Parte 14
La pioggia non venne neppure nei giorni seguenti, malgrado la processione, le invocazioni di don Trajella e le speranze dei contadini. La terra era troppo dura per lavorarla, le olive cominciavano a risecchire sugli alberi assetati; ma la Madonna dal viso nero rimase impassibile, lontana dalla pietà, sorda alle preghiere, indifferente natura. Eppure gli omaggi non le mancano: ma sono assai più simili all'omaggio dovuto alla Potenza, che a quello offerto alla Carità. Questa Madonna nera è come la terra; può far tutto, distruggere e fiorire; ma non conosce nessuno, e svolge le sue stagioni secondo una sua volontà incomprensibile. La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva; è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge; e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita.
Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c'è per quest'uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca, il catoico. Da una parte c'è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno dai campi: i muri e il soffitto sono scuri pel fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall'enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre, e tutti i figliuoli. I bimbi più piccini, finché prendono il latte, cioè fino ai tre o quattro anni, sono invece tenuti in piccole culle o cestelli di vimini, appesi al soffitto con delle corde, e penzolanti poco più in alto del letto: La madre per allattarli non deve scendere, ma sporge il braccio e se li porta al seno; poi li rimette nella culla, che con un solo colpo della mano fa dondolare a lungo come un pendolo, finché essi abbiano cessato di piangere.
Sotto il letto stanno gli animali: lo spazio è così diviso in tre strati: per terra le bestie, sul letto gli uomini, e nell'aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto, quando dovevo ascoltare un malato, o fare una iniezione a una donna che batteva i denti per la febbre e fumava per la malaria; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi i maiali o le galline spaventate. Ma quello che ogni volta mi colpiva (ed ero stato ormai nella maggior parte delle case) erano gli sguardi fissi su di me, dal muro sopra il letto, dei due inseparabili numi tutelari. Da un lato c'era la faccia negra ed aggrondata e gli occhi larghi e disumani della Madonna di Viggiano: dall'altra, a riscontro, gli occhietti vispi dietro gli occhiali lucidi e la gran chiostra dei denti aperti nella risata cordiale del Presidente Roosevelt, in una stampa colorata. Non ho mai visto, in nessuna casa, altre immagini: né il Re, né il. Duce, né tanto meno Garibaldi, o qualche altro grand'uomo nostrano, e neppure nessuno dei santi, che pure avrebbero avuto qualche buona ragione per esserci: ma Roosevelt e la Madonna di Viggiano non mancavano mai. A vederli, uno di fronte all'altra, in quelle stampe popolari, parevano le due facce del potere che si è spartito l'universo: ma le parti erano giustamente invertite: la Madonna era, qui, la feroce, spietata, oscura dea arcaica della terra, la signora saturniana di questo mondo: il Presidente, una specie di Zeus, di Dio benevolo e sorridente, il padrone dell'altro mondo. A volte, una terza immagine formava, con quelle due, una sorta di trinità: un dollaro di carta, l'ultimo di quelli portati di laggiù, o arrivato in una lettera del marito o di un parente, stava attaccato al muro con una puntina sotto alla Madonna o al Presidente o tra l'uno e l'altro, come uno Spirito Santo, o un ambasciatore del cielo nel regno dei morti. Per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico. Napoli potrebbe essere la loro capitale, e lo è davvero, la capitale della miseria, nei visi pallidi, negli occhi febbrili dei suoi abitatori, nei «bassi» dalla porta aperta pel caldo, l'estate, con le donne discinte che dormono a un tavolo, nei gradoni di Toledo; ma a Napoli non ci sta più, da gran tempo, nessun re; e ci si passa soltanto per imbarcarsi. Il Regno è finito: il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L'altro mondo è l'America. Anche l'America ha, per i contadini, una doppia natura. È una terra dove si va a lavorare, dove si suda e si fatica, dove il poco denaro è risparmiato con mille stenti e privazioni, dove qualche volta si muore, e nessuno più ci ricorda; ma nello stesso tempo, e senza contraddizione, è il paradiso, la terra promessa del Regno.
