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Uno, nessuno e centomila - Pirandello, LIBRO SETTIMO (2)

LIBRO SETTIMO (2)

VI. Un vescovo non comodo

Andai dunque a trovare al Vescovado monsignor Partanna.

Dicevano a Richieri che era stato eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.

A Richieri si era avvezzi al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il defunto Eccellentissimo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il cuote allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo accompagnavano.

Un vescovo a piedi?

Dacché il Vescovado sedeva come una tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella carrozza con l'attacco a due, gale rosse e pennacchi.

Ma all'atto stesso della sua insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d'opera e non d'onore. E aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la piú stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le piú ricche d'Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze d'affitto e anche d'asini o di muli.

Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badía Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi vescovo, cioè che non dovessero piu né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d'argento, quei buoni rosolii che sapevano d'anice e di cannella! e non piú ricamare, neanche arredi e paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero piú avere un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità. Disposizioni anche piú gravi aveva poi dato per i canonici e benehciali di tutte le chiese, e insomma per la piú rigida osservanza d'ogni dovere da parte di tutti gli ecclesiastici.

Un vescovo cosí non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto piú bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l'Eccellentissimo Monsignor Vivaldi, benvisto a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la maniera d'accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.

Ora io sentivo che non potevo piú accomodarmi né con me né con nessuno.

VII. Un colloquio con Monsignore

Monsignor Partanna mi ricevette nella vasta sala dell'antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.

Sento ancora nelle narici l'odore di quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma cosí coperto di polvere che quasi non vi si scorgeva piu nulla. Le alte pareti dall'intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi ritratti di prelati, anch'essi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz'ordine, sopra armadii e scansíe stinte e tarlate.

In fondo alla sala s'aprivano due finestroni, i cui vetri, d'una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s'era levato d'improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l'angoscia in tutte le case.

Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l'accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l'avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.

Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d'una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.

Esposto lí al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d'una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.

Quell'apparizione mi stupí tanto, che a un certo punto non potei piú tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo s'era lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.

Monsignore si voltò appena a guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d'un sospiro, disse:

«Ah, sí: è un povero pazzo che sta lí.»

Con tal tono d'indifferenza lo disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lí per lí la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:

«No, sa: non sta lí. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io.»

Mi contenni, e non lo dissi. Anzi, con la stess'aria d'indifferenza gli domandai:

«E non c'è pericolo che si butti giú dal terrazzino?

«No, è cosí, da tant'anni,» mi rispose Monsignore. «Innocuo, innocuo.»

Spontaneamente, proprio senza volerlo, mi scappò detto allora:

«Come me.»

E Monsignore non poté fare a meno di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia cosí placida e sorridente, che d'un tratto lo rimise a posto. M'affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anch'io nel concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.

Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il piú proprio al mio caso, e l'unico a ogni modo da far valere con l'autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.

Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com'egli s'immaginava?

Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d'un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.

Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perché io non fossi piú chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.

Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per aiuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sí, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch'esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.

Monsignore, al termine del nostro colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.

Dovetti rispondergli che volevo questo.

E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d'argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch'era in anticamera.

L'uomo che ci voleva per me.

Conoscevo piú di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto piú alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è cosí dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell'organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giú, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.

A giudicarne dall'aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l'aria e la luce dell'altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre piú esili d'un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:

«Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto tanto male! Sia il tuo cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!»

Uscii dal Palazzo Vescovile con la certezza che l'avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e gl'impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in un mare d'incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza piú né stato, né famiglia.

VIII. Aspettando

Non mi restava per il momento che Anna Rosa, la compagnia ch'ella voleva le tenessi durante la sua infermità.

Se ne stava a letto, col piede fasciato; e diceva che non se ne sarebbe alzata piú, se, come ancora i medici temevano, fosse rimasta zoppa.

Il pallore e il languore della lunga degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce degli occhi le si era fatta piú intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L'odore dei suoi capelli densi, neri, un pò ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani d'un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase cosí un gran pezzo col viso nascosto, in silenzio.

