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Gli Indifferenti - Alberto Moravia, 10 (VII)

10 (VII)

Spense la luce, discese a precipizio la scala, tra questi atti pratici, benché nessun pensiero preciso si affacciasse alla sua mente, una tristezza acuta, una nostalgia di pianto la tormentavano, contraevano il suo volto in una smorfia ridicola. Il corridoio era buio; ella raggiunse a tentoni il vestibolo, aprì la porta; l'accolse il clamore festoso della madre, di Leo e di Michele che aspettavano nell'automobile. Il piazzale era avvolto in una fitta oscurità, pioveva senza rumore, nulla si vedeva se non qualche riflesso lustro della macchina e quei gialli finestrini illuminati, dietro i quali, dall'interno della scatola ovattata, le facce rosee, liete, soddisfatte di quei tre la guardavano venire con curiosità. Fu un attimo; poi Carla salì e cadde a sedere accanto all'amante; l'automobile partì.

Per tutta la durata del tragitto nessuno dei quattro parlò, Leo guidava con abilità la grossa macchina tra la confusione delle strade congestionate; Carla immobile guardava trasognata il movimento della via, laggiù, oltre il cofano lucido, dove, tra due nere processioni di ombrelli, sotto la pioggia, i veicoli coi loro rossi lumi guizzavano da ogni parte come impazziti. Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza, e ogni volta che qualche testa povera o comune emergeva dal tenebroso tramestio della strada e trasportata dalla corrente della folla passava sotto i suoi occhi, ella avrebbe voluto gettare in faccia allo sconosciuto una smorfia di disprezzo come per dirgli: "Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro... io, invece, è giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini."

Soltanto Michele non guardava la strada, quello che l'automobile portava nella sua scatola sontuosa l'interessava di più, gli pareva che non ci fosse altro; l'ombra nascondeva le facce dei suoi tre compagni, ma ogni volta che la macchina passava sotto un fanale, una luce vivida illuminava per un istante quelle persone sedute e immobili: apparivano allora il volto della madre dai tratti fiacchi e profondi, dagli occhi vanitosi; quello di Carla, il viso incantato e puerile della fanciulla che va alla festa; e quello di Leo, di profilo, rosso, regolare, un po' duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste rivelano per un istante. Ogni volta che Michele li vedeva, stupiva di stare insieme con loro: "Perché sono questi" pensava, "e non altri?" Quelle figure gli erano più che mai straniere, quasi non le riconosceva, gli sembrava che una bionda dagli occhi azzurri al posto di Carla, una signora magra ed alta al posto della madre, un piccolo uomo nervoso al posto di Leo non avrebbero trasformato la sua vita; essi erano là, nell'ombra, immobili, ogni scossa dell'automobile li faceva urtare tra di loro come fantocci inerti: nulla gli pareva più angoscioso che vederli così lontani, staccati, soli senza rimedio.

Arrivarono: quattro neri ranghi di automobili riempivano la piazzetta oscura davanti all'albergo. Ce n'erano d'ogni sorta e grandezza, i conduttori vestiti dalla testa ai piedi di lustra tela incerata parlavano e fumavano riuniti in piccoli gruppi. Invece, luminoso contrasto col buio della sera d'inverno, la porta del Ritz risplendeva di una luce lussuosa e ospitale. Il tamburo girante di legno e di cristallo, dal rumore familiare, li introdusse uno dopo l'altro nell'androne pieno di servitori e di staffieri; passarono per il guardaroba rigurgitante di pastrani numerati, attraversarono una sfilata di saloni vuoti e dorati, arrivarono alla sala da ballo; seduto presso la porta, al suo tavolino, un uomo vendeva i biglietti d'ingresso; Leo pagò; entrarono.

Era già tardi, una folla numerosa riempiva la sala bassa e lunga; le tavole erano state disposte contro le pareti, nel mezzo la gente ballava e dal fondo, sopra una specie di soppalco ombreggiato da due palme, dei negri americani ritmavano la danza.

"Che folla" disse la madre ammirativa e pessimista, girando intorno uno sguardo pieno di dignità; "vedrai Carla che non troveremo posto."

Invece, contro queste previsioni, trovarono una piccola tavola in un angolo; sedettero; la madre si disfece del suo mantello: "Sapete" disse guardando per la sala e rivolgendosi indistintamente ai suoi tre compagni; "c'è una quantità di persone che conosciamo... guarda, Carla... i Valentini..."

"E i Santandrea, mamma."

"E i Contri" soggiunse la madre; si chinò un poco, e a voce più bassa: "a proposito dei Santandrea, lo sai il viaggio di nozze che hanno fatto due mesi fa a Parigi? Nello stesso vagone letto v'erano lo sposo, la sposa e l'amico della sposa... quello... come si chiama?" "Giorgetti..." disse Carla.