Non Roma o Napoli, ma New York sarebbe la vera capitale dei contadini di Lucania, se mai questi uomini senza Stato potessero averne una. E lo è, nel solo modo possibile per loro, in un modo mitologico. Per la sua doppia natura, come luogo di lavoro essa è indifferente: ci si vive come si vivrebbe altrove, come bestie legate a un carro, e non importa in che strade lo si debba tirare; come paradiso, Gerusalemme celeste, oh! allora, quella non si può toccare, si può soltanto contemplarla, di là dal mare, senza mescolarvisi. I contadini vanno in America, e rimangono quello che sono: molti vi si fermano, e i loro figli diventano americani: ma gli altri, quelli che ritornano, dopo vent'anni, sono identici a quando erano partiti. In tre mesi le poche parole d'inglese sono dimenticate, le poche superficiali abitudini abbandonate, il contadino è quello di prima, come una pietra su cui sia passata per molto tempo l'acqua di un fiume in piena, e che il primo sole in pochi minuti riasciuga. In America, essi vivono a parte, fra di loro: non partecipano alla vita americana, continuano per anni a mangiare pan solo, come a Gagliano, e risparmiano i pochi dollari: sono vicini al paradiso, ma non pensano neppure ad entrarci. Poi, tornano un giorno in Italia, col proposito di restarci poco, di riposarsi e salutare i compari e i parenti: ma ecco, qualcuno offre loro una piccola terra da comperare, e trovano una ragazza che conoscevano bambina e la sposano, e così passano i sei mesi dopo i quali scade il loro permesso di ritorno laggiù, e devono rimanere in patria. La terra comperata è carissima, hanno dovuto pagarla con tutti i risparmi di tanti anni di lavoro americano, e non è che argilla e sassi, e bisogna pagare le tasse, e il raccolto non vale le spese, e nascono i figli, e la moglie è malata, e in pochissimo tempo è tornata la miseria, la stessa eterna miseria di quando, tanti anni prima, erano partiti. E con la miseria torna la rassegnazione, la pazienza, e tutti i vecchi usi contadini: in breve questi americani non si distinguono più in nulla da tutti gli altri contadini, se non per una maggiore amarezza, il rimpianto, che talvolta affiora, d'un bene perduto. Gagliano è piena di questi emigranti ritornati: il giorno del ritorno è considerato da loro tutti un giorno di disgrazia. Il 1929 fu l'anno della sventura, e ne parlano tutti come d'un cataclisma. Era l'anno della crisi americana, il dollaro cadeva, le banche fallivano: ma questo, in generale, non colpiva i nostri emigrati, che avevano 1'abitudine di mettere i loro risparmi in banche italiane, e di cambiarli subito in lire. Ma a New York c'era il panico, e c'erano i propagandisti del nostro governo, che, chissà perché, andavano dicendo che in Italia c'era lavoro per tutti e ricchezza e sicurezza, e che dovevano tornare. Così moltissimi, in quell'anno di lutto, si lasciarono convincere, abbandonarono il lavoro, presero il piroscafo, tornarono al paese, e vi restarono invischiati come mosche in una ragnatela. Eccoli di nuovo contadini, con l'asino e la capra, eccoli partire ogni mattina per i lontani bordi di malaria. Altri conservano invece il mestiere che facevano in America; ma qui, al paese, non c'è lavoro, e si fa la fame. - Maledetto il 1929, e chi mi ha fatto tornare! - mi diceva Giovanni Pizzilli, il sarto, mentre mi prendeva le misure in pollici, con complicati e originali e moderni sistemi americani per l'abbassamento della spalla, e non so che altro, per un vestito alla cacciatora. Era un artigiano intelligente, abilissimo nel suo mestiere, come se ne trovano pochi nelle più celebrate sartorie di città, e mi fece, per cinquanta lire di fattura, il più bell'abito di velluto che io abbia mai portato. In America guadagnava bene, ora era in miseria, aveva già quattro o cinque figli, non sperava più di risollevarsi, e sul suo viso ancor giovane era scomparsa ogni traccia di energia e di fiducia, per lasciarvi una continua, disperata espressione di angoscia.
