Parte (2)
Un giorno gli portarono un giornale su cui c'era la réclame di un uomo con un faccione idiota e dei baffi fini fini, da latin lover, e c'era disegnato un limone grande così e vicino la scritta diceva: Tano Damato il re dei limoni, Tano Damato, limoni da re, e non so quale attestato o premio o cosa... Tano Damato... Il vecchio Boodmann non fece una piega. "Chi è questo frocio?" chiese. E si fece dare il giornale perché di fianco alla réclame c'erano i risultati delle corse. Non che ci giocasse, alle corse: gli piacevano i nomi dei cavalli, tutto lì, aveva una vera passione, ti diceva sempre "senti questo, questo qui, ha corso ieri, a Cleveland, senti qua, l'hanno chiamato Cerchi grane, capisci? ma è possibile? e questo? guarda, Meglio prima, non c'è da morire?" insomma gli piacevano, i nomi dei cavalli, c'aveva quella passione. Di chi vinceva non gliene importava un cazzo. Erano i nomi, che gli piacevano.
A quel bambino incominciò a dare il suo, di nome: Danny Boodmann. L'unica vanità che si concesse in tutta la vita. Poi ci aggiunse T.D. Lemon, proprio uguale alla scritta che c'era sulla scatola di cartone, perché diceva che faceva fine avere delle lettere in mezzo al nome: "tutti gli avvocati ce l'hanno," confermò Burty Bum, un macchinista che era finito in galera grazie a un avvocato che si chiamava John P.T.K. Wonder. "Se fa l'avvocato lo ammazzo," sentenziò il vecchio Boodmann, però poi le due iniziali ce le lasciò, nel nome, e così venne fuori Danny Boodmann T.D. Lemon. Era un bel nome. Lo studiarono un po', ripetendolo a bassa voce, il vecchio Danny e gli altri, giù in sala macchine, con le macchine spente, a mollo nel porto di Boston. "Un bel nome," disse alla fine il vecchio Boodmann, "però gli manca qualcosa. Gli manca un gran finale." Era vero. Gli mancava un gran finale. "Aggiungiamo martedì," disse Sam Stull, che faceva il cameriere. "L'hai trovato martedì, chiamalo martedì." Danny ci pensò un po'. Poi sorrise. "È un'idea buona, Sam. L'ho trovato nel primo anno di questo nuovo, fottutissimo secolo, no? lo chiamerò Novecento." "Novecento?" "Novecento."
"Ma è un numero!" "Era un numero: adesso è un nome." Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento. È perfetto.
È bellissimo. Un gran nome, cristo, davvero un gran nome. Andrà lontano, con un nome così. Si chinarono sulla scatola di cartone. Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento li guardò e sorrise: loro rimasero di stucco: nessuno si aspettava che un bambino così piccolo potesse fare tutta quella merda.
Danny Boodmann fece ancora il marinaio per otto anni, due mesi e undici giorni. Poi, durante una burrasca, in pieno Oceano, si prese una carrucola impazzita in mezzo alla schiena. Ci mise tre giorni a morire. Era rotto dentro, non c'era verso di rimetterlo insieme. Novecento era un bambino, allora. Si sedette vicino al letto di Danny e da lì non si ·mosse più. Aveva una pila di giornali vecchi, e per tre giorni, facendo una fatica bestiale, lesse al vecchio Danny, che stava tirando le cuoia, tutti i risultati delle corse che trovò. Metteva insieme le lettere, come Danny gli aveva insegnato, col dito premuto sulla carta del giornale e gli occhi che non mollavano un istante. Leggeva lentamente, ma leggeva. Così il vecchio Danny morì sulla sesta corsa di Chicago, vinta da Acqua potabile con due lunghezze su Minestrone e cinque su Fondotinta blu. Il fatto è che non riuscì a non ridere, a quei nomi, e ridendo, schiattò. Lo avvolsero in un telone e lo restituirono all'Oceano. Sul telone, con una vernice rossa, il capitano scrisse: Thanks Danny.
Così, d'improvviso, Novecento divenne orfano per la seconda volta. Aveva otto anni e si era già fatto avanti e indietro dall'Europa all'America una cinquantina di volte. L'Oceano era casa sua. E quanto alla terra, be', non ci aveva mai messo piede. L'aveva vista, dai porti, certo. Ma sceso, mai. Il fatto è che Danny aveva paura che glielo portassero via, con qualche storia di documenti e visti e cose del genere. Così Novecento rimaneva a bordo, sempre, e poi a un certo punto si ripartiva. A voler essere precisi, Novecento non esisteva nemmeno, per il mondo: non c'era città, parrocchia, ospedale, galera, squadra di baseball che avesse scritto da qualche parte il suo nome. Non aveva patria, non aveva data di nascita, non aveva famiglia. Aveva otto anni: ma ufficialmente non era mai nato.