"Giorgetti... ecco... precisamente...: pensa che roba!... a ripeterla sembra impossibile."

La musica era finita e dopo dei vani applausi i ballerini tornarono ai loro posti; subito il brusio della conversazione diventò di colpo più forte; la madre si voltò verso l'amante: "Cosa ne direbbe'" propose, "di andare stasera a teatro, a sentire quella compagnia francese... Io ho il palco per una seconda rappresentazione, o stasera o dopodomanisera."

"Stasera non posso" disse l'uomo guardando attentamente la fanciulla; "alle undici ho un appuntamento al quale non posso mancare."

"Un appuntamento alle undici di sera" ripetè la madre tra sarcastica e confidenziale: "e dica, Merumeci, maschile o femminile?"

Leo esitò; aveva da destare la gelosia della madre o no? "Femminile, si capisce" rispose alfine; "ma mi son spiegato male... non è un appuntamento ma una visita... una cena fredda... in casa di una signora che riceve i suoi amici..."

"E chi è questa signora, se è lecito?" domandò la madre completamente irritata, con voce dura. Leo restò sconcertato; non aveva preveduto questa indiscrezione; cercò... cercò il nome di qualcheduno che la madre non conoscesse: "La Smithson..." trovò alfine, "sa... la pittrice."

"Ah! benissimo" approvò la madre con amaro trionfo; "la Smithson... peccato, veramente peccato che proprio avantieri io sia stata dalla mia modista, e questa mia modista mi abbia mostrato un cappello che la Smithson ha ordinato di mandarle a Milano... già... perché è ormai da cinque giorni a Milano la sua pittrice.

"Come a Milano"? ripetè Leo stupito.

"Ma sì" intervenne Michele, "non lo sai?... hanno anticipato il vernissage della sua mostra personale."

"Dunque vada dalla Smithson": ora la madre sorrideva velenosamente; "ci vada, ma ho paura che anche a prender subito il treno, magari pure l'aeroplano, non arriva in tempo..." Tacque per un istante, l'uomo non rispondeva, e quasi spaventata Carla osservava attentamente sua madre: "Caro lei, le bugie hanno le gambe corte'" ella continuò; "invece vuole che glielo dica io chi è questa famosa signora a cui ella deve far visita? Certo non una signora onesta, lei non può conoscerne... qualche donnaccia piuttosto, questo sì, qualche cocotte d'infimo ordine."

Questa volta il pallore di Carla fu così forte che Leo temette per un istante di vederla svenire o dare in una crisi di pianto; ma nulla di questo avvenne: "Mamma, non gridare a questo modo" disse con voce tranquilla la fanciulla; "qualcheduno potrebbe sentire."

Tre colpi di bacchetta risuonarono, la danza ricominciava: "Allora Leo" ella soggiunse, "vogliamo ballare?"

Andarono verso il ballo l'uno dietro l'altra, tra la gente seduta; quel pallore che l'uomo aveva osservato non lasciava le guance di Carla, mentre ella avanzava tra i tavolini loquaci, e una specie di rigida dignità era sul suo volto; ma tra la folla, prima di appoggiarsi al suo compagno, alzò la testa: "S'intende Leo" disse con fermezza e quasi, gli parve, a denti stretti; "che questa sera vengo da te... aspettami senz'altro." "Sul serio?"

"Serissimo." La voce era già cambiata, non era più ferma ma tremante, si sarebbe detto che respiro e fiducia le mancassero insieme. "Ma ora" ella soggiunse "non parlarmi più...: voglio soltanto ballare."

Ballarono; Leo sosteneva la vita della fanciulla con tutta la forza del suo braccio, una leggerezza, un ardore insolito gli mettevano le ali ai piedi e sebbene lo spazio fosse angusto e molta la folla, si sforzava di eseguire i più difficili passi. "Questa volta ti ho" pensava, "ti ho." Una triste confusione era invece nell'anima della fanciulla: ballava a malincuore, avrebbe voluto uscire da quella folla, sedersi sola in un angolo, chiudere gli occhi; in continuo movimento, il carosello dei ballerini girava davanti ai suoi occhi: facce di uomini, di donne, immobili, serie, sorridenti; la musica era trionfale, vittoriosa ma non senza un piccolo tremante accordo di tristezza, del resto molto comune, che ogni tanto tornava con insistenza: facce e musica, a forza di vederle e di sentirla la testa le girava.

Ora la danza era finita; le coppie tornavano ai loro posti; tornarono anche la madre e Michele agramente litigandosi: "Mai più ballerò con te" ripeteva Mariagrazia indignata.

"Di che cosa si tratta?" domandò Leo con autorità.

"Mai più" continuò la madre: "s'immagini che tutti ci guardavano... chissà cosa avranno pensato... era terribile... ha ballato come... come...", ella cercò un epiteto e nel disordine del suo sdegno non lo trovò; "come un ladro."

