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Gli Indifferenti - Alberto Moravia, 12 (VIII)

12 (VIII)

Capitolo VIII

Uscirono alfine dalla sala da pranzo, a passi misurati, accendendo delle sigarette e guardandosi di sfuggita negli specchi del corridoio, e andarono nel salotto.

"Stasera," disse subito Leo sedendosi a fianco di Mariagrazia sul divano, "sono in disposizione di sentire un po' di musica classica... su, Carla," disse volgendosi verso la fanciulla: "suonaci quel che vuoi tu, Beethoven o Chopin, purché sia roba del buon tempo antico, quando non usavano i jazz che fanno venire il mal di capo..." Rise con cordialità e accavalciò le gambe.

"Sì, Carla," insistette la madre cui non pareva vero di avvantaggiarsi della musica per poter parlare con maggior libertà all'amante; "sì, suonaci qualche cosa, per esempio... quella fuga... di chi era? Ah! sì di Bach... che ti riusciva così bene."

Anche a Michele l'idea della musica piacque infinitamente; si sentiva stanco e irritato, l'immagine convenzionale della melodia intesa come un dolce fiume nel quale ci si può immergere e dimenticare non gli era mai sembrata così vera come ora: "Della musica" pensò socchiudendo gli occhi; "e al diavolo tutte le meschinità...: della vera musica."

"È molto tempo che non suono più" avvertì Carla: "vuol dire che non sarete troppo severi." Andò al pianoforte, l'aprì, esaminò qualche spartito: "Una fuga di Bach," annunziò finalmente.

I primi accordi risuonarono; Michele socchiuse gli occhi e si preparò ad ascoltare la melodia; la sua solitudine, le conversazioni con Lisa gli avevano messo in corpo un gran bisogno di compagnia e di amore, una speranza estrema di trovare tra tutta la gente del mondo una donna da poter amare sinceramente, senza ironie e senza rassegnazione: "Una donna vera" pensò; "una donna pura, né falsa, né stupida, né corrotta... trovarla... questo sì che rimetterebbe a posto ogni cosa." Per ora non la trovava, non sapeva neppure dove cercarla, ma ne aveva in mente l'immagine, tra l'ideale e materiale che si confondeva con le altre figure di quel fantastico mondo istintivo e sincero dove egli avrebbe voluto vivere; la musica lo avrebbe aiutato a ricostruire quest'immagine amata... ed ecco difatti, più per la sua esaltazione e per il suo desiderio che in grazia della musica stessa, fin dalle prime note, formarsi tra lui e Carla quella immagine... era una fanciulla, lo indovinava dalla snellezza del corpo, dagli occhi, da tutto il portamento, assai graziosa in verità, quasi gli voltava le spalle e l'osservava attentamente, senza lusinga, senza ombra di lascivia, oh no, avrebbe potuto giurarlo, ma con quella curiosità franca e attonita con la quale i bambini guardano i loro coetanei: "la mia compagna," egli pensò: e già dei gesti, una specie di abbraccio, un sorriso, una mossa della mano, degli avvenimenti, passeggiate, conversazioni, si formavano e passavano nel cielo desideroso della sua fantasia, quando un chiacchiericcio fitto e sommesso ruppe l'illusione e lo ricondusse alla realtà.

Era la madre che portava a compimento il suo proposito di avvalersi della musica per parlare all'amante:

"Se vuole, Merumeci," insisteva guardando velenosamente l'amante distratto, "lei può andare anche subito a quel suo ricevimento...; non c'è nessuna necessità che lei si annoi qui a sentire la musica nessuno la trattiene... vada... vada pure dove l'aspettano."

Leo la fissò; non aveva nessuna voglia di litigare; fece un cenno nella direzione di Carla come per significare. "Ora no... ora stiamo ad ascoltare Bach."

"Ma sì" insistette la madre; "lei qui si annoia... non dica di no...: l'ho visto sbadigliare con questi miei occhi... Noi l'annoiamo, e d'altra parte non possiamo mica metterci a ballare per divertirla... Vada dunque in quel luogo, dove sarà accolto a braccia aperte e nessuno suonerà, e nessuno la disturberà... ci vada..." Parlava e non cessava di sorridere stupidamente, ripresa, al solo pensiero di Lisa, da una vertigine di gelosia:

"E poi," soggiunse, "sarebbe una vera maleducazione mancare al ricevimento della Smithson... chissà quanta gente ci sarà... avrà fatto un treno speciale per far andare i suoi invitati fino a Milano..."

Pur di togliersi di tomo questo fastidio Leo avrebbe dato qualsiasi cosa; scosse la cenere del sigaro, si voltò con calma verso la madre:

"Se ho mentito," disse, "è stato soltanto per riguardo a lei, per non farle credere che in casa sua ci si annoia... La verità è che stasera non vado ad alcun ricevimento bensì a dormire... Son molte notti che faccio le ore piccole, mi sento stanco... stasera voglio andare a dormire presto."

