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Gli Indifferenti - Alberto Moravia, 13 (VIII)

13 (VIII)

Ora Carla restava sola nell'atrio. Si avvicinò alla lampada: nel suo pugno chiuso qualche cosa scricchiolava, era un biglietto di Leo, il biglietto che le sue dita esitanti avevano raccolto da quella lunga stretta di mano dell'amante.

Il biglietto era breve: "Ti aspetto tra un'ora, con la macchina, al cancello del giardino", e portava anche la firma: "Leo".

Sconcertata si avviò su per la scala: "tra un'ora," si ripeteva, "tra un'ora andarmene via." Gradino per gradino arrivò al pianerottolo angusto, guardò in su: l'anticamera, di cui si vedevano una poltrona e un angolo del divano, era vuota, un silenzio casalingo e tranquillo era per quell'ombra, per quell'aria chiusa; tra un'ora senza dubbio tanto Michele che la madre sarebbero stati immersi nel sonno. Finì di salire, andò dritta alla porta della sua camera, in fondo al corridoio oscuro, entrò; subito la colpì l'aspetto intimo e caldo della stanza: ogni cosa era al suo posto, la lampada dal paralume rosa era accesa, la camicia di velo cilestrino stava distesa sul letto, le lenzuola erano piegate e aperte, tutto invitava al sonno: non c'era che da spogliarsi, cacciarsi sotto le coltri e dormire.

Fosse la vista di quel letto, che insieme con il rumore torrenziale del diluvio contro le imposte le ispirava una gran voglia di riposo e di sicurezza, oppure veramente la stanchezza della giornata, certo è che ad un tratto l'assalirono una viltà così persuasiva, una ripugnanza così forte per l'avventura cui andava incontro, che ebbe paura di se stessa: "Vediamo" pensò: "dormire, riposarsi, va bene... ma poi? Domani mattina sarei daccapo al punto di prima... e allora come potrò mai avere una nuova vita?"

Si staccò dalla soglia, si avvicinò allo specchio dell'armadio, si guardò ora avvicinandosi, ora allontanandosi: il proprio volto le appariva infiammato fin sotto le pupille scintillanti, ma se lo avvicinava scopriva, tra quel rossore acceso e gli occhi, un cerchio nero e profondo che la turbava come un'idea colpevole; se invece lo allontanava, non c'era più che una fanciulla vestita per la festa, con le mani riunite in grembo, la grossa testa un po' reclinata sulla spalla, gli occhi tristi, il sorriso impacciato. Niente di più; avrebbe voluto penetrare il mistero di questa sua immagine ma non le riusciva.

Lasciò l'armadio, fece qualche passo per la stanza, sedette sul letto; una leggera ansietà le impediva di pensare; si sentiva preparata, curiosa, e impaziente come quando faceva qualche visita e aspettava, passeggiando e guardandosi intorno, la sorridente entrata della padrona di casa; non c'era altro. Teneva le gambe accavalciate, la fronte curva, aveva lei stessa l'impressione di meditare profondamente ma da certe fisse distrazioni dei suoi occhi, si accorgeva, quando si alzava e si guardava nello specchio dell'armadio, di non poter pensare.

Stette così per qualche minuto: di dormire ormai non era più questione; ammetteva dentro di sé, vagamente, che quella notte si sarebbe data a Leo, ma non sapeva quando e le pareva che quel momento fosse ancora, per fortuna, molto lontano. "Come piove!" pensava a intervalli quando il fruscio dell'acqua si faceva più forte; ma non le passava neppure per la mente che avrebbe dovuto uscire in quella notte, affrontare quella pioggia per andare incontro all'amante; un languido stupore la possedeva; alfine, senza tristezza, lentamente, si prese la testa fra le mani e si lasciò cadere riversa sul letto.

In tale posizione non vedeva che il soffitto illuminato; i soli rumori che arrivavano alle sue orecchie erano quelli della notte tempestosa: ben presto, non senza ripetersi che ad un certo momento avrebbe dovuto alzarsi e andarsene, chiuse gli occhi e si abbandonò ad una specie di torpore pieno di paura e di diffidenza; ma il torpore si tramutò in sonno, e pian piano, quasi senz'accorgersene, Carla si addormentò. Fu un sonno vuoto, nero come la pece, il quale senza alcun dubbio contribuì non poco alle amnesie e alle distrazioni di quella notte. Questa mancanza di sogni dovette ingannar la dormiente sulla durata del suo letargo; improvvisamente e senza alcuna ragione ella si destò, una paura terribile l'agghiacciò, le fece mancare il respiro, poiché si accorse di essersi addormentata: "Ho dormito" ella pensò atterrita sorgendo sul letto e guardando intorno per la stanza illuminata e tranquilla; "chissà che ore saranno... le ore due o le tre... e Leo sarà partito, avrà aspettato e se ne sarà andato." Per un istante, dal rammarico, dalla disperazione, avrebbe voluto scoppiare in lacrime: "Ho dormito" ripetè ad alta voce prendendosi la testa fra le mani e guardando nello specchio la sua immagine dai capelli in disordine, dagli occhi spaventati: "ho dormito!"