"Ah! veramente?" esclamò Leo stupefatto.

"Come uno scostumato" rettificò la madre con dignità.

"E di grazia" domandò il ragazzo sorridendo con sforzo; " di grazia come ballano i ladri?... e in questa compagnia il ladro chi è... io o qualchedun altro?..."

"Ma taci" supplicò la madre guardandosi intorno.

"Ma no" insistette Michele; "in ogni caso io ballo come un derubato... alleggerito da ogni peso terreno, tutto passione e trasporto... Invece per sapere come ballano i ladri, bisogna che tu vada con qualchedun altro... sicuro" egli ribadì guardando fissamente Leo, "con qualchedun altro."

Per un istante Leo immobile tra le due donne ansiose non parlò; poi sorrise: "Io credo" disse alzandosi, "che a te Michele sia veramente successo qualche cosa...; per questo sarà meglio che tu te ne vada... a meno che tu non voglia che me ne vada io."

"Sì Michele, vattene" supplicò la madre; egli la guardò. "Dunque" gli scappò di bocca, "tu preferisci mandar via tuo figlio piuttosto che un estraneo come Leo?" "Ma se è Leo che ci ha invitati?!"

Niente da rispondere: "ha ragione" pensò Michele, "è Leo che ha pagato"; guardò davanti a sé: la grande sala bassa assordava col brusio delle conversazioni, tutti quei gruppi di gente, le donne dipinte e con le gambe accavalciate e scoperte, gli uomini seduti in atteggiamenti disinvolti, con la sigaretta in bocca, tutti quei gruppi, mangiavano, bevevano, parlavano, noncuranti: i negri accordavano i loro strumenti laggiù sotto le palme; niente da rispondere. " Hai ragione" disse alfine "me ne vado... divertiti... il ladro se ne va"; e se ne andò.

Fuori continuava a piovere: "ladro, ladro," si ripeteva Michele senza sdegno, con una specie di falsa esaltazione; "ha tentato anche di rubarmi Lisa... e poi chi è il ladro? "; ma pochi minuti dopo con proprio stupore dovette accorgersi di non essere affatto adirato; tranquillissimo invece; nessuna azione di Leo, per quanto malvagia, riusciva a scuotere la sua indifferenza; dopo un falso scoppio di odio, egli finiva sempre per ritrovarsi come ora, con la testa vuota, un poco inebetito, leggerissimo.

I marciapiedi erano affollati, la strada rigurgitava di veicoli, era il momento del massimo traffico; senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza come se fosse stata una giornata di sole, guardando oziosamente le vetrine dei negozi, le donne, le réclames luminose sospese nell'oscurità; ma per quanti sforzi facesse non gli riusciva d'interessarsi a questo vecchio spettacolo della strada; l'angoscia che l'aveva invaso senza ragione, mentre se ne andava attraverso i saloni vuoti dell'albergo, non lo lasciava; la propria immagine, quel che veramente era e non poteva dimenticar di essere, lo perseguitava; ecco, gli pareva di vedersi: solo, miserabile, indifferente.

Gli venne il desiderio di entrare in un cinematografo; ce n'era uno su quella strada, assai lussuoso, il quale sulla porta di marmo ostentava una girandola luminosa in continuo movimento. Michele si avvicinò, guardò le fotografie: roba cinese fatta in America; troppo stupido; accese una sigaretta, riprese il suo cammino senza fiducia, sotto la pioggia, tra la folla; poi buttò via la sigaretta: niente da fare.

Ma intanto l'angoscia aumentava, su questo non c'era dubbio; già ne conosceva la formazione: prima una vaga incertezza, un senso di sfiducia, di vanità, un bisogno di affaccendarsi, di appassionarsi; poi, pian piano, la gola secca, la bocca amara, gli occhi sbarrati, il ritorno insistente nella sua testa vuota di certe frasi assurde, insomma una disperazione furiosa e senza illusioni. Di questa angoscia, Michele aveva un timore doloroso: avrebbe voluto non pensarci, e come ogni altra persona, vivere minuto per minuto, senza preoccupazioni, in pace con se stesso e con gli altri; "essere un imbecille" sospirava qualche volta; ma quando meno se l'aspettava una parola, un'immagine, un pensiero lo richiamavano all'eterna questione; allora la sua distrazione crollava, ogni sforzo era vano, bisognava pensare.

Quel giorno, mentre se ne andava passo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento: "Tutta questa gente" pensò, "sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s'affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io... io invece nulla... nessuno scopo... se non cammino sto seduto: fa lo stesso." Non staccava gli occhi da terra: c'era veramente in tutti quei piedi che calpestavano il fango davanti a lui una sicurezza una fiducia che egli non aveva; guardava, e il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco, egli era dovunque così, sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa, percorsa senza fede e senza entusiasmo, con gli occhi affascinati degli splendori fallaci delle pubblicità luminose.