[...] "È inutile ch'io suoni" disse con calma: "tutti parlano... tutti discorrono... meglio davvero andare a dormire..."

Quei due del divano si videro accoppiati; la madre si staccò dall'amante e guardò la figlia con volto sconcertato.

"Se volete parlare" soggiunse la fanciulla "non fatemi suonare." Silenzio.

"Facevamo dei commenti alla tua musica" rispose alfine Leo. "Suoni bene Carla; continua, continua pure."

Questa nuova menzogna fu il segnale di una specie di ribellione, come se tutti si fossero ad un tratto destati dal loro lungo torpore; e primo fra tutti Michele che aveva fino allora sopportato in silenzio i conversari di sua madre e di Leo; un po' per rabbia, un po' per un istintivo bisogno di azione, prese il giornale che teneva spiegato sulle ginocchia e lo scagliò con forza per terra:

"Non è vero niente" gridò guardando Leo; "è una spudorata menzogna... alla musica voi ci pensavate come io... come io a farmi prete... parlavate di affari, del legale" egli rise con sforzo: "e di altre cose ancora."

Ci fu silenzio: "Ecco" gridò improvvisamente Carla battendo le mani: "ecco la verità... alfine si respira..."

Fu come se qualcheduno avesse spalancato la finestra e l'aria fredda della notte fosse penetrata nel salotto; per un istante tutti si guardarono in volto stupefatti; ma il primo a riaversi fu Leo:

"Ti sbagli" disse severamente a Michele: "è segno che hai ascoltato male."

Siffatta falsità ispirò al ragazzo un riso alto e sgradevole: "Ah! ah!" rideva rovesciandosi nella poltrona "questa è bella." Poi s'interruppe:

"Mentitore!" disse bruscamente e con volto serio.

Si guardarono; Carla trattenne il respiro; la madre impallidì.

"Io dico" gridò all'improvviso Leo battendo il pugno sulla tavola, "che questo è troppo." Ma non si alzò; restò seduto fissando sul ragazzo due occhi indagatori: "Non ti sapevo così rissoso" soggiunse; e poi dopo un istante: "e se tu continui sarò costretto a tirarti le orecchie." Quest'ultima frase la profferì nel modo più stupido e solenne; sembrò a Michele che la minaccia di Leo, fieramente incominciata, fosse andata man mano affievolendosi, fino a raggiungere la piatta volgarità di una tirata d'orecchie; di rimbalzo anche il proprio sentimento diminuiva; non c'era nulla da fare; né scagliare il guanto di sfida, né ostentare il proprio onore offeso; bastava nascondere la parte minacciata, le orecchie, troppo poco.

"Tirare le orecchie, tirar le orecchie a me? a me? a me?" Ogni "a me" gli dava una spinta di più verso l'azione, ma si sentiva freddo e indifferente; false erano le parole che gli uscivano di bocca, falsa la voce; dov'era il fervore? dove lo sdegno? altrove, forse non esistevano.

Sulla tavola, tra i fiori, le tazzine, e il bricco del caffè, c'era un portacenere di marmo, di alabastro bianco venato in grigio: stese una mano di sonnambulo, lo prese, mollemente lo scagliò. Vide sua madre giunger le mani, la udì cacciare un grido; Leo urlava: "È roba da pazzi!! "; Carla si agitava; capì che il marmo aveva sbagliato strada; invece di Leo era stata colpita la madre; sulla testa? no, sopra la spalla.

Si alzò, goffamente si avvicinò al divano dove la sua vittima giaceva; incerta in volto e senza saper perché, la madre teneva gli occhi chiusi e a intervalli sospirava, ma era evidente che non provava alcun dolore e che questo suo svenimento era del tutto immaginario.

Insieme con gli altri due Michele si chinò; nonostante questa vista che avrebbe dovuto essere dolorosa, non provava alcun rimorso, anzi non gli riusciva di soffocare la sensazione che quella scena fosse ridicola. Invano pensava: "È mia madre... l'ho colpita... l'ho ferita... avrebbe potuto morire"; invano cercava un po' di pietà affettuosa per quella figura immobile, perduta nell'errore: la sua anima restava inerte. Si chinò e la guardò: ora la madre sollevava, senza cambiar di posizione o aprire gli occhi, un languido braccio, e con le dita allargava le vesti sull'omero colpito; apparve la spalla nuda, grassa, ma senza traccia di contusioni, né livida, né rossa: nulla. Però le dita come insoddisfatte continuavano a tirare, ad abbassare la veste, denudando un braccio, svelando l'ascella. Era straordinario: sparse sul petto, che sempre più si allargava, sbiancava, e rivelava il principio dei seni, le dita impudiche parevano perseguire uno scopo completamente diverso da quello di mostrare le ferite; per esempio, quello di spogliarsi.

