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Gli Indifferenti - Alberto Moravia, 17 (XIII)

17 (XIII)

Con una lucidità allucinata, camminando passo a passo e guardando in terra, gli parve anche di potere immaginare come sarebbe avvenuta questa seduzione... una giornata grigia, come oggi, una giornata morta, tiepida, senza sole e senza movimento... Come oggi Leo sarebbe venuto, li avrebbe invitati, lui e la sorella, ad un giro in automobile... subito detto, subito accettato... e dopo il giro, dove sarebbero andati a prendere il tè?... In casa di Leo, già, in casa di Leo, dove Carla sarebbe venuta volentieri, rassicurata dalla presenza del fratello... sarebbero tutti e tre discesi davanti a quella porta, avrebbero insieme salito quella scala, lentamente, la fanciulla per prima, poi i due uomini... Sulla soglia della porta, mentre Carla si sarebbe tolta il cappello davanti allo specchio del vestibolo, loro due avrebbero scambiato una stretta di mano come suggello dell'intesa... e dopo aver visitato, ammirato la casa, eccoli tutti e tre, in quella luce blanda del pomeriggio, nel piccolo salotto di Leo, tutti e tre con i loro pensieri differenti, con le loro facce immobili. Poi Carla avrebbe servito in piedi il tè, l'ultimo, e da quelle mani i due uomini seduti avrebbero ricevuto la bevanda, i biscotti farinosi, lo zucchero, il latte; da quella bocca amabile un sorriso senza sospetto, da quegli occhi degli sguardi limpidi... Tutti e tre seduti presso la finestra, perché il cielo si sarebbe fatto un po' fosco e l'ombra avrebbe cominciato ad invadere il fondo della stanza, tutti e tre insieme avrebbero bevuto, mangiato... avrebbero anche parlato, in quel silenzio pomeridiano della casa; i due uomini guardandosi negli occhi, la fanciulla ridendo ignara, scherzando ad alta voce... E dopo il tè, in quel momento di silenzio e di sazietà trasognata che segue ogni appetito soddisfatto, egli avrebbe guardato Leo, e Leo avrebbe reso quello sguardo... poi, con rapido movimento, gli occhi dell'uomo si sarebbero posati sulla testa docile e un po' curva di Carla e sulla porta... Egli avrebbe capito, si sarebbe lentamente alzato: "Vado a prendere le sigarette" avrebbe detto, e con un passo stranamente sicuro, a fronte alta, sarebbe uscito lasciando quei due, la sorella e l'uomo, figure nere e immobili, davanti alla finestra piena di cielo grigio.

Sarebbe andato nel vestibolo, si sarebbe rivestito del suo pastrano; sarebbe partito, chiudendo con precauzione la porta... Le ore di quel pomeriggio, sarebbero passate, interminabili, una dopo l'altra, senza Carla, senza Leo, senza nessuno, per strada, oppure in qualche piccolo caffè, in qualche cinematografo. E alla sera egli sarebbe tornato alla villa, avrebbe ritrovato Carla, forse anche Leo, alla tavola familiare, e avrebbe scrutato quei due volti, senza indovinare, da alcuno sguardo, alcun segno, quel che era avvenuto in quella casa tra quelle quattro pareti, dopo la sua partenza...: una fuga per l'appartamento buio, in un fracasso di sedie rovesciate e di porte aperte e chiuse? una breve lotta nell'ombra del piccolo salotto, davanti alla finestra crepuscolare? o piuttosto una mortale rassegnazione di fronte all'inevitabile caduta, presentita da lungo tempo e finalmente accettata?

Egli non avrebbe mai saputo; nonostante questo pomeriggio e tutti gli altri giorni nei quali si sarebbe ripetuta la fruttuosa e colpevole vicenda, la loro vita, per forza di abitudine e di convenienza, avrebbe continuato come prima... un malinteso, una falsità di più e avanti... Oppure un giorno queste segrete vergogne, come dei vermi in un gran corpo in decomposizione, si sarebbero rivelate in un'esplosione di egoismi, provocando il crollo finale... Essi si sarebbero trovati nudi, l'uno di fronte all'altro... allora sarebbe stata la fine, la vera fine...