Si alzò, corse all'orologio che stava sul cassettone: non erano passati che tre quarti d'ora, l'orologio segnava le dodici meno un quarto.

Le parve impossibile, pensò che l'orologio si fosse fermato, se lo accostò all'orecchio; camminava; era vero, poteva ancora andar da Leo. Senza sapersene spiegar la ragione si sentì quasi delusa; riposò l'orologio sul cassettone.

Ma ora le veniva un altro dubbio: in che modo e quando doveva incontrarsi con l'amante? Si ricordava di quella frase: "tra un'ora"; non aveva neppure dimenticato quel particolare della macchina che l'avrebbe aspettata al cancello del giardino; ma, ecco, non era completamente sicura: "Il biglietto" pensò ad un tratto, "dov'è il biglietto?"

Si guardò intorno cercando: non vide nulla. Guardò sul cassettone tra i ninnoli, nulla; andò al letto, lo scrollò, rovesciò il guanciale, nulla... L'invasero un'ansietà, una fretta irragionevoli; dov'era quel biglietto?... Corse per la stanza, buttando all'aria la roba, i vestiti, i cassetti... finalmente si fermò nel mezzo: "Vediamo" pensò, "l'ho letto giù nell'atrio, ma l'avevo in mano quando sono entrata, dunque dev'essere qui, calma, dev'essere qui." Come quando si vuol afferrare una bestia agile e piccola, un topo, una farfalla, pian piano, meticolosamente, cercò, si chinò sotto i mobili torcendosi per non insudiciare il vestito, schiacciando la fronte e le guance sulla polvere del pavimento, aguzzando gli occhi nell'oscurità dei ripostigli. Ogni volta che si risollevava sentiva per tutte le membra una stanchezza nervosa; socchiudeva gli occhi, e immobile, con un gesto desolato delle mani aperte, pensava oscuramente di espiare attraverso quella triste ricerca una colpa dimenticata; ogni volta che si piegava, avrebbe voluto rompersi e restare a terra come un oggetto caduto e spezzato.

Cercò con uno scrupolo puerile anche nei posti assurdi: nel paniere dei ricami, nella scatola della cipria... Non trovò nulla; sedette stupita e fiacca: che specie di scrittura era quella che scompariva appena letta? La stessa favolosa irrealtà dei sogni metteva tra i suoi ricordi quell'impalpabile atmosfera che di certe parole e di certi atti rapidi e straordinari fa poi pensare: "Sono avvenuti oppure me li sono immaginati, sognati, fabbricati io?" Quella stretta di mano, quel pezzo di carta avevano interrotto per un solo istante difficilmente riconoscibile la continuità dell'abitudine; poi, tutto era tornato come prima; ora, nella sua confusione, Carla avrebbe voluto rivedere quella scrittura di Leo! quel che le mancava non era il ricordo seppure vago di aver ricevuto il biglietto, ma la conoscenza certa e nitida di quel che conteneva; ella l'aveva toccato, l'aveva visto e letto ma non aveva avuto il tempo di convincersene; ora ne dubitava.

E che cosa c'era scritto? proprio un'ora o più o meno? questa o la prossima notte? e non era ormai troppo tardi? e non pioveva troppo? e non sarebbe stato meglio coricarsi, dormire per ricominciare il giorno dopo la solita vita? Seduta, immobile, curva, il tempo la sorpassava; le pareva, a forza di dubbi, di spegnersi con le proprie mani, di suicidarsi.