In verità questo molle abbandono si rivolgeva all'amante; una romantica pietà doveva scaturirne e impietosirgli il cuore: "Mi vedrà ferita, svenuta, col petto nudo," era pressappoco il pensiero di Mariagrazia; "si ricorderà che mi sono fatta avanti per lui, che ho ricevuto il portacenere invece sua, e non potrà fare a meno di provare per me una profonda riconoscente tenerezza." La sua fantasia illusa immaginava che Leo l'avrebbe presa tra le sue braccia, l'avrebbe scossa, chiamata per nome, si sarebbe alfine inquietato non vedendola rinvenire... e alfine ella sarebbe lentamente tornata in sé, avrebbe riaperto gli occhi, i primi sguardi sarebbero stati per l'amante, per lui il primo sorriso. Ma non fu così, Leo non la prese fra le sue braccia né la chiamò per nome.

"Sarà forse bene che io vada fuori dalla porta" disse invece a Carla, con voce piena d'ironica intenzione. Fu come se la madre avesse ricevuto un getto d'acqua fredda, proprio là, su quella spalla che aveva denudato per l'amante, ella riaprì gli occhi, si alzò a sedere, guardò: c'era Michele che la osservava con gli occhi scanzonati, come se al suo rimorso si fosse mescolato qualche altro sentimento; Carla che si sforzava di ricondurle le vesti sopra il petto scoperto; ma Leo? dov'era Leo? Altrove che al suo fianco: aveva raccolto il portacenere e lo soppesava; poi bruscamente si volse verso Michele:

"Va bene" gli disse con ironico incoraggiamento; "va bene... va molto bene."

Michele alzò le spalle e lo guardò: "Certo... anzi benissimo" articolò con calma. Allora da dietro le spalle dell'uomo la voce della madre si alzò, acuta e familiare.

"Per carità, Merumeci," supplicava "per carità non ricominci... non lo tocchi... non gli parli... non lo guardi neppure..." E pareva che ella si trovasse al limite estremo della pazienza e della ragione, al di la del quale non c'è che pazzia.

Il ragazzo si rifugiò presso la finestra: la pioggia cadeva ancora, se ne udiva il fruscio sulle imposte e sugli alberi del giardino; pioveva tranquillamente, sulle ville, per le strade vuote. Molta gente doveva ascoltare come lui, dietro i vetri chiusi, col cuore pieno dell'istessa angoscia, volgendo le spalle alla calda intimità delle stanze: "È inutile" si ripeteva toccando con le dita incerte i bordi della finestra, "è inutile... questa non è la mia vita..." Gli tornò in mente la scena del portacenere, il ridicolo svenimento, quell'indifferenza: "Tutto qui diviene comico, falso; non c'è sincerità... io non ero fatto per questa vita." L'uomo che egli doveva odiare, Leo, non si faceva abbastanza odiare; la donna che doveva amare, Lisa, era falsa, mascherava con dei sentimentalismi intollerabili delle voglie troppo semplici ed era impossibile amarla: ebbe l'impressione di volgere le spalle non al salotto, ma ad un abisso vuoto e oscuro: "Non è questa la mia vita" pensò con convinzione; "ma allora?"

Dietro di lui l'uscio si chiuse ed egli si voltò; il salotto era vuoto; madre e figlia erano uscite per accompagnare l'ospite alla porta; la lampada brillava nel cerchio immobile delle poltrone deserte.

"È un ragazzo" disse la madre a Leo nel vestibolo: "non bisogna prenderlo sul serio... non sa quello che fa."

Con viso contrito staccò il tubino dall'attaccapanni e lo porse all'amante. "A me" disse Leo giocondamente avvolgendo intorno al collo una sciarpa di lana, "a me non ha fatto nulla... Soltanto mi dispiace per lei che si è presa sulla spalla il proiettile in questione." Ebbe un riso freddo, falso e amabile: guardò un istante Carla come per domandarle un'approvazione; alfine si voltò e indossò il pastrano.

"È un ragazzo" ripetè la madre meccanicamente aiutandolo; il pensiero che Leo approfittando di quella imprudenza del figlio potesse rompere i loro legami, l'atterriva:

"Può star sicuro" soggiunse in tono umile e autoritario, "che tutto questo non succederà mai più... penserò io a parlare a Michele... e se ci sarà bisogno" soggiunse con voce irresoluta "agirò."

Vi fu silenzio: "Ma via" disse Carla che appoggiata alla porta guardava attentamente sua madre, "via... non agitarti... sono certa" soggiunse abbassando gli occhi e sorridendo, "che Leo stesso non se ne ricorda più."

"Proprio così" disse Leo: "ci sono tante cose più importanti." Baciò la mano alla madre non ancora rassicurata. "Arrivederci presto" disse a Carla, guardandola fissamente negli occhi; ella impallidì e con un gesto lento e rassegnato girò la maniglia della porta.