Gli parve di soffocare; si fermò, guardò davanti a sé, senza vedere, la vetrina di un negozio. Ora era veramente arrivato in fondo al suo avvenire: nulla più da vendere, né la innocenza di Carla, né il proprio amore per Lisa, né il proprio coraggio, nulla più da consegnare a Leo in cambio del suo denaro. Dopo queste fantasie, che non erano più ripide della realtà sulla quale la sua esistenza precipitava, della aridità che gli asciugava la bocca e gli screpolava l'anima, avrebbe voluto gridare e piangere; si sentiva stanco e mortalmente a disagio come se veramente pochi minuti prima avesse lasciato Carla in casa di Leo, e ora, laggiù nell'appartamento chiuso, quella vergogna si compisse, con questi gesti, la lotta, la fuga, l'abbraccio; con quei colori, con quelle forme, le braccia tese, il petto nudo, il corpo prostrato sotto la macchia cupa e curva di un altro corpo, gli occhi chiusi e violati, che a lampeggiamenti gli erano apparsi nel cielo febbrile della sua immaginazione. Si sentiva addosso tanto disgusto e tanta fatica che ne provava un bisogno istintivo di lavarsi, non sapeva perché, un bisogno lamentoso di acqua pura, come se il fiotto fresco delle abluzioni avesse potuto scorrere per quei meandri della sua anima... ruscelli mormoranti fra le erbe, cascate bianche e vive precipitanti con un fragore continuo dall'alto di una rupe, torrenti freddi spumeggianti sui loro letti di ghiaia, i rigagnoli stessi che dalla fronte nevosa delle montagne, al momento del disgelo, serpono giù per delle vie nascoste e si congiungono a valle; tutte le acque più fresche, nella sua triste bramosia, gli parevano insufficienti.

Riprese il cammino: ora capiva che una frase: "Per fortuna non sono che idee," non sarebbe bastata a purificarlo: dal suo animo turbato, dalla sua bocca amara, capiva di aver vissuto quelle fantasie; impossibile rivedere Carla con occhi fraterni, dimenticare di averla immaginata sotto quelle apparenze impudiche che solitamente si attribuiscono alle donne perdute; troppo tardi ora per tornare alle più tranquille visioni: pensare era vivere.

Ma aveva veduto, aveva provato quel che sarebbe diventato, se non avesse saputo vincere la propria indifferenza: senza fede, senza amore, solo, per salvarsi bisognava o vivere con sincerità e secondo degli schemi tradizionali questa sua intollerabile situazione, o uscirne per sempre; bisognava odiar Leo, amar Lisa, provar del disgusto e della compassione per la madre, e dell'affetto per Carla: tutti sentimenti che non conosceva; oppure andarsene altrove a cercare la sua gente, i suoi luoghi, quel paradiso dove tutto, i gesti, le parole, i sentimenti avrebbero avuto una subita aderenza alla realtà che li avrebbe originati.

