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Uno, nessuno e centomila - Pirandello, LIBRO QUARTO (1)

LIBRO QUARTO (1)

I. Com'erano per me Marco di Dio e sua moglie Diamante Dico "erano"; ma forse sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non ho piú mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov'essi si fingono d'essere. So di certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:

«Tu sei Marco di Dio?»

E lui mi risponderebbe:

«Sí. Marco di Dio.»

«E cammini per questa via?

«Sí. Per questa via.»

«E codesta è tua moglie Diamante?»

«Sí. Mia moglie Diamante.»

«E questa via si chiama cosí e cosí?»

«Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse, tanti lampioni,e via discorrendo.»

Come in una grammatica d'Orlendorf. Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo!

La via, cinque anni fa.

L'eternità s'è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l'altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare piú lontano della piú lontana stella del cielo.

Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due sciagurati, a cui però la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall'altro poi persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco ogni giorno che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall'oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati. Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli dire cosí. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non m'era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si potesse diventare milionari dall'oggi al domani. Ma se questo, ch'è stato già dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che realmente si possa da un giorno all'altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata regolarità delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o verosimili per chi viva fuori d'ogni regola, come appunto quell'uomo lí. Si credeva inventore.

E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, e là: diventa milionario!

Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d'uno dei nostri piú reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d'arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo. Aveva potuto l'artista tradurre senza danno nella creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne lode. Il delitto era nella creta.

Non sospettò il maestro che in quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov'era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piú lodevole, mentre, oppresso dall'afa d'un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo. Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilità che il finto dava a vedere nella creta; gridò aiuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d'improvviso in quel momento d'afa. Ora, siamo giusti: bestia, sí; schifosissima, in quell'atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piú forse Marco di Dio anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarò d'aver sempre conosciuto nel suo sbozzatore? So che offendo con questa domanda la vostra moralità. Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio poté sorgere una tale tentazione è segno evidente ch'egli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. Potrei farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piú turpi) sono pur piene le vite dei santi. I santi le attribuivano alle demonia e con l'aiuto di Dio, potevano vincerle. Cosí anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all'improvviso il ladro o l'assassino. L'oppressione dell'afa d'un pomeriggio estivo non è mai riuscita a liquefare la crosta della vostra abituale probità né ad accendere in voi momentaneamente la bestia originaria. Potete condannare.

Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione?

«Volgarità!» esclamate. «Non era piú, allora, Giulio Cesare. Lo ammiriamo là dove Giulio Cesare era veramente lui.»

Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui soltanto là dove voi l'ammirate, quando non era piú là, dov'era? chi era? nessuno, uno qualunque? e chi? Bisognerà domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a Nicomede re di Bitinia.

Batti e batti, alla fine v'è entrato in mente anche questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sí, un Giulio Cesare qual egli, in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore incomparabilmente più grande degli altri; non però quanto a realtà, vi prego di credere perché non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di Nicomede re di Bitinia.

Il guajo è questo, sempre, signori: che dovevano tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come poté, innaturalmente lo fu, e impudicissima e anche piú volte recidiva.

Il satiro in quel povero Marco di Dio scappò fuori, a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in quell'atto d'un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piú bislacchi disegni per sollevarsi dall'ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte. Diceva da una decina d'anni che sarebbe partito per l'Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l'Inghilterra la settimana ventura. E studiava l'inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché quelle due pagine dell'apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturità:

«Is Jane a happy child?»

E la moglie rispondeva pronta e seria:

«Yes, Jane is a happy child.»

Perché anche la moglie la settimana ventura sarebbe partita per l'Inghilterra con lui. Era uno sgomento, e insieme una pietà, questo spettacolo d'una donna, com'egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall'oggi al domani con un'invenzione, per esempio, di "cessi inodori per paesi senz'acqua nelle case". Ridete? La loro serietà era cosí truce per questo; dico, perché tutti ne ridevano. Era anzi feroce. E tanto piú feroce diventava quanto piú crescevano, attorno ad essa, le risa.

E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anziché compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d'odio. Perché la derisione degli altri era ormai l'aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta la derisione, rischiavano di soffocare.

Mi spiego perciò come per loro il peggior nemico fosse stato mio padre.

Non si permetteva infatti solamente con me mio padre quel lusso di bontà di cui ho parlato piú sú. Si compiaceva anche d'agevolare, con munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro infelicità di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la ricchezza! «Quanto?» domandava mio padre.

Oh, poco. Perché era sempe poco ciò che bastava a costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.

«Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco...»

«Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso, proprio...»«Quanto?»

«Oh, poco!»

E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto, basta. E quelli allora, com'è facile intendere, non gli restavano grati del non aver voluto godere beffardamente fin all'ultimo della loro totale disillusione e del potere attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E nessuno con più accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.

Il piú accanito di tutti era stato questo Marco di Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio feroce. Non senza ragione, perché anch'io, quasi a mia insaputa, seguitavo a beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietà, di cui né Firbo né Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.

II. Ma fu totale

Totale, perché bastò muovere in me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perché s'alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtà. E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest'orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d'aprile, e lucida e precisa come uno specchio. Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell'ombra di me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell'ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri. Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d'ammiccare cosí, perché, non potendo sapere come v'appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri? Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d'un simile atto non poteva esser quella che m'immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo: «Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell'usurajo che voi volete vedere in me?» Ma quest'altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti: «O oh! sapete? l'usurajo Moscarda è impazzito!» Perché l'usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva distruggere cosí d'un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un'ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l'usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti gli altri Moscarda ch'io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato. Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.

Ma non anticipiamo.

III. Atto notarile

Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dí... dell'anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re d'Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cavalier Elpidio, d'anni 52 o 53. «Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?»

Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d'animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa piú naturale del mondo entrare nello studio d'un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa? Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sí o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piú consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della cosí detta realtà delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v'accade d'arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all'amico che vi sta accanto: «Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?»

E quello no, non lo vede, perché vede un'altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.

Questo scherzo, io dico; com'io già lo avevo penetrato. Ora entravo io quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere cosí, in una lucida fissità, in una quasi immobile rigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino quel signor notaro Stampa, senza il minimo sospetto ch'io potessi per me non essere quale mi vedeva lui, e sicurissimo d'esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell'annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno. Capite adesso? Mi veniva d'ammiccare, d'ammiccare anche di lui, per significargli furbescamente "Bada sotto! Bada sotto!". Mi veniva anche, Dio mio di cacciar fuori all'improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, cosí per gioco e senza malizia, quell'immagine di me ch'egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sú, serio.

Dovevo far l'esperimento. «Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in questo silenzio?»

Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:

«Silenzio. Dove?»

Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e di vetture.

«Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?

Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l'orecchio: «Che sento?»

«Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lí del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine e raspando su lo zinco della gabbia...»

«Già. Sí. Ma che vuol dire?»

«Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?»

«Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l'avverto...» Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d'un canarino, nello studio d'un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.» «Nossignore, non canta.»

Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor notaro che stimai prudente lasciar lí il canarino per non compromettere l'esperimento; il quale, almeno in principio, e segnatamente lí, alla presenza del notaro aveva bisogno che nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse d'una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d'un certo tale signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda... «E non è lei?»

«Già, io sí. Sarei io...»

Era cosí bello peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali polverosi, parlare cosí, come a una distanza di secoli, d'una certa casa di pertinenza d'un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto piú che, sí, ero io lí; presente e stipulante, in quello studio di notaro ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov'era, nel mondo del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana e io, io, nel mondo del signor notaro, chi sa come curioso...


LIBRO QUARTO (1) BOOK FOUR (1) LIBRO CUATRO (1) LIVRO QUATRO (1)

I. Com'erano per me Marco di Dio e sua moglie Diamante Dico "erano"; ma forse sono in vita ancora. Dove? Qua ancora, forse, che potrei vederli domani. Ma qua, dove? Non ho piú mondo per me; nulla posso sapere del loro, dov'essi si fingono d'essere. So di certo che vanno per via, se domani li incontro per via. Potrei domandare a lui:

«Tu sei Marco di Dio?»

E lui mi risponderebbe:

«Sí. Marco di Dio.»

«E cammini per questa via?

«Sí. Per questa via.»

«E codesta è tua moglie Diamante?»

«Sí. Mia moglie Diamante.»

«E questa via si chiama cosí e cosí?»

«Cosí e cosí. E ha tante case, tante traverse, tanti lampioni,e via discorrendo.»

Come in una grammatica d'Orlendorf. Ebbene, questo mi bastava allora, come adesso a voi, per stabilire la realtà di Marco di Dio e di sua moglie Diamante e della via per cui potrei ancora incontrarli, come allora li incontravo. Quando? Oh, non molti anni fa. Che bella precisione di spazio e di tempo!

La via, cinque anni fa.

L'eternità s'è sprofondata per me, non tra questi cinque anni solamente, ma tra un minuto e l'altro. E il mondo in cui vivevo allora mi pare piú lontano della piú lontana stella del cielo.

Marco di Dio e sua moglie Diamante mi sembravano due sciagurati, a cui però la miseria, se da un canto pareva avesse persuaso essere inutile ormai che si lavassero la faccia ogni mattina, certo dall'altro poi persuadeva ancora di non lasciare nessun mezzo intentato, non già per guadagnare quel poco ogni giorno che bastasse almeno a sfamarli, ma per diventare dall'oggi al domani milionarii: mi-lio-na-ri-i come diceva lui sillabando, con gli occhi truci, sbarrati. Ridevo allora, e tutti con me ridevano nel sentirgli dire cosí. Ora ne provo raccapriccio, considerando che potevo riderne solo perché non m'era ancora avvenuto di dubitare di quella corroborante provvidenzialissima cosa che si chiama la regolarità delle esperienze; per cui potevo stimare un sogno buffo che si potesse diventare milionari dall'oggi al domani. Ma se questo, ch'è stato già dimostrato un sottilissimo filo, voglio dire della regolarità delle esperienze, si fosse spezzato in me? se per il ripetersi di due o tre volte avesse acquistato invece regolarità per me questo sogno buffo? Anche a me allora sarebbe riuscito impossibile dubitare che realmente si possa da un giorno all'altro diventare milionarii. Quanti conservano la beata regolarità delle esperienze non possono immaginare quali cose possono essere reali o verosimili per chi viva fuori d'ogni regola, come appunto quell'uomo lí. Si credeva inventore.

E un inventore, signori miei, un bel giorno, apre gli occhi, inventa una cosa, e là: diventa milionario!

Tanti ancora lo ricordano come un selvaggio, appena venuto dalla campagna a Richieri. Ricordano che fu accolto allora nello studio d'uno dei nostri piú reputati artisti, ora morto; e che in poco tempo vi aveva imparato a lavorare con molta perizia il marmo. Se non che il maestro, un giorno, volle prenderlo a modello per un suo gruppo che, esposto in gesso in una mostra d'arte, divenne famoso sotto il titolo Satiro e fanciullo. Aveva potuto l'artista tradurre senza danno nella creta una visione fantastica, non certo castigata ma bellissima, e compiacersene e averne lode. Il delitto era nella creta.

Non sospettò il maestro che in quel suo scolaro potesse sorgere la tentazione di tradurre a sua volta quella visione fantastica, dalla creta ov'era lodevolmente fissata per sempre, in un movimento momentaneo e non piú lodevole, mentre, oppresso dall'afa d'un pomeriggio estivo, sudava nello studio a sbozzare nel marmo quel gruppo. El maestro no sospechaba que pudiera surgir en aquel alumno suyo la tentación de traducir aquella visión fantástica, desde la arcilla donde estaba loablemente fijada para siempre, en un movimiento momentáneo y ya no loable, mientras, oprimido por el bochorno de una tarde de verano, sudaba en su estudio, esculpiendo aquel grupo en mármol. Il fanciullo vero non volle avere la sorridente docilità che il finto dava a vedere nella creta; gridò aiuto; accorse gente; e Marco di Dio fu sorpreso in un atto che era della bestia sorta in lui d'improvviso in quel momento d'afa. El verdadero muchacho no quiso tener la sonriente docilidad que el falso mostraba en la arcilla; gritó pidiendo ayuda; la gente se precipitó; y Marcos de Dios fue sorprendido en un acto que era de la bestia que de pronto surgió en él en aquel momento de enfurruñamiento. Ora, siamo giusti: bestia, sí; schifosissima, in quell'atto; ma per tanti altri atti onestamente attestati, non era piú forse Marco di Dio anche quel buon giovine che il suo maestro dichiarò d'aver sempre conosciuto nel suo sbozzatore? Ahora bien, seamos justos: bestia, sí; repugnante, en ese acto; pero por tantos otros actos honestamente atestiguados, ¿no era también más Marca de Dios aquel buen joven, a quien su amo declaró haber conocido siempre en su borrador? So che offendo con questa domanda la vostra moralità. Sé que ofendo su moralidad con esta pregunta. Difatti mi rispondete che se in Marco di Dio poté sorgere una tale tentazione è segno evidente ch'egli non era quel buon giovine che il suo maestro diceva. De hecho, me respondes que si tal tentación pudo surgir en Marcos de Dios, es una clara señal de que no era el buen joven que su amo decía que era. Potrei farvi osservare intanto, che di simili tentazioni (e anche di piú turpi) sono pur piene le vite dei santi. Mientras tanto, podría señalarte que la vida de los santos también está llena de esas tentaciones (e incluso de otras más asquerosas). I santi le attribuivano alle demonia e con l'aiuto di Dio, potevano vincerle. Cosí anche i freni che abitualmente imponete a voi stessi impediscono di solito a quelle tentazioni di nascere in voi, o che in voi scappi fuori all'improvviso il ladro o l'assassino. Así también, las restricciones que os imponéis habitualmente suelen impedir que surjan en vosotros esas tentaciones, o que el ladrón o el asesino se escapen de repente en vosotros. L'oppressione dell'afa d'un pomeriggio estivo non è mai riuscita a liquefare la crosta della vostra abituale probità né ad accendere in voi momentaneamente la bestia originaria. La opresión del bochorno de una tarde de verano nunca consiguió licuar la costra de tu probidad habitual ni encender momentáneamente la bestia original que hay en ti. Potete condannare. Puede condenar.

Ma se io ora mi metto a parlarvi di Giulio Cesare, la cui gloria imperiale vi riempie di tanta ammirazione? Pero si ahora empiezo a hablarte de Julio César, cuya gloria imperial te llena de tanta admiración...

«Volgarità!» esclamate. "¡Vulgaridad!", exclamas. «Non era piú, allora, Giulio Cesare. "Ya no era, entonces, Julio César. Lo ammiriamo là dove Giulio Cesare era veramente lui.» Le admiramos donde realmente estuvo Julio César".

Benissimo. Lui. Ma vedete? Se Giulio Cesare era lui soltanto là dove voi l'ammirate, quando non era piú là, dov'era? chi era? nessuno, uno qualunque? e chi? Bisognerà domandarlo a Calpurnia sua moglie, o a Nicomede re di Bitinia.

Batti e batti, alla fine v'è entrato in mente anche questo: che Giulio Cesare, uno, non esisteva. Esisteva, sí, un Giulio Cesare qual egli, in tanta parte della sua vita, si rappresentava; questo aveva senza dubbio un valore incomparabilmente più grande degli altri; non però quanto a realtà, vi prego di credere perché non meno reale di questo Giulio Cesare imperiale era quel lezioso fastidioso tutto raso e discinto e infedelissimo di sua moglie Calpurnia: o quello impudicissimo di Nicomede re di Bitinia.

Il guajo è questo, sempre, signori: che dovevano tutti quanti esser chiamati con quel nome solo di Giulio Cesare, e che in un solo corpo di sesso maschile dovevano coabitare tanti e anche una femmina; la quale, volendo esser femmina e non trovandone il modo in quel corpo maschile, dove e come poté, innaturalmente lo fu, e impudicissima e anche piú volte recidiva.

Il satiro in quel povero Marco di Dio scappò fuori, a buon conto, una volta sola e tentato da quel gruppo del suo maestro. Sorpreso in quell'atto d'un momento, fu condannato per sempre. Non trovò nessuno che volesse avere considerazione di lui; e, uscito dal carcere, si diede ad almanaccare i piú bislacchi disegni per sollevarsi dall'ignominiosa miseria in cui era caduto, a braccetto con una donna, la quale un bel giorno era venuta a lui, nessuno sapeva come né da che parte. Diceva da una decina d'anni che sarebbe partito per l'Inghilterra la settimana ventura. Ma erano forse passati per lui questi dieci anni? Erano passati per coloro che glielo sentivano dire. Egli era sempre deciso a partire per l'Inghilterra la settimana ventura. E studiava l'inglese. O almeno, da anni teneva sotto il braccio una grammatica inglese, aperta e ripiegata sempre allo stesso punto, sicché quelle due pagine dell'apertura con lo strusciare del braccio e il sudicio della giacca erano ridotte ormai illeggibili, mentre le seguenti erano rimaste incredibilmente pulite. Ma fin dove era il sudicio egli sapeva. E di tratto in tratto, andando per via, rivolgeva di sorpresa, aggrondato, qualche domanda alla moglie, come a saggiarne la prontezza e la maturità:

«Is Jane a happy child?»

E la moglie rispondeva pronta e seria:

«Yes, Jane is a happy child.»

Perché anche la moglie la settimana ventura sarebbe partita per l'Inghilterra con lui. Era uno sgomento, e insieme una pietà, questo spettacolo d'una donna, com'egli fosse riuscito ad attirarla, e farla vivere da cagna fedele in quel suo sogno buffo, di diventar milionario dall'oggi al domani con un'invenzione, per esempio, di "cessi inodori per paesi senz'acqua nelle case". Ridete? La loro serietà era cosí truce per questo; dico, perché tutti ne ridevano. Era anzi feroce. E tanto piú feroce diventava quanto piú crescevano, attorno ad essa, le risa.

E ormai erano arrivati a tal punto, che se qualcuno per caso si fermava ad ascoltare i loro disegni senza riderne, essi, anziché compiacersene, gli lanciavano oblique occhiatacce, non pur di sospetto, anche d'odio. Perché la derisione degli altri era ormai l'aria in cui quel loro sogno respirava. Tolta la derisione, rischiavano di soffocare.

Mi spiego perciò come per loro il peggior nemico fosse stato mio padre.

Non si permetteva infatti solamente con me mio padre quel lusso di bontà di cui ho parlato piú sú. Si compiaceva anche d'agevolare, con munificenza che non si stancava, e ridendo di quel suo particolar sorriso, le stolide illusioni di certuni che, come Marco di Dio, venivano a piangere davanti a lui la loro infelicità di non aver tanto da ridurre a effetto i loro disegni, il loro sogno: la ricchezza! «Quanto?» domandava mio padre.

Oh, poco. Perché era sempe poco ciò che bastava a costoro per diventar ricchi: mi-lio-na-ri-i. E mio padre dava.

«Ma come! dicevi che ci voleva cosí poco...»

«Già. Non avevo calcolato bene. Ma adesso, proprio...»«Quanto?»

«Oh, poco!»

E mio padre dava, dava. Ma poi, a un certo punto, basta. E quelli allora, com'è facile intendere, non gli restavano grati del non aver voluto godere beffardamente fin all'ultimo della loro totale disillusione e del potere attribuire a lui invece, senza rimorso, il fallimento, sul meglio, delle loro illusioni. E nessuno con più accanimento di costoro si vendicava chiamando mio padre usurajo.

Il piú accanito di tutti era stato questo Marco di Dio. Il quale ora, morto mio padre, rovesciava su me, e non senza ragione, il suo odio feroce. Non senza ragione, perché anch'io, quasi a mia insaputa, seguitavo a beneficarlo. Lo tenevo alloggiato in una catapecchia di mia proprietà, di cui né Firbo né Quantorzo gli avevano mai richiesto la pigione. Ora questa catapecchia appunto mi diede il mezzo di tentare su lui il mio primo esperimento.

II. Ma fu totale

Totale, perché bastò muovere in me appena appena, cosí per giuoco, la volontà di rappresentarmi diverso a uno dei centomila in cui vivevo, perché s'alterassero in centomila modi diversi tutte le altre mie realtà. E per forza questo giuoco, se considerate bene, doveva fruttarmi la pazzia. O per dir meglio, quest'orrore: la coscienza della pazzia, fresca e chiara, signori, fresca e chiara come una mattinata d'aprile, e lucida e precisa come uno specchio. Perché, incamminandomi verso quel primo esperimento, andavo a pórre graziosamente la mia volontà fuori di me, come un fazzoletto che mi cavassi di tasca. Volevo compiere un atto che non doveva esser mio, ma di quell'ombra di me che viveva realtà in un altro; cosí solida e vera che avrei potuto togliermi il cappello e salutarla, se per dannata necessità non avessi dovuto incontrarla e salutarla viva, non propriamente in me, ma nel mio stesso corpo, il quale, non essendo per sé nessuno, poteva esser mio ed era mio in quanto rappresentava me a me stesso, ma poteva anche essere ed era di quell'ombra, di quelle centomila ombre che mi rappresentavano in centomila modi vivo e diverso ai centomila altri. Difatti, non andavo forse incontro al signor Vitangelo Moscarda per giocargli un brutto tiro? Eh! signori, sí, un brutto tiro (scusatemi tutti questi ammiccamenti; ma ho bisogno di ammiccare, d'ammiccare cosí, perché, non potendo sapere come v'appaio in questo momento, tiro anche, con questi ammiccamenti, a indovinare) cioè, a fargli compiere un atto del tutto contrario a lui e incoerente: un atto che, distruggendo di colpo la logica della sua realtà, lo annientasse cosí agli occhi di Marco di Dio come di tanti altri? Senza intendere, sciagurato! che la conseguenza d'un simile atto non poteva esser quella che m'immaginavo: di presentarmi cioè a domandare a tutti, dopo: «Vedete adesso, signori, che non è vero niente che io sia quell'usurajo che voi volete vedere in me?» Ma quest'altra, invece: che tutti dovessero esclamare, sbigottiti: «O oh! sapete? l'usurajo Moscarda è impazzito!» Perché l'usurajo Moscarda poteva sí impazzire, ma non si poteva distruggere cosí d'un colpo, con un atto contrario a lui e incoerente. Non era un'ombra da giocarci e da pigliare a gabbo, l'usurajo Moscarda: un signore era da trattare coi dovuti riguardi, alto un metro e sessantotto, rosso di pelo come papà, il fondatore della banca, con le sopracciglia, sí, ad accento circonflesso e quel naso che gli pendeva verso destra come a quel caro stupido Gengè di mia moglie Dida: un signore, insomma, che Dio liberi, impazzendo, rischiava di trascinarsi al manicomio con sé tutti gli altri Moscarda ch'io ero per gli altri e anche, oh Dio, quel povero innocuo Gengè di mia moglie Dida; e, se permettete, anche me che, leggero e sorridente, ci avevo giocato. Rischiai, cioè, rischiammo tutti quanti, come vedrete, il manicomio, questa prima volta; e non ci bastò. Dovevamo anche rischiar la vita, perché io mi riprendessi e trovassi alla fine (uno, nessuno e centomila) la via della salute.

Ma non anticipiamo.

III. Atto notarile

Mi recai dapprima nello studio del notaro Stampa, in Via del Crocefisso, numero 24. Perché (eh, questi sono sicurissimi dati di fatto) a dí... dell'anno..., regnando Vittorio Emanuele III per grazia di Dio e volontà della nazione re d'Italia nella nobile città di Richieri, in Via del Crocefisso, al numero civico 24, teneva studio di regio notaro il signor Stampa cavalier Elpidio, d'anni 52 o 53. «Ci sta ancora? Al numero 24? Lo conoscete tutti il notaro Stampa?»

Oh, e allora possiamo essere sicuri di non sbagliare. Quel notaro Stampa là, che conosciamo tutti. Va bene? Ma io ero, entrando nello studio, in uno stato d'animo, che voi non vi potete immaginare. Come potreste immaginarvelo, scusate, se vi pare ancora la cosa piú naturale del mondo entrare nello studio d'un notaro per stendere un atto qualsiasi, e se dite che lo conoscete tutti questo notaro Stampa? Vi dico che io ci andavo, quel giorno, per il mio primo esperimento. E insomma, lo volete fare anche voi, sí o no, questo esperimento con me, una buona volta? dico, di penetrare lo scherzo spaventoso che sta sotto alla pacifica naturalezza delle relazioni quotidiane, di quelle che vi paiono le piú consuete e normali, e sotto la quieta apparenza della cosí detta realtà delle cose? Lo scherzo, santo Dio, per cui pure v'accade d'arrabbiarvi ogni cinque minuti e di gridare all'amico che vi sta accanto: «Ma scusa! ma come non vedi questo? sei cieco?»

E quello no, non lo vede, perché vede un'altra cosa lui, quando voi credete che debba vedere la vostra, come pare a voi. La vede invece come pare a lui, e per lui dunque il cieco siete voi.

Questo scherzo, io dico; com'io già lo avevo penetrato. Ora entravo io quello studio, carico di tutte le riflessioni e considerazioni covate cosí lungamente; e me le sentivo come friggere dentro, insieme in gran subbuglio; e mi volevo intanto tenere cosí, in una lucida fissità, in una quasi immobile rigidezza, mentre figuratevi in quale risata fragorosa mi veniva di prorompere nel vedermelo davanti serio serio, poverino quel signor notaro Stampa, senza il minimo sospetto ch'io potessi per me non essere quale mi vedeva lui, e sicurissimo d'esser lui per me quello stesso che ogni giorno nell'annodarsi la cravattina nera davanti allo specchio si vedeva, con tutte le sue cose attorno. Capite adesso? Mi veniva d'ammiccare, d'ammiccare anche di lui, per significargli furbescamente "Bada sotto! Bada sotto!". Mi veniva anche, Dio mio di cacciar fuori all'improvviso la lingua, di smuovere il naso con una subitanea smusatina per alterargli a un tratto, cosí per gioco e senza malizia, quell'immagine di me ch'egli credeva vera. Ma serio eh? Serio, sú, serio.

Dovevo far l'esperimento. «Dunque, signor notaro, eccomi qua. Ma scusi, lei sta sempre sprofondato in questo silenzio?»

Si voltò brusco a quadrarmi. Disse:

«Silenzio. Dove?»

Per Via del Crocefisso era difatti in quel momento un continuo transito di gente e di vetture.

«Già; non nella via, certo. Ma ci sono qua tutte queste carte, signor notaro, dietro i vetri impolverati di questi scaffali. Non sente?

Tra turbato e stordito, tornò a squadrarmi; poi tese l'orecchio: «Che sento?»

«Ma questo raspío! Ah, le zampine, scusi, le zampine lí del suo canarino; scusi scusi. Sono unghiute quelle zampine e raspando su lo zinco della gabbia...»

«Già. Sí. Ma che vuol dire?»

«Oh, niente. Non le dà ai nervi, a lei, lo zinco, signor notaro?»

«Lo zinco? Ma chi ci bada? Non l'avverto...» Eppure, lo zinco, pensi! in una gabbia, sotto le gracili zampine d'un canarino, nello studio d'un notaro... Ci scommetto che non canta, questo canarino.» «Nossignore, non canta.»

Cominciava a guardarmi in un certo modo il signor notaro che stimai prudente lasciar lí il canarino per non compromettere l'esperimento; il quale, almeno in principio, e segnatamente lí, alla presenza del notaro aveva bisogno che nessun dubbio sorgesse sulle mie facoltà mentali. E domandai al signor notaro se sapesse d'una certa casa, sita in via tale numero tale, di pertinenza d'un certo tale signor Moscarda Vitangelo, figlio del fu Francesco Antonio Moscarda... «E non è lei?»

«Già, io sí. Sarei io...»

Era cosí bello peccato! in quello studio di notaro, tra tutti quegli incartamenti ingialliti in quei vecchi scaffali polverosi, parlare cosí, come a una distanza di secoli, d'una certa casa di pertinenza d'un certo tal Moscarda Vitangelo... Tanto piú che, sí, ero io lí; presente e stipulante, in quello studio di notaro ma chi sa come e dove se lo vedeva lui, il signor notaro, quel suo studio; che odore ci sentiva diverso da quello che ci sentivo io; e chi sa come e dov'era, nel mondo del signor notaro, quella certa casa di cui gli parlavo con voce lontana e io, io, nel mondo del signor notaro, chi sa come curioso...