Trasalì ai colpi acuti dell'orologio che suonava la mezzanotte; ebbe il primo pensiero pratico: "Andrò: se non ci sarà vuol dire che avrò sognato." Guardò il quadrante, calcolò che Leo doveva aspettarla già da un quarto d'ora; allora l'invase una fretta assurda: corse alla finestra, incollò il volto contro i vetri neri; per vedere se piovesse ancora: ascoltò, guardò: nulla; la notte non voleva rivelarsi e alle sue spalle la stanza con una fatalità ironica le opponeva le sue bianche illusioni e l'indifferente luce della lampada. "Pioggia o non pioggia" pensò in furia, "mettiamoci l'impermeabile." Corse all'armadio, ne trasse l'incerato, lo indossò davanti allo specchio; poi si curvò, strinse le giarrettiere allentate; volle anche incipriarsi, passarsi un po' di rossetto sulle labbra, pettinarsi; si mise un cappello qualsiasi, male, sulla nuca: "come le ragazze americane" pensò vedendo la fronte rotonda e dei riccioli scappar fuori dalla falda stretta. Cercò, cercò: "Quei maledetti guanti!" Non pensava più, viveva: una fretta meccanica aveva abolito in lei ogni umanità. Corse all'orologio con quella stessa frivola furia che tra i capelli, le calze, e i gesti delle sue braccia nude, preparandosi per qualche visita, le faceva gridare alla cameriera: "facciamo presto... è tardi... è tardi..." Lo guardò: "Già dieci minuti passati" pensò: " presto... presto." Aprì la porta e d'improvviso, trattenendo artificiosamente il suo impeto, uscì in punta di piedi nel corridoio.

L'anticamera era vuota ed illuminata, tutto era a posto, poltrone e divano; senza far rumore Carla tolse dal cassetto della tavola le chiavi della casa e con mille precauzioni, ora appoggiandosi alla parete, ora alla balaustra, discese la scala stretta; gli scalini di legno scricchiolavano sotto i suoi passi, l'altra rampa che le apparve dal pianerottolo era quasi del tutto oscura; se ne intravedeva appena il tappeto marrone che serpeggiava su per i gradini; l'atrio era buio. Ella accese la luce, passò per il corridoio tra le due file di specchi, nel vestibolo tolse l'ombrello dal portaombrelli, uscì.

Pioveva con abbondanza, la notte era nera e umida, da ogni parte arrivava il rumore monotono del diluvio; Carla discese la scala di marmo dell'ingresso e aprì l'ombrello con un gesto familiare che la stupì, come, pensò, se in certe straordinarie circostanze ogni cosa andasse fatta in modo diverso dal consueto.

Le parve di non attribuire alla sua fuga tutta la triste e vergognosa importanza che altri al suo posto le avrebbero dato; ecco, ella usciva, attraversava il viale, curva sotto l'ombrello, sforzandosi di non bagnarsi la faccia con la pioggia avversa, di evitare le pozze; attraversava a quell'ora tarda il parco, senza paura, senza meraviglia, senza neppure quella tristezza vasta e avventurosa che accompagna le azioni gravi; la ghiaia fradicia scricchiolava sotto i suoi passi, ella ne ascoltava con piacere il rumore: ecco tutto.

Alzò gli occhi, e vide davanti a sé la macchia nera del cancello, i due pilastri bianchi, il fogliame scuro di un grande albero curvo sotto la pioggia; aprì la porticina di servizio, uscì nella strada volgendo gli occhi alla parte opposta a quella dove Leo aspettava. "Non c'è" pensò delusa, osservando la luce tranquilla della lampada ad arco sul selciato bagnato e vuoto; ma già l'automobile dell'amante avanzava alle sue spalle, meno rapida del raggio improvviso dei due fanali accesi.

Addio strade, quartiere deserto percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lunghi viali alberati, e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco: immobile al suo posto al fianco di Leo, Carla guardava con stupore la pioggia violenta lacrimare sul parabrise e in questi fiotti intermittenti colar disciolte sul vetro tutte le luci della città, girandole e fanali. Le strade si seguivano alle strade; ella le vedeva piegare, confluire una nell'altra, girare laggiù oltre il cofano mobile dell'automobile; a intervalli, tra i sobbalzi della corsa, delle nere facciate si staccavano nella notte, passavano, e si dileguavano come fianchi di transatlantici in rotta, non senza difficoltà, attraverso i marosi; gruppi neri di persone, porte illuminate, lampioni, ogni cosa si affacciava per un istante nella corsa e poi scompariva inghiottita definitivamente dall'oscurità.

Immobile, incantata, Carla guardava ora Leo, quelle mani posate sul volante, quella maniera calma e riflessiva di guidare, ora la strada; questi particolari l'affascinavano; ella aveva la mente vuota. Così, quando, dopo dieci minuti, l'automobile si fermò improvvisamente e questo pensiero le venne: "siamo arrivati", l'impressione fu tale che il respiro le mancò.

Ma Leo discese e le ingiunse: "Aspetta qui." Lo vide, attraverso i vetri bagnati del parabrise, aprir qualche cosa di nero che le sembrò un cancello e poi scomparire nell'oscurità del giardino. "Bisogna mettere dentro la macchina" pensò; infatti un rumore di saracinesca le giunse attraverso la pioggia, la figura dell'uomo riapparve, egli risalì, e senza curarsi minimamente di lei, guidò la macchina prima sulla ghiaia intrisa, poi dentro l'antro buio della rimessa; puzzo di benzina e d'acciaio oliato; un lanternino rosso in un angolo; discesero ambedue e non senza sforzo abbassarono la saracinesca; dopo di che, Leo, meticolosamente, ne inchiavò il lucchetto.