Questo paradiso di concretezza e di verità gli era sembrato, due anni prima, d'intravederlo nelle lacrime di una donna pubblica fermata per strada e portata in una camera di albergo. Piccola e frivola, aveva un corpo divertente per certa ingenua sproporzione tra le sporgenze goffe dei seni e delle natiche, e la snellezza incavata del dorso, così che nuda pareva che camminasse piegata in avanti ostentando vanitosamente, come un pavone la coda, quelle sue floride rotondità. Un altro contrasto stava nel fatto ch'ella offriva quelle sue seduzioni rosee e sciupate, avvolte in certi miserabili veli neri (e li portava un po' di traverso come un travestimento di carnevale), cenciose gramaglie improvvisate, gli aveva confidato su per la scala dell'albergo, senza ombra di tristezza, con quella indifferente semplicità che si riferisce ad ogni fenomeno naturale, per la morte di sua madre avvenuta una settimana prima. Ma questo luttuoso avvenimento, che l'aveva lasciata, secondo la sua espressione, sola al mondo, non le impediva di cercarsi ogni sera un compagno alla sua solitudine: bisognava pur vivere. In camera aveva fatto la sua piccola commedia del pudore, gaiamente, con una certa fresca e lieta spontaneità: la camera era piccola e modesta: ella aveva lasciato un po' dappertutto in terra, come un fuggiasco che si libera pezzo per pezzo della sua armatura per correr più spedito, le parti leggere del suo vestimento, i veli neri, la gonna, la sottoveste, i panni intimi; e si era alfine rifugiata, vestita delle sole calze, nell'angolo più caldo e oscuro, presso la stufa. Ne era uscita con molte moine e con movimenti goffi del petto e delle anche che facevano credere che ad ogni passo eseguisse una riverenza; ne era uscita con mille proteste, coprendosi dove poteva con le mani; era cautamente entrata nel letto, con un sorriso misterioso e amabile che pareva prometter chissà quali raffinate delizie... ma poi, ad un tentativo di Michele di costringerla a qualche abilità puramente professionale, si era rifiutata e alfine, poiché egli insisteva, era scoppiata in lacrime; non un pianto dignitoso, oppure doloroso e tragico; neppure uno di quegli scoppi isterici accompagnati da grida e da contorcimenti... no, una specie di pianto infantile, con grosse lacrime e singhiozzi veementi, che facevano sussultare tutto il corpo e in particolar modo quei due seni leggeri e teneri come due innocenti viaggiatori costretti da un cavallo bizzarro ad un faticoso e continuo sobbalzare. Egli la guardava stupito, senza comprendere questo rapido passaggio dalla gioia al dolore... Finalmente, dopo molte domande, gli era sembrato di capire che nel momento in cui egli le domandava di mostrare tutte le sue sapienze professionali, in quella testa così vicina e pur così lontana dalla sua, il pensiero della madre morta era stato tanto forte e intollerabile da provocare quel rumoroso scoppio di pianto. Fatte queste confuse spiegazioni con voce lamentosa e assonnata, mentre il ragazzo, ancora attonito, curvo su di lei, la guardava senza parlare, ella si era sollecitamente soffiato il naso, si era asciugate quelle lacrime con un lembo del lenzuolo, ed era tornata serena, gaia, perfino zelante, come se avesse voluto farsi perdonare il suo inopportuno dolore. Tutto era andato bene, e dopo un'ora si erano separati sulla porta dell'albergo, se n'erano andati ciascuno per la propria strada, né si erano mai più rivisti.

Ora quel pianto gli tornava alla memoria come un esempio di vita profondamente intrecciata e sincera; quelle lacrime colate sul volto imbellettato, versate in quel momento, risortivano dalla pienezza segreta di quella vita come muscoli che ad una leggera contrazione affiorano improvvisamente sotto la pelle. Quell'anima era intera, coi suoi vizi e le sue virtù, e partecipava delle qualità di tutte le cose vere e solide, di rivelare ad ogni momento una verità profonda e semplice. Invece egli non era così; schermo bianco e piatto, sulla sua indifferenza, i dolori e le gioie passavano come ombre senza lasciare traccia, e di riflesso, come se questa sua inconsistenza si comunicasse anche al suo mondo esterno, tutto intorno a lui era senza peso, senza valore, effimero come un gioco di ombre e di luci: da quei fantasmi che avrebbero dovuto impersonare tradizionalmente i membri della sua famiglia, la sorella e la madre, o la donna amata, Lisa, per uno sdoppiamento che poteva continuare all'infinito, altri se ne distaccavano, secondo le circostanze e la sua fantasia. Cosi gli era possibile vedere in Carla una fanciulla disonesta, nella madre una signora stupida e ridicola, in Lisa una donnaccia; per non parlar di Leo che di ora in ora, attraverso i discorsi degli altri e le proprie troppo obbiettive impressioni, cambiava completamente, così, che se in un primo momento credeva di odiarlo, poco tempo dopo lo amava teneramente.

Sarebbe bastato un solo atto sincero, un atto di fede, per fermare questa baraonda e riassestare questi valori nella loro abituale prospettiva; di conseguenza gli appariva enorme l'importanza della sua visita a Lisa; se fosse riuscito ad amarla, tutto poi sarebbe stato possibile: odiare Leo ed il resto.