- Laggiù avevo un salone, e quattro lavoranti. Nel '29 sono venuto per sei mesi, ma ho preso moglie e non sono più partito: e ora son ridotto a questa botteguccia e a combattere con la miseria, - mi diceva il barbiere, un uomo coi capelli già grigi sulle tempie, con l'aria seria e triste. A Gagliano c'erano tre botteghe di barbiere, e questa dell'americano, in alto, vicino alla chiesa, sotto alla casa della vedova, era la sola che fosse sempre aperta, quella dove si rasavano i signori. Quella di Gagliano di Sotto, tenuta dall'albino, l'amante di Giulia, serviva i contadini poveri, ed, era quasi sempre chiusa: l'albino aveva anche da coltivare la terra, e adoperava il rasoio la mattina dei giorni di festa, e soltanto di quando in quando, durante la settimana. A metà del paese, verso la piazza, c'era la terza bottega, e anche questa era sempre chiusa, perché il suo padrone era in giro in continue faccende. In questa bottega la gente entrava con aria misteriosa, e chiedeva del padrone a bassa voce. Era un biondo, col viso astuto di una volpe, agile nei movimenti, con gli occhietti brillanti, intelligente, attivo e sempre in moto. Era stato, da militare, caporale di sanità, durante la grande guerra, e aveva imparato così a fare il medico. Il suo mestiere ufficiale era il barbiere, ma le barbe e i capelli dei cristiani erano l'ultima delle sue occupazioni. Oltre a tosare le capre, a curare le bestie, e dar la purga agli asini, a visitare i maiali, la sua specialità era quella di cavare i denti. Per due lire «tirava una mola» senza troppo dolore né inconvenienti. Era una vera fortuna che ci fosse lui in paese: perché io non avevo la minima idea dell'arte del dentista, e i due medici ne sapevano ancor meno di me. Il barbiere faceva le iniezioni, anche quelle endovenose, che i due medici non sapevano neppure che cosa fossero: sapeva mettere a posto le articolazioni lussate, ridurre una frattura, cavar sangue, tagliare un ascesso: e per di più conosceva le erbe, gli empiastri e le pomate: insomma, questo figaro sapeva far tutto, e si rendeva prezioso. I due dottori lo odiavano, anche perché egli non nascondeva, all'occasione, il suo giudizio sulla loro ignoranza, ed era amato dai contadini; ogni volta che passavano davanti alla sua bottega lo minacciavano di denunciarlo per esercizio abusivo della professione medica. Siccome non si limitavano alle minacce, ma ogni tanto partiva realmente qualche lettera anonima, e lo facevano chiamare dal brigadiere per una diffida, il barbiere doveva usare mille astuzie, nascondere il suo lavoro sotto pretesti, e non lasciarsi vedere. Dapprincipio diffidava anche di me, ma poi si accorse che io non l'avrei tradito, e mi divenne amico. Aveva davvero una certa abilità, e io lo chiamavo perché mi aiutasse nei piccoli interventi chirurgici, o lo incaricavo di andare a fare le iniezioni. Che cosa importava se non era autorizzato? Le faceva benissimo: ma doveva agire di nascosto, perché l'Italia è il paese dei diplomi, delle lauree, della cultura ridotta soltanto al procacciamento e alla spasmodica difesa dell'impiego. Molti contadini camminano ancora, a Gagliano, che sarebbero rimasti zoppi, ad opera della scienza ufficiale, per tutta la vita, grazie a questo figaro-contrabbandiere dall'aspetto furtivo, mezzo stregone e mezzo medicone, in guerra con l'autorità e coi carabinieri, col piede lesto e l'anima scaltra.
La bottega dell'americano, del parrucchiere dei signori, era l'unica delle tre che sembrasse una vera bottega di barbiere. C'era uno specchio tutto appannato dalle cacche di mosca, c'era qualche seggiola di paglia, e al muro erano attaccati ritagli di giornali americani, con fotografie di Roosevelt, di uomini politici, di attrici, e réclames di cosmetici. Era l'unico resto dello splendido salone in non so più quale strada di New York: il barbiere, ripensandoci, si rattristava e si faceva cupo. Che cosa gli rimaneva della bella vita di laggiù, dove era un signore? Una casetta in cima al paese, con la porta pretensiosamente scolpita e qualche vaso di geranio sul balcone, la moglie malaticcia, e la miseria. - Non fossi mai tornato! - Questi americani del 1929 si riconoscono tutti dall'aria delusa di cani frustati, e ai denti d'oro.