Sotto le coperte sindovinavano procaci le formosità del suo corpo di vergine matura.

Sapevo da Dida che ella aveva già venticinque anni. Certo, standosene cosí col viso nascosto pensava ch'io non avrei potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi tentava.

Nella penombra della cameretta rosea in disordine, il silenzio pareva consapevole dell'attesa vana d'una vita che i desiderii momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere in qualche modo.

Avevo indovinato in lei l'insofferenza assoluta d'ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d'ira e perfino scomposte escandescenze.

Solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi cosí intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola mobilissima, potevano essere capaci. Cosí, come per un gusto d'attrice; non perché pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco momentaneo di civetteria o provocazione.

Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.

Le dissi che non ero il suo specchio.

Ma non s'offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel'avevo visto, era

quello stesso che lei s'era veduto e studiato nello specchio dianzi.

Le risposi, seccato di quell'insistenza:

«Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l'è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.

«Ce l'ho,» mi disse. «Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell'armadio. Me la prenda, per favore.»

Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.

«Tutte morte,» le dissi.

Si voltò di scatto a guardarmi.

«Morte?»

«Per quanto vogliano parer vive.»

«Anche questa col sorriso?»

«E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi.»

«Ma come morta, se sono qua viva?»

«Ah, lei sí; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell'attimo che si rimira, lei non è piú.»

«E perché?»

«Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»

«E allora io, viva, non mi sono mai veduta?»

«Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un'immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un'ingrata sorpresa. Avrà fors'anche stentato a riconoscersi, lí scomposta, in movimento.»

«È vero.»

«Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.»

«Ma nient'affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io.»

«Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, l'immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere piú perché lei debba avere quell'immagine che lo specchio le ridà.

Rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare.

Sono certo che anche a lei, come a me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio spirito, s'aprí davanti in quel momento sconfinata, e tanto piú spaventosa quanto piú lucida, la visione dell'irrimediabile nostra solitudine.

L'apparenza d'ogni oggetto vi s'isolava paurosamente. E forse ella non vide piú la ragione di portare la sua faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.

Cadeva ogni orgoglio.

Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.

Parlare per non intendersi.

Non valeva piú nulla essere per sé qualche cosa.

E nulla piú era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.

Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lí, naufrago nella sua solitudine; e lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.

Sentiva verso tutto ciò ch'io le dicevo un'invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio: glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la piú avida attenzione ascoltava le mie parole.

Voleva tuttavia che seguitassi a parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io parlavo quasi senza pensare, o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.

«Lei s'affaccia a una finestra, guarda il mondo, crede che sia come le sembra. Vede giú per via passare la gente, piccola nella sua visione ch'è grande, cosí dall'alto della finestra a cui è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora passa giú per la via e lei lo riconosce, guardato cosí dall'alto, non le sembra piú grande d'un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: "Mi dica un pò, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?". Non le viene in mente, perché non pensa all'immagine che quelli che passano per via hanno intanto della finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giú e che vivono per un momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo, perché non le sorge nessun sospetto dell'immagine che essi hanno di lei e della sua finestra, una tra tante, piccola, cosí alta, e di lei piccola piccola là affacciata con quel braccino che si muove in aria.

Si vedeva nella mia descrizione, piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.

Erano lampi, guizzi; poi nella cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un'ombra, la vecchia zia con cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi. Stava un pò sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e pallide sul ventre; pareva un mostro d'acquario, non diceva nulla e se n'andava.

Con quella zia ella non scambiava che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch'era stato medico. Diceva che non avrebbe mai preso marito.

Io non posso sapere che idea si fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse smarrito come in quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell'incertezza di tutto. Quest'incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva; quest'incerteza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte, guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un pò divertente; una cosa infine un pò anche da ridere, avere lí ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili condizioni di spirito, cosí tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe spogliato e liberato di tutto.

Perché ella era certa che io sarei ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva enormemente, con un certo orgoglio, anche, d'avere indovinato, nelle discussioni con mia moglie, non propriamente questo, ma ch'io fossi ad ogni modo un uomo non comune, singolare dall'altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o l'altro, qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie, la prova ch'ella aveva avuto ragione nel pensare cosí di me, s'era affrettata a chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente avvenire, senza piú cura di nulla né di nessuno.