Alzò gli occhi, si accorse di aver oltrepassato la strada dove abitava la donna: tornò indietro. Ora il suo spirito maligno lo tormentava: "E se veramente" gli domandava "tu sapessi rimettere le cose in quei luoghi dove comunemente stanno, credi tu che te ne troveresti avvantaggiato? Credi tu che diventare un vero fratello, un vero figlio, un vero amante, un vero uomo qualunque, egoista e logico come ce ne sono tanti, significherebbe un progresso di fronte alle tue presenti condizioni?"

"Lo pensi veramente? ne sei proprio sicuro?" Tutte domande senza risposta. "Non credi invece," continuava la voce dubbiosa, "che la strada piena di dubbi e di perversità per la quale ora cammini ti porterebbe molto più lontano? E anche non ti pare che sarebbe una vigliaccheria da parte tua diventare come tutti gli altri?" "O a che cosa porterebbe allora" pensò tra ironico e disperato, "a che cosa porterebbe raggiungere la sincerità?" Guardava davanti a sé, con occhi imbambolati, ingannato dal proprio riflesso nel vetro della bottega; e ad un tratto gli parve di capire a che cosa avrebbe portato la sincerità: nel mezzo della vetrina, che era quella di un profumiere, tra uno scintillio biondo di bottiglie di acqua di Colonia a buon mercato, in cima ad una catasta di saponette rosee e verdoline, un fantoccio réclame attirava l'attenzione dei passanti; dipinto a vivi colori, tagliato nel cartone, raffigurato secondo un modello più umano che fantastico, aveva un volto immobile, stupido e ilare e dei grandi occhi castani pieni di fede candida e incrollabile; indossava un'elegante giacca da camera, doveva essersi alzato proprio allora dal letto, e senza mai stancarsi, senza mai lasciare quel suo sorriso, con un gesto dimostrativo passava e ripassava una lama da rasoio sopra una striscia di pelle; affilava. Non ci poteva esser alcun nesso tra la banale azione che compiva e la lieta soddisfazione della sua faccia rosea, ma appunto in tale assurdità stava tutta l'efficacia della réclame; quella sproporzionata felicità non voleva additare la imbecillità dell'uomo, sibbene la bontà del rasoio; non voleva dimostrare tutto il vantaggio di possedere una modesta intelligenza ma quello di radersi con una buona lama; però a Michele immerso nei suoi pensieri fece tutt'altro effetto.

Gli parve di vedere se stesso e la sua sincerità; gli parve di ricevere da quel fantoccio sorridente la risposta alla sua domanda: "A che cosa servirebbe aver fede?" Era una risposta scoraggiante: "Servirebbe" significava il fantoccio "ad avere una lama, una felicità come la mia, come quella di tutti gli altri, di umile, stupida origine, ma scintillante... e poi l'essenziale è che rade." Era la stessa risposta che gli avrebbe dato una di quelle tante persone dabbene: "Fai come me... e diventerai come me," mettendo la propria persona stupida, goffa, volgare, come un esempio, come uno scopo da raggiungere in cima alla dura montagna dei suoi pensieri e delle sue rinunzie. "Ecco a che cosa servirebbe" insisteva il suo spirito maligno, "servirebbe a diventare un fantoccio stupido e roseo come questo qui." Imbambolato egli guardava il pupazzo che, con un movimento continuo, a piccole scosse automatiche, una, due, tre, affilava la sua lama, e avrebbe voluto colpirlo in faccia e spezzare quel sorriso radioso.

"Piangere dovresti" pensava, "piangere a grosse lacrime." Ma il fantoccio sorrideva e affilava.

Si staccò a fatica da questo spettacolo affascinante (e veramente c'era qualche cosa di pazzo e di allucinante in quel movimento continuo), e voltò nella strada dove abitava Lisa; delle frasi stupide e assurde ballavano nella sua testa: "Ecco, Lisa," si ripeteva, "ecco il tuo povero fantoccio dal rasoio."