"Fino a quando?" Alzò gli occhi verso il cielo; le stupide girandole erano là, in quella nera oscurità superiore; una raccomandava una pasta dentifricia, un'altra una vernice per le scarpe. Riabbassò la testa; i piedi non cessavano il loro movimento, il fango schizzava da sotto i tacchi, la folla camminava. "E io dove vado?" si domandò ancora; si passò un dito nel colletto: "cosa sono? perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?" L'angoscia l'opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di quei passanti, prenderlo per il bavero, domandargli dove andasse, perché corresse a quel modo; avrebbe voluto avere uno scopo qualsiasi, anche ingannevole, e non scalpicciare così, di strada in strada, fra la gente che ne aveva uno. "Dove vado? "; un tempo, a quel che pareva, gli uomini conoscevano il loro cammino dai primi fino agli ultimi passi; ora no; la testa nel sacco; oscurità; cecità; ma bisognava pure andare in qualche luogo; dove? Michele pensò di andare a casa sua.

Gli venne una subita fretta; ma la strada rigurgitava di veicoli, i quali, troppo numerosi, avanzavano lentamente lungo i marciapiedi; impossibile attraversare; sotto la pioggia diagonale, tra le facciate nere e illuminate delle case, le automobili, in due file opposte, l'una ascendente e l'altra discendente, aspettavano di sciogliersi e di balzare avanti; anch'egli aspettò. Allora tra le altre osservò una macchina più grande e più lussuosa; nell'interno di essa sedeva un uomo che si appoggiava rigidamente contro il fondo e aveva la testa nell'ombra; un braccio gli attraversava il petto, un braccio di donna, e si capiva che ella, sedutagli al lato, gli si era accasciata sulle ginocchia, aggrappandosi con la mano a quelle spalle, come chi vuole supplicare e non osa guardare in faccia; l'uomo immobile e la donna avvinghiata stettero per un istante davanti agli occhi di Michele nella luce bianca dei fanali; poi il veicolo si mosse e avanzò scivolando come un cetaceo tra le altre automobili; egli non vide più che un lumettino rosso fissato sopra la targa dei numeri; pareva un richiamo; e anche questo segno sparì.

Gli restò da questa visione una tristezza nervosa e intollerabile; egli non conosceva quell'uomo e quella donna, doveva essere gente di tutt'altro ambiente che il suo, forse stranieri; eppure gli pareva che quella scena gli fosse uscita dall'animo e fosse una delle sue ansiose immaginazioni, incorporata e offerta ai suoi occhi da qualche superiore volontà; quello era il suo mondo dove si soffriva sinceramente, e si abbracciava delle spalle senza pietà, e si supplicava invano, non questo limbo pieno di fracassi assurdi, di sentimenti falsi, nel quale, figure storte e senza verità, si agitavano sua madre, Lisa, Carla, Leo, tutta la sua gente; egli avrebbe potuto odiar veramente quell'uomo, veramente amare quella donna; ma lo sapeva, era inutile sperare, quella terra promessa gli era proibita, né l'avrebbe mai raggiunta.

Intanto una guardia aveva interrotto l'interminabile passaggio, Michele attraversò; in mezzo alla strada provò una specie di capogiro, un intollerabile senso di disagio; allora si tolse il cappello e lasciò che la pioggia cadesse sulla sua testa nuda.

Quel che sentiva non avrebbe saputo dirlo, un gran numero di desideri indefiniti ribolliva nella sua anima, il tormento del pensiero gli dava una sofferenza anche fisica. Un taxi libero gli passò a portata di mano; salì, diede l'indirizzo di casa sua; ma gli restava il ricordo di quei due, l'uomo e la donna avvinghiati nella loro lussuosa macchina: "Sapere dove sono andati" pensò quasi seriamente; "dare al conduttore il loro indirizzo, andar da loro, pregarli di prendermi con loro..." Queste assurdità e le immaginazioni che le accompagnavano lo calmarono un poco; però, ad ogni scossa della corsa, gli pareva di destarsi da qualche sogno irraggiungibile e capiva con amarezza che queste fantasticherie non avrebbero trasformato neppure in minima parte la realtà in cui viveva.


10 (VII) 10 (VII) 10 (VII)

Spense la luce, discese a precipizio la scala, tra questi atti pratici, benché nessun pensiero preciso si affacciasse alla sua mente, una tristezza acuta, una nostalgia di pianto la tormentavano, contraevano il suo volto in una smorfia ridicola. Il corridoio era buio; ella raggiunse a tentoni il vestibolo, aprì la porta; l'accolse il clamore festoso della madre, di Leo e di Michele che aspettavano nell'automobile. Il piazzale era avvolto in una fitta oscurità, pioveva senza rumore, nulla si vedeva se non qualche riflesso lustro della macchina e quei gialli finestrini illuminati, dietro i quali, dall'interno della scatola ovattata, le facce rosee, liete, soddisfatte di quei tre la guardavano venire con curiosità. Fu un attimo; poi Carla salì e cadde a sedere accanto all'amante; l'automobile partì.