Eppure fu proprio lei a volermi uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch'io le davo, e che la faceva un pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall'infinita lontananza d'un tempo che avesse perduto ogni età.

Non so precisamente come avvenne. Quand'io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che piú non ricordo, parole in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch'era in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che m'attrasse a sé.

Da quel letto poco dopo rotolai, cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch'ella teneva sotto il guanciale.

Devono esser vere le ragioni ch'ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall'orrore istintivo, improvviso, dell'atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.


LIBRO SETTIMO (2) LIVRO SETE (2)

VI. Un vescovo non comodo

Andai dunque a trovare al Vescovado monsignor Partanna.

Dicevano a Richieri che era stato eletto vescovo per istanze e mali ufficii di potenti prelati a Roma. Il fatto è che, pur essendo da alcuni anni a capo della diocesi, non era ancora riuscito a cattivarsi la simpatia, a conciliarsi la confidenza di nessuno.

A Richieri si era avvezzi al fasto, alle maniere gioconde e cordiali, alla copiosa munificenza del suo predecessore, il defunto Eccellentissimo Monsignor Vivaldi; e tutti perciò si erano sentiti stringere il cuote allorché avevano veduto per la prima volta scendere a piedi dal Palazzo Vescovile lo scheletro intabarrato di questo vescovo nuovo, tra i due segretarii che lo accompagnavano.

Un vescovo a piedi?

Dacché il Vescovado sedeva come una tetra fortezza in cima alla città, tutti i vescovi erano sempre scesi in una bella carrozza con l'attacco a due, gale rosse e pennacchi.

Ma all'atto stesso della sua insediatura monsignor Partanna aveva detto che vescovado è nome d'opera e non d'onore. E aveva licenziato servi e cuoco, cocchiere e famigli, smesso la carrozza e inaugurato la piú stretta economia, con tutto che la diocesi di Richieri fosse tra le piú ricche d'Italia. Per le visite pastorali nella diocesi, molto trascurate dal suo predecessore e da lui invece osservate con la massima vigilanza ai tempi voluti dai Canoni, non ostanti le gravi difficoltà delle vie e la mancanza di comunicazioni, si serviva di carrozze d'affitto e anche d'asini o di muli.

Sapevo poi da Anna Rosa che tutte le suore dei cinque monasteri della città, tranne quelle ormai decrepite della Badía Grande, lo odiavano per le crudeli disposizioni emanate contro di loro appena insediatosi vescovo, cioè che non dovessero piu né preparare né vendere dolci o rosolii, quei buoni dolci di miele e di pasta reale infiocchettati e avvolti in fili d'argento, quei buoni rosolii che sapevano d'anice e di cannella! e non piú ricamare, neanche arredi e paramenti sacri, ma far soltanto la calza; e infine che non dovessero piú avere un confessore particolare, ma servirsi tutte, senza distinzione, del Padre della comunità. Disposizioni anche piú gravi aveva poi dato per i canonici e benehciali di tutte le chiese, e insomma per la piú rigida osservanza d'ogni dovere da parte di tutti gli ecclesiastici.

Un vescovo cosí non è comodo per tutti coloro che han voluto mettere fuori di sé il sentimento di Dio costruendogli una casa fuori, tanto piú bella quanto maggiore il bisogno di farsi perdonare. Ma era per me il meglio che mi potessi augurare. Il suo predecessore, l'Eccellentissimo Monsignor Vivaldi, benvisto a tutti, con tutti alla mano, avrebbe senza dubbio cercato il modo e la maniera d'accomodare ogni cosa, salvando banca e coscienza, per accontentare me, ma anche Firbo e Quantorzo e tutti gli altri.

Ora io sentivo che non potevo piú accomodarmi né con me né con nessuno.

VII. Un colloquio con Monsignore

Monsignor Partanna mi ricevette nella vasta sala dell'antica cancelleria nel Palazzo Vescovile.