17 (XIII) 17 (XIII) 17 (XIII) 17 (XIII)

Con una lucidità allucinata, camminando passo a passo e guardando in terra, gli parve anche di potere immaginare come sarebbe avvenuta questa seduzione... una giornata grigia, come oggi, una giornata morta, tiepida, senza sole e senza movimento... Come oggi Leo sarebbe venuto, li avrebbe invitati, lui e la sorella, ad un giro in automobile... subito detto, subito accettato... e dopo il giro, dove sarebbero andati a prendere il tè?... In casa di Leo, già, in casa di Leo, dove Carla sarebbe venuta volentieri, rassicurata dalla presenza del fratello... sarebbero tutti e tre discesi davanti a quella porta, avrebbero insieme salito quella scala, lentamente, la fanciulla per prima, poi i due uomini... Sulla soglia della porta, mentre Carla si sarebbe tolta il cappello davanti allo specchio del vestibolo, loro due avrebbero scambiato una stretta di mano come suggello dell'intesa... e dopo aver visitato, ammirato la casa, eccoli tutti e tre, in quella luce blanda del pomeriggio, nel piccolo salotto di Leo, tutti e tre con i loro pensieri differenti, con le loro facce immobili. Poi Carla avrebbe servito in piedi il tè, l'ultimo, e da quelle mani i due uomini seduti avrebbero ricevuto la bevanda, i biscotti farinosi, lo zucchero, il latte; da quella bocca amabile un sorriso senza sospetto, da quegli occhi degli sguardi limpidi... Tutti e tre seduti presso la finestra, perché il cielo si sarebbe fatto un po' fosco e l'ombra avrebbe cominciato ad invadere il fondo della stanza, tutti e tre insieme avrebbero bevuto, mangiato... avrebbero anche parlato, in quel silenzio pomeridiano della casa; i due uomini guardandosi negli occhi, la fanciulla ridendo ignara, scherzando ad alta voce... E dopo il tè, in quel momento di silenzio e di sazietà trasognata che segue ogni appetito soddisfatto, egli avrebbe guardato Leo, e Leo avrebbe reso quello sguardo... poi, con rapido movimento, gli occhi dell'uomo si sarebbero posati sulla testa docile e un po' curva di Carla e sulla porta... Egli avrebbe capito, si sarebbe lentamente alzato: "Vado a prendere le sigarette" avrebbe detto, e con un passo stranamente sicuro, a fronte alta, sarebbe uscito lasciando quei due, la sorella e l'uomo, figure nere e immobili, davanti alla finestra piena di cielo grigio.

Sarebbe andato nel vestibolo, si sarebbe rivestito del suo pastrano; sarebbe partito, chiudendo con precauzione la porta... Le ore di quel pomeriggio, sarebbero passate, interminabili, una dopo l'altra, senza Carla, senza Leo, senza nessuno, per strada, oppure in qualche piccolo caffè, in qualche cinematografo. E alla sera egli sarebbe tornato alla villa, avrebbe ritrovato Carla, forse anche Leo, alla tavola familiare, e avrebbe scrutato quei due volti, senza indovinare, da alcuno sguardo, alcun segno, quel che era avvenuto in quella casa tra quelle quattro pareti, dopo la sua partenza...: una fuga per l'appartamento buio, in un fracasso di sedie rovesciate e di porte aperte e chiuse? una breve lotta nell'ombra del piccolo salotto, davanti alla finestra crepuscolare? o piuttosto una mortale rassegnazione di fronte all'inevitabile caduta, presentita da lungo tempo e finalmente accettata?

Egli non avrebbe mai saputo; nonostante questo pomeriggio e tutti gli altri giorni nei quali si sarebbe ripetuta la fruttuosa e colpevole vicenda, la loro vita, per forza di abitudine e di convenienza, avrebbe continuato come prima... un malinteso, una falsità di più e avanti... Oppure un giorno queste segrete vergogne, come dei vermi in un gran corpo in decomposizione, si sarebbero rivelate in un'esplosione di egoismi, provocando il crollo finale... Essi si sarebbero trovati nudi, l'uno di fronte all'altro... allora sarebbe stata la fine, la vera fine...