I denti d'oro brillavano anacronistici e lussuosi nella larga bocca contadina di Faccialorda, un uomo grosso, robusto, dall'aspetto testardo ed astuto. Faccialorda, chiamato da tutti con questo soprannome forse per il colore della sua pelle, era invece un vincitore nella lotta dell'emigrazione, e viveva nella sua gloria. Era tornato dall'America con un bel gruzzolo, e anche se l'aveva già in gran parte perduto per comprarsi una terra sterile, ci poteva ancora modestamente campare: ma il vero valore di quel denaro consisteva nel non essere stato guadagnato col lavoro, ma con l'abilità. Faccialorda, la sera, tornato dai campi, sull'uscio di casa sua, o passeggiando per la piazza, amava raccontarmi la sua grande avventura americana, felice per sempre della sua vittoria. Era un contadino, in America faceva il muratore. - Un giorno mi danno da svuotare un tubo di ferro, di quelli che servono per le mine, che era pieno di terra. Io ci batto su con una punta; invece di terra, c'era la polvere, e il tubo mi scoppia in mano. Mi sono un po' sgraffiato qui sul braccio, ma sono rimasto sordo. Si era rotto il timpano. Là in America ci sono le assicurazioni, dovevano pagarmi. Mi fanno una visita, mi dicono di tornare dopo tre mesi. Dopo tre mesi io ci sentivo di nuovo bene, ma avevo avuto l'infortunio, dovevano pagarmi, se c'è la giustizia. Tremila dollari dovevano darmi. Io facevo il sordo: parlavano, sparavano, non sentivo nulla. Mi facevano chiudere gli occhi: io mi dondolavo e mi lasciavo cadere per terra. Quei professori dicevano che non avevo niente, e non volevano darmi l'indennità. Mi fecero un'altra visita, e poi tante altre. Io non sentivo mai nulla, e cadevo per terra: dovevano pur darmi il mio denaro! Siamo andati avanti due anni, che non lavoravo, i professori dicevano di no, io dicevo che non potevo far nulla, che ero rovinato. Poi i professori, i primi professori dell'America si sono convinti, e dopo due anni mi hanno dato i miei tremila dollari. Mi vengono per giustizia. Sono subito tornato a Gagliano, e sto benissimo -.
Faccialorda era fiero di aver combattuto da solo contro tutta la scienza, contro tutta l'America, e di aver vinto, lui, piccolo cafone di Gagliano, i professori americani, armato soltanto di ostinazione e di pazienza. Era, del resto, convinto che la giustizia fosse dalla sua parte, che la sua simulazione fosse un atto legittimo. Se qualcuno gli avesse detto che egli aveva truffato i tremila dollari, si sarebbe sinceramente stupito. Io mi guardavo bene dal dirglielo, perché in fondo non gli davo torto; ed egli mi ripeteva con orgoglio la sua avventura, e si sentiva, nel suo cuore, un poco un eroe della povera gente, premiato da Dio nella sua difesa contro le forze nemiche dello Stato. Mi venivano in mente, quando Faccialorda mi raccontava la sua storia, altri italiani incontrati in giro per il mondo, fieri di essersi battuti contro le potenze organizzate della vita civile, e di aver salvato la propria persona contro la volontà assurda dello Stato. Ricordavo fra gli altri un vecchio, incontrato in Inghilterra, a Stratford sull'Avon, il paese di Shakespeare, con un carrettino di gelati tirato da un poney infiocchettato e scampanellante. Si chiamava Saracino (sul carretto era scritto Saracine, all'inglese), era di Frosinone, portava ancora gli anelli alle orecchie, e parlava male un italiano romanesco. Appena si accorse che ero un italiano mi raccontò subito che egli era fuggito dall'Italia cinquant'anni prima per non fare il soldato, per non servire il Re d'Italia, e che in Italia non era più tornato. Con i gelati aveva fatto fortuna: tutti i carretti della provincia erano suoi. I suoi figli avevano studiato, uno era avvocato, l'altro medico: ma quando venne la guerra, nel '14, egli 1i mandò in Italia perché non servissero il Re d'Inghilterra, e, quando poi, l'anno dopo, anche il Re d'Italia avrebbe potuto prenderli: - Non abbia paura, ci siamo arrangiati, ma il Re non l'abbiamo servito-. Anche pel vecchio Saracino, come per Faccialorda, questa non era un'azione vergognosa, ma la gloria della sua vita. Me la raccontò, felice, frustò il cavallino e partì.