Sento ancora nelle narici l'odore di quella sala dal tetro soffitto affrescato, ma cosí coperto di polvere che quasi non vi si scorgeva piu nulla. Le alte pareti dall'intonaco ingiallito erano ingombre di vecchi ritratti di prelati, anch'essi bruttati dalla polvere e qualcuno anche dalla muffa, appesi qua e là senz'ordine, sopra armadii e scansíe stinte e tarlate.

In fondo alla sala s'aprivano due finestroni, i cui vetri, d'una tristezza infinita sulla vanità del cielo velato, erano scossi continuamente dal vento che s'era levato d'improvviso, fortissimo: il terribile vento di Richieri che mette l'angoscia in tutte le case.

Pareva a momenti che quei vetri dovessero cedere alla furia urlante del libeccio. Tutto il colloquio tra me e Monsignore ebbe l'accompagnamento sinistro di sibili acuti e veementi, di cupi, lunghi mugolíi che, distraendomi spesso dalle parole di Monsignore, mi fecero sentire con un indefinibile sbigottimento, come non l'avevo sentito mai, il rammarico della vanità del tempo e della vita.

Ricordo che da uno di quei finestroni si scorgeva il terrazzino d'una vecchia casa dirimpetto. Su quel terrazzino apparve a un tratto un uomo, che doveva essere scappato dal letto con la folle idea di provare la voluttà del volo.

Esposto lí al vento furioso, si faceva svolazzare attorno al corpo magro, d'una magrezza che incuteva ribrezzo, la coperta del letto: una coperta di lana rossa, appesa e sorretta con le due braccia in croce, sulle spalle. E rideva, rideva con un lustro di lagrime negli occhi spiritati, mentre gli volavano di qua e di là, lingueggiando come fiamme, le lunghe ciocche dei capelli rossicci.

Quell'apparizione mi stupí tanto, che a un certo punto non potei piú tenermi di farne cenno a Monsignore, interrompendo un discorso molto serio sugli scrupoli della coscienza a cui egli da un pezzo s'era lasciato andare con evidente compiacimento del suo eloquio.

Monsignore si voltò appena a guardare; e, con uno di quei sorrisi che fanno benissimo le veci d'un sospiro, disse:

«Ah, sí: è un povero pazzo che sta lí.»

Con tal tono d'indifferenza lo disse, come per cosa da tanto tempo divenuta ai suoi occhi abituale, che mi sorse lí per lí la tentazione di farlo sobbalzare, annunziandogli:

«No, sa: non sta lí. Sta qui, Monsignore. Quel pazzo che vuol volare sono io.»

Mi contenni, e non lo dissi. Anzi, con la stess'aria d'indifferenza gli domandai:

«E non c'è pericolo che si butti giú dal terrazzino?

«No, è cosí, da tant'anni,» mi rispose Monsignore. «Innocuo, innocuo.»

Spontaneamente, proprio senza volerlo, mi scappò detto allora:

«Come me.»

E Monsignore non poté fare a meno di sobbalzare. Ma io gli mostrai subito una faccia cosí placida e sorridente, che d'un tratto lo rimise a posto. M'affrettai a spiegargli che intendevo innocuo anch'io nel concetto del signor Firbo e del signor Quantorzo, di mio suocero e di mia moglie, e insomma di tutti coloro che mi volevano interdire.

Monsignore, rasserenato, riprese il discorso sugli scrupoli della coscienza, che a lui pareva il piú proprio al mio caso, e l'unico a ogni modo da far valere con l'autorità e il prestigio del suo potere spirituale sulle intenzioni e le mene di quei miei nemici.

Potevo fargli intendere che il mio non era propriamente un caso di coscienza com'egli s'immaginava?

Se mi fossi arrischiato a farglielo intendere, sarei d'un tratto diventato pazzo anche ai suoi occhi.

Il Dio che in me voleva riavere il danaro della banca perché io non fossi piú chiamato usurajo, era un Dio nemico di tutte le costruzioni.