Gli parve di soffocare; si fermò, guardò davanti a sé, senza vedere, la vetrina di un negozio. Ora era veramente arrivato in fondo al suo avvenire: nulla più da vendere, né la innocenza di Carla, né il proprio amore per Lisa, né il proprio coraggio, nulla più da consegnare a Leo in cambio del suo denaro. Dopo queste fantasie, che non erano più ripide della realtà sulla quale la sua esistenza precipitava, della aridità che gli asciugava la bocca e gli screpolava l'anima, avrebbe voluto gridare e piangere; si sentiva stanco e mortalmente a disagio come se veramente pochi minuti prima avesse lasciato Carla in casa di Leo, e ora, laggiù nell'appartamento chiuso, quella vergogna si compisse, con questi gesti, la lotta, la fuga, l'abbraccio; con quei colori, con quelle forme, le braccia tese, il petto nudo, il corpo prostrato sotto la macchia cupa e curva di un altro corpo, gli occhi chiusi e violati, che a lampeggiamenti gli erano apparsi nel cielo febbrile della sua immaginazione. After these fantasies, which were no steeper than the reality upon which his existence fell, than the aridity that dried his mouth and chapped his soul, he would have liked to scream and weep; he felt tired and mortally uncomfortable as if just a few minutes before he had left Carla in Leo's house, and now, down there in the closed apartment, that shame was fulfilled, with these gestures, the fight, the flight, the embrace; with those colours, with those shapes, the outstretched arms, the bare chest, the prostrate body under the dark and curved stain of another body, the closed and violated eyes which had appeared to him in flashes in the feverish sky of his imagination. Si sentiva addosso tanto disgusto e tanta fatica che ne provava un bisogno istintivo di lavarsi, non sapeva perché, un bisogno lamentoso di acqua pura, come se il fiotto fresco delle abluzioni avesse potuto scorrere per quei meandri della sua anima... ruscelli mormoranti fra le erbe, cascate bianche e vive precipitanti con un fragore continuo dall'alto di una rupe, torrenti freddi spumeggianti sui loro letti di ghiaia, i rigagnoli stessi che dalla fronte nevosa delle montagne, al momento del disgelo, serpono giù per delle vie nascoste e si congiungono a valle; tutte le acque più fresche, nella sua triste bramosia, gli parevano insufficienti. He felt so disgusted and so tired that he felt an instinctive need to wash, he didn't know why, a plaintive need for pure water, as if the cool gush of ablutions could flow through those recesses of his soul... babbling streams between the grasses, white and lively waterfalls tumbling with a continuous roar from the top of a cliff, cold torrents foaming on their gravel beds, the very rivulets that from the snowy front of the mountains, at the time of the thaw, wind down hidden and they join downstream; all the freshest waters, in his sad longing, seemed insufficient to him.

Riprese il cammino: ora capiva che una frase: "Per fortuna non sono che idee," non sarebbe bastata a purificarlo: dal suo animo turbato, dalla sua bocca amara, capiva di aver vissuto quelle fantasie; impossibile rivedere Carla con occhi fraterni, dimenticare di averla immaginata sotto quelle apparenze impudiche che solitamente si attribuiscono alle donne perdute; troppo tardi ora per tornare alle più tranquille visioni: pensare era vivere.

Ma aveva veduto, aveva provato quel che sarebbe diventato, se non avesse saputo vincere la propria indifferenza: senza fede, senza amore, solo, per salvarsi bisognava o vivere con sincerità e secondo degli schemi tradizionali questa sua intollerabile situazione, o uscirne per sempre; bisognava odiar Leo, amar Lisa, provar del disgusto e della compassione per la madre, e dell'affetto per Carla: tutti sentimenti che non conosceva; oppure andarsene altrove a cercare la sua gente, i suoi luoghi, quel paradiso dove tutto, i gesti, le parole, i sentimenti avrebbero avuto una subita aderenza alla realtà che li avrebbe originati.