Questa si spalancò violentemente battendo contro il muro come se qualcheduno ansioso d'entrare avesse spinto con tutte le sue forze dall'esterno. " Uh, che freddo, che umidità..." gridò la madre. Come per risponderle una ventata impetuosa si rovesciò nella stanza; piovve rabbiosamente sulle mattonelle lucide; il lume oscillò; un leggero soprabito di Michele appeso all'attaccapanni percosse più volte con le sue lunghe maniche la faccia di Leo; e le vesti delle due donne si sollevarono gonfiandosi, si alzarono, alfine s'incollarono alle loro gambe.

"Chiudi... chiudi" gridava la madre attaccandosi con ambo le mani alla porta e ridicolmente chinandosi in avanti sui due piedi giunti per non bagnarsi; come un uccello acquatico Carla saltava con precauzione sul pavimento allagato: "chiudi" ripeteva la madre... ma nessuno si muoveva; tutti guardavano stupiti quella violenza fatta di nulla che ruggiva, gemeva, scricchiolava, e lacrimava sulla soglia vuota; e finalmente anche l'altro uscio del vestibolo si spalancò. Si formò allora una specie di vortice che dopo aver percorso il corridoio, s'ingolfò nella casa; si udirono tutte le porte sbattere ora vicine ora lontane, con uno strano fracasso che non era quello degli usci sbatacchiati da una mano irata o distratta; un fracasso nel quale si mescolavano le voci del vento e quegli urti e quelle esitazioni che sembravano preparare l'ultimo e più forte colpo; le stanze vuote e alte echeggiarono; la villa tutta tremò come se avesse dovuto ad un certo momento staccarsi dal suolo e girando su se stessa come una pazza trottola, trasvolare con rapidità sulla cresta fosforescente delle nubi.

"Ed ora?" domandò Leo alla madre, vedendola dopo molti sforzi chiudere la porta; "cosa facciamo?"

"Aspettiamo" fu la risposta. Tacquero tutti e tre: Mariagrazia guardava l'amante con occhi disincantati e amari; tanta fretta la travolgeva. Tra poco Leo sarebbe partito, sarebbe scomparso nella notte piovosa lasciandola alla sua casa fredda, al suo letto vuoto; sarebbe andato altrove; in casa di Lisa per esempio, già, sicuro, in casa di Lisa dove da tanto tempo era aspettato. Chissà come si sarebbero divertiti quella notte quei due, chissà come avrebbero riso di lei!

Fece un ultimo tentativo; tese l'orecchio, contrasse tutto il volto come chi ascolta:

"Mi pare" disse "che qualche cosa sbatta nel salotto... va', Carla," soggiunse con voce impaziente, "va' a vedere." Ascoltarono tutti e tre: pareva che la madre con una mimica imperiosa volesse creare quel fracasso di porte urtate che il silenzio della villa le negava.

"Non mi pare" disse Carla dopo un istante. "Non sento proprio nulla... proprio nulla."

"Ti dico di sì" insistette la madre ansiosa e caparbia: "senti" soggiunse nel più perfetto silenzio, "senti quanto sbatte?"

Allora Leo rise: "Ma no" disse tranquillamente rallegrato dalla stupidità dell'amante, "ma no... nulla sbatte." Vide con piacere rinnovata quell'espressione di dolore degli occhi della donna: "Illusione" concluse riprendendo il tubino, "illusione, cara signora." "Se ne va?" domandò la madre. "Sicuro... è tempo."

"Ma... non piove troppo?" insistette ella, perdutamente, mettendosi tra la porta e l'amante. " Non sarebbe meglio che lei aspettasse ancora un poco?"

"Piove" rispose Leo abbottonando il pastrano, "come le porte sbattono..." Baciò la mano alla donna annichilita, frugò in una tasca per cercare i guanti che erano nell'altra, si avvicinò alla porta, la aprì trattenendola con la mano contro il vento: "Arrivederci Carla" disse alla fanciulla, strinse la mano ch'ella gli tendeva, sorrise, uscì.

Tornarono nell'atrio; la madre rabbrividiva: "Che freddo... uh! che freddo" ripeteva: i muscoli stanchi del volto si erano distesi, era come disfatta, i suoi sguardi smarriti si posavano a caso sugli oggetti, vacillavano, fluttuavano; una nudità disadorna si diffondeva sulla sua faccia usata dal belletto; la bocca impercettibilmente tremava: "Vado a dormire..." ripetè salendo lentamente dietro la balaustra di legno della scala; "vado a dormire... buona notte." La sua ombra montò fino al soffitto, sostò sul pianerottolo, passò sulla parete con dei movimenti obliqui, e scomparve.


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Capitolo VIII

Uscirono alfine dalla sala da pranzo, a passi misurati, accendendo delle sigarette e guardandosi di sfuggita negli specchi del corridoio, e andarono nel salotto.