Il Dio, invece, a cui ero venuto a ricorrere per aiuto e protezione, era appunto quello che costruiva. Mi avrebbe dato, sí, una mano per farmi riavere il danaro, ma a patto ch'esso servisse alla costruzione di almeno una casa a un altro dei piú rispettabili sentimenti umani: voglio dire, la carità.

Monsignore, al termine del nostro colloquio mi domandò con aria solenne se non volevo questo.

Dovetti rispondergli che volevo questo.

E allora egli sonò un vecchio annerito e insordito campanellino d'argento che stava timido timido sulla tavola. Apparve un giovane chierico biondo e molto pallido. Monsignore gli ordinò di far venire Don Antonio Sclepis, canonico della Cattedrale e direttore del Collegio degli Oblati, ch'era in anticamera.

L'uomo che ci voleva per me.

Conoscevo piú di fama che di persona questo prete. Ero andato una volta per incarico di mio padre a consegnargli una lettera su al Collegio degli Oblati, che sorge non lontano dal Palazzo Vescovile, nel punto piú alto della città, ed è un vasto, antichissimo edificio quadrato e fosco esternamente, roso tutto dal tempo e dalle intemperie, ma tutto bianco, arioso e luminoso, dentro. Vi sono accolti i poveri orfani e i bastardelli di tutta la provincia, dai sei ai diciannove anni, i quali vi imparano le varie arti e i varii mestieri. La disciplina vi è cosí dura, che quando quei poveri Oblati alla mattina e al vespro cantano al suono dell'organo nella chiesa del Collegio le loro preghiere, a udirle da giú, quelle preghiere accorano come un lamento di carcerati.

A giudicarne dall'aspetto, non pareva che il canonico Sclepis dovesse avere in sé tanta forza di dominio e cosí dura energia. Era un prete lungo e magro, quasi diafano, come se tutta l'aria e la luce dell'altura dove viveva lo avessero non solo scolorito ma anche rarefatto, e gli avessero reso le mani d'una gracilità tremula quasi trasparenti e su gli occhi chiari ovati le pàlpebre piú esili d'un velo di cipolla. Tremula e scolorita aveva anche la voce e vani i sorrisi su le lunghe labbra bianche, tra le quali spesso filava qualche grumetto di biascia.

Appena entrato e informato da Monsignore dei miei scrupoli di coscienza e delle mie intenzioni, si mise a parlare con me in gran fretta, con grande confidenza, battendomi una mano su la spalla e dandomi del tu:

«Bene bene, figliuolo! Un gran dolore, mi piace. Ringraziane Dio. Il dolore ti salva, figliuolo. Bisogna esser duri con tutti gli sciocchi che non vogliono soffrire. Ma tu per tua ventura hai molto, molto da soffrire, pensando a tuo padre che, poveretto, eh... fece tanto tanto male! Sia il tuo cilizio il pensiero di tuo padre! il tuo cilizio! E lascia combattere a me col signor Firbo e il signor Quantorzo! Ti vogliono interdire? Te li accomodo io, non dubitare!»

Uscii dal Palazzo Vescovile con la certezza che l'avrei avuta vinta su coloro che mi volevano interdire; ma questa certezza e gl'impegni che ne derivavano, contratti ora col vescovo e con lo Sclepis, mi gettavano in un mare d'incertezze senza fine su ciò che sarebbe stato di me, spogliato di tutto, senza piú né stato, né famiglia.

VIII. Aspettando

Non mi restava per il momento che Anna Rosa, la compagnia ch'ella voleva le tenessi durante la sua infermità.

Se ne stava a letto, col piede fasciato; e diceva che non se ne sarebbe alzata piú, se, come ancora i medici temevano, fosse rimasta zoppa.

Il pallore e il languore della lunga degenza le avevano conferito una grazia nuova, in contrasto con quella di prima. La luce degli occhi le si era fatta piú intensa, quasi cupa. Diceva di non poter dormire. L'odore dei suoi capelli densi, neri, un pò ricciuti e aridi, quando la mattina se li trovava sciolti e arruffati sul guanciale, la soffocava. Se non era per il ribrezzo delle mani d'un parrucchiere sul suo capo, se li sarebbe fatti tagliare. Mi domandò, una mattina, se io non avrei saputo tagliarglieli. Rise del mio imbarazzo nel risponderle, poi si tirò sul viso la rimboccatura del lenzuolo e rimase cosí un gran pezzo col viso nascosto, in silenzio.