Questo paradiso di concretezza e di verità gli era sembrato, due anni prima, d'intravederlo nelle lacrime di una donna pubblica fermata per strada e portata in una camera di albergo. Piccola e frivola, aveva un corpo divertente per certa ingenua sproporzione tra le sporgenze goffe dei seni e delle natiche, e la snellezza incavata del dorso, così che nuda pareva che camminasse piegata in avanti ostentando vanitosamente, come un pavone la coda, quelle sue floride rotondità. Un altro contrasto stava nel fatto ch'ella offriva quelle sue seduzioni rosee e sciupate, avvolte in certi miserabili veli neri (e li portava un po' di traverso come un travestimento di carnevale), cenciose gramaglie improvvisate, gli aveva confidato su per la scala dell'albergo, senza ombra di tristezza, con quella indifferente semplicità che si riferisce ad ogni fenomeno naturale, per la morte di sua madre avvenuta una settimana prima. Ma questo luttuoso avvenimento, che l'aveva lasciata, secondo la sua espressione, sola al mondo, non le impediva di cercarsi ogni sera un compagno alla sua solitudine: bisognava pur vivere. In camera aveva fatto la sua piccola commedia del pudore, gaiamente, con una certa fresca e lieta spontaneità: la camera era piccola e modesta: ella aveva lasciato un po' dappertutto in terra, come un fuggiasco che si libera pezzo per pezzo della sua armatura per correr più spedito, le parti leggere del suo vestimento, i veli neri, la gonna, la sottoveste, i panni intimi; e si era alfine rifugiata, vestita delle sole calze, nell'angolo più caldo e oscuro, presso la stufa. Ne era uscita con molte moine e con movimenti goffi del petto e delle anche che facevano credere che ad ogni passo eseguisse una riverenza; ne era uscita con mille proteste, coprendosi dove poteva con le mani; era cautamente entrata nel letto, con un sorriso misterioso e amabile che pareva prometter chissà quali raffinate delizie... ma poi, ad un tentativo di Michele di costringerla a qualche abilità puramente professionale, si era rifiutata e alfine, poiché egli insisteva, era scoppiata in lacrime; non un pianto dignitoso, oppure doloroso e tragico; neppure uno di quegli scoppi isterici accompagnati da grida e da contorcimenti... no, una specie di pianto infantile, con grosse lacrime e singhiozzi veementi, che facevano sussultare tutto il corpo e in particolar modo quei due seni leggeri e teneri come due innocenti viaggiatori costretti da un cavallo bizzarro ad un faticoso e continuo sobbalzare. Egli la guardava stupito, senza comprendere questo rapido passaggio dalla gioia al dolore... Finalmente, dopo molte domande, gli era sembrato di capire che nel momento in cui egli le domandava di mostrare tutte le sue sapienze professionali, in quella testa così vicina e pur così lontana dalla sua, il pensiero della madre morta era stato tanto forte e intollerabile da provocare quel rumoroso scoppio di pianto. Fatte queste confuse spiegazioni con voce lamentosa e assonnata, mentre il ragazzo, ancora attonito, curvo su di lei, la guardava senza parlare, ella si era sollecitamente soffiato il naso, si era asciugate quelle lacrime con un lembo del lenzuolo, ed era tornata serena, gaia, perfino zelante, come se avesse voluto farsi perdonare il suo inopportuno dolore. Tutto era andato bene, e dopo un'ora si erano separati sulla porta dell'albergo, se n'erano andati ciascuno per la propria strada, né si erano mai più rivisti.

Ora quel pianto gli tornava alla memoria come un esempio di vita profondamente intrecciata e sincera; quelle lacrime colate sul volto imbellettato, versate in quel momento, risortivano dalla pienezza segreta di quella vita come muscoli che ad una leggera contrazione affiorano improvvisamente sotto la pelle. Quell'anima era intera, coi suoi vizi e le sue virtù, e partecipava delle qualità di tutte le cose vere e solide, di rivelare ad ogni momento una verità profonda e semplice. Invece egli non era così; schermo bianco e piatto, sulla sua indifferenza, i dolori e le gioie passavano come ombre senza lasciare traccia, e di riflesso, come se questa sua inconsistenza si comunicasse anche al suo mondo esterno, tutto intorno a lui era senza peso, senza valore, effimero come un gioco di ombre e di luci: da quei fantasmi che avrebbero dovuto impersonare tradizionalmente i membri della sua famiglia, la sorella e la madre, o la donna amata, Lisa, per uno sdoppiamento che poteva continuare all'infinito, altri se ne distaccavano, secondo le circostanze e la sua fantasia. Cosi gli era possibile vedere in Carla una fanciulla disonesta, nella madre una signora stupida e ridicola, in Lisa una donnaccia; per non parlar di Leo che di ora in ora, attraverso i discorsi degli altri e le proprie troppo obbiettive impressioni, cambiava completamente, così, che se in un primo momento credeva di odiarlo, poco tempo dopo lo amava teneramente.