Per tutta la durata del tragitto nessuno dei quattro parlò, Leo guidava con abilità la grossa macchina tra la confusione delle strade congestionate; Carla immobile guardava trasognata il movimento della via, laggiù, oltre il cofano lucido, dove, tra due nere processioni di ombrelli, sotto la pioggia, i veicoli coi loro rossi lumi guizzavano da ogni parte come impazziti. Anche la madre guardava attraverso il finestrino, ma piuttosto che per vedere, per farsi vedere: quella grande e lussuosa macchina le dava un senso di felicità e di ricchezza, e ogni volta che qualche testa povera o comune emergeva dal tenebroso tramestio della strada e trasportata dalla corrente della folla passava sotto i suoi occhi, ella avrebbe voluto gettare in faccia allo sconosciuto una smorfia di disprezzo come per dirgli: "Tu brutto cretino vai a piedi, ti sta bene, non meriti altro... io, invece, è giusto che fenda la moltitudine adagiata su questi cuscini."

Soltanto Michele non guardava la strada, quello che l'automobile portava nella sua scatola sontuosa l'interessava di più, gli pareva che non ci fosse altro; l'ombra nascondeva le facce dei suoi tre compagni, ma ogni volta che la macchina passava sotto un fanale, una luce vivida illuminava per un istante quelle persone sedute e immobili: apparivano allora il volto della madre dai tratti fiacchi e profondi, dagli occhi vanitosi; quello di Carla, il viso incantato e puerile della fanciulla che va alla festa; e quello di Leo, di profilo, rosso, regolare, un po' duro, come quegli oggetti inspiegabili e paurosi che i lampi delle tempeste rivelano per un istante. Ogni volta che Michele li vedeva, stupiva di stare insieme con loro: "Perché sono questi" pensava, "e non altri?" Quelle figure gli erano più che mai straniere, quasi non le riconosceva, gli sembrava che una bionda dagli occhi azzurri al posto di Carla, una signora magra ed alta al posto della madre, un piccolo uomo nervoso al posto di Leo non avrebbero trasformato la sua vita; essi erano là, nell'ombra, immobili, ogni scossa dell'automobile li faceva urtare tra di loro come fantocci inerti: nulla gli pareva più angoscioso che vederli così lontani, staccati, soli senza rimedio.

Arrivarono: quattro neri ranghi di automobili riempivano la piazzetta oscura davanti all'albergo. Ce n'erano d'ogni sorta e grandezza, i conduttori vestiti dalla testa ai piedi di lustra tela incerata parlavano e fumavano riuniti in piccoli gruppi. Invece, luminoso contrasto col buio della sera d'inverno, la porta del Ritz risplendeva di una luce lussuosa e ospitale. Il tamburo girante di legno e di cristallo, dal rumore familiare, li introdusse uno dopo l'altro nell'androne pieno di servitori e di staffieri; passarono per il guardaroba rigurgitante di pastrani numerati, attraversarono una sfilata di saloni vuoti e dorati, arrivarono alla sala da ballo; seduto presso la porta, al suo tavolino, un uomo vendeva i biglietti d'ingresso; Leo pagò; entrarono.

Era già tardi, una folla numerosa riempiva la sala bassa e lunga; le tavole erano state disposte contro le pareti, nel mezzo la gente ballava e dal fondo, sopra una specie di soppalco ombreggiato da due palme, dei negri americani ritmavano la danza.

"Che folla" disse la madre ammirativa e pessimista, girando intorno uno sguardo pieno di dignità; "vedrai Carla che non troveremo posto."

Invece, contro queste previsioni, trovarono una piccola tavola in un angolo; sedettero; la madre si disfece del suo mantello: "Sapete" disse guardando per la sala e rivolgendosi indistintamente ai suoi tre compagni; "c'è una quantità di persone che conosciamo... guarda, Carla... i Valentini..."

"E i Santandrea, mamma."

"E i Contri" soggiunse la madre; si chinò un poco, e a voce più bassa: "a proposito dei Santandrea, lo sai il viaggio di nozze che hanno fatto due mesi fa a Parigi? Nello stesso vagone letto v'erano lo sposo, la sposa e l'amico della sposa... quello... come si chiama?" "Giorgetti..." disse Carla.

"Giorgetti... ecco... precisamente...: pensa che roba!... a ripeterla sembra impossibile."