Sotto le coperte sindovinavano procaci le formosità del suo corpo di vergine matura.

Sapevo da Dida che ella aveva già venticinque anni. Certo, standosene cosí col viso nascosto pensava ch'io non avrei potuto fare a meno di guardare il suo corpo come si disegnava sotto le coperte. Mi tentava.

Nella penombra della cameretta rosea in disordine, il silenzio pareva consapevole dell'attesa vana d'una vita che i desiderii momentanei di quella bizzarra creatura non avrebbero potuto mai far nascere né consistere in qualche modo.

Avevo indovinato in lei l'insofferenza assoluta d'ogni cosa che accennasse a durare e stabilirsi. Tutto ciò che faceva, ogni desiderio o pensiero che le sorgevano per un momento, un momento dopo erano già come lontanissimi da lei; e se le avveniva di sentirsene ancora trattenuta, erano smanie rabbiose, scatti d'ira e perfino scomposte escandescenze.

Solo del suo corpo pareva si compiacesse sempre, per quanto a volte non se ne mostrasse per nulla contenta, anzi dicesse di odiarselo. Ma se lo stava a mirare continuamente allo specchio, in ogni parte o tratto; a provarne tutti gli atteggiamenti, tutte le espressioni di cui i suoi occhi cosí intensi lucidi e vivaci, le sue narici frementi, la sua bocca rossa sdegnosa, la mandibola mobilissima, potevano essere capaci. Cosí, come per un gusto d'attrice; non perché pensasse che per sé, nella vita, potessero servirle se non per giuoco: per un giuoco momentaneo di civetteria o provocazione.

Una mattina le vidi provare e studiare a lungo nello specchietto a mano che teneva con sé sul letto un sorriso pietoso e tenero, pur con un brillío negli occhi di malizia quasi puerile. Vedermelo poi rifare tal quale, quel sorriso, vivo, proprio come se le nascesse or ora spontaneo per me, mi provocò un moto di ribellione.

Le dissi che non ero il suo specchio.

Ma non s'offese. Mi domandò se quel sorriso, come ora gliel'avevo visto, era

quello stesso che lei s'era veduto e studiato nello specchio dianzi.

Le risposi, seccato di quell'insistenza:

«Che vuole che ne sappia io? Non posso mica sapere come lei se l'è veduto. Si faccia fare una fotografia con quel sorriso.

«Ce l'ho,» mi disse. «Una, grande. Là nel cassetto di sotto dell'armadio. Me la prenda, per favore.»

Quel cassetto era pieno di sue fotografie. Me ne mostrò tante, di antiche e di recenti.

«Tutte morte,» le dissi.

Si voltò di scatto a guardarmi.

«Morte?»

«Per quanto vogliano parer vive.»

«Anche questa col sorriso?»

«E codesta, pensierosa; e codesta, con gli occhi bassi.»

«Ma come morta, se sono qua viva?»

«Ah, lei sí; perché ora non si vede. Ma quando sta davanti allo specchio, nell'attimo che si rimira, lei non è piú.»

«E perché?»

«Perché bisogna che lei fermi un attimo in sé la vita, per vedersi. Come davanti a una macchina fotografica. Lei s'atteggia. E atteggiarsi è come diventare statua per un momento. La vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa»

«E allora io, viva, non mi sono mai veduta?»

«Mai, come posso vederla io. Ma io vedo un'immagine di lei che è mia soltanto; non è certo la sua. Lei la sua, viva, avrà forse potuto intravederla appena in qualche fotografia istantanea che le avranno fatta. Ma ne avrà certo provato un'ingrata sorpresa. Avrà fors'anche stentato a riconoscersi, lí scomposta, in movimento.»

«È vero.»

