese per un braccio: "Vuoi andartene sì o no?"

"Ssst" fece il ragazzo impallidendo e guardandolo, senza svincolarsi; "non credere di farmi paura... me ne andrò quando vorrò."

"Vuoi andartene sì o no" ripetè Leo con voce più alta; fece un primo movimento per trascinare Michele verso la porta; l'altro resistette:

"Io credo" gridò in fretta puntando i piedi "che Carla sia proprio là, in camera tua." Una spinta. "E tu lasciami" ingiunse dibattendosi; ma Leo non lo lasciò.

"Te ne andrai" ripeteva quasi con gioia; "in casa mia faccio quel che mi pare e piace... te ne andrai come un santo." Spinto alle spalle Michele non sapeva come voltarsi.

"Ah! mascalzone!" gridò sentendosi mancare il pavimento sotto i piedi, "mascalzone..."

"Mascalzone sì... quanto vorrai" ripetè Leo spingendolo, "ma te ne andrai."

Fu in questo momento che la porta si aprì e Carla entrò. Non aveva giacca, indossava una gonna succinta e una maglia di lana marrone; doveva essersi vestita allora, in gran fretta, i capelli erano arruffati, era pallida, con quel particolare aspetto tra disadorno e stanco delle donne che non hanno potuto o voluto acconciarsi. Chiuse l'uscio dietro di sé, e dritta, con gli occhi fissi, si avanzò nel mezzo del salotto:

"Ho sentito del rumore" disse "e sono venuta."

"Ma come?" Dopo un primo istante di stupore Leo aveva lasciato Michele, le era corso incontro e ora la scuoteva per un braccio. After an initial instant of astonishment Leo had left Michele, ran to her, and was now shaking her by the arm. "Ma come? ti dico di restar di là! e tu vieni lo stesso... ma come?... per chi mi prendi... siete tutti pazzi voi... ma come?" Dal furore non riusciva a parlare; poi parve dominarsi: "Ebbene dal momento che hai voluto venire" soggiunse, "ebbene, eccolo là tuo fratello Michele che spara addosso alla gente... parlaci tu, fanne quel che vuoi...: io me ne lavo le mani..." La lasciò e, come chi non vuol essere disturbato, andò a sedersi presso la finestra.

Michele guardava Carla; dov'era restato lo sdegno virtuoso che aveva immaginato di dover provare in tal momento? Altrove; l'idea stessa della seduzione non gli sarebbe venuta se Leo non avesse con quei modi brutali afferrato per un braccio la fanciulla, e certa negligenza non avesse rivelato la frettolosa vestizione. Elsewhere; the very idea of seduction would not have come to him if Leo had not with those brutal ways grabbed the maiden by the arm, and certain negligence had not revealed the hasty dressing. "Dio sa com'era quando sono venuto" pensava e cercava, cercava con una dolorosa avidità, le tracce della colpa: sul volto pallido, gli occhi cerchiati, violati, le labbra scolorite dall'uso, l'espressione confusa e sazia, tutto confermava quel suo sospetto; ma il corpo ecco, il corpo posseduto, bruciato, piegato in mille modi dalla libidine, il corpo non rivelava nulla, era come tutti gli altri giorni; soltanto il principio del petto gli faceva la strana impressione di non essere più quella cosa innocente che si era abituato a considerare staccata, separata dalle altre membra nascoste, ma un lembo impuro dal quale si poteva indovinare l'intero corpo nudo.

"Tutti i miei complimenti" disse alfine con sforzo, "ma era inutile che tu ti scomodassi a vestirti., potevi venire avanti come Leo... investe da camera." E additò l'uomo; questi ebbe un gesto irritato e si coprì il petto.

Silenzio: "Michele, non parlare così" ella disse ad un tratto supplichevole e ansiosa; "lascia che ti spieghi..."

"Non c'è nulla da spiegare." Michele si awicinò alla tavola e vi si appoggiò: "Non so se tu lo ami" continuò come se l'altro non fosse stato presente anche lui, là presso la finestra, "ma certo, ti sei fatta un male enorme... Tu sapevi quel che egli rappresenta per mamma e che uomo sia, e ciò nonostante ti sei data a lui... e per di più sono sicuro che non lo ami..."

"Non lo amo" ella ammise senza alzare gli occhi, "ma c'è un'altra ragione..."

"Ah! c'era un'altra ragione!" si ripetè Leo; li guardava tutti e due, fratello e sorella, con una specie di divertito disprezzo; ora l'ira era sbollita e non restava altro da fare che aspettare gli eventi. "Te la direi io la ragione" pensò, e gli tornava in mente l'atteggiamento lascivo nel quale ricordava di aver veduto Carla non più di dieci minuti avanti; "è la voglia, mia cara, il bisogno che avevi..."

"Neppure tu sai perché hai fatto questo" continuò Michele; infervorato gli pareva di leggere nella colpa della sorella come in un libro aperto; "neppure tu sapresti dirlo."

"Lo so" ella protestò alzando gli occhi.

"Allora dillo."

Turbata Carla guardò Michele poi Leo; "per avere una nuova vita," avrebbe voluto rispondere; ma non ebbe il coraggio; quella sua lontana ragione, ora che vedeva che nulla era mutato se non nel suo corpo posseduto, le pareva ridicola e indegna, e un pudore, un timore, di non essere creduta o di venir derisa le impediva di rivelarla; tacque abbassando la testa.

"Te lo dirò io il perché" continuò Michele trionfante e pur dentro di sé terribilmente irritato dalla parte che gli toccava fare (Cosa sono? pensava, un padre di famiglia? ): "Hai avuto un momento di debolezza, di noia, non hai voluto neppure cercare più in là di Leo, lo hai accettato subito come avresti accettato un altro se si fosse fatto avanti... gli hai ceduto senza saper perché, forse soltanto per far qualcosa." "Sì... per far qualcosa" ella ripetè.

"Quel che ha fatto lo chiama qualcosa" pensò Leo con ironia; si sentiva senza pietà per quei due: soprattutto gli pareva assurdo e ridicolo che Michele, quel ragazzo stupido che aveva tentato di sparargli addosso e si era dimenticato di caricare la rivoltella, e quella sgualdrinella, Carla, che fino a pochi minuti prima egli aveva tenuta nuda tra le sue braccia, nel suo letto, e a cui aveva fatto tutto quel che aveva voluto, ora s'innalzassero entrambi su dei troni di giudici, si affibbiassero delle ali d'angiolo e delle aureole di santi, facessero i puri lasciando lui nella bassezza e nel fango: "Ma fatemi il santissimo piacere," avrebbe voluto gridare, "lasciate quelle facce compunte, quei discorsi gravi... dite pane al pane, e vino al vino... siate quel che siete e nulla più."

Ma si trattenne, curioso di veder come sarebbe finita questa scena fraterna.