"Stasera," disse subito Leo sedendosi a fianco di Mariagrazia sul divano, "sono in disposizione di sentire un po' di musica classica... su, Carla," disse volgendosi verso la fanciulla: "suonaci quel che vuoi tu, Beethoven o Chopin, purché sia roba del buon tempo antico, quando non usavano i jazz che fanno venire il mal di capo..." Rise con cordialità e accavalciò le gambe.

"Sì, Carla," insistette la madre cui non pareva vero di avvantaggiarsi della musica per poter parlare con maggior libertà all'amante; "sì, suonaci qualche cosa, per esempio... quella fuga... di chi era? Ah! sì di Bach... che ti riusciva così bene."

Anche a Michele l'idea della musica piacque infinitamente; si sentiva stanco e irritato, l'immagine convenzionale della melodia intesa come un dolce fiume nel quale ci si può immergere e dimenticare non gli era mai sembrata così vera come ora: "Della musica" pensò socchiudendo gli occhi; "e al diavolo tutte le meschinità...: della vera musica."

"È molto tempo che non suono più" avvertì Carla: "vuol dire che non sarete troppo severi." Andò al pianoforte, l'aprì, esaminò qualche spartito: "Una fuga di Bach," annunziò finalmente.

I primi accordi risuonarono; Michele socchiuse gli occhi e si preparò ad ascoltare la melodia; la sua solitudine, le conversazioni con Lisa gli avevano messo in corpo un gran bisogno di compagnia e di amore, una speranza estrema di trovare tra tutta la gente del mondo una donna da poter amare sinceramente, senza ironie e senza rassegnazione: "Una donna vera" pensò; "una donna pura, né falsa, né stupida, né corrotta... trovarla... questo sì che rimetterebbe a posto ogni cosa." Per ora non la trovava, non sapeva neppure dove cercarla, ma ne aveva in mente l'immagine, tra l'ideale e materiale che si confondeva con le altre figure di quel fantastico mondo istintivo e sincero dove egli avrebbe voluto vivere; la musica lo avrebbe aiutato a ricostruire quest'immagine amata... ed ecco difatti, più per la sua esaltazione e per il suo desiderio che in grazia della musica stessa, fin dalle prime note, formarsi tra lui e Carla quella immagine... era una fanciulla, lo indovinava dalla snellezza del corpo, dagli occhi, da tutto il portamento, assai graziosa in verità, quasi gli voltava le spalle e l'osservava attentamente, senza lusinga, senza ombra di lascivia, oh no, avrebbe potuto giurarlo, ma con quella curiosità franca e attonita con la quale i bambini guardano i loro coetanei: "la mia compagna," egli pensò: e già dei gesti, una specie di abbraccio, un sorriso, una mossa della mano, degli avvenimenti, passeggiate, conversazioni, si formavano e passavano nel cielo desideroso della sua fantasia, quando un chiacchiericcio fitto e sommesso ruppe l'illusione e lo ricondusse alla realtà.

Era la madre che portava a compimento il suo proposito di avvalersi della musica per parlare all'amante:

"Se vuole, Merumeci," insisteva guardando velenosamente l'amante distratto, "lei può andare anche subito a quel suo ricevimento...; non c'è nessuna necessità che lei si annoi qui a sentire la musica nessuno la trattiene... vada... vada pure dove l'aspettano."

Leo la fissò; non aveva nessuna voglia di litigare; fece un cenno nella direzione di Carla come per significare. "Ora no... ora stiamo ad ascoltare Bach."

"Ma sì" insistette la madre; "lei qui si annoia... non dica di no...: l'ho visto sbadigliare con questi miei occhi... Noi l'annoiamo, e d'altra parte non possiamo mica metterci a ballare per divertirla... Vada dunque in quel luogo, dove sarà accolto a braccia aperte e nessuno suonerà, e nessuno la disturberà... ci vada..." Parlava e non cessava di sorridere stupidamente, ripresa, al solo pensiero di Lisa, da una vertigine di gelosia:

"E poi," soggiunse, "sarebbe una vera maleducazione mancare al ricevimento della Smithson... chissà quanta gente ci sarà... avrà fatto un treno speciale per far andare i suoi invitati fino a Milano..."

Pur di togliersi di tomo questo fastidio Leo avrebbe dato qualsiasi cosa; scosse la cenere del sigaro, si voltò con calma verso la madre:

"Se ho mentito," disse, "è stato soltanto per riguardo a lei, per non farle credere che in casa sua ci si annoia... La verità è che stasera non vado ad alcun ricevimento bensì a dormire... Son molte notti che faccio le ore piccole, mi sento stanco... stasera voglio andare a dormire presto."

[...] "È inutile ch'io suoni" disse con calma: "tutti parlano... tutti discorrono... meglio davvero andare a dormire..."

Quei due del divano si videro accoppiati; la madre si staccò dall'amante e guardò la figlia con volto sconcertato.