Una lampada rotonda illuminava a destra la porta della casa coi suoi quattro scalini di marmo e i suoi battenti chiusi; Leo la aprì e spinse Carla nell'androne. All'opposto del giardinetto buio e bagnato, tutto qui era colorato e brillante, una lanterna di ferro battuto pendeva dal soffitto, i muri erano dipinti a calce e avevano uno zoccolo giallo, delle palme verdi s'innalzavano negli angoli, tutto era nuovo; c'era anche l'ascensore, laggiù, nella sua gabbia, ma preferirono andar su per la scala.

Salirono in silenzio due rampe. Al primo pianerottolo un rumore appena soffocato di grammofono irruppe sulle mattonelle lucide insieme con un brusìo confuso, intimo e lieto di voci e di piedi:

"Ballano" osservò Carla con un sorriso forzato appoggiandosi alla balaustra: "chi sono?"

"Si tratta" disse Leo curvandosi e scrutando la targa di ottone della porta, "del... signor dottore Innamorati, il quale" soggiunse un po' per rallegrar Carla, un po' per ingannare la propria impazienza "è in casa con la sua gentile signora e i suoi giovani figli, per ricevere degnamente un'eletta compagnia di amici e di dame della migliore società." Rise e prese il braccio di Carla:

"Andiamo" disse: "ancora una rampa e siamo arrivati."

Salirono ancora: si udiva per la scala bianca, vuota, e illuminata, la musica del grammofono risuonare lontana e fragorosa; nelle pause silenzio completo. S'indovinava allora il salotto piccolo, i ballerini fermi in piedi sotto il lampadario acceso, le risa, il movimento e negli angoli, presso le finestre, dietro le tende, i complimenti ingenui... Al secondo pianerottolo entrarono.

Nel vestibolo, Leo si tolse il cappello e il pastrano e aiutò Carla a liberarsi dell'impermeabile. Il vestibolo era vasto e bianco, tre usci vi si aprivano, in faccia alla porta vi era una gran finestra buia e rettangolare che senza alcun dubbio doveva guardare verso una corte interna. Passarono nel salotto: "Mettiamoci qui" disse Leo additando un gran divano di pelle pieno di cuscini. Sedettero: una lampada dal paralume rosso posata sopra un tavolino li illuminava fino al petto, le loro teste e il resto della stanza restavano nella penombra. Per un istante stettero immobili e non parlarono: Carla si guardava intorno senza curiosità; i suoi occhi si posavano ora su quella bottiglia di liquore là sul tavolino ora sulle pareti, come chi piuttosto che osservare aspetta con ansietà una parola oppure un gesto; Leo ammirava Carla:

"Ebbene, mia cara," incominciò quest'ultimo finalmente, "cos'hai che non parli e neppure mi guardi? Su, animo, dimmi quel che pensi, e se desideri qualche cosa non far complimenti, domanda quel che vuoi, fa' come se tu fossi in casa tua. Tese la mano, accarezzò con le dita il volto serio della fanciulla:

"Non ti dispiacerà mica" soggiunse senza ombra d'imbarazzo "d'esser venuta?"

Ella voltò la testa: "No..." rispose "no, sono... contentissima... soltanto, mi capisci? bisogna che mi... abitui."

"Abituati... abituati" disse Leo con sicurezza; si avvicinò ancor più di quel che già non fosse a Carla: "Accidenti" pensava turbato ed eccitato, "che noia i preliminari." Le girò un braccio intorno alla vita; la fanciulla non parve accorgersene:

"Che bel vestitino hai" incominciò Leo con voce carezzevole e sommessa: "Chi te lo ha fatto?... Che bella bambina sei., vedrai come si starà bene insieme: sarai la mia bambina, la sola bambina della mia vita, la mia graziosa bambina."

Tacque, sfiorò rapidamente con le labbra la mano, il braccio nudo di Carla, si fermò per un istante sul collo, attirò la grossa testa seria; si baciarono; si separarono:

"Siediti qui" invitò l'uomo mostrando le sue ginocchia; Carla ubbidì con docilità; nel movimento ch'ella fece per assestarsi, la veste le discoprì le gambe, ma non venne riabbassata; questa noncuranza convinse definitivamente Leo della solidità della sua conquista.


13 (VIII) 13 (VIII) 13 (VIII)

Ora Carla restava sola nell'atrio. Si avvicinò alla lampada: nel suo pugno chiuso qualche cosa scricchiolava, era un biglietto di Leo, il biglietto che le sue dita esitanti avevano raccolto da quella lunga stretta di mano dell'amante.