La musica era finita e dopo dei vani applausi i ballerini tornarono ai loro posti; subito il brusio della conversazione diventò di colpo più forte; la madre si voltò verso l'amante: "Cosa ne direbbe'" propose, "di andare stasera a teatro, a sentire quella compagnia francese... Io ho il palco per una seconda rappresentazione, o stasera o dopodomanisera."

"Stasera non posso" disse l'uomo guardando attentamente la fanciulla; "alle undici ho un appuntamento al quale non posso mancare."

"Un appuntamento alle undici di sera" ripetè la madre tra sarcastica e confidenziale: "e dica, Merumeci, maschile o femminile?"

Leo esitò; aveva da destare la gelosia della madre o no? "Femminile, si capisce" rispose alfine; "ma mi son spiegato male... non è un appuntamento ma una visita... una cena fredda... in casa di una signora che riceve i suoi amici..."

"E chi è questa signora, se è lecito?" domandò la madre completamente irritata, con voce dura. Leo restò sconcertato; non aveva preveduto questa indiscrezione; cercò... cercò il nome di qualcheduno che la madre non conoscesse: "La Smithson..." trovò alfine, "sa... la pittrice."

"Ah! benissimo" approvò la madre con amaro trionfo; "la Smithson... peccato, veramente peccato che proprio avantieri io sia stata dalla mia modista, e questa mia modista mi abbia mostrato un cappello che la Smithson ha ordinato di mandarle a Milano... già... perché è ormai da cinque giorni a Milano la sua pittrice. very well" approved the mother with bitter triumph; "Smithson... pity, really pity that just before yesterday I went to my milliner, and this milliner of mine showed me a hat that Smithson ordered to be sent to Milan... yes... because his painter has been in Milan for five days now.

"Come a Milano"? ripetè Leo stupito.

"Ma sì" intervenne Michele, "non lo sai?... hanno anticipato il vernissage della sua mostra personale."

"Dunque vada dalla Smithson": ora la madre sorrideva velenosamente; "ci vada, ma ho paura che anche a prender subito il treno, magari pure l'aeroplano, non arriva in tempo..." Tacque per un istante, l'uomo non rispondeva, e quasi spaventata Carla osservava attentamente sua madre: "Caro lei, le bugie hanno le gambe corte'" ella continuò; "invece vuole che glielo dica io chi è questa famosa signora a cui ella deve far visita? Certo non una signora onesta, lei non può conoscerne... qualche donnaccia piuttosto, questo sì, qualche cocotte d'infimo ordine."

Questa volta il pallore di Carla fu così forte che Leo temette per un istante di vederla svenire o dare in una crisi di pianto; ma nulla di questo avvenne: "Mamma, non gridare a questo modo" disse con voce tranquilla la fanciulla; "qualcheduno potrebbe sentire."

Tre colpi di bacchetta risuonarono, la danza ricominciava: "Allora Leo" ella soggiunse, "vogliamo ballare?"

Andarono verso il ballo l'uno dietro l'altra, tra la gente seduta; quel pallore che l'uomo aveva osservato non lasciava le guance di Carla, mentre ella avanzava tra i tavolini loquaci, e una specie di rigida dignità era sul suo volto; ma tra la folla, prima di appoggiarsi al suo compagno, alzò la testa: "S'intende Leo" disse con fermezza e quasi, gli parve, a denti stretti; "che questa sera vengo da te... aspettami senz'altro." "Sul serio?"

"Serissimo." La voce era già cambiata, non era più ferma ma tremante, si sarebbe detto che respiro e fiducia le mancassero insieme. "Ma ora" ella soggiunse "non parlarmi più...: voglio soltanto ballare."

Ballarono; Leo sosteneva la vita della fanciulla con tutta la forza del suo braccio, una leggerezza, un ardore insolito gli mettevano le ali ai piedi e sebbene lo spazio fosse angusto e molta la folla, si sforzava di eseguire i più difficili passi. "Questa volta ti ho" pensava, "ti ho." Una triste confusione era invece nell'anima della fanciulla: ballava a malincuore, avrebbe voluto uscire da quella folla, sedersi sola in un angolo, chiudere gli occhi; in continuo movimento, il carosello dei ballerini girava davanti ai suoi occhi: facce di uomini, di donne, immobili, serie, sorridenti; la musica era trionfale, vittoriosa ma non senza un piccolo tremante accordo di tristezza, del resto molto comune, che ogni tanto tornava con insistenza: facce e musica, a forza di vederle e di sentirla la testa le girava.

Ora la danza era finita; le coppie tornavano ai loro posti; tornarono anche la madre e Michele agramente litigandosi: "Mai più ballerò con te" ripeteva Mariagrazia indignata.

"Di che cosa si tratta?" domandò Leo con autorità.

"Mai più" continuò la madre: "s'immagini che tutti ci guardavano... chissà cosa avranno pensato... era terribile... ha ballato come... come...", ella cercò un epiteto e nel disordine del suo sdegno non lo trovò; "come un ladro."