"Se volete parlare" soggiunse la fanciulla "non fatemi suonare." Silenzio.

"Facevamo dei commenti alla tua musica" rispose alfine Leo. "Suoni bene Carla; continua, continua pure."

Questa nuova menzogna fu il segnale di una specie di ribellione, come se tutti si fossero ad un tratto destati dal loro lungo torpore; e primo fra tutti Michele che aveva fino allora sopportato in silenzio i conversari di sua madre e di Leo; un po' per rabbia, un po' per un istintivo bisogno di azione, prese il giornale che teneva spiegato sulle ginocchia e lo scagliò con forza per terra:

"Non è vero niente" gridò guardando Leo; "è una spudorata menzogna... alla musica voi ci pensavate come io... come io a farmi prete... parlavate di affari, del legale" egli rise con sforzo: "e di altre cose ancora."

Ci fu silenzio: "Ecco" gridò improvvisamente Carla battendo le mani: "ecco la verità... alfine si respira..."

Fu come se qualcheduno avesse spalancato la finestra e l'aria fredda della notte fosse penetrata nel salotto; per un istante tutti si guardarono in volto stupefatti; ma il primo a riaversi fu Leo:

"Ti sbagli" disse severamente a Michele: "è segno che hai ascoltato male."

Siffatta falsità ispirò al ragazzo un riso alto e sgradevole: "Ah! ah!" rideva rovesciandosi nella poltrona "questa è bella." Poi s'interruppe:

"Mentitore!" disse bruscamente e con volto serio.

Si guardarono; Carla trattenne il respiro; la madre impallidì.

"Io dico" gridò all'improvviso Leo battendo il pugno sulla tavola, "che questo è troppo." Ma non si alzò; restò seduto fissando sul ragazzo due occhi indagatori: "Non ti sapevo così rissoso" soggiunse; e poi dopo un istante: "e se tu continui sarò costretto a tirarti le orecchie." Quest'ultima frase la profferì nel modo più stupido e solenne; sembrò a Michele che la minaccia di Leo, fieramente incominciata, fosse andata man mano affievolendosi, fino a raggiungere la piatta volgarità di una tirata d'orecchie; di rimbalzo anche il proprio sentimento diminuiva; non c'era nulla da fare; né scagliare il guanto di sfida, né ostentare il proprio onore offeso; bastava nascondere la parte minacciata, le orecchie, troppo poco.

"Tirare le orecchie, tirar le orecchie a me? a me? a me?" Ogni "a me" gli dava una spinta di più verso l'azione, ma si sentiva freddo e indifferente; false erano le parole che gli uscivano di bocca, falsa la voce; dov'era il fervore? dove lo sdegno? altrove, forse non esistevano.

Sulla tavola, tra i fiori, le tazzine, e il bricco del caffè, c'era un portacenere di marmo, di alabastro bianco venato in grigio: stese una mano di sonnambulo, lo prese, mollemente lo scagliò. Vide sua madre giunger le mani, la udì cacciare un grido; Leo urlava: "È roba da pazzi!! "; Carla si agitava; capì che il marmo aveva sbagliato strada; invece di Leo era stata colpita la madre; sulla testa? no, sopra la spalla.

Si alzò, goffamente si avvicinò al divano dove la sua vittima giaceva; incerta in volto e senza saper perché, la madre teneva gli occhi chiusi e a intervalli sospirava, ma era evidente che non provava alcun dolore e che questo suo svenimento era del tutto immaginario.

Insieme con gli altri due Michele si chinò; nonostante questa vista che avrebbe dovuto essere dolorosa, non provava alcun rimorso, anzi non gli riusciva di soffocare la sensazione che quella scena fosse ridicola. Invano pensava: "È mia madre... l'ho colpita... l'ho ferita... avrebbe potuto morire"; invano cercava un po' di pietà affettuosa per quella figura immobile, perduta nell'errore: la sua anima restava inerte. Si chinò e la guardò: ora la madre sollevava, senza cambiar di posizione o aprire gli occhi, un languido braccio, e con le dita allargava le vesti sull'omero colpito; apparve la spalla nuda, grassa, ma senza traccia di contusioni, né livida, né rossa: nulla. Però le dita come insoddisfatte continuavano a tirare, ad abbassare la veste, denudando un braccio, svelando l'ascella. Era straordinario: sparse sul petto, che sempre più si allargava, sbiancava, e rivelava il principio dei seni, le dita impudiche parevano perseguire uno scopo completamente diverso da quello di mostrare le ferite; per esempio, quello di spogliarsi.