Il biglietto era breve: "Ti aspetto tra un'ora, con la macchina, al cancello del giardino", e portava anche la firma: "Leo".

Sconcertata si avviò su per la scala: "tra un'ora," si ripeteva, "tra un'ora andarmene via." Gradino per gradino arrivò al pianerottolo angusto, guardò in su: l'anticamera, di cui si vedevano una poltrona e un angolo del divano, era vuota, un silenzio casalingo e tranquillo era per quell'ombra, per quell'aria chiusa; tra un'ora senza dubbio tanto Michele che la madre sarebbero stati immersi nel sonno. Finì di salire, andò dritta alla porta della sua camera, in fondo al corridoio oscuro, entrò; subito la colpì l'aspetto intimo e caldo della stanza: ogni cosa era al suo posto, la lampada dal paralume rosa era accesa, la camicia di velo cilestrino stava distesa sul letto, le lenzuola erano piegate e aperte, tutto invitava al sonno: non c'era che da spogliarsi, cacciarsi sotto le coltri e dormire.

Fosse la vista di quel letto, che insieme con il rumore torrenziale del diluvio contro le imposte le ispirava una gran voglia di riposo e di sicurezza, oppure veramente la stanchezza della giornata, certo è che ad un tratto l'assalirono una viltà così persuasiva, una ripugnanza così forte per l'avventura cui andava incontro, che ebbe paura di se stessa: "Vediamo" pensò: "dormire, riposarsi, va bene... ma poi? Domani mattina sarei daccapo al punto di prima... e allora come potrò mai avere una nuova vita?"

Si staccò dalla soglia, si avvicinò allo specchio dell'armadio, si guardò ora avvicinandosi, ora allontanandosi: il proprio volto le appariva infiammato fin sotto le pupille scintillanti, ma se lo avvicinava scopriva, tra quel rossore acceso e gli occhi, un cerchio nero e profondo che la turbava come un'idea colpevole; se invece lo allontanava, non c'era più che una fanciulla vestita per la festa, con le mani riunite in grembo, la grossa testa un po' reclinata sulla spalla, gli occhi tristi, il sorriso impacciato. Niente di più; avrebbe voluto penetrare il mistero di questa sua immagine ma non le riusciva.

Lasciò l'armadio, fece qualche passo per la stanza, sedette sul letto; una leggera ansietà le impediva di pensare; si sentiva preparata, curiosa, e impaziente come quando faceva qualche visita e aspettava, passeggiando e guardandosi intorno, la sorridente entrata della padrona di casa; non c'era altro. Teneva le gambe accavalciate, la fronte curva, aveva lei stessa l'impressione di meditare profondamente ma da certe fisse distrazioni dei suoi occhi, si accorgeva, quando si alzava e si guardava nello specchio dell'armadio, di non poter pensare.

Stette così per qualche minuto: di dormire ormai non era più questione; ammetteva dentro di sé, vagamente, che quella notte si sarebbe data a Leo, ma non sapeva quando e le pareva che quel momento fosse ancora, per fortuna, molto lontano. "Come piove!" pensava a intervalli quando il fruscio dell'acqua si faceva più forte; ma non le passava neppure per la mente che avrebbe dovuto uscire in quella notte, affrontare quella pioggia per andare incontro all'amante; un languido stupore la possedeva; alfine, senza tristezza, lentamente, si prese la testa fra le mani e si lasciò cadere riversa sul letto.

In tale posizione non vedeva che il soffitto illuminato; i soli rumori che arrivavano alle sue orecchie erano quelli della notte tempestosa: ben presto, non senza ripetersi che ad un certo momento avrebbe dovuto alzarsi e andarsene, chiuse gli occhi e si abbandonò ad una specie di torpore pieno di paura e di diffidenza; ma il torpore si tramutò in sonno, e pian piano, quasi senz'accorgersene, Carla si addormentò. Fu un sonno vuoto, nero come la pece, il quale senza alcun dubbio contribuì non poco alle amnesie e alle distrazioni di quella notte. Questa mancanza di sogni dovette ingannar la dormiente sulla durata del suo letargo; improvvisamente e senza alcuna ragione ella si destò, una paura terribile l'agghiacciò, le fece mancare il respiro, poiché si accorse di essersi addormentata: "Ho dormito" ella pensò atterrita sorgendo sul letto e guardando intorno per la stanza illuminata e tranquilla; "chissà che ore saranno... le ore due o le tre... e Leo sarà partito, avrà aspettato e se ne sarà andato." Per un istante, dal rammarico, dalla disperazione, avrebbe voluto scoppiare in lacrime: "Ho dormito" ripetè ad alta voce prendendosi la testa fra le mani e guardando nello specchio la sua immagine dai capelli in disordine, dagli occhi spaventati: "ho dormito!"