"Ah! veramente?" esclamò Leo stupefatto.

"Come uno scostumato" rettificò la madre con dignità.

"E di grazia" domandò il ragazzo sorridendo con sforzo; " di grazia come ballano i ladri?... e in questa compagnia il ladro chi è... io o qualchedun altro?..."

"Ma taci" supplicò la madre guardandosi intorno.

"Ma no" insistette Michele; "in ogni caso io ballo come un derubato... alleggerito da ogni peso terreno, tutto passione e trasporto... Invece per sapere come ballano i ladri, bisogna che tu vada con qualchedun altro... sicuro" egli ribadì guardando fissamente Leo, "con qualchedun altro."

Per un istante Leo immobile tra le due donne ansiose non parlò; poi sorrise: "Io credo" disse alzandosi, "che a te Michele sia veramente successo qualche cosa...; per questo sarà meglio che tu te ne vada... a meno che tu non voglia che me ne vada io."

"Sì Michele, vattene" supplicò la madre; egli la guardò. "Dunque" gli scappò di bocca, "tu preferisci mandar via tuo figlio piuttosto che un estraneo come Leo?" "Ma se è Leo che ci ha invitati?!"

Niente da rispondere: "ha ragione" pensò Michele, "è Leo che ha pagato"; guardò davanti a sé: la grande sala bassa assordava col brusio delle conversazioni, tutti quei gruppi di gente, le donne dipinte e con le gambe accavalciate e scoperte, gli uomini seduti in atteggiamenti disinvolti, con la sigaretta in bocca, tutti quei gruppi, mangiavano, bevevano, parlavano, noncuranti: i negri accordavano i loro strumenti laggiù sotto le palme; niente da rispondere. " Hai ragione" disse alfine "me ne vado... divertiti... il ladro se ne va"; e se ne andò.

Fuori continuava a piovere: "ladro, ladro," si ripeteva Michele senza sdegno, con una specie di falsa esaltazione; "ha tentato anche di rubarmi Lisa... e poi chi è il ladro? "; ma pochi minuti dopo con proprio stupore dovette accorgersi di non essere affatto adirato; tranquillissimo invece; nessuna azione di Leo, per quanto malvagia, riusciva a scuotere la sua indifferenza; dopo un falso scoppio di odio, egli finiva sempre per ritrovarsi come ora, con la testa vuota, un poco inebetito, leggerissimo.

I marciapiedi erano affollati, la strada rigurgitava di veicoli, era il momento del massimo traffico; senza ombrello sotto la pioggia, Michele camminava con lentezza come se fosse stata una giornata di sole, guardando oziosamente le vetrine dei negozi, le donne, le réclames luminose sospese nell'oscurità; ma per quanti sforzi facesse non gli riusciva d'interessarsi a questo vecchio spettacolo della strada; l'angoscia che l'aveva invaso senza ragione, mentre se ne andava attraverso i saloni vuoti dell'albergo, non lo lasciava; la propria immagine, quel che veramente era e non poteva dimenticar di essere, lo perseguitava; ecco, gli pareva di vedersi: solo, miserabile, indifferente.

Gli venne il desiderio di entrare in un cinematografo; ce n'era uno su quella strada, assai lussuoso, il quale sulla porta di marmo ostentava una girandola luminosa in continuo movimento. Michele si avvicinò, guardò le fotografie: roba cinese fatta in America; troppo stupido; accese una sigaretta, riprese il suo cammino senza fiducia, sotto la pioggia, tra la folla; poi buttò via la sigaretta: niente da fare.

Ma intanto l'angoscia aumentava, su questo non c'era dubbio; già ne conosceva la formazione: prima una vaga incertezza, un senso di sfiducia, di vanità, un bisogno di affaccendarsi, di appassionarsi; poi, pian piano, la gola secca, la bocca amara, gli occhi sbarrati, il ritorno insistente nella sua testa vuota di certe frasi assurde, insomma una disperazione furiosa e senza illusioni. Di questa angoscia, Michele aveva un timore doloroso: avrebbe voluto non pensarci, e come ogni altra persona, vivere minuto per minuto, senza preoccupazioni, in pace con se stesso e con gli altri; "essere un imbecille" sospirava qualche volta; ma quando meno se l'aspettava una parola, un'immagine, un pensiero lo richiamavano all'eterna questione; allora la sua distrazione crollava, ogni sforzo era vano, bisognava pensare.