In verità questo molle abbandono si rivolgeva all'amante; una romantica pietà doveva scaturirne e impietosirgli il cuore: "Mi vedrà ferita, svenuta, col petto nudo," era pressappoco il pensiero di Mariagrazia; "si ricorderà che mi sono fatta avanti per lui, che ho ricevuto il portacenere invece sua, e non potrà fare a meno di provare per me una profonda riconoscente tenerezza." La sua fantasia illusa immaginava che Leo l'avrebbe presa tra le sue braccia, l'avrebbe scossa, chiamata per nome, si sarebbe alfine inquietato non vedendola rinvenire... e alfine ella sarebbe lentamente tornata in sé, avrebbe riaperto gli occhi, i primi sguardi sarebbero stati per l'amante, per lui il primo sorriso. Ma non fu così, Leo non la prese fra le sue braccia né la chiamò per nome.

"Sarà forse bene che io vada fuori dalla porta" disse invece a Carla, con voce piena d'ironica intenzione. Fu come se la madre avesse ricevuto un getto d'acqua fredda, proprio là, su quella spalla che aveva denudato per l'amante, ella riaprì gli occhi, si alzò a sedere, guardò: c'era Michele che la osservava con gli occhi scanzonati, come se al suo rimorso si fosse mescolato qualche altro sentimento; Carla che si sforzava di ricondurle le vesti sopra il petto scoperto; ma Leo? dov'era Leo? Altrove che al suo fianco: aveva raccolto il portacenere e lo soppesava; poi bruscamente si volse verso Michele:

"Va bene" gli disse con ironico incoraggiamento; "va bene... va molto bene."

Michele alzò le spalle e lo guardò: "Certo... anzi benissimo" articolò con calma. Allora da dietro le spalle dell'uomo la voce della madre si alzò, acuta e familiare.

"Per carità, Merumeci," supplicava "per carità non ricominci... non lo tocchi... non gli parli... non lo guardi neppure..." E pareva che ella si trovasse al limite estremo della pazienza e della ragione, al di la del quale non c'è che pazzia.

Il ragazzo si rifugiò presso la finestra: la pioggia cadeva ancora, se ne udiva il fruscio sulle imposte e sugli alberi del giardino; pioveva tranquillamente, sulle ville, per le strade vuote. Molta gente doveva ascoltare come lui, dietro i vetri chiusi, col cuore pieno dell'istessa angoscia, volgendo le spalle alla calda intimità delle stanze: "È inutile" si ripeteva toccando con le dita incerte i bordi della finestra, "è inutile... questa non è la mia vita..." Gli tornò in mente la scena del portacenere, il ridicolo svenimento, quell'indifferenza: "Tutto qui diviene comico, falso; non c'è sincerità... io non ero fatto per questa vita." L'uomo che egli doveva odiare, Leo, non si faceva abbastanza odiare; la donna che doveva amare, Lisa, era falsa, mascherava con dei sentimentalismi intollerabili delle voglie troppo semplici ed era impossibile amarla: ebbe l'impressione di volgere le spalle non al salotto, ma ad un abisso vuoto e oscuro: "Non è questa la mia vita" pensò con convinzione; "ma allora?"

Dietro di lui l'uscio si chiuse ed egli si voltò; il salotto era vuoto; madre e figlia erano uscite per accompagnare l'ospite alla porta; la lampada brillava nel cerchio immobile delle poltrone deserte.

"È un ragazzo" disse la madre a Leo nel vestibolo: "non bisogna prenderlo sul serio... non sa quello che fa."

Con viso contrito staccò il tubino dall'attaccapanni e lo porse all'amante. "A me" disse Leo giocondamente avvolgendo intorno al collo una sciarpa di lana, "a me non ha fatto nulla... Soltanto mi dispiace per lei che si è presa sulla spalla il proiettile in questione." Ebbe un riso freddo, falso e amabile: guardò un istante Carla come per domandarle un'approvazione; alfine si voltò e indossò il pastrano.

"È un ragazzo" ripetè la madre meccanicamente aiutandolo; il pensiero che Leo approfittando di quella imprudenza del figlio potesse rompere i loro legami, l'atterriva:

"Può star sicuro" soggiunse in tono umile e autoritario, "che tutto questo non succederà mai più... penserò io a parlare a Michele... e se ci sarà bisogno" soggiunse con voce irresoluta "agirò."

Vi fu silenzio: "Ma via" disse Carla che appoggiata alla porta guardava attentamente sua madre, "via... non agitarti... sono certa" soggiunse abbassando gli occhi e sorridendo, "che Leo stesso non se ne ricorda più."

"Proprio così" disse Leo: "ci sono tante cose più importanti." Baciò la mano alla madre non ancora rassicurata. "Arrivederci presto" disse a Carla, guardandola fissamente negli occhi; ella impallidì e con un gesto lento e rassegnato girò la maniglia della porta.