Si alzò, corse all'orologio che stava sul cassettone: non erano passati che tre quarti d'ora, l'orologio segnava le dodici meno un quarto.

Le parve impossibile, pensò che l'orologio si fosse fermato, se lo accostò all'orecchio; camminava; era vero, poteva ancora andar da Leo. Senza sapersene spiegar la ragione si sentì quasi delusa; riposò l'orologio sul cassettone.

Ma ora le veniva un altro dubbio: in che modo e quando doveva incontrarsi con l'amante? Si ricordava di quella frase: "tra un'ora"; non aveva neppure dimenticato quel particolare della macchina che l'avrebbe aspettata al cancello del giardino; ma, ecco, non era completamente sicura: "Il biglietto" pensò ad un tratto, "dov'è il biglietto?"

Si guardò intorno cercando: non vide nulla. Guardò sul cassettone tra i ninnoli, nulla; andò al letto, lo scrollò, rovesciò il guanciale, nulla... L'invasero un'ansietà, una fretta irragionevoli; dov'era quel biglietto?... Corse per la stanza, buttando all'aria la roba, i vestiti, i cassetti... finalmente si fermò nel mezzo: "Vediamo" pensò, "l'ho letto giù nell'atrio, ma l'avevo in mano quando sono entrata, dunque dev'essere qui, calma, dev'essere qui." Come quando si vuol afferrare una bestia agile e piccola, un topo, una farfalla, pian piano, meticolosamente, cercò, si chinò sotto i mobili torcendosi per non insudiciare il vestito, schiacciando la fronte e le guance sulla polvere del pavimento, aguzzando gli occhi nell'oscurità dei ripostigli. Ogni volta che si risollevava sentiva per tutte le membra una stanchezza nervosa; socchiudeva gli occhi, e immobile, con un gesto desolato delle mani aperte, pensava oscuramente di espiare attraverso quella triste ricerca una colpa dimenticata; ogni volta che si piegava, avrebbe voluto rompersi e restare a terra come un oggetto caduto e spezzato.

Cercò con uno scrupolo puerile anche nei posti assurdi: nel paniere dei ricami, nella scatola della cipria... Non trovò nulla; sedette stupita e fiacca: che specie di scrittura era quella che scompariva appena letta? La stessa favolosa irrealtà dei sogni metteva tra i suoi ricordi quell'impalpabile atmosfera che di certe parole e di certi atti rapidi e straordinari fa poi pensare: "Sono avvenuti oppure me li sono immaginati, sognati, fabbricati io?" Quella stretta di mano, quel pezzo di carta avevano interrotto per un solo istante difficilmente riconoscibile la continuità dell'abitudine; poi, tutto era tornato come prima; ora, nella sua confusione, Carla avrebbe voluto rivedere quella scrittura di Leo! quel che le mancava non era il ricordo seppure vago di aver ricevuto il biglietto, ma la conoscenza certa e nitida di quel che conteneva; ella l'aveva toccato, l'aveva visto e letto ma non aveva avuto il tempo di convincersene; ora ne dubitava.

E che cosa c'era scritto? proprio un'ora o più o meno? questa o la prossima notte? e non era ormai troppo tardi? e non pioveva troppo? e non sarebbe stato meglio coricarsi, dormire per ricominciare il giorno dopo la solita vita? Seduta, immobile, curva, il tempo la sorpassava; le pareva, a forza di dubbi, di spegnersi con le proprie mani, di suicidarsi.

Trasalì ai colpi acuti dell'orologio che suonava la mezzanotte; ebbe il primo pensiero pratico: "Andrò: se non ci sarà vuol dire che avrò sognato." Guardò il quadrante, calcolò che Leo doveva aspettarla già da un quarto d'ora; allora l'invase una fretta assurda: corse alla finestra, incollò il volto contro i vetri neri; per vedere se piovesse ancora: ascoltò, guardò: nulla; la notte non voleva rivelarsi e alle sue spalle la stanza con una fatalità ironica le opponeva le sue bianche illusioni e l'indifferente luce della lampada. "Pioggia o non pioggia" pensò in furia, "mettiamoci l'impermeabile." Corse all'armadio, ne trasse l'incerato, lo indossò davanti allo specchio; poi si curvò, strinse le giarrettiere allentate; volle anche incipriarsi, passarsi un po' di rossetto sulle labbra, pettinarsi; si mise un cappello qualsiasi, male, sulla nuca: "come le ragazze americane" pensò vedendo la fronte rotonda e dei riccioli scappar fuori dalla falda stretta. Cercò, cercò: "Quei maledetti guanti!" Non pensava più, viveva: una fretta meccanica aveva abolito in lei ogni umanità. Corse all'orologio con quella stessa frivola furia che tra i capelli, le calze, e i gesti delle sue braccia nude, preparandosi per qualche visita, le faceva gridare alla cameriera: "facciamo presto... è tardi... è tardi..." Lo guardò: "Già dieci minuti passati" pensò: " presto... presto." Aprì la porta e d'improvviso, trattenendo artificiosamente il suo impeto, uscì in punta di piedi nel corridoio.