Quel giorno, mentre se ne andava passo passo lungo i marciapiedi affollati, lo colpì, guardando in terra alle centinaia di piedi scalpiccianti nella mota, la vanità del suo movimento: "Tutta questa gente" pensò, "sa dove va e cosa vuole, ha uno scopo, e per questo s'affretta, si tormenta, è triste, allegra, vive, io... io invece nulla... nessuno scopo... se non cammino sto seduto: fa lo stesso." Non staccava gli occhi da terra: c'era veramente in tutti quei piedi che calpestavano il fango davanti a lui una sicurezza una fiducia che egli non aveva; guardava, e il disgusto che provava di se stesso aumentava; ecco, egli era dovunque così, sfaccendato, indifferente; questa strada piovosa era la sua vita stessa, percorsa senza fede e senza entusiasmo, con gli occhi affascinati degli splendori fallaci delle pubblicità luminose.

"Fino a quando?" Alzò gli occhi verso il cielo; le stupide girandole erano là, in quella nera oscurità superiore; una raccomandava una pasta dentifricia, un'altra una vernice per le scarpe. Riabbassò la testa; i piedi non cessavano il loro movimento, il fango schizzava da sotto i tacchi, la folla camminava. "E io dove vado?" si domandò ancora; si passò un dito nel colletto: "cosa sono? perché non correre, non affrettarmi come tutta questa gente? perché non essere un uomo istintivo, sincero? perché non aver fede?" L'angoscia l'opprimeva: avrebbe voluto fermare uno di quei passanti, prenderlo per il bavero, domandargli dove andasse, perché corresse a quel modo; avrebbe voluto avere uno scopo qualsiasi, anche ingannevole, e non scalpicciare così, di strada in strada, fra la gente che ne aveva uno. "Dove vado? "; un tempo, a quel che pareva, gli uomini conoscevano il loro cammino dai primi fino agli ultimi passi; ora no; la testa nel sacco; oscurità; cecità; ma bisognava pure andare in qualche luogo; dove? Michele pensò di andare a casa sua.

Gli venne una subita fretta; ma la strada rigurgitava di veicoli, i quali, troppo numerosi, avanzavano lentamente lungo i marciapiedi; impossibile attraversare; sotto la pioggia diagonale, tra le facciate nere e illuminate delle case, le automobili, in due file opposte, l'una ascendente e l'altra discendente, aspettavano di sciogliersi e di balzare avanti; anch'egli aspettò. Allora tra le altre osservò una macchina più grande e più lussuosa; nell'interno di essa sedeva un uomo che si appoggiava rigidamente contro il fondo e aveva la testa nell'ombra; un braccio gli attraversava il petto, un braccio di donna, e si capiva che ella, sedutagli al lato, gli si era accasciata sulle ginocchia, aggrappandosi con la mano a quelle spalle, come chi vuole supplicare e non osa guardare in faccia; l'uomo immobile e la donna avvinghiata stettero per un istante davanti agli occhi di Michele nella luce bianca dei fanali; poi il veicolo si mosse e avanzò scivolando come un cetaceo tra le altre automobili; egli non vide più che un lumettino rosso fissato sopra la targa dei numeri; pareva un richiamo; e anche questo segno sparì.

Gli restò da questa visione una tristezza nervosa e intollerabile; egli non conosceva quell'uomo e quella donna, doveva essere gente di tutt'altro ambiente che il suo, forse stranieri; eppure gli pareva che quella scena gli fosse uscita dall'animo e fosse una delle sue ansiose immaginazioni, incorporata e offerta ai suoi occhi da qualche superiore volontà; quello era il suo mondo dove si soffriva sinceramente, e si abbracciava delle spalle senza pietà, e si supplicava invano, non questo limbo pieno di fracassi assurdi, di sentimenti falsi, nel quale, figure storte e senza verità, si agitavano sua madre, Lisa, Carla, Leo, tutta la sua gente; egli avrebbe potuto odiar veramente quell'uomo, veramente amare quella donna; ma lo sapeva, era inutile sperare, quella terra promessa gli era proibita, né l'avrebbe mai raggiunta.

Intanto una guardia aveva interrotto l'interminabile passaggio, Michele attraversò; in mezzo alla strada provò una specie di capogiro, un intollerabile senso di disagio; allora si tolse il cappello e lasciò che la pioggia cadesse sulla sua testa nuda.

Quel che sentiva non avrebbe saputo dirlo, un gran numero di desideri indefiniti ribolliva nella sua anima, il tormento del pensiero gli dava una sofferenza anche fisica. Un taxi libero gli passò a portata di mano; salì, diede l'indirizzo di casa sua; ma gli restava il ricordo di quei due, l'uomo e la donna avvinghiati nella loro lussuosa macchina: "Sapere dove sono andati" pensò quasi seriamente; "dare al conduttore il loro indirizzo, andar da loro, pregarli di prendermi con loro..." Queste assurdità e le immaginazioni che le accompagnavano lo calmarono un poco; però, ad ogni scossa della corsa, gli pareva di destarsi da qualche sogno irraggiungibile e capiva con amarezza che queste fantasticherie non avrebbero trasformato neppure in minima parte la realtà in cui viveva.