Faccialorda aveva vinto, ma anche lui era tornato, e tra poco, malgrado i denti d'oro, non lo si sarebbe più distinto dagli altri contadini. A lui il racconto della sua avventura dava ancora un ricordo preciso, per quanto limitato e particolare, dell'America: ma gli altri in breve la dimenticavano: tornava ad essere per loro quello che era stata prima della partenza, e anche, forse, mentre erano laggiù: il paradiso americano. Qualcuno, più pratico e più americanizzato, forse come quelli che restano laggiù, ne ho visto a Grassano: ma questi non erano contadini, e badavano con ogni cura a non lasciarsi riprendere dalla vita paesana. Uno, a Grassano, stava seduto su una sedia, ogni giorno, sull'uscio di casa, sulla piazza, a veder passare la gente. Era un uomo di mezza età, alto, magro, vigoroso, con un viso di falchetto, il naso aquilino, la pelle scura. Era vestito sempre di nero, e in testa portava un panama a larghe tese. D'oro non aveva soltanto i denti, ma la spilla della cravatta, i bottoni dei polsini, la catena dell'orologio, i ciondoli, i corni portafortuna, gli anelli, il portasigarette. In America aveva fatto fortuna, faceva il sensale e il commerciante; forse, sospetto, un poco il negriero dei contadini poveri; era abituato a comandare, e guardava ormai con distacco e disprezzo i suoi compaesani. Tuttavia tornava al paese, dove aveva una casa, una volta ogni tre o quattro anni, e si compiaceva di fare sfoggio dei suoi dollari, del suo barbaro inglese e del suo più barbaro italiano. Ma stava attento a non lasciarsi invischiare. - Qui potrei restarci, - mi diceva, - denaro ne ho abbastanza. Mi potrebbero fare podestà: ci sarebbe da lavorare, in paese, da rifar tutto, all'americana. Ma sarebbe un fallimento, e si perderebbe tutto. I miei affari mi aspettano -. Consultava ogni giorno il giornale, e ascoltava la radio, e quando si fu convinto che tra poco sarebbe scoppiata la guerra d'Africa, fece le sue valige, s'imbarcò sul primo piroscafo, per non rischiare di rimaner bloccato in Italia, e fuggì.
Dopo il '29, l'anno della disgrazia, ben pochi sono tornati da New York, e ben pochi ci sono andati. I paesi di Lucania, mezzi di qua e mezzi di là dal mare, sono rimasti spezzati in due. Le famiglie si sono separate, le donne sono rimaste sole: per quelli di qui, l'America si è allontanata, e con lei ogni possibile salvezza. Soltanto la posta porta continuamente qualcosa che viene di laggiù, che i compaesani fortunati mandano a regalare ai loro parenti. Don Cosimino aveva un gran da fare con questi pacchi: arrivavano forbici, coltelli, rasoi, strumenti agricoli, falcetti, martelli, tenaglie, tutte le piccole macchine della vita comune. La vita di Gagliano, per quello che riguarda i ferri dei mestieri, è tutta americana, come lo è per le misure: si parla, dai contadini, di pollici e di libbre piuttosto che di centimetri o di chilogrammi. Le donne, che filano la lana su vecchi fusi, tagliano il filo con splendidi forbicioni di Pittsburg: i rasoi del barbiere sono i più perfezionati ch'io abbia mai visto in Italia, e l'acciaio azzurro delle scuri che i contadini portano sempre con sé, è acciaio americano. Essi non sentono alcuna prevenzione contro questi strumenti moderni, ne alcuna contraddizione fra di essi e i loro antichi costumi. Prendono volentieri quello che arriva da New York, come prenderebbero volentieri quello che arrivasse da Roma. Ma da Roma non arriva nulla. Non era mai arrivato nulla, se non 1'«U. E.», e i discorsi della radio.