Questa si spalancò violentemente battendo contro il muro come se qualcheduno ansioso d'entrare avesse spinto con tutte le sue forze dall'esterno. " Uh, che freddo, che umidità..." gridò la madre. Come per risponderle una ventata impetuosa si rovesciò nella stanza; piovve rabbiosamente sulle mattonelle lucide; il lume oscillò; un leggero soprabito di Michele appeso all'attaccapanni percosse più volte con le sue lunghe maniche la faccia di Leo; e le vesti delle due donne si sollevarono gonfiandosi, si alzarono, alfine s'incollarono alle loro gambe. As if to answer her, a rushing gust poured into the room; it rained furiously on the shiny tiles; the light wavered; a light overcoat of Michele's hanging on the coat rack struck Leo's face several times with its long sleeves; and the dresses of the two women rose, puffed up, rose, finally clung to their legs.

"Chiudi... chiudi" gridava la madre attaccandosi con ambo le mani alla porta e ridicolmente chinandosi in avanti sui due piedi giunti per non bagnarsi; come un uccello acquatico Carla saltava con precauzione sul pavimento allagato: "chiudi" ripeteva la madre... ma nessuno si muoveva; tutti guardavano stupiti quella violenza fatta di nulla che ruggiva, gemeva, scricchiolava, e lacrimava sulla soglia vuota; e finalmente anche l'altro uscio del vestibolo si spalancò. "Close... close," cried the mother, grasping the door with both hands and ridiculously leaning forward on both feet together so as not to get wet; like a water bird Carla jumped carefully on the flooded floor: "shut up" repeated the mother... but no one moved; everyone watched in astonishment at that violence made of nothing which roared, moaned, creaked, and wept on the empty threshold; and finally the other door of the vestibule also swung open. Si formò allora una specie di vortice che dopo aver percorso il corridoio, s'ingolfò nella casa; si udirono tutte le porte sbattere ora vicine ora lontane, con uno strano fracasso che non era quello degli usci sbatacchiati da una mano irata o distratta; un fracasso nel quale si mescolavano le voci del vento e quegli urti e quelle esitazioni che sembravano preparare l'ultimo e più forte colpo; le stanze vuote e alte echeggiarono; la villa tutta tremò come se avesse dovuto ad un certo momento staccarsi dal suolo e girando su se stessa come una pazza trottola, trasvolare con rapidità sulla cresta fosforescente delle nubi.

"Ed ora?" domandò Leo alla madre, vedendola dopo molti sforzi chiudere la porta; "cosa facciamo?"

"Aspettiamo" fu la risposta. Tacquero tutti e tre: Mariagrazia guardava l'amante con occhi disincantati e amari; tanta fretta la travolgeva. Tra poco Leo sarebbe partito, sarebbe scomparso nella notte piovosa lasciandola alla sua casa fredda, al suo letto vuoto; sarebbe andato altrove; in casa di Lisa per esempio, già, sicuro, in casa di Lisa dove da tanto tempo era aspettato. Chissà come si sarebbero divertiti quella notte quei due, chissà come avrebbero riso di lei!

Fece un ultimo tentativo; tese l'orecchio, contrasse tutto il volto come chi ascolta:

"Mi pare" disse "che qualche cosa sbatta nel salotto... va', Carla," soggiunse con voce impaziente, "va' a vedere." Ascoltarono tutti e tre: pareva che la madre con una mimica imperiosa volesse creare quel fracasso di porte urtate che il silenzio della villa le negava.

"Non mi pare" disse Carla dopo un istante. "Non sento proprio nulla... proprio nulla."

"Ti dico di sì" insistette la madre ansiosa e caparbia: "senti" soggiunse nel più perfetto silenzio, "senti quanto sbatte?"

Allora Leo rise: "Ma no" disse tranquillamente rallegrato dalla stupidità dell'amante, "ma no... nulla sbatte." Vide con piacere rinnovata quell'espressione di dolore degli occhi della donna: "Illusione" concluse riprendendo il tubino, "illusione, cara signora." "Se ne va?" domandò la madre. "Sicuro... è tempo."

"Ma... non piove troppo?" insistette ella, perdutamente, mettendosi tra la porta e l'amante. " Non sarebbe meglio che lei aspettasse ancora un poco?"

"Piove" rispose Leo abbottonando il pastrano, "come le porte sbattono..." Baciò la mano alla donna annichilita, frugò in una tasca per cercare i guanti che erano nell'altra, si avvicinò alla porta, la aprì trattenendola con la mano contro il vento: "Arrivederci Carla" disse alla fanciulla, strinse la mano ch'ella gli tendeva, sorrise, uscì.

Tornarono nell'atrio; la madre rabbrividiva: "Che freddo... uh! che freddo" ripeteva: i muscoli stanchi del volto si erano distesi, era come disfatta, i suoi sguardi smarriti si posavano a caso sugli oggetti, vacillavano, fluttuavano; una nudità disadorna si diffondeva sulla sua faccia usata dal belletto; la bocca impercettibilmente tremava: "Vado a dormire..." ripetè salendo lentamente dietro la balaustra di legno della scala; "vado a dormire... buona notte." La sua ombra montò fino al soffitto, sostò sul pianerottolo, passò sulla parete con dei movimenti obliqui, e scomparve.