«Lei non può conoscersi che atteggiata: statua: non viva. Quando uno vive, vive e non si vede. Conoscersi è morire. Lei sta tanto a mirarsi in codesto specchio, in tutti gli specchi, perché non vive; non sa, non può o non vuol vivere. Vuole troppo conoscersi, e non vive.»

«Ma nient'affatto! Non riesco anzi a tenermi mai ferma un momento, io.»

«Ma vuole vedersi sempre. In ogni atto della sua vita. E come se avesse davanti, sempre, l'immagine di sé, in ogni atto, in ogni mossa. E la sua insofferenza proviene forse da questo. Lei non vuole che il suo sentimento sia cieco. Lo obbliga ad aprir gli occhi e a vedersi in uno specchio che gli mette sempre davanti. E il sentimento, subito come si vede le si gela. Non si può vivere davanti a uno specchio. Procuri di non vedersi mai. Perché, tanto, non riuscirà mai a conoscersi per come la vedono gli altri. E allora che vale che si conosca solo per sé? Le può avvenire di non comprendere piú perché lei debba avere quell'immagine che lo specchio le ridà.

Rimase a lungo con gli occhi fissi a pensare.

Sono certo che anche a lei, come a me, dopo quel discorso e dopo quanto le avevo già detto di tutto il tormento del mio spirito, s'aprí davanti in quel momento sconfinata, e tanto piú spaventosa quanto piú lucida, la visione dell'irrimediabile nostra solitudine.

L'apparenza d'ogni oggetto vi s'isolava paurosamente. E forse ella non vide piú la ragione di portare la sua faccia, se in quella solitudine neanche lei avrebbe potuto vedersela viva, mentre gli altri da fuori, isolandola, chi sa come gliela vedevano.

Cadeva ogni orgoglio.

Vedere le cose con occhi che non potevano sapere come gli altri occhi intanto le vedevano.

Parlare per non intendersi.

Non valeva piú nulla essere per sé qualche cosa.

E nulla piú era vero, se nessuna cosa per sé era vera. Ciascuno per suo conto l'assumeva come tale e se ne appropriava per riempire comunque la sua solitudine e far consistere in qualche modo, giorno per giorno, la sua vita.

Ai piedi del suo letto, con un aspetto a me ignoto, e a lei impenetrabile, io stavo lí, naufrago nella sua solitudine; e lei nella mia, là davanti a me, sul suo letto, con quegli occhi immobili e lontanissimi, pallida, un gomito puntato sul guanciale e il capo arruffato sorretto dalla mano.

Sentiva verso tutto ciò ch'io le dicevo un'invincibile attrazione e insieme una specie di ribrezzo; a volte, quasi odio: glielo vedevo lampeggiare negli occhi, mentre con la piú avida attenzione ascoltava le mie parole.

Voleva tuttavia che seguitassi a parlare, a dirle tutto quello che mi passava per la mente: immagini, pensieri. E io parlavo quasi senza pensare, o piuttosto, il mio pensiero parlava da sé, come per un bisogno di rilasciare la sua spasimosa tensione.

«Lei s'affaccia a una finestra, guarda il mondo, crede che sia come le sembra. Vede giú per via passare la gente, piccola nella sua visione ch'è grande, cosí dall'alto della finestra a cui è affacciata. Non può non sentirla in sé questa grandezza, perché se un amico ora passa giú per la via e lei lo riconosce, guardato cosí dall'alto, non le sembra piú grande d'un suo dito. Ah, se le venisse in mente di chiamarlo e di domandargli: "Mi dica un pò, come le sembro io, affacciata qua a questa finestra?". Non le viene in mente, perché non pensa all'immagine che quelli che passano per via hanno intanto della finestra e di lei che vi sta affacciata a guardare. Dovrebbe fare lo sforzo di staccare da sé le condizioni che pone alla realtà degli altri che passano giú e che vivono per un momento nella sua vasta visione, piccoli transitanti per una via. Non lo fa questo sforzo, perché non le sorge nessun sospetto dell'immagine che essi hanno di lei e della sua finestra, una tra tante, piccola, cosí alta, e di lei piccola piccola là affacciata con quel braccino che si muove in aria.