Sarebbe bastato un solo atto sincero, un atto di fede, per fermare questa baraonda e riassestare questi valori nella loro abituale prospettiva; di conseguenza gli appariva enorme l'importanza della sua visita a Lisa; se fosse riuscito ad amarla, tutto poi sarebbe stato possibile: odiare Leo ed il resto.

Alzò gli occhi, si accorse di aver oltrepassato la strada dove abitava la donna: tornò indietro. Ora il suo spirito maligno lo tormentava: "E se veramente" gli domandava "tu sapessi rimettere le cose in quei luoghi dove comunemente stanno, credi tu che te ne troveresti avvantaggiato? Credi tu che diventare un vero fratello, un vero figlio, un vero amante, un vero uomo qualunque, egoista e logico come ce ne sono tanti, significherebbe un progresso di fronte alle tue presenti condizioni?"

"Lo pensi veramente? ne sei proprio sicuro?" Tutte domande senza risposta. "Non credi invece," continuava la voce dubbiosa, "che la strada piena di dubbi e di perversità per la quale ora cammini ti porterebbe molto più lontano? E anche non ti pare che sarebbe una vigliaccheria da parte tua diventare come tutti gli altri?" "O a che cosa porterebbe allora" pensò tra ironico e disperato, "a che cosa porterebbe raggiungere la sincerità?" Guardava davanti a sé, con occhi imbambolati, ingannato dal proprio riflesso nel vetro della bottega; e ad un tratto gli parve di capire a che cosa avrebbe portato la sincerità: nel mezzo della vetrina, che era quella di un profumiere, tra uno scintillio biondo di bottiglie di acqua di Colonia a buon mercato, in cima ad una catasta di saponette rosee e verdoline, un fantoccio réclame attirava l'attenzione dei passanti; dipinto a vivi colori, tagliato nel cartone, raffigurato secondo un modello più umano che fantastico, aveva un volto immobile, stupido e ilare e dei grandi occhi castani pieni di fede candida e incrollabile; indossava un'elegante giacca da camera, doveva essersi alzato proprio allora dal letto, e senza mai stancarsi, senza mai lasciare quel suo sorriso, con un gesto dimostrativo passava e ripassava una lama da rasoio sopra una striscia di pelle; affilava. Non ci poteva esser alcun nesso tra la banale azione che compiva e la lieta soddisfazione della sua faccia rosea, ma appunto in tale assurdità stava tutta l'efficacia della réclame; quella sproporzionata felicità non voleva additare la imbecillità dell'uomo, sibbene la bontà del rasoio; non voleva dimostrare tutto il vantaggio di possedere una modesta intelligenza ma quello di radersi con una buona lama; però a Michele immerso nei suoi pensieri fece tutt'altro effetto.

Gli parve di vedere se stesso e la sua sincerità; gli parve di ricevere da quel fantoccio sorridente la risposta alla sua domanda: "A che cosa servirebbe aver fede?" Era una risposta scoraggiante: "Servirebbe" significava il fantoccio "ad avere una lama, una felicità come la mia, come quella di tutti gli altri, di umile, stupida origine, ma scintillante... e poi l'essenziale è che rade." Era la stessa risposta che gli avrebbe dato una di quelle tante persone dabbene: "Fai come me... e diventerai come me," mettendo la propria persona stupida, goffa, volgare, come un esempio, come uno scopo da raggiungere in cima alla dura montagna dei suoi pensieri e delle sue rinunzie. "Ecco a che cosa servirebbe" insisteva il suo spirito maligno, "servirebbe a diventare un fantoccio stupido e roseo come questo qui." Imbambolato egli guardava il pupazzo che, con un movimento continuo, a piccole scosse automatiche, una, due, tre, affilava la sua lama, e avrebbe voluto colpirlo in faccia e spezzare quel sorriso radioso.

"Piangere dovresti" pensava, "piangere a grosse lacrime." Ma il fantoccio sorrideva e affilava.

Si staccò a fatica da questo spettacolo affascinante (e veramente c'era qualche cosa di pazzo e di allucinante in quel movimento continuo), e voltò nella strada dove abitava Lisa; delle frasi stupide e assurde ballavano nella sua testa: "Ecco, Lisa," si ripeteva, "ecco il tuo povero fantoccio dal rasoio."