L'anticamera era vuota ed illuminata, tutto era a posto, poltrone e divano; senza far rumore Carla tolse dal cassetto della tavola le chiavi della casa e con mille precauzioni, ora appoggiandosi alla parete, ora alla balaustra, discese la scala stretta; gli scalini di legno scricchiolavano sotto i suoi passi, l'altra rampa che le apparve dal pianerottolo era quasi del tutto oscura; se ne intravedeva appena il tappeto marrone che serpeggiava su per i gradini; l'atrio era buio. Ella accese la luce, passò per il corridoio tra le due file di specchi, nel vestibolo tolse l'ombrello dal portaombrelli, uscì.

Pioveva con abbondanza, la notte era nera e umida, da ogni parte arrivava il rumore monotono del diluvio; Carla discese la scala di marmo dell'ingresso e aprì l'ombrello con un gesto familiare che la stupì, come, pensò, se in certe straordinarie circostanze ogni cosa andasse fatta in modo diverso dal consueto. It was raining heavily, the night was black and damp, the monotonous noise of the flood came from everywhere; Carla went down the marble stairway to the entrance and opened her umbrella with a familiar gesture that amazed her, like, she thought, if in certain extraordinary circumstances everything should be done differently than usual.

Le parve di non attribuire alla sua fuga tutta la triste e vergognosa importanza che altri al suo posto le avrebbero dato; ecco, ella usciva, attraversava il viale, curva sotto l'ombrello, sforzandosi di non bagnarsi la faccia con la pioggia avversa, di evitare le pozze; attraversava a quell'ora tarda il parco, senza paura, senza meraviglia, senza neppure quella tristezza vasta e avventurosa che accompagna le azioni gravi; la ghiaia fradicia scricchiolava sotto i suoi passi, ella ne ascoltava con piacere il rumore: ecco tutto.

Alzò gli occhi, e vide davanti a sé la macchia nera del cancello, i due pilastri bianchi, il fogliame scuro di un grande albero curvo sotto la pioggia; aprì la porticina di servizio, uscì nella strada volgendo gli occhi alla parte opposta a quella dove Leo aspettava. "Non c'è" pensò delusa, osservando la luce tranquilla della lampada ad arco sul selciato bagnato e vuoto; ma già l'automobile dell'amante avanzava alle sue spalle, meno rapida del raggio improvviso dei due fanali accesi.

Addio strade, quartiere deserto percorso dalla pioggia come da un esercito, ville addormentate nei loro giardini umidi, lunghi viali alberati, e parchi in tumulto; addio quartiere alto e ricco: immobile al suo posto al fianco di Leo, Carla guardava con stupore la pioggia violenta lacrimare sul parabrise e in questi fiotti intermittenti colar disciolte sul vetro tutte le luci della città, girandole e fanali. Le strade si seguivano alle strade; ella le vedeva piegare, confluire una nell'altra, girare laggiù oltre il cofano mobile dell'automobile; a intervalli, tra i sobbalzi della corsa, delle nere facciate si staccavano nella notte, passavano, e si dileguavano come fianchi di transatlantici in rotta, non senza difficoltà, attraverso i marosi; gruppi neri di persone, porte illuminate, lampioni, ogni cosa si affacciava per un istante nella corsa e poi scompariva inghiottita definitivamente dall'oscurità.

Immobile, incantata, Carla guardava ora Leo, quelle mani posate sul volante, quella maniera calma e riflessiva di guidare, ora la strada; questi particolari l'affascinavano; ella aveva la mente vuota. Così, quando, dopo dieci minuti, l'automobile si fermò improvvisamente e questo pensiero le venne: "siamo arrivati", l'impressione fu tale che il respiro le mancò.

Ma Leo discese e le ingiunse: "Aspetta qui." Lo vide, attraverso i vetri bagnati del parabrise, aprir qualche cosa di nero che le sembrò un cancello e poi scomparire nell'oscurità del giardino. "Bisogna mettere dentro la macchina" pensò; infatti un rumore di saracinesca le giunse attraverso la pioggia, la figura dell'uomo riapparve, egli risalì, e senza curarsi minimamente di lei, guidò la macchina prima sulla ghiaia intrisa, poi dentro l'antro buio della rimessa; puzzo di benzina e d'acciaio oliato; un lanternino rosso in un angolo; discesero ambedue e non senza sforzo abbassarono la saracinesca; dopo di che, Leo, meticolosamente, ne inchiavò il lucchetto.