Si vedeva nella mia descrizione, piccola piccola a una finestra alta, col braccino che si moveva in aria, e rideva.

Erano lampi, guizzi; poi nella cameretta si rifaceva il silenzio. Ogni tanto compariva, come un'ombra, la vecchia zia con cui Anna Rosa abitava: grassa, apatica, con gli enormi occhi biavi orribilmente strabi. Stava un pò sulla soglia, nella penombra liquida della cameretta, con le mani gonfie e pallide sul ventre; pareva un mostro d'acquario, non diceva nulla e se n'andava.

Con quella zia ella non scambiava che pochissime parole durante tutto il giorno. Viveva con sé, di sé; leggeva, fantasticava, ma sempre insofferente, cosí delle letture come delle sue stesse fantasticherie; usciva a far compere, a trovar questa o quella amica; ma le sembravano tutte sciocche e vane; provava piacere a sbalordirle; poi, rincasando, si sentiva stanca e seccata di tutto. Certi invincibili disgusti, che si potevano indovinare in lei da uno scatto o da un verso improvviso per qualche allusione, forse li doveva alla lettura di libri di medicina trovati nella biblioteca del padre, ch'era stato medico. Diceva che non avrebbe mai preso marito.

Io non posso sapere che idea si fosse fatta di me. Mi considerava certo con uno straordinario interesse smarrito come in quei giorni le apparivo nei miei stessi pensieri e nell'incertezza di tutto. Quest'incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva; quest'incerteza, vaneggiandomi negli occhi, senza dubbio la attraeva, ma a volte, guardandola, avevo pure la strana impressione che le paresse un pò divertente; una cosa infine un pò anche da ridere, avere lí ai piedi del letto un uomo in quelle incredibili condizioni di spirito, cosí tutto scisso e che non sapeva come avrebbe fatto a vivere domani, quando, riavuto per mezzo dello Sclepis il danaro della banca, si sarebbe spogliato e liberato di tutto.

Perché ella era certa che io sarei ormai arrivato alle ultime conseguenze, come un perfettissimo pazzo. E questo la divertiva enormemente, con un certo orgoglio, anche, d'avere indovinato, nelle discussioni con mia moglie, non propriamente questo, ma ch'io fossi ad ogni modo un uomo non comune, singolare dall'altra gente; da cui ci si poteva aspettare, un giorno o l'altro, qualcosa di straordinario. Come per dare subito agli altri, e specialmente a mia moglie, la prova ch'ella aveva avuto ragione nel pensare cosí di me, s'era affrettata a chiamarmi, a informarmi delle intenzioni che si avevano contro di me, a spingermi ad andare da Monsignore; e adesso era di me contentissima, vedendomi là ai piedi del suo letto, come mi vedeva, fermo e placido in attesa di quanto doveva necessariamente avvenire, senza piú cura di nulla né di nessuno.

Eppure fu proprio lei a volermi uccidere, e proprio quando da questa soddisfazione ch'io le davo, e che la faceva un pò ridere, passò a una grande pietà di me, per rispondere, come affascinata, a quella che, certo, io dovevo avere negli occhi, mentre la guardavo come dall'infinita lontananza d'un tempo che avesse perduto ogni età.

Non so precisamente come avvenne. Quand'io, guardandola da quella lontananza, le dissi parole che piú non ricordo, parole in cui ella dovette sentire la brama che mi struggeva di donare tutta la vita ch'era in me, tutto quello che io potevo essere, per diventare uno come lei avrebbe potuto volermi e per me veramente nessuno, nessuno. So che dal letto mi tese le braccia; so che m'attrasse a sé.

Da quel letto poco dopo rotolai, cieco, ferito al petto mortalmente dalla piccola rivoltella ch'ella teneva sotto il guanciale.

Devono esser vere le ragioni ch'ella poi disse in sua discolpa: cioè che fu spinta ad uccidermi dall'orrore istintivo, improvviso, dell'atto a cui stava per sentirsi trascinata dal fascino strano di tutto quanto in quei giorni io le avevo detto.