"Non potrà continuare a lungo questa storia" dicevano ogni tanto a Danny. "Oltre tutto è anche contro la legge." Ma Danny aveva una risposta che non faceva una piega: "In culo la legge" diceva. Non è che si potesse discutere un granché, con quella partenza.
Quando arrivarono a Southampton, alla fine del viaggio in cui Danny morì, il capitano decise che era ora di farla finita con quella recita. Chiamò le autorità portuali e disse al suo vice che gli andasse a prendere Novecento. Be', non lo trovò mai. Lo cercarono per tutta la nave, per due giorni. Niente. Era sparito. Non andava giù a nessuno, quella storia, perché insomma, lì sul Virginian, si erano abituati a quel ragazzino, e nessuno osava dirlo ma... ci vuol poco a buttarsi giù dalla murata e... poi il mare fa quel che vuole, e... Così c'avevano la morte nel cuore quando ventidue giorni dopo ripartirono per Rio de Janeiro, senza che Novecento fosse tornato, o che si fosse saputo qualcosa di lui... Stelle filanti e sirene e fuochi d'artificio, alla partenza, come tutte le volte, ma era diverso, quella volta, stavano per perdere Novecento, ed era per sempre, qualcosa gli rosicchiava il sorriso, a tutti, e gli mordeva dentro.
La seconda notte di viaggio, che non si vedevano nemmeno più le luci della costa irlandese, Barry, il nostromo, entrò come un pazzo nella cabina del comandante, svegliandolo e dicendogli che doveva assolutamente venire a vedere. Il comandante bestemmiò, ma poi andò.
Salone da ballo della prima classe.
Luci spente.
Gente in pigiama, in piedi, all'ingresso. Passeggeri usciti dalla cabina.
E poi marinai, e tre tutti neri saliti dalla sala macchine, e anche Truman, il marconista.
Tutti in silenzio, a guardare.
Novecento.
Stava seduto sul seggiolino del pianoforte, con le gambe che penzolavano giù, non toccavano nemmeno per terra.
E, com'è vero Iddio, stava suonando.
(Parte in audio una musica per pianoforte, abbastanza semplice, lenta, seducente)
Suonava non so che diavolo di musica, ma piccola e... bella. Non c'era trucco, era proprio lui, a suonare, le sue mani, su quei tasti, dio sa come. E bisognava sentire cosa gli veniva fuori. C'era una signora, in vestaglia, rosa, e certe pinzette nei capelli... una piena di soldi, per capirsi, la moglie americana di un assicuratore... be', aveva dei lacrimoni così che le scendevano sulla crema da notte, guardava e piangeva, non la smetteva più. Quando si trovò il comandante di fianco, bollito dalla sorpresa, lui, letteralmente bollito, quando se lo trovò di fianco, tirò su col naso, la riccona dico, tirò su col naso e indicando il pianoforte gli chiese:
"Come si chiama? ".
"Novecento."
"Non la canzone, il bambino."
"Novecento."
"Come la canzone?"
Era quel genere di conversazione che un comandante di marina non può sostenere più di quattro cinque battute. Soprattutto quando ha appena scoperto che un bambino che credeva morto non solo era vivo ma, nel frattempo, aveva anche imparato a suonare il pianoforte. Piantò la riccona lì dov'era, con le sue lacrime e tutto il resto, e attraversò a passi decisi il salone: pantaloni del pigiama e giacca della divisa non abbottonata. Si fermò solo quando arrivò al pianoforte. Avrebbe voluto dire molte cose, in quel momento, e tra le altre "Dove cazzo hai imparato? ", o anche "Dove diavolo ti eri nascosto?". Però, come tanti uomini abituati a vivere in divisa, aveva finito per pensare, anche, in divisa. Così quel che disse fu:
"Novecento, tutto questo è assolutamente contrario al regolamento".
Novecento smise di suonare. Era un ragazzino di poche parole e di grande capacità di apprendimento. Guardò con dolcezza il comandante e disse:
"In culo il regolamento".