Una lampada rotonda illuminava a destra la porta della casa coi suoi quattro scalini di marmo e i suoi battenti chiusi; Leo la aprì e spinse Carla nell'androne. All'opposto del giardinetto buio e bagnato, tutto qui era colorato e brillante, una lanterna di ferro battuto pendeva dal soffitto, i muri erano dipinti a calce e avevano uno zoccolo giallo, delle palme verdi s'innalzavano negli angoli, tutto era nuovo; c'era anche l'ascensore, laggiù, nella sua gabbia, ma preferirono andar su per la scala.

Salirono in silenzio due rampe. Al primo pianerottolo un rumore appena soffocato di grammofono irruppe sulle mattonelle lucide insieme con un brusìo confuso, intimo e lieto di voci e di piedi:

"Ballano" osservò Carla con un sorriso forzato appoggiandosi alla balaustra: "chi sono?"

"Si tratta" disse Leo curvandosi e scrutando la targa di ottone della porta, "del... signor dottore Innamorati, il quale" soggiunse un po' per rallegrar Carla, un po' per ingannare la propria impazienza "è in casa con la sua gentile signora e i suoi giovani figli, per ricevere degnamente un'eletta compagnia di amici e di dame della migliore società." Rise e prese il braccio di Carla:

"Andiamo" disse: "ancora una rampa e siamo arrivati."

Salirono ancora: si udiva per la scala bianca, vuota, e illuminata, la musica del grammofono risuonare lontana e fragorosa; nelle pause silenzio completo. S'indovinava allora il salotto piccolo, i ballerini fermi in piedi sotto il lampadario acceso, le risa, il movimento e negli angoli, presso le finestre, dietro le tende, i complimenti ingenui... Al secondo pianerottolo entrarono.

Nel vestibolo, Leo si tolse il cappello e il pastrano e aiutò Carla a liberarsi dell'impermeabile. Il vestibolo era vasto e bianco, tre usci vi si aprivano, in faccia alla porta vi era una gran finestra buia e rettangolare che senza alcun dubbio doveva guardare verso una corte interna. Passarono nel salotto: "Mettiamoci qui" disse Leo additando un gran divano di pelle pieno di cuscini. Sedettero: una lampada dal paralume rosso posata sopra un tavolino li illuminava fino al petto, le loro teste e il resto della stanza restavano nella penombra. Per un istante stettero immobili e non parlarono: Carla si guardava intorno senza curiosità; i suoi occhi si posavano ora su quella bottiglia di liquore là sul tavolino ora sulle pareti, come chi piuttosto che osservare aspetta con ansietà una parola oppure un gesto; Leo ammirava Carla:

"Ebbene, mia cara," incominciò quest'ultimo finalmente, "cos'hai che non parli e neppure mi guardi? Su, animo, dimmi quel che pensi, e se desideri qualche cosa non far complimenti, domanda quel che vuoi, fa' come se tu fossi in casa tua. Tese la mano, accarezzò con le dita il volto serio della fanciulla:

"Non ti dispiacerà mica" soggiunse senza ombra d'imbarazzo "d'esser venuta?"

Ella voltò la testa: "No..." rispose "no, sono... contentissima... soltanto, mi capisci? bisogna che mi... abitui."

"Abituati... abituati" disse Leo con sicurezza; si avvicinò ancor più di quel che già non fosse a Carla: "Accidenti" pensava turbato ed eccitato, "che noia i preliminari." "Get used to... get used to," Leo said confidently; he came even closer than he already was to Carla: "Damn it," he thought, disturbed and excited, "how boring the foreplay." Le girò un braccio intorno alla vita; la fanciulla non parve accorgersene:

"Che bel vestitino hai" incominciò Leo con voce carezzevole e sommessa: "Chi te lo ha fatto?... Che bella bambina sei., vedrai come si starà bene insieme: sarai la mia bambina, la sola bambina della mia vita, la mia graziosa bambina."

Tacque, sfiorò rapidamente con le labbra la mano, il braccio nudo di Carla, si fermò per un istante sul collo, attirò la grossa testa seria; si baciarono; si separarono:

"Siediti qui" invitò l'uomo mostrando le sue ginocchia; Carla ubbidì con docilità; nel movimento ch'ella fece per assestarsi, la veste le discoprì le gambe, ma non venne riabbassata; questa noncuranza convinse definitivamente Leo della solidità della sua conquista.