(In audio rumore di burrasca)
Il mare si è svegliato / il mare ha deragliato /scoppia l'acqua contro il cielo / scoppia / sciacqua /stacca al vento nubi e stelle / furibondo / si scatena fino a quando / non si sa / dura un giorno / finirà /mamma questo / non l'avevi detto mamma / ninna nanna / ti culla il mare / ti culla un corno / furibondo / tutt'intorno /schiuma e strazio / pazzo il mare/ fino a dove puoi vedere / solo nero / e muri neri /e mulinelli / e muti tutti / ad aspettare / che la smetta / e naufragare / questo mamma non lo voglio fare/ voglio l'acqua che riposa / che ti specchia / ferma/ questi / muri / assurdi / d'acqua / giù a franare/ e 'sto rumore / rivoglio l'acqua che sapevi tu
rivoglio il mare
silenzio
luce
e pesci volanti
sopra
a volare.
Primo viaggio, prima burrasca. Sfiga. Neanche avevo ben capito com'era il giro, che mi becca una delle burrasche più micidiali nella storia del Virginian. In piena notte, gli son girati i coglioni e via, ha dato il giro al tavolo. L'Oceano. Sembrava che non finisse più. Uno che su una nave suona la tromba, non è che quando arriva la burrasca possa fare un granché. Può giusto evitare di suonare la tromba, tanto per non complicare le cose. E starsene buono, nella sua cuccetta. Però io non ci resistevo là dentro. Hai un bel distrarti, ma puoi giurarci prima o poi ti arriva dritta nel cervello quella frase: ha fatto la fine del topo. Io non la volevo fare la fine del topo, e quindi me ne andai fuori da quella cabina e mi misi a vagare. Mica sapevo dove andare, c'ero da quattro giorni, su quella nave, era già qualcosa se trovavo la strada per i gabinetti. Sono piccole città galleggianti, quelle. Davvero. Insomma, è chiaro, sbattendo da tutte le parti e prendendo corridoi a casaccio, come veniva, alla fine mi persi. Era fatta. Definitivamente fottuto. Fu a quel punto che arrivò uno, tutto vestito elegante, in scuro, camminava tranquillo, mica con l'aria di essersi perso, sembrava non sentire nemmeno le onde, come se passeggiasse sul lungomare di Nizza: ed era Novecento.
Aveva ventisette anni, allora, ma sembravano di più. Io lo conoscevo appena: c'avevo suonato insieme in quei quattro giorni, con la band, ma nient'altro. Non sapevo neanche dove stesse di cabina. Certo gli altri qualcosa mi avevano raccontato di lui. Dicevano una cosa strana: dicevano: Novecento non è mai sceso da qui. È nato su questa nave, e da allora c'è rimasto. Sempre. Ventisette anni, senza mai mettere piede a terra. Detta così, c'aveva tutta l'aria di essere una palla colossale... Dicevano anche che suonava una musica che non esisteva. Quel che sapevo io era che tutte le volte, prima di iniziare a suonare, lì, in sala da ballo, Fritz Hermann, un bianco che non capiva niente di musica ma aveva una bella faccia per cui dirigeva la band, gli si avvicinava e gli diceva sottovoce:
"Per favore, Novecento, solo le note normali, Okay? ".
Novecento faceva sì con la testa e poi suonava le note normali, guardando fisso davanti a sé, mai un'occhiata alle mani, sembrava stesse tutto da un'altra parte. Adesso so che ci stava, in effetti, tutto da un'altra parte. Ma allora non lo sapevo: pensavo che era un po' strano, tutto lì.
Quella notte, nel bel mezzo della burrasca, con quell'aria da signore in vacanza, mi trovò là, perso in un corridoio qualunque, con la faccia di un morto, mi guardò, sorrise, e mi disse: "Vieni".
Ora, se uno che su una nave suona la tromba incontra nel bel mezzo di una burrasca uno che gli dice "Vieni", quello che suona la tromba può fare una sola cosa: andare. Gli andai dietro. Camminava, lui. Io... era un po' diverso, non avevo quella compostezza, ma comunque... arrivammo nella sala da ballo, e poi rimbalzando di qua e di là, io ovviamente, perché lui sembrava avesse i binari sotto i piedi, arrivammo vicino al pianoforte. Non c'era nessuno in giro. Quasi buio, solo qualche lucina, qua e là. Novecento mi indicò le zampe del pianoforte.
"Togli i fermi," disse. La nave ballava che era un piacere, facevi fatica a stare in piedi, era una cosa senza senso sbloccare